Come vivono i pazienti psichiatrici dopo la chiusura dei manicomi

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Come vivono i pazienti psichiatrici dopo la chiusura dei manicomi. Parla il dottor Imbesi
Trent’anni fa la legge 180
Farmaci, riabilitazione e nuove strutture hanno ridato dignità a migliaia di persone
La legge 180, meglio conosciuta come “Legge Basaglia”, è passata alla storia come la legge che ha
chiuso i manicomi in Italia. La malattia mentale, fino ad allora, era considerata sostanzialmente
inguaribile, progressiva ed incomprensibile. Questo giustificava la segregazione dei pazienti per la
salvaguardia delle “persone civili e del pubblico decoro”. Gli strumenti terapeutici erano lasciati
alla fantasia più sfrenata: docce ghiacciate, diete sbilanciate, isolamento e contenzione fisica sono
solo alcune delle pratiche cui venivano sottoposti i pazienti. Dopo la chiusura degli ospedali
psichiatrici si aprì un periodo assai difficile caratterizzato dalla solitudine in cui si trovavano, e in
molti casi si trovano tutt’oggi, tante famiglie costrette ad affrontare i problemi che derivano dalla
malattia psichica di un congiunto.
Attualmente in Italia la maggior parte dei pazienti psichiatrici viene assistita presso i centri di salute
mentale (CSM), che operano sul territorio, con trattamenti ambulatoriali e domiciliari,e in misura
minore in comunità residenziali, o in centri diurni. Il ricovero ospedaliero viene attuato solo in casi
gravi e solo per periodi di tempo definiti. I pazienti possono essere volontari o non volontari,
possono cioè rifiutare i trattamenti e dovervi essere sottoposti forzatamente: si parla in questo caso
di Trattamento Sanitario Obbligatorio o (TSO), disposto dal sindaco, nella qualità di massima
autorità sanitaria su proposta di due medici del Servizio pubblico, quasi sempre due psichiatri.
A Piacenza
“L’azienda sanitaria locale di Piacenza - spiega il dottor Massimiliano Imbesi, psichiatra e
responsabile della comunità riabilitativa “La Sorgente” della Usl cittadina - offre cura ed assistenza
psichiatrica a tutti i cittadini affetti da disturbi psichici attraverso il Dipartimento di salute mentale,
che oggi ha una nuova sede in Piazzale delle Crociate 1”.
È quasi simbolica la nuova collocazione, in una accogliente struttura localizzata proprio nella
piazza dalla quale partì la prima crociata, quasi a voler simboleggiare, involontariamente, un nuovo
corso, una nuova crociata contro la malattia mentale, ma anche, e soprattutto, contro il pregiudizio e
lo stigma sociale.
L’organizzazione del Dipartimento di salute mentale, diretto dal dottor Stefano Mistura, è
complesso e articolato, in grado di dare risposte immediate ad ogni tipo di disagio psichico, dalla
depressione minore fino al trattamento dei casi più complessi di disturbi psichici, ma l’accesso ai
servizi è semplicissimo, molto più facile e agevole di qualunque altro tipo di servizio erogato dalla
Asl.
Le immagini orrende dei manicomi e dei malati ridotti a spettri, sono oggi, almeno a Piacenza, un
ricordo lontanissimo. La realtà oggi è fatta, i molti casi, di luoghi accoglienti e quando sarà
trasferito, tra poco meno di un anno, il servizio psichiatrico di diagnosi e cura , ancora situato
all’interno del vecchio ospedale, anche i malati che necessitano di trattamenti ospedalieri urgenti
potranno usufruire di una struttura eccellente anche dal punto di vista alberghiero, che contribuirà
ad alleviare il disagio legato ad un momento difficile della loro malattia. Non tutte le realtà sono
però uguali. Attualmente alcune realtà locali che riguardano la nuova struttura che si trova inserita
nell’area extraospedaliera chiamata Chiostri di Santa Maria di Campagna, in piazzale delle
Crociate, rappresentano delle punte di eccellenza.
Le comunità
residenziali
“Sono luoghi dove i pazienti risiedono per alcuni periodi - spiega il dottor Imbesi - e nelle quali
sono previste attività di cura e riabilitazione. La finalità generale è quella di aiutare le persone che
presentano una disabilità o uno svantaggio sociale, legati ad una malattia mentale, a raggiungere un
migio livello di autonomia. Il lavoro degli operatori, medici, educatori professionali, infermieri,
assistenti sociali, sono finalizzate a renderli il più possibile autonomi nelle principali attività di
base, nella cura di sé come lavarsi, vestirsi, alimentarsi in modo adeguato e nelle cosiddette abilità
strumentali come fare la spesa, usare il denaro, inserirsi in attività oltre che in quelle interpersonali
e sociali. Nella comunità residenziale ‘La sorgente’, per esempio, abbiamo una quindicina di ospiti
che svolgono attività manuali e artistiche, iserimenti lavorativi sul territorio ma soprattutto
imparano a relazionarsi con gli altri”.
I Centri diurni
Sono strutture semiresidenziali con l'obiettivo di aiutare i pazienti a mantenere la propria
autonomia. Gli utenti possono usufruire dell’ospitalità e dei servizi del centro per una parte della
loro giornata. “Il problema - racconta Imbesi - è che queste persone hanno moltissimo tempo e
niente da fare e sono molto sole; nei centri diurni imparano a stabilire relazioni sane e a recuperare
le funzioni di base”.
E’ dunque un percorso lungo e faticoso accompagnare i pazienti verso una nuova integrazione nella
vita quotidiana, percorso che attraversa varie tappe che prevedono anche l’accoglienza in alloggi di
proprietà dell’Azienda sanitaria, per piccoli gruppi di pazienti, per coloro che la malattia ha escluso
dalla possibilità di vita in famiglia, o che nel corso di anni di malattia hanno perduto il riferimento
ad un nucleo parentale. Queste soluzioni consentono sia la ricostruzione di un proprio contesto
familiare e il reinserimento nella vita sociale e nel lavoro.
“L’obiettivo è mantenerli integrati nella società o reinserirli. Dopo una fase acuta del disturbo, che
può prevedere anche un ricovero, per alcuni è possibile intraprendere una vita quasi normale. Sono
costantemente seguiti da operatori che si assicurano del loro stato di salute e controllano che venga
seguita la terapia farmacologica”, il tutto sempre nell’ambito – non mi stancherò mai di ripeterlo –
di una relazione terapeutica.
“L’ideale - aggiunge Imbesi - sarebbe riabilitare la persona completamente e renderla autonoma,
quando è possibile, - ma resta la questione lavoro. I privati preferiscono assumere un disabile fisico,
ma si tratta soprattutto di pregiudizi, perchè abbiamo pazienti in grado di svolgere alcune mansioni
in maniera piuttosto appropriata”.
Gli anziani
Più critica è la situazione per gli anziani provenienti da una storia di malattia lunga decenni, che
soffrono di elevata disabilità psico-fisica ma necessitano comunque di un’accoglienza capace di
consentire e facilitare tutta la riabilitazione possibile. In questi casi, pur non rinunciando
all’obiettivo della riabilitazione, è gioco-forza trovarsi difronte notevoli bisogni assistenziali.
Coloro che hanno raggiunto i 65 anni, così come il resto della popolazione anziana che necessita di
assistenza, vengono inseriti nelle case protette (RSA) o in case di riposo.
Lo stigma
Le persone con disturbi mentali si confrontano con due problemi: combattere i sintomi e la
disabilità legati al disturbo e combattere stereotipi e pregiudizi che derivano dalla scarsa conoscenza
dei disturbi mentali. La somma dei due problemi determina discriminazione, in una parola
stigmatizza.
“Lo stigma rappresenta una strategia molto efficace per la sopravvivenza del singolo e della
collettività - spiega in dottor Imbesi - serve ad identificare un pericolo, serve a definire con certezza
un margine distintivo tra malattia e normalità, attraverso l’istituzione di un marchio di qualità. In
questo caso deteriore ‘stigma’ significa marchio. Il dottor Corrado Cappa coordina attualmente un
programma di incontri con gli studenti delle ultime classi delle scuole superiori proprio per spiegare
cosa è la malattia mentale, nel tentativo di abbattere i pregiudizi che ancora circondano il
problema”.
“Si pensa che il malato di mente sia pericoloso, incompetente, inaffidabile, debole di carattere…
diverso, eppure l’Organizzazione mondiale della sanità ha dimostrato che la percentuale dei reati
commessi da persone con problemi psichiatrici è uguale a quella dei reati commessi dalle persone
‘normali’. Il pregiudizio tende ad autosostenersi attraverso una lettura condizionata della realtà. Si
pensa: ‘Se il malato di mente è diverso allora… io sono sano’”.
La diagnosi
La malattia mentale spesso non si cura precocemente perché quando comincia a manifestarsi, nella
maggior parte dei casi durante l’adolescenza, non è sempre facilmente individuabile, anche perchè,
ma non solo, a causa delle difese psicologiche che purtroppo inducono i familiari a minimizzare la
situazione, soprattutto quando l’esordio della malattia è insidioso, con sintomi generigi, poco
caratteristici.
“Una diagnosi precoce è fondamentale - conclude Imbesi - ma non sempre è facile perchè non
abbiamo test diagnostici certi. Per esempio la schizofrenia di cui soffre l’1% della popolazione
generale, rappresenta da sempre la grande sfida della psichiatria e ha cause complesse e ancora oggi
non del tutto comprese. Si parla del modello bio-psico-sociale a testimonianza dei molteplici
generatori del disturbo. Più l’intervento è precoce più elevato è il grado di riabilitazione”. Ma
questo complotto del silenzio, che nasce dallo stigma generalizzato nei confronti del disturbo
psichico, è il primo ostacolo alla prevenzione e all’assistenza precoce che diversamente, in un
ambiente più ricettivo, troverebbe una pronta risposta a gran parte dei problemi.
Cristiana Maganuco
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