Comunicato stampa 14 giugno 2008 Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali UFFICIO STAMPA Il Sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella è intervenuta oggi a Fiuggi alla 1° Conferenza nazionale della professione medica “I medici per una buona sanità”. La Conferenza è organizzata dalla Fnomceo con la partecipazione delle Organizzazioni sindacali mediche più rappresentative e delle maggiori Società scientifiche di categoria. Di seguito in testo del discorso pronunciato dal Sottosegretario Vi ringrazio dell’invito, Non si può, in un incontro come questo, oggi, non parlare di quello che è successo a Milano, alla clinica Santa Rita. Vorrei dire subito che non credo affatto che sia in questione il sistema sanitario della regione Lombardia: gli attacchi in questo senso sono stati ingenerosi, superficiali o strumentali. L’organizzazione sanitaria lombarda resta tra le migliori del nostro paese, in grado di attivare anticorpi contro le degenerazioni che nascono al suo interno come in qualunque altro sistema: tant’è vero che sono stati proprio i controlli della Regione a indicare che qualcosa al Santa Rita non andava, e ad aprire la strada alle indagini. In altre regioni un caso del genere si sarebbe manifestato forse con diverse modalità, ma la matrice sarebbe stata identica, legata alla mancanza di una concezione alta della professione medica, che è una professione del tutto speciale, al servizio della vita umana. Come succede ai politici quando smarriscono una visione forte del bene comune, ai medici del Santa Rita è successo di dimenticare non solo i fondamenti della deontologia, ma il senso stesso del rapporto tra medico e paziente, che è basato sulla fiducia, e delinea un modello relazionale che ricalca quello familiare. A tutti è capitato di ascoltare le rievocazioni di esperienze passate, la memoria nostalgica dei medici di una volta, il medico di famiglia che si alzava la notte per una visita, che del proprio paziente sapeva tutto, e diventava una forte figura di riferimento. Il mondo contemporaneo ha tecnicizzato e frantumato questo modello, che è ormai improponibile. Ma la domanda che rivolgo a me stessa (e agli altri rappresentanti del governo) come a voi, è: possiamo non rinunciare a una medicina che ponga con forza la necessità di mettere al centro la relazione medico-paziente? Possiamo partire dall’idea che la cura non si esaurisce con la terapia, e implica il di più di una presa in carico? Quando usiamo la dizione “Casa di cura”, mettiamo in gioco due concetti che rimandano alla familiarità, all’ambiente domestico e al rapporto di fiducia che si instaura tra chi affida i propri bisogni fondamentali, la propria vita e il proprio corpo, alla relazione con un altro. Il primo modo di evitare le degenerazioni forse è proprio quello di non escludere i parenti dai luoghi di cura, di non fare dell’ospedale uno spazio separato, in cui il paziente tende all’anonimato, perché entra in un mondo a parte, regolato da norme proprie. Oggi sappiamo quanto è importante che il malato mantenga i contatti con il proprio ambiente, sia restando il più possibile a casa propria, e tocca a noi rafforzare e ampliare l’offerta di assistenza domiciliare, sia permettendo ai parenti di stargli vicino. A volte si giustificano regole e orari rigidi con la necessità di efficienza, ma io ricordo un’esperienza fatta oltre vent’anni fa in Canada, in un policlinico universitario, pubblico, in cui i familiari non solo erano bene accolti, ma previsti, incoraggiati a restare, a informarsi, ad assistere il malato (i giochi, gli spazi, la possibilità di mangiare, con i forni a microonde, a tutte le ore); e tutto era questo perfettamente conciliato con un altissimo livello di tecnologia ed efficienza. (La tenda, i dettagli, non sempre così costosi) L’attenzione personale al malato vale sempre, anche per patologie non gravi, ma vale naturalmente di più nei casi di malati terminali, di affezioni gravi, di situazioni particolarmente delicate, dove l’atteggiamento del medico può far pendere la bilancia da una parte o dall’altra in modo decisivo. Una di queste situazioni è senz’altro l’interruzione volontaria di gravidanza. Le mie deleghe da sottosegretario riguardano la solidarietà sociale, e solo in parte la Sanità (riguardano la biopolitica, 194, 40, percorso nascita, parte della ricerca, e tutto quello che è legato ai temi eticamente senibili) ma ritengo che la nuova organizzazione dei Ministeri, l’accorpamento di Salute, Affari sociali e lavoro, richieda sicuramente più fatica, specialmente in questa fase di avvio e di rodaggio, ma possa dare buoni frutti. Non penso sia messa in discussione l’attenzione alla salute degli italiani o le competenze dell’amministrazione centrale in materia di sanità, ma anzi che, una volta costruita davvero l’unità tra i vecchi ministeri, si possa costruire anche a livello centrale l’integrazione socio-sanitaria, immaginando percorsi più compatti e più specifici di prevenzione e di intervento. Il tema dell’aborto è sicuramente tra quelli su cui più si può influire con un approccio integrato. Negli ultimi mesi la questione dell’Ivg è tornata alla ribalta in modo vistoso dopo anni in cui c’era stata più disattenzione, ma è tornata ancora una volta dividendo. Ci si è nuovamente divisi tra chi è per la legge 194 e chi è contro, riproponendo vecchi steccati, come l’opposizione tra obiettori e non obiettori. Io penso che oggi invece, dopo trent’anni dall’approvazione della legge, trent’anni di esperienza sul campo, alcune lacerazioni potrebbero essere superate. Penso sia possibile individuare un obiettivo comune, che sta a cuore a tutti: quello della riduzione, tendenzialmente a zero, degli aborti. Oggi è urgente una verifica (che non vuol dire una modifica) della legge, per fronteggiare le nuove emergenze, come quelle costituite dalle immigrate e dalle minori (per non arrivare a situazioni come quelle di altri paesi europei), e rendere l’applicazione e l’interpretazione della 194 più omogenea sul territorio. Sappiamo di partire da una situazione di disomogeneità, non solo tra regione e regione, ma anche tra un ospedale e l’altro. Penso all’articolo 7, quello in cui è vietato ricorrere all’Ivg nel caso il neonato abbia possibilità autonome di sopravvivenza; penso alla confusione che esiste attualmente in merito ai nuovi metodi abortivi, e alla mancanza di un indirizzo per applicare i primi 5 articoli della legge, quelli dedicati alla prevenzione, alla rimozione degli ostacoli che impediscono di scegliere liberamente la maternità. In questo campo ci sono stati tentativi apprezzabili da parte di alcuni; per esempio, la Lombardia ha tentato di emanare linee guida autonome, che davano indicazioni precise sull’articolo 7 e mettevano a fuoco il problema delle minorenni. Ma anche in Emilia Romagna ci sono esperienze molto significative, come quelle di Forlì e di Modena, che hanno già dato buoni frutti, consentendo una riduzione degli interventi abortivi. Si tratta di dare un ruolo centrale ai consultori, di avere un approccio globale, e non solo sanitario, al problema aborto, di coinvolgere le associazioni del volontariato, stabilendo un protocollo di intesa tra Comune, Asl e associazioni del Terzo settore. L’assessore regionale alla Sanità ha affermato di voler allargare l’esperienza all’intera regione. Il cuore del protocollo forlivese è la separazione tra il momento del colloquio e quello burocratico della certificazione. Il counseling prevede varie possibilità, che si traducono in più opzioni per la donna, e quindi maggior rispetto per la sua libertà di scelta. In questo modo si potranno anche coinvolgere i medici obiettori. Oggi, nonostante i numeri dell’obiezione siano alti, sia tra i medici che tra altri operatori sanitari, non sembra costituire un intralcio alla legge: a leggere i dati, non c’è infatti correlazione tra il funzionamento della legge e i numeri dell’obiezione, basta vedere ancora una volta la Regione Emilia Romagna, che ha più obiettori della Lombardia. Ma coinvolgere gli obiettori nel percorso a sostegno della donna, prima o dopo l’aborto, nel rispetto reciproco delle scelte e dei ruoli, può fornire un contributo importante. Perché questi obiettivi si possano realizzare è necessaria una stretta collaborazione tra governo e amministrazioni locali, ma soprattutto è necessaria una collaborazione con la Fnomceo, e in generale con i medici, che sono i veri protagonisti delle politiche sanitarie, e della capacità del nostro sistema, pur fra tanti difetti, di essere tra i migliori in Europa, e di garantire agli italiani una vita lunga e una buona salute.