II. L`enciclica precisa la pace in se stessa e non in rapporto al suo

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Luigi Lorenzetti
LA STRUTTURA DELLA PACEM IN TERRIS ( 1963-2003)
"Se vuoi la pace, costruisci la pace»*
L'enciclica si dedica esclusivamente - e non per ingenuo ottimismo - al tema della pace in terra: ne
identifica il significato; l'etica che ne deriva e che la rende possibile; le caratteristiche; le vie mentali e
operative che vi conducono. L'intento del documento - il primo dedicato sistematicamente alla pace - è
anzitutto quello di identificare la pace in se stessa, e non - come comunemente si è fatto - a partire dal suo
opposto.
La presente riflessione, nel descrivere la struttura (le linee portanti) dell'enciclica, si concentra su
cinque aspetti: il primo evidenzia come l'enciclica non segue la tendenza prevalente di considerare la pace
in rapporto al suo opposto la guerra. Parla della guerra solo per dire che non è strumento di giustizia (I); il
secondo analizza l'idea di pace sociale (la questione della verità), l'etica che ne deriva e che la rende
possibile (II); il terzo considera le caratteristiche della pace in terra (III); il quarto esplicita il principio (o i
principi) che sono alla base delle affermazioni dottrinali ed etiche (IV); infine - il quinto- verifica l'attualità
dell'enciclica nel nuovo scenario mondiale che si è aperto in questi ultimi decenni (V).
I.L'enciclica parla della guerra solo per dire che non è strumento di giustizia
Nel pensiero tradizionale, sia religioso sia laico, a partire soprattutto dalla formazione degli stati moderni,
la pace sociale è generalmente compresa nel rapporto negativo con la guerra: è descritta, quindi, come una
non guerra, un intervallo tra una guerra e l'altra. Non è difficile trovare - afferma N. Bobbio - una
spiegazione della tendenza prevalente a considerare la pace al negativo. «Quando i due termini di
un'opposizione non vengono definiti entrambi positivamente, cioè l'uno in dipendenza dell'altro, ossia
quando dei due termini uno è sempre il termine forte e il secondo è sempre il termine debole, il termine
forte è quello che indica lo stato di fatto esistenzialmente più rilevante». 1
La pace è termine debole anche nel cristianesimo storico. Il discorso sulla pace, dal secolo IV al nostro
tempo, si esaurisce in quello della guerra e precisamente nella distinzione tra guerra giusta/ingiusta, che, al
di là delle intenzioni, si è prestata, di fatto, a legittimare la politica di guerra.2
L'enciclica dà per conosciuta l'esausta e ripetitiva riflessione sulla guerra e dedica alcuni paragrafi al
problema del disarmo.3 Di guerra ne parla quel tanto che basta per dire che la «guerra non può essere
considerata strumento di giustizia».4 La Pacem in terris rompe - per la prima volta a livello di magistero- il
tradizionale collegamento tra guerra-giustizia e dà inizio a una nuova tradizione di pensiero che avrà
autorevole conferma dal concilio Vaticano II, e da interventi magisteriali successivi e più recenti. La
posizione del concilio Vaticano II può essere così compendiata:
- Si abbandona la teoria della cosiddetta guerra giusta (la guerra è sempre un male); - Esaurito ogni
altro strumento, si tollera (resta un male) il ricorso alla forza solo nel caso di legittima difesa (autodifesa),
mai comunque da attuare con le armi atomiche, batteriologiche e chimiche (la condanna di queste è totale)
e nemmeno con le armi convenzionali che provocano distruzioni indiscriminate di civili innocenti e di
territori.5 Il principio della legittima difesa è riconosciuto in teoria ma, nello stesso tempo, si nega che
possa trovare applicazione nella pratica: la guerra è divenuta mezzo sproporzionato per qualsiasi causa
giusta, anche quella della difesa. In altre parole, il collegamento giustizia - guerra oggi non regge più, se
1
N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1982.
Cf. CONFERENZA EPISCOPALE DELLA GERMANIA OCCIDENTALE, «Effetto della giustizia sarà la pace», in
Magistero di pace. Lettere pastorali delle conferenze episcopali, Borla, Roma 1984, 179. I vescovi tedeschi si pongono una
domanda che ha già una risposta: Con la dottrina delle guerra giusta ha impedito delle guerre e le loro conseguenze o non ha
piuttosto contribuito alla giustificazione di esse?»
3
PT 109-119: EE 7/649-659.
4
PT 127: EE 7/667 “Nella nostra epoca, che si vanta dell'energia atomica, è contrarlo alla ragione (alienum est a ratione)
pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia.”
5
Cf. GS 80
2
1
pure reggeva ieri.
- È necessario rendere praticabili vie alternative per la soluzione dei conflitti sempre risorgenti:
diplomazia politica, negoziato, arbitrato internazionale. In questa prospettiva, si comprende la necessità di
istituire un'autorità internazionale competente e, quindi, l'urgenza di mettere l'ONU in grado di operare per
il riconoscimento, la difesa, e la riparazione dei diritti tra i popoli. È un obiettivo da raggiungere.
- Nei casi estremi e quando ogni altro mezzo è fallito, la legittimazione dell'uso delle armi, secondo il
bene inteso concetto di ingerenza o intervento umanitario, si distingue nettamente dalla guerra non solo
per i fini e le motivazioni, ma anche per le modalità di realizzazione: è circoscritto negli obiettivi e resta
finalizzato a disarmare l'aggressore, impedendo il verificarsi dei cosiddetti rischi collaterali. In breve, la
legittima difesa non s'identifica con guerra; e il ricorso alle armi, in casi estremi, non è sinonimo di fare
guerra.
II. L'enciclica precisa la pace in se stessa e non in rapporto al suo opposto
1. Il significato di pace sociale
Cos'è la pace sociale (o della società)? È la domanda sulla verità della pace sempre esposta a
comprensioni riduttive e, quindi, a produrre conseguenti etiche riduttive e semplificatrici. L'enciclica non
risponde per via dottrinale ma per via esperienziale. La pace (prima che una teoria/ teorie o elaborazione
intellettuale dei diversi saperi laici e/o religiosi), è un'esperienza, la più profonda dell'essere umano e della
società; desiderio e insopprimibile aspirazione dell'animo umano verso una condizione ideale e totale, mai
in pari con la condizione reale; è un bene, il più alto, un diritto, un dovere, un traguardo possibile e
realizzabile in terra. In altre parole, l'enciclica non presenta una dottrina della pace dal di fuori (come un
corpo estraneo), ma partendo dal soggetto umano e, alla maniera di Pascal e di Agostino, gli fa scoprire il
senso delle sue aspirazioni e a quale fine lo conducono.
La persona, ogni persona (credente e non credente) 6 , è destinataria di questo messaggio, anzi è
soggetto attivo, chiamato a costruire la pace in terra; non solo è destinataria, ma interlocutrice. L'enciclica
si pone in atteggiamento di ascolto per rispondere e dare voce alle aspirazioni delle persona e della città
umana. Giovanni XXIII sembra voler liberare la pace - e l'etica della pace - dal sequestro nel quale l'hanno
rinchiusa le élites professionali (politici, scienziati, militari, filosofi, teologi), e restituirla, di diritto-dovere,
alla persona, a ogni persona, e alla società civile. “La pace universale – afferma dopo la firma
all'enciclica - è un bene che interessa tutti gli uomini indistintamente»7, e costituisce «l'anelito profondo
degli esseri umani di tutti i tempi»8. Dieci anni dopo la promulgazione si ricorderà: «Dall'est all'ovest,
dall'uomo della strada al capo di stato, dal miscredente al cristiano impegnato essa incontra in tutti gli
ambienti, paesi, blocchi, religioni, un'approvazione quasi unanime. Nella stampa, alla radio, ognuno
sottolinea ciò che l'enciclica gli apporta e l'appoggio che gli promette di rimando.... Come spiegare un tale
acceso interessamento dell'opinione pubblica? Perché si ebbe un perfetto accordo tra l'aspettativa del
mondo e la risposta data da questo messaggio9. È giusto quindi riconoscere che Giovanni XXIII è stato un
profeta, ma non perché abbia predetto l'avvenire o che abbia voluto farlo... ma perché ha saputo discernere
e liberare le aspirazioni dei suoi contemporanei. Ognuno si è sentito compreso e invitato alla speranza, si è
riconosciuto in questo umanesimo ottimista che crede e spera in un mondo non più diviso in <<popoli
dominatori e popoli dominati>>10
Cos'è la pace sulla terra? L'enciclica, tentando una teorizzazione, risponde in base a una concezione
storicamente possibile e universalmente condivisa: la pace in terra è la società ordinata o, meglio, da
ordinare secondo “verità, giustizia, libertà, amore-solidarietà”. La pace sociale è descritta come un edificio
6
L'espressione «tutti gli uomini di buona volontà», usata intenzionalmente, indica la persona che cerca e opera sinceramente
(secondo coscienza) la verità e il bene.
7
24~4.l963
8
PT 1: EE 7/541.
9
Commissione pontificia, GIUSTIZIA E PACE, «Riflessioni nel X anniversario della "Pacem in terris», in EV 4/2374.
10
PT 42: EE 7/582.
2
che poggia su quattro pilastri: fuori metafora, sono i valori/virtù morali, in base ai quali l'enciclica elabora
un'etica che guida/regola i rapporti tra gli esseri umani (prima parte); tra i cittadini e la comunità politica
(seconda parte); tra le comunità politiche (terza parte); e la costruzione della comunità mondiale (quarta
parte).
È un'etica che vale tanto nel micro come nel macro sociale: “La stessa legge morale che regola i
rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche”. 11 Insegna
che - con le trasposizioni necessarie - le comunità politiche e la comunità intermedie sono guidate dagli
stessi comportamenti e dalle stesse virtù. In altre parole, non esiste un'etica nel privato e un'altra nel
pubblico (nella società, nell'economia, nella politica).12 La separazione tra etica privata ed etica pubblica è
teorizzata dai seguaci di N. Machiavelli e da quanti sostengono, in teoria o nella prassi, che nella società (in
economia e in politica), più che il criterio-giustizia vale il criterio-efficacia o del più forte.13
2. L'etica che rende possibile la pace in terra
L'enciclica delinea così, secondo un quadro di valori/virtù morali, un'etica della pace; un'etica che
rende possibile, anzi identifica la pace:
a: la pace è verità (senza verità non c'è pace). Non si tratta tanto della verità dottrinale che anzi è
stata - e in certa misura è ancora -pretesto per guerre e violenze (si pensi, ad es., alle guerre di religione),
ma della verità dell'essere umano, del valore fondamentale e irrepetibile che compete a ogni essere umano,
di qualunque colore e razza, cultura e religione.
b: la pace è giustizia (senza giustizia non c'è pace). Per la prima volta, un'enciclica sociale elabora
una Carta dei diritti umani. La Pacem in terris integra la Dichiarazione dei diritti dell'uomo delle Nazioni
Unite (10 dicembre 1948).14 I diritti umani, al plurale (diritti civili/politici, sociali, religiosi ed economici)
non sono altro che la traduzione del diritto, al singolare, dell'essere umano a venire riconosciuto come
soggetto. A differenza della Dichiarazione dell'Onu, ricorda che «nell'uomo i diritti sono legati ad
altrettanti doveri»15 , come a dire, i diritti non sono comprensibili in una visione individualista della
persona, come nemmeno in quella collettivista, ma unicamente nell'idea di persona che è individuale e,
insieme, sociale. La causa della pace è inscindibilmente legata alla causa dei diritti umani. Il
riconoscimento di questi diritti, in quanto fondati sulla dignità di ogni essere umano (e la loro concreta
promozione da parte di tutti i popoli del mondo), è condizione fondamentale per la realizzazione della pace
sulla terra secondo il disegno divino. La pace è giustizia resa a ogni essere umano, a ogni popolo, alla
comunità dei popoli.
c: la pace è amore-solidarietà (senza amore, senza solidarietà non c'è pace sociale).16 Si vuol dire, in
negativo, che lo sviluppo è un diritto-dovere del singolo, dei corpi intermedi, delle nazioni, ma non può
essere attuato a spese o a danno dell'altro; in positivo, significa realizzare il proprio bene nella
realizzazione del bene dell'altro. La solidarietà è la caratteristica della persona che s'identifica per la sua
individualità e, ugualmente, per la sua relazionalità.
d: la pace è libertà (senza libertà, al singolare, e al plurale, non c'è pace sociale). Libertà, come
effettiva possibilità delle persone, dei popoli, di essere e divenire se stesso.
11
PT 80: EE 7/620.
PT 80: NE 7/620 (cf. B. LALANDE, Enciclica “Pacem in terris”. Commento, Edizioni Paoline, Roma 1965, 52-53).
13
B. HARING, Liberi e fedeli in Cristo, Teologia morale per preti e laici, 111, Edizioni Paoline Roma 1981, 308.
14
G. FILIBECK I diritti dell'uomo nell'insegnamento della Chiesa. Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II. Raccolta di testi
del magistero della Chiesa cattolica (1958-1998), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001. «Il campo dei diritti
dell'uomo occupa un posto preferenziale, perfino centrale, soprattutto dopo Giovanni XXIII - scrive il card. Etchegaray nella
prefazione - al punto che oggi, agli occhi di molti, il pensiero e l'azione dl Giovanni Paolo II appaiono identificarsi, quasi ridursi
alla difesa e alla promozione dei diritti dell'uomo»
15
PT 28: EE 7/568
16
«La pace come frutto della solidarietà ( SrS 39: EE 8/960).
12
3
I quattro valori/virtù si esigono e si richiamano reciprocamente, l'uno non può trascurare o ignorare
l'altro. Si deve, però, osservare e il fatto merita grande attenzione - la preferenza dell'uno piuttosto che
l'altro. Oggi la preferenza più avvertita, dalla coscienza collettiva, va alla giustizia, che s'impone in modo
esponenziale dal suo rovescio: le ingiustizie di cui è vittima gran parte dell'umanità. Non a caso, le
definizioni di pace, che si sono succedute in questi ultimi decenni, evidenziano prevalentemente se non
esclusivamente la giustizia,17 fino a diffidare dell'appello alla pace considerato strumentale allo status quo.
Di qui il motto «Vogliamo giustizia e non pace». Così, nel linguaggio corrente, il termine pace è
accompagnato dal termine giustizia (binomio pace-giustizia) e, più recentemente, da un terzo termine:
salvaguardia o rispetto dell'ambiente. L'ecumenismo mondiale sta insistendo da tempo (Basilea '89, Seul
'90, Canberra '91) sul trinomio giustizia, pace e salvaguardia del creato.
Se la pace è verità, giustizia, amore-solidarietà, libertà; se la sua etica consiste in questi valori/virtù, la
pace è una realtà sociale mai compiuta e pienamente raggiunta; mai identificabile con l'ordine stabilito. La
pace è, per se stessa, proposta di un ordine da costituire. “La pace rimane solo suono di parole se non è
fondata su quell'ordine che il presente documento - avverte Giovanni XXIII - ha tracciato con fiduciosa
speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto
in atto dalla libertà».18
III. Le prospettive (o caratteristiche) della pace in terra
Sempre nell'intento di identificare la pace in terra, è importante esaminarne, in base all'enciclica, le
caratteristiche.
1. Prospettiva storica della pace
La pace, secondo l'enciclica, è una realtà storica, dinamica, è un edificio che si costruisce con fatica.
La dimensione storica (o della storia) della pace si fonda su una duplice convinzione: che la storia ha un
senso; che la storia è guidata dalla Provvidenza che, lungi dall'esautorare, interpella l'essere umano, la sua
libertà e, quindi, la sua responsabilità. «Dio parla all'uomo nella storia - ricorderà M.D. Chenu - non fuori
dalla storia». Ascoltare la storia, per il credente, significa ascoltare Dio per costruire la storia umana e
cosmica secondo il suo progetto.
Gli eventi della storia non sono semplicemente dei fatti, di cui prendere atto per lamentarci o per
consolarci; sono, invece, un appello, un'opportunità che viene offerta, una sfida che interpella
l'immaginazione, la ragione e, se credente, la fede stessa. Nel corso attuale degli avvenimenti, mentre la
società umana è a una svolta -Cosi Giovanni XXIII in apertura del concilio, 11 ottobre 1962 - vale di più
riconoscere i disegni misteriosi della Provvidenza divina.19
E necessario capire gli eventi per farsi costruttori di storia e non semplicemente e fatalisticamente
spettatori. In questa prospettiva, l'enciclica inaugura e pratica l'impegnativo e felice metodo dei segni dei
tempi, che, nel X° anniversario dell'enciclica, viene così descritto dal card. M. Roy, «Giovanni XXIII
scruta e guarda. Egli crea la "fenomenologia" della pace. Il suo metodo non è deduttivo, ma induttivo; egli
17
«La pace oltrepassa i limiti della stretta giustizia: è frutto dell'amore, che va oltre quanto è in grado di assicurare la stretta
giustizia (GS 78); «La pace non è semplice assenza di guerra, né può ridursi al solo rendere stabile l'equilibrio delle forze
contrastanti, né è effetto di una dispotica dominazione, ma essa viene con tutta esattezza definita "opera della giustizia"» (Is
32,7) (GS 78); aLe profonde dlsuguaglianze economiche, sociali e culturali troppo grandi tra i popoli provocano tensioni e
discordie e mettono in pericolo la pace... La pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto dell'equilibrio sempre precario delle
forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta
tra gli uomini». Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento d'un ordine stabilito da Dio, che comporta una giustizia
più perfetta tra gli uomini (PP 76: ED 7/1005).
18
PT 167: EE 7/707.
19
GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio, EV 1/41*-42*.
4
parla di ciò che ha visto e scoperto. Fa un certo numero di constatazioni sulla società, che poi descrive alla
fine di ciascuna delle quattro parti della sua lettera. Egli vi attribuisce una grande importanza soprattutto
quando nota "consensi", convinzioni collettive. Queste convergenze assumono allora, ai suoi occhi, valore
di indicazioni o di leggi psicosociologiche, e in seguito di obblighi morali, in quanto designano il bene
comune. Ma l'originalità del suo metodo va oltre. È un metodo comparativo. Esso mette questi
avvenimenti - o queste costanti ben fissate - di fronte alla rivelazione cristiana e alla tradizione dottrinale o
insegnamento della Chiesa. E indaga se non ci sia, sotto il fatto collettivo percepito, un invito o una certa
sollecitazione da parte di Dio. Appena delineata nella Pacem in terris, questa teologia dei "segni dei tempi"
ricavata dal vangelo, che Giovanni XIII cita a questo proposito (Mt. 16,4), è stata ripresa e sintetizzata con
vigore dalla Gauium et spes (nn. 4, 10-11, 42, 44, ecc.) che le ha conferito una importanza spirituale e
metodologica determinante”.20
L'originalità del metodo va ancora oltre e consiste nel saper cogliere le concrete possibilità che la
storia offre in eventi ambigui (né del tutto buoni, né del tutto cattivi); ragione e torto da una parte e
dall'altra. Cosa fare e cosa proporre? Bisogna distinguere - avverte G. Ruggieri, in riferimento alla parabola
della zizzania - il problema dalla "conoscenza" del bene e del male da quello della "separazione" del bene e
del male nella storia. La difficoltà - egli afferma - non sta nel "riconoscere" il male... il problema verte sul
"separare" il male dal bene, che è impossibile all'uomo ed è riservato al giudizio escatologico di Dio, cioè a
Dio stesso. «L'ermeneutica che Giovanni XXIII fece della "crisi di Cuba" ne è un chiaro esempio:
rifiutandosi di "separare" ragione e torto, operando per la pace, superò la distinzione tra guerra giusta e
ingiusta, comprendendo, come nell'era atomica, fosse alienum a ratione dare ancora legittimità alla
vecchia pretesa di risolvere i conflitti con la guerra "giusta" contro l'ingiustizia perpetrata. Da qui la grande
lezione - conclude - sull'ermeneutica dei segni dei tempi nella "Pacem in terris", che non è grande perché
"teorizza" un'ermeneutica dei segni, ma perché la ''pratica''». 21
Inoltre, la prospettiva storica (o della storia) della pace indica la contemporaneità alla storia, essere in
sintonia con il proprio tempo. Perché questa enciclica ha avuto un'accoglienza plebiscitaria? Perché è stata
accolta con entusiasmo dalla stampa dei cinque continenti?. “Questa enciclica (che è stata chiamata la
Rerum novarum della pace) è dentro la storia, contemporanea al suo tempo; ogni parte termina con un
sottotitolo che ritorna quattro volte Segni dei tempi. Se viene offerta al mondo oggi, è perché il mondo
tende verso di essa, perché è maturo per capirla, perché ne ha bisogno... L'enciclica ha capito il
cambiamento e l'ha interpretato, non l'ha subito, ma ne dato l'orientamento”.22
Per concludere, la prospettiva storica della pace costringe a una comprensione sempre nuova del tema
della pace... Non si tratta di elaborare una dottrina della pace, definita una volta per tutte (dove ciascuno
può trovare legittimazione ai propri comportamenti), ma di custodire questo delicatissimo rapporto tra
urgenze del Vangelo ed eventi della storia, per discernere, nella drammaticità dei conflitti, le parole e i
gesti della pace.23
2. Prosperava ecclesiale della pace
La pace in terra, secondo l'enciclica, è una realtà ecclesiale, nel senso che non può non interessare la
Chiesa e la sua missione; non è, per essa, questione secondaria o periferica. La Pacem in terris ha inteso
portare la questione pace al centro della vita della Chiesa (analogamente a quanto aveva fatto la Rerum
novarum per la questione operaia, e l'Evangelium vitae per la questione-vita).
20
C OMMIS5IONE PONTIFICIA, GIUSTIZIA E PACE, «Riflessioni nel X anniversario della "Pacem in terris"», EV:
4/2400-2401.
21
G. RUGGIERI, “L'intenzione di Cristo e l'ambiguità della storia”, in Rassegna di Teologia (2001)3, 433-434
22
GLANDE, Enciclica "Pacem in terris”. Commento, 9-10.
23
M. TOSCHI, «Storia della Chiesa*, in L. LoRENzEm (a cura dl), Dizionario di Teologia della pace, EDB, Bologna
1997,120-121.
5
Perché la Chiesa s'interessa delle vicende terrene? La domanda è pertinente. L'enciclica, infatti, parla
della pax terrestris e non già almeno non direttamente - della pax coelestis; la pace che riguarda questo
mondo e non l'altro mondo; la pace di quaggiù e non dell'aldilà. La domanda non è nuova e si ripropone
puntualmente nei confronti del magistero sociale della Chiesa. Le risposte, che si sono date, vanno da
ragioni di indole giuridico-morale (competenza nella legge morale), antropologica (competenza della
verità totale dell'uomo), biblica (la sovranità universale di Cristo). Per Giovanni XXIII, è soprattutto la
carità evangelica.24 È una questione di amore, per la Chiesa, dedicarsi con tutta se stessa alla causa della
pace in terra. Certamente la Chiesa, come popolo di Dio che cammina nella storia, tende alla pace della
Gerusalemme celeste, ma questo non è un motivo per evadere dalla pace della Gerusalemme terrestre (tutta
la quinta parte è dedicata alla giustificazione di questo dovere di incarnare la pace nel tempo invece di
respingerla nell'eternità).
Parlare di pace in terra, da parte della Chiesa, significa, però, interrogarsi sulla sua stessa identità, sul
suo essere e sul suo agire. Non ogni tipo o modello di Chiesa che è succeduto nella storia è adatta per essere
strumento di pace: la Chiesa come imperium, la Chiesa come societas, la Chiesa communio;25 la Chiesa
come mistero e sacramento dl unità tra Dio e gli uomini...
Chiesa di pace e per la pace può essere una Chiesa comunione che, in riferimento al Suo Signore,
riscopre se stessa a servizio degli altri, dei poveri e degli oppressi in primo luogo; una Chiesa delle donne e
non soltanto degli uomini; una Chiesa libera dal potere e coscienza critica in rapporto a questo; una Chiesa
che dialoga e collabora con tutti gli uomini, con tutti i popoli e con tutte le religioni, considerate nel loro
possibile contributo alla costruzione di un presente e di un futuro dell'umanità fondato sull'effettiva
possibilità dello scambio, del dialogo e della collaborazione solidale.
Si deve tuttavia riconoscere che l'attesa della gente non riguarda soltanto sapere cosa dice la Chiesa
sulla pace nel mondo, ma piuttosto verificare cosa fanno le Chiese e i cristiani, unitamente agli uomini di
buona volontà, perché la storia umana si costruisca come storia di pace. In una rassegna critica del pensiero
e della prassi dei cristiani e della Chiese nelle diverse fasi storiche, i vescovi tedeschi osservavano: <<il
bilancio del lavoro ecclesiale per la pace, a prima vista, potrebbe apparire deludente. La Chiesa non
potrebbe proporre la pace in maniera più radicale ed efficace? Dobbiamo ammetterlo: la storia della Chiesa
conosce parecchi coinvolgimenti nelle azioni del mondo e spesso la partecipazione alla violenza e alla
guerra». 26 Il cosiddetto realismo politico che per fare giustizia piazza lo strumento guerra, trova nei
cristiani e nelle Chiese acquiescenza e resa. Un test emblematico della tendenza militarista è rappresentato
dalla reazione all'attacco dell'11 settembre 2001 all'America.27 Si è saputo distinguere tra terroristi (singoli
e gruppi) e popoli; si è capito che parlare di crociata (di scontro tra due mondi, tra due civiltà
orientale -occidentale, tra due religioni), oltre che deviante, era strumentale ai terroristi nella loro ipocrita e
folle pretesa di rappresentare qualcuno o qualche causa giusta. Si continua, però, a pensare che il fare
giustizia sia sinonimo di fare guerra. A questa, con arroganza e al di là di ogni misura, si è affidato (e si
affida) il compito quasi divino di fare “giustizia infinita” prima e poi «libertà duratura».
È legittima la domanda: come mai i cristiani e le Chiese si sono arresi, ancora una volta, alla
cosiddetta realpolitk che affida le cause giuste a strumenti irrazionali (alienum est a catione)? Nel X
anniversario dell'enciclica, il card. M. Roy riconosceva che Giovanni XXIII cha certamente contribuito a
cambiare la mentalità della maggior parte dei cristiani e, per conseguenza, a rafforzare la "convinzione"...
che "gli eventuali conflitti fra i popoli non devono essere regolati col ricorso alle armi, ma con i
24
Cf. L. LORENZETTI, «L'insegnamento sociale della Chiesa e i sistemi economici», in Messaggio cristiano ed economia,
EDB, Bologna 1974, 234-241.
25
L. SARTORI, “Chiesa e mondo”, in Lorenzetti (a cura di) Dizionario di teologia della pace, 235-237.
26
CONFERENZA EPISCOPALE DELLA GERMANIA OCCIDENTALE, «Effetto della giustizia sarà la pace», in Magistero
di pace, Lettere pastorali delle conferenze episcopali, 201.
27
L. LORENZETTI, «Terrorismo, guerra, giustizia sociale. Dalla parte delle vittime», in RtM (2001)132, 475-478; cf. anche
“Forum Guerra-giustizia nel XXI secolo. Un rapporto sostenibile?”, In RtM (2002)133, 3-45 .
6
negoziati"28. Oggi dobbiamo dire che Giovanni XXIII vuole contribuire a rafforzare la convinzione che il
Vangelo non sta dalla parte della cosiddetta guerra giusta, sta solo dalla parte della pace giusta.
L'Evangelium vitae, nel 1995, annoverava, infatti, tra i segni di speranza del nostro tempo «la crescita, in
molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come
strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più ordinata alla ricerca di strumenti efficaci ma
"non violenti" per bloccare l'aggressore armato».29 Di nuovo una domanda: se tale cambiamento si è
verificato, cosa hanno fatto i cristiani per il cambiamento di tale mentalità?
3. Prospettiva teologica e filosofica («fides et ratio») della pace
È evidente che l'enciclica parla della pax terrena. Il problema è un altro. La pax terrena, di cui si parla,
è argomentata in base alla ragione o alla fede? È stato detto e scritto che l'enciclica argomenta ex ratione
per farsi capire da tutti e si fa ricorso alla fede solo nell'ultima parte (la quinta), che è rivolta direttamente ai
fedeli cristiani. Non è proprio così, è più esatto dire che argomenta, dall'inizio alla fine, secondo la fede che
fa appello alla ragione e, nello stesso tempo, secondo la ragione aperta alla trascendenza. È un fatto che
credenti e non credenti si ritrovano e si sentono ugualmente interpellati dalla dottrina e dall'etica
dell'enciclica.
È un argomentare nella prospettiva della fede, che fa appello alla ragione. “Il metodo «vedere,
giudicare, agire” ha permesso di indirizzarsi a tutto il pubblico... usare argomenti e un tono che sia
accettabile per tutti gli uomini di buona volontà, pur parlando con la franchezza e con la visione ampia
della grande tradizione profetica dell'Antico e Nuovo Testamento»30. Si può ugualmente dire che è un
argomentare nella prospettiva della ragione aperta al trascendente.31 I riferimenti a Dio e alla rivelazione
divina sono rari, ma anche più convincenti in quanto non chiama in aiuto come «Deus ex machina»,
immesso dal di fuori, ma al contrario come la constatazione stessa di un bisogno basilare per l'umanità: e la
pace è un'impresa troppo alta per permettere che la sua realizzazione sia in possesso dell'uomo
abbandonato alle sue sole forze, anche se fosse animato dalla più lodevole buona volontà.32
IV. Il principio (o i principi) dell'enciclica
L'enciclica non è un trattato o un'enciclopedia, non è nemmeno un insieme di affermazioni dottrinali
ed etiche più o meno coerentemente legate tra loro. Interessa, pertanto, verificare quale sia il principio base
(o i principi base): in primo luogo, è la dignità della persona umana; in riferimento a questo, altri due: la
società, come comunità di persone; e l'umanità, come unità, come famiglia umana.
1. La dignità della persona
La persona, la sua dignità, la molteplicità delle sue dimensioni (e, quindi, l'impossibile riduzione a una
sola dimensione), è il principio base, da cui tutto deriva e al quale tutto conduce.
Dalla uguale dignità deriva l'uguaglianza tra gli esseri umani. “Gli esseri umani sono tutti uguali nella
dignità naturale”;33 “Non ci sono esseri umani superiori per natura ed esseri umani inferiori per natura; ma
tutti gli esseri umani sono uguali per natura». 34 Il principio persona è principio ontologico che diviene il
principio etico: riconoscere la persona, la sua dignità, i suoi diritti.
La dignità della persona non è un concetto vago e generico, indica che certe istanze appartengono
28
Commissione pontificia GIUSTIZIA E PACE, «Riflessioni nel decimo anniversario della "Pacem in terris"»: EV 4 /2389.
EV 27: 8/1890
30
B HARING, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia per laici e preti, III, Edizioni Paoline, Roma 1981, 326-327.
31
PT45: EE 7/585.
32
PT 168: EE 7/708
33
PT 48: EE 7/588
34
PT 89: EE /629.
29
7
all'essere umano, in quanto tale, e che siamo soliti chiamare diritti umani.
2. La concezione di società, come comunità di persone
Dall'idea di persona (individuale e, insieme, sociale), deriva la concezione di società, come comunità
di persone, «Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono nati per convivere e operare
gli uni a bene degli altri». 35 Perché la relazione interumana; e - seconda - come deve essere la relazione
dall'area più piccola alla più grande? Sono le due domande di ogni etica, laica o religiosa che sia.
L'enciclica risponde in maniera articolata in base a quel quadro di valori/virtù precedentemente ricordati.
3. La concezione dell'umanità come un'unità, un'unica famiglia
Ogni essere umano è «membro della famiglia umana e cittadino di questa comunità universale
«L'unità della famiglia umana è esistita in ogni tempo»,36 ed è questo che crea, a titolo di "necessità di
natura" il dovere interiore di creare una "comunità mondiale", 37 e di servire il bene comune universale".38
Dall'interdipendenza reciproca degli stati, dal fatto di costituire un'unica famiglia umana, dall'intrinseca
necessità d'integrarsi in unità sovranazionali e in un'unità mondiale, al fine di raggiungere gli obiettivi di
progresso e di civiltà, deriva per tutti gli stati nazionali l'urgenza di costruire, per via democratica (sulla
base della solidarietà, della verità, della giustizia e della libertà), una comunità politica mondiale, con
un'autorità proporzionata a promuovere il bene comune universale.39
Le categorie classiche della dottrina sociale della Chiesa (bene comune, solidarietà, sussidiarietà)
sono ripensate nel quadro mondiale, globale. La solidarietà e sussidiarietà sono coniugate con riferimento
alla costruzione di una comunità politica mondiale e alla realizzazione di uno sviluppo (globale,
comunitario) di tutti i popoli. Si riconoscono, pertanto, il valore e i limiti delle sovranità nazionali; la
necessità che si aprano alle esigenze della comunità internazionale; la creazione di un'autorità politica
mondiale, costituita di comune accordo, e impegnata ad assicurare il rispetto effettivo dei diritti dell'uomo
per tutta la famiglia umana.40
V. Attualità della Pacem in terris
1. Nuovo contesto sociale mondiale
Parlare di attualità della Pacem in terris significa domandarsi cosa pensare e cosa fare per costruire la
pace in terra oggi nel nuovo scenario mondiale che si è creato in questi quarant'anni. Tra i molteplici fattori
o cause, due eventi in particolare sono all'origine della nuova condizione mondiale.
Il primo evento è l'anno 1989:41anno emblematico di grandi speranze andate in buona parte deluse.
Con la caduta del Muro di Berlino, la pace fondata sull'equilibrio delle forze (la cosiddetta deterrenza)
perdeva ogni legittimazione. Il disarmo “Obiettivo reclamato dalla ragione”... “Obiettivo
desideratissimo”... “della più alta utilità”42 sembrava davvero praticabile e così restituire alla pace il suo
volto pacifico e non bellico, e affrontare positivamente la questione nord-sud del mondo. Così non è stato.
La ricerca e l'industria militari hanno continuato a produrre armi nucleari, a perfezionare quelle
convenzionali, fino al progetto dello scudo spaziale. L'Occidente è impegnato a perfezionare le sue
35
PT 25: EE 7/565; PT 31: EE 7/571.
PT 132: EE 7/672
37
PT 7: EE 7/547.
38
PT 98: EE 7/638; 121- 125: EE /661- 665
39
PT 80; 139: EE 7/620; 680.
40
PT 136- 139: EE 7/676-679.
41
Cf. G. BOF, «L'evento 1989~, in RtM (1991)91,281-286.
42
Cf. PT 114-116: RE 7/654-666.
36
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strategie di difesa militare. Ingenti risorse sono state (e sono) sottratte alla causa della giustizia sociale.
Dopo quel 1989, il sistema capitalistico (l'unico sistema rimasto in campo sulla scena del mondo), dal
fallimento del suo antagonista ha tratto una patente di buona condotta. La storia, al contrario, mette a suo
carico soprattutto due mali: l'incapacità a realizzare una decente inversione del divario nord-sud del
mondo; e la forte incompatibilità ambientale. Il modello di sviluppo economico liberista non è sostenibile:
per logica sua, non coniuga sviluppo, giustizia sociale e salvaguardia dell'ambiente.43
Il secondo evento - aperto in grande dal precedente - è l'avanzata irreversibile, a partire dagli ultimi
decenni, della cosiddetta globalizzazione.44 La sua forma più vistosa e sperimentata è quella economica e
finanziaria (madre e regina di tutte le altre: culturale, tecnica, migratoria) governata, finora, quasi
esclusivamente dalla libertà assoluta del mercato economico e finanziario. Alla globalizzazione economica
non corrisponde una simmetrica autorità politica - costituita di comune accordo, come insegna la Pacem in
terris45 - con capacità giuridica di stabilire regole da condividere e da rispettare da tutti. 46
Il grande problema storico consiste nel realizzare uno sviluppo (“nome nuovo della pace”47 ), ma
sostenibile che sappia, cioè, coniugare crescita economica, giustizia sociale e rispetto dell'ambiente; in
altre parole, le ragioni economiche con quelle etiche.
2. Giustizia globale
Il progetto di uno sviluppo sostenibile, in teoria da tutti condiviso, non può essere annunciato e difeso
fuori, ma dentro questa globalizzazione liberista che - come documenta rigorosamente, tra gli altri, L.
Gallino - al di là delle previsioni e delle intenzioni, ha generato effetti perversi, e se non cambiano i
meccanismi, che la guidano, - e non c'è alcun serio motivo per pensare che cambino - l'ulteriore espandersi
di questa globalizzazione non li annulla o minimizza.48
L'etica, religiosa e laica, in questo contesto, ha un ruolo importante, ma è ininfluente se si limita a
insegnare che alla globalizzazione economica deve accompagnarsi la globalizzazione della giustizia. “Mi
pare improprio pensare in termini di globalizzazione della giustizia o globalizzazione dal basso. In realtà
con questi termini si vorrebbe alludere a una buona interdipendenza, al rispetto dei diritti umani, a un
mondo fondato sulla giustizia e sulla pace. Ma non esiste una globalizzazione buona; il bene non si può
esportare a partire da un unico centro che assimila tutto a sé... La globalizzazione è solo una forma perversa
di interdipendenza tra i popoli».49
L'etica fa un discorso serio e pertinente quando, in nome della giustizia globale, non si rassegna a
subire passivamente questa globalizzazione, sa denunciare e indicare vie alternative concrete e praticabili.
Certamente il progetto di una globalizzazione dal volto umano (altrimenti detto “Un altro mondo è
possibile”), non si costruisce con le buone intenzioni né con l'impegno del singolo in quanto tale. È
necessario individuare e appoggiare le mediazioni storiche efficaci (e ci sono), con le quali farlo
camminare:
- a cominciare dalle istituzioni internazionali, che già operano sul piano internazionale. In base al loro
statuto e ruolo originario, occorre contestare ad esse la filosofia liberista, il potere di condizionamento sulle
43
L. LORENZETTI, «Il capitalismo reale senza avversari», in RtM(1991)91,291-296
Cf. «Forum "Globalizzazione, sfida all'etica e alla politica"~, in RtM (2000),319-353
45
PT137-139: EE7/67~679
46
L LORENZETTI, “II fine dell'economia non sta nell'economia”, in Economia/Finanza, Cittadella Editrice, Assisi 2000,
117-118.
47
PP 76: EE 7/1005.
48
L. GALLINO, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 200, 98106; cf. L. LORENZETTI, “Una
globalizzazione dal volto umano?”, in RtM (2000)128, 507- 508
49
R. MANCINI, «Assumere la prossimità», in RtM (2002)135, 198.
44
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economie deboli, la scarsa democratizzazione e trasparenza nelle scelte, generalmente più favorevoli ai
paesi più ricchi e ai loro pilastri finanziari.
- le Organizzazioni non governative (Ong) che si collocano in maniera dialettica in rapporto agli
organismi democraticamente eletti.
- i movimenti di protesta e di proposta, quali luoghi dove certe istanze sono avvertite prima che dalla
coscienza collettiva, e luoghi dove queste istanze sono tradotte, sia pure imperfettamente, nella realtà.
- soprattutto la società civile, nelle sue varie espressioni, nel suo bisogno e diritto di informazione e di
partecipazione.
«Un altro mondo è possibile (“Uno sviluppo sostenibile”, «Globalizzazione dal volto umano»)
appare, in verità, impresa improba e faticosa, e la tentazione di arrendersi al cosiddetto realismo sembra
vincente, ma non siamo senza la speranza di “una famiglia umana” non più formata da «popoli dominatori
e popoli dominati».50 I segni di questa speranza51 ci sono e vanno ulteriormente promossi:
- Il risveglio delle coscienze, la nascita di un'opinione pubblica globale, favorita anche dal movimento
antiglobalizzazione. I Grandi della terra incominciano a capire che devono ascoltare la voce dei paesi
poveri e le urgenze umane - e non solo statuali - del pianeta intero.
- il diritto internazionale che passa gradualmente dalla concezione di patto tra stati sovrani all'idea di
urgenze della famiglia umana. Un segno eloquente dell'internazionalizzazione del diritto lo si può
constatare nell'opposizione, più o meno scoperta, dell'America verso l'Onu.
- il moltiplicarsi di associazioni di volontariato di ogni tipo, e queste vanno considerate per quello che
fanno e per quello che propongono.
Per concludere, la pace in terra dipende dalla giustizia in terra, che è diventata la vera questione
sociale del terzo millennio. Questo vuol dire che le norme etiche tradizionali, elaborate in un mondo dagli
orizzonti esperienziali limitati, non sono più in grado di fare fronte alle richieste pressanti della situazione
odierna dell'interdipendenza dei popoli, e vanno ripensate: il bene comune nazionale (o locale) o
dell'insieme degli stati in rapporto al bene comune globale; la politica nazionale o continentale in rapporto
alla politica mondiale.
La Pacem in terris è ancora davanti a noi, ha anticipato quanto oggi è diventato una necessità non più
rinviabile: l'assunzione di una responsabilità comune su scala mondiale. Per questo è un'enciclica storica:
ha saputo interpretare la storia e ha contribuito a fare storia sia a livello di pensiero che di comportamento;
ha indicato, in base alla sapienza umana e religiosa, un metodo e proposto - con convinzione largamente
condivisa - un cammino di pace e giustizia in terra, animato dalla speranza che non porta a evadere ma a
impegnarsi nella storia, perché sia e diventi una storia umana per tutti i suoi abitanti.
V.Bibliografia minima sulla Pacem in tennis
E. FOGLIASSO, Papa Giovanni spiega come giunse alla Pacem in terris: l'orientamento vitale di Angelo
G. Roncalli verso l'Evangelium pacis: studio storicopsicologico, Pontificio Ateneo Salesiano, Roma 1964,
pp. 265.
F. VITO (e altri), Nuovi saggi sulla Pacem In terris, Vita e Pensiero, Milano 1967, pp. 96.
L. BELLOMI, Per una cultura di pace: gli orientamenti della Pacem in terris, Edizioni Paoline, Milano
1989, pp. 73.
50
51
Cf. Pr42. Er7/582
Cf. E. CHIAVACCI, «Globalizzazione come sfida», in RtM (2000)127, 342-343
10
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