Capitolo primo2

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Capitolo primo
BISOGNI E VALORI GIOVANILI DAGLI ANNI ‘70 AL 2000
Gli anni settanta hanno rappresentato un momento decisivo per le società occidentali 1, e per
l’Italia in particolare. Dal punto di vista politico e sociale sono stati segnati da turbolenze varie,
dalla contestazione studentesca alla lotta armata, dalle maggiori rivendicazioni sindacali
all’aumento di disoccupazione, dalla ridefinizione dei partiti classici (soprattutto della sinistra) alla
nascita di nuovi soggetti politici.
Per il mondo giovanile indubbiamente il ’68 aveva rappresentato una svolta e, dalle ricerche di
quegli anni, si comprende quanto fosse elevato il silenzioso potenziale contestativo dei giovani,
quanto fosse viva l'ansia di rinnovare la società attraverso una critica radicale alle sue istituzioni, e
quanto fosse allettante la speranza di poter influire sulle strutture politiche. “Dapprima si mise sotto
accusa l’autoritarismo nella scuola, poi si lottò per avere parte alla gestione del potere della scuola,
infine si tese ad analizzare le interdipendenze tra scuola e società” (Tomasi, 1986, 105).
“Considerati i modi in cui quella ondata di ribellione investì il mondo degli adulti, sfuggirono
in quegli anni le ragioni profonde, il significato, le istanze di un movimento così diffuso” (Tomasi,
1986, 105). In genere il mondo adulto si sentì minacciato dalla violenza contestativa (verbale e
fisica) e si chiuse a riccio, nella difesa della tradizione. Infatti “uno degli elementi più tipici fu il
rifiuto della tradizione elaborata e trasmessa dagli adulti; si ingenerò così il fenomeno del
‘giovanilismo’. Il rifiuto della tradizione postulava quello dell'autorità, reputata dannosa alla propria
libertà” (Tomasi, 1986, 105).
In realtà, ciò che la contestazione esprimeva, al di là delle formule e degli stessi proclami
giovanili, era la percezione di un bisogno di rinnovamento di una società, ormai inadeguata ai
processi che essa stessa aveva ingenerato. Infatti, mentre gli anni sessanta potevano apparire come
il punto culminante di un processo di sviluppo ininterrotto dal dopoguerra in poi, gli anni settanta
(ma anche l’ultima parte degli anni sessanta) rivelarono molta più inquietudine e confusione. Dal
punto di vista economico mostrarono evidenti segni di crisi, decretando la fine del concetto di
“sviluppo illimitato”. La fine di tale concetto non riguardava solo l’economia, ma la stessa
concezione del mondo, che aveva guidato fino ad allora la “modernità”. Di fatto, si cominciò a
parlare di “svolta epocale” e si tentò progressivamente di ridefinire la nuova epoca, ricorrendo ai
“post” (post-industriale, post-moderno, post-fordista, ecc.) per distinguerla dalla precedente, senza
però segnarne una cesura definitiva.
Anche dal punto di vista dell’analisi sociale si pose l’accento sulle difficoltà crescenti di una
società sempre più complessa ed ingovernabile, contro le letture dicotomiche e i nessi causali
lineari, tipici delle analisi degli anni precedenti.
1. Inizio anni ’70: le teorie del cambio culturale
La contestazione, protrattasi per alcuni anni dopo il '68, disorientò molti. Per anni le analisi
sociologiche privilegiarono la lettura politica di questo periodo. Ma non tutti si uniformarono a
questa tendenza. Alcuni autori percepirono che, più che un mutamento strutturale, come invocavano
i contestatori, era in atto un cambiamento a livello culturale. Per questo le teorie che indagarono su
questa dimensione furono denominate del “cambio culturale”. Tali teorie furono espresse, a livello
1 Tale opinione è sostenuta e condivisa da vari autori: “nella seconda metà del secolo XX, soprattutto a cominciare dagli anni
Settanta, è avvenuto un «mutamento antropologico», cioè è sorto nel mondo occidentale (Europa occidentale e America del Nord) un
nuovo modello culturale di uomo, con caratteri che lo contraddistinguono dalle figure umane del passato, anche recente” ( La Civiltà
Cattolica, 2002, 524–525). Tra le date più significative vengono indicate: la pubblicazione del libro “I limiti dello sviluppo” (1970),
l’esplosione della crisi petrolifera in seguito alla guerra arabo-israeliana (1973) e la conseguente crisi economica (Ungaro, 2001,
106). Ma anche atti politici dovuti all’amministrazione americana, che, sotto la presidenza di Nixon, decretò la cessazione del
rapporto di parità tra dollaro e oro (1971), e la fine dei limiti alla circolazione dei capitali (1974), segnando, di fatto, l’inizio della
globalizzazione (Salvini, 2002, 550).
mondiale, da Inglehart e, a livello nazionale, da Tullio-Altan e dal Grasso. Tali teorie partivano
dalla convinzione che l’emergenza di nuovi valori nascesse dalla percezione giovanile di nuovi
bisogni, conseguenti allo sviluppo socio-economico di quegli anni.
Queste impostazioni di ricerca possono fornire indicazioni interessanti per comprendere la
società e i giovani, soprattutto per un’analisi dei loro bisogni. Perciò abbiamo deciso di avvalerci
delle loro indagini per ritrovare una chiave interpretativa dei mutamenti, intervenuti nella società da
allora fino ad oggi. Attraverso tali teorie cercheremo di individuare quali bisogni e quali problemi o
disagi si sono storicamente manifestati nelle società occidentali, soprattutto a livello giovanile,
europeo e italiano, dagli anni ‘70 ad oggi.
1.1. Dal materialismo al postmaterialismo
Inglehart, utilizzando una vasta mole di dati ottenuti da varie indagini promosse dalla Comunità
Europea, ebbe la possibilità di verificare una sua ipotesi di partenza che, cioè, nei paesi occidentali
che avevano raggiunto un notevole grado di benessere, fosse in atto un mutamento sostanziale nei
valori che egli chiamò “rivoluzione silenziosa”. Utilizzò come teoria di riferimento la gerarchia dei
bisogni elaborata da Maslow (1973), secondo la quale gli individui soddisfano i loro bisogni in un
determinato ordine, secondo l’urgenza in rapporto alla sopravvivenza. La priorità massima viene
data ai bisogni fisiologici. Quando questi sono soddisfatti ci si rivolge a bisogni di sicurezza fisica.
“Qualora un individuo ha raggiunto la sicurezza fisica ed economica può iniziare a perseguire altri
obiettivi non materiali […], il bisogno di amore, di appartenenza e di stima […]; successivamente si
profila una serie di obiettivi correlati al soddisfacimento intellettuale ed estetico” (Inglehart, 1983,
47). Questi ultimi vengono chiamati “bisogni di autorealizzazione”.
Ora, siccome nei vent’anni precedenti i paesi occidentali avevano goduto di una prosperità
economica mai raggiunta prima e di un lungo periodo di pace (e quindi di sicurezza), ipotizzò che
notevoli quantità di soggetti stessero spostando il loro interesse da obiettivi di tipo primario
(sopravvivenza e sicurezza) ad obiettivi di tipo secondario. A sostegno di quest’ipotesi ritenne che
potessero contribuire anche altri fattori: l’espansione dell’istruzione superiore, lo sviluppo delle
comunicazioni di massa, le differenti esperienze formative delle nuove generazioni.
Dal momento che “la gente tende a mantenere nel corso della vita adulta una serie di priorità
dei valori dopo che questi si sono consolidati durante gli anni formativi […], possiamo pensare che
i gruppi di giovani, e in particolare quelli cresciuti dopo la seconda guerra mondiale, diano meno
enfasi alla sicurezza economica e fisica” (Inglehart, 1983, 47). Pertanto dovrebbero essere
soprattutto i più giovani a mostrare i segni di questo spostamento culturale, e quindi a manifestare
maggior attenzione ai valori post-materialisti.
Inoltre ipotizzò che al mutamento di valori corrispondesse anche uno spostamento nelle
preferenze elettorali. In particolare che all’appartenenza di classe si stesse sostituendo un’adesione
partitica in base ad orientamenti di valore. Ipotizzò quindi che si sarebbe potuto constatare uno
spostamento nelle preferenze elettorali: i benestanti verso sinistra e i più poveri verso destra.
Un’altra ipotesi che avanzò, come conseguenza dello spostamento dei valori, fu quella del
“declino della legittimità dell’autorità gerarchica, del patriottismo, della religione” (Inglehart, 1983,
26), con caduta della fiducia nelle istituzioni.
1.1.1. Gli indicatori
Per verificare la sua ipotesi Inglehart ebbe a disposizione i dati dei sondaggi di opinione
effettuati a varie riprese negli anni 1970-1982 tra tutta la popolazione di 9 paesi della Comunità
Europea. Inoltre, per alcuni anni, anche dei dati di ricerche condotte in Svizzera e negli Stati Uniti.
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a) Egli, in un primo momento (1970-1971), inserì nel questionario una domanda con 4 item
indicatori di “materialità/post-materialità” (indice corto), che suonava così:
“Se dovesse scegliere tra le seguenti cose, quali sono le due più importanti per lei?
- Mantenere l’ordine nella nazione.
- Dare alla gente maggior potere nelle decisioni politiche importanti.
- Combattere l’aumento dei prezzi.
- Proteggere la libertà di parola” (Inglehart, 1983, 51).
b) Nei sondaggi successivi (dal 1973 in poi) aggiunse altre domande per rilevare con maggior
precisione lo spostamento dei valori. Produsse un indice con 12 item (indice lungo), che
metteva maggiormente in evidenza la dimensione “materialista/postmaterialista”. Tuttavia i
risultati non differirono da quelli degli anni precedenti. Il che significava che il primo indice
era sufficiente. I due indici vennero utilizzati alternativamente. Ne risultarono delle “scale di
atteggiamento” che comprendevano a livello più basso i bisogni fisiologici (o materialisti):
bisogni di sostentamento (lotta all’aumento dei prezzi, favorire la crescita economica,
assicurare un’economia stabile) e i bisogni di sicurezza (mantenere l’ordine, lotta alla
criminalità, garantire la difesa nazionale); a livello più alto i bisogni sociali e di
autorealizzazione (post-materialisti): bisogni di appartenenza e stima (maggior potere
decisionale nel governo, sul lavoro e nella comunità, società meno impersonale), intellettuali
ed estetici (libertà di parola, preminenza delle idee, città più belle/natura).
c) Inoltre vennero aggiunte altre domande che rilevano il mutamento degli obiettivi personali in
ordine al lavoro, alla dimensione provinciale/cosmopolita, all’innovazione, all’orientamento
politico.
1.1.2. I risultati
I dati raccolti confermarono tutte le ipotesi di Inglehart.
a) Innanzitutto venne rivelata dall’analisi fattoriale l’esistenza di un carattere (o dimensione)
post-materialista tra le popolazioni in esame. Infatti nel primo fattore gli item indicatori di
post-materialismo risultavano tutti correlati positivamente tra loro e negativamente con quelli
materialisti. Solo l’indicatore estetico non risultò significativo per questo fattore.
b) Venne confermata l’ipotesi di una ascesa dei valori post-materialisti nelle popolazioni
occidentali e la persistenza negli anni del fenomeno. Per la prima volta nella storia questi
valori diventavano significativi presso quote consistenti di popolazione fino ad arrivare a
competere alla pari con i valori materialisti.
c) Venne confermata l’erosione della fiducia verso i partiti e le istituzioni tradizionali.
d) Venne confermata l’esistenza di correlazione tra declino dei valori materialisti e avanzamento
delle “sinistre”: i soggetti postmaterialisti tendevano a sostenere maggiormente i partiti di
sinistra, nonostante notevoli diversità tra paese e paese.2
e) Venne confermata l’incidenza della socializzazione nella formazione dei valori, per cui i
valori riflettono gli orientamenti assunti durante il periodo formativo. Tale orientamento si
2 “In ognuno dei dieci paesi il declino dei valori materialisti è associato alla crescita del sostegno di posizioni politiche di ‘sinistra’
o liberal. In media, circa il 46 per cento degli intervistati che appartiene al tipo materialista puro si colloca a sinistra; del tipo
postmaterialista puro si ha invece l’80 per cento. La forza della relazione varia da un massimo in Francia e in Italia a un minimo in
Irlanda e Belgio, ma in ogni caso il tipo postmaterialista puro è situato a sinistra di ogni altro gruppo” (Inglehart, 1983, 83).
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manteneva negli anni, nonostante fattori contingenti potessero determinare uno spostamento
generale di orientamento.
f) Vennero scoperte correlazioni significative tra carattere postmaterialista e scelte personali: sul
lavoro (più propenso all’espressività: soddisfazione personale e buoni rapporti interpersonali),
sull’appartenenza geografica (orizzonte più ampio, carattere universalista), verso le novità
(più attratto).
g) Venne confermata la dipendenza del tipo di valori dall’istruzione, e quindi che il carattere
postmaterialista si correlava positivamente con un più alto livello di istruzione (soprattutto se
universitaria).
h) Si scoprì che anche altre variabili producevano differenze significative rispetto all’essere
materialista o postmaterialista: professione di una fede religiosa (correlazione negativa con
postmaterialista), sesso (positiva per l’uomo, negativa per la donna), età (negativa), iscrizione
al sindacato (positiva), nazionalità, occupazione del capofamiglia.
1.2. I valori postborghesi
Anche in Italia, negli anni ‘70, alcuni studiosi recepirono il mutamento di clima culturale e,
almeno inizialmente, indipendentemente dai lavori di Inglehart, condussero delle ricerche allo
scopo di cogliere le novità in campo culturale tra i giovani.
Il lavoro sociologico di maggior rilievo fu quello di Tullio-Altan, che si muoveva in una
prospettiva socio-antropologica.
1.2.1. L’ipotesi
La sua analisi non fu motivata dalla volontà di verificare un’ipotesi scientifica, come Inglehart,
ma da osservazioni dirette. Tullio-Altan, in base alla sua esperienza universitaria, volle capire i
motivi dell’inquietudine che serpeggiava nel mondo studentesco. Si rese conto che alcuni temi
suscitavano più intense reazioni emotive: cioè quando si trattavano temi che riguardavano il
problema del rapporto con gli altri. In particolare essi “si dichiaravano insoddisfatti del tipo di
società in cui vivevano, soprattutto perché i contatti che essi avevano nei rapporti sociali risultavano
inautentici e frustranti e dicevano di aspirare ad una socialità diversa, nella quali i rapporti fossero
migliori. Ma quando veniva affrontato il tema dell’alterità, del prossimo, allora sembrava scattasse
una meccanismo preciso culturalmente ben definito e psicologicamente molto attivo: il prossimo è
una realtà negativa, strumentale, con la quale ci si deve costantemente confrontare” (Tullio-Altan,
1974, 17). Da queste osservazioni l’autore trasse spunto per la formulazione dell’ipotesi secondo
cui “una delle ragioni dello stato d’inquietudine e d’insoddisfazione che si avverte chiaramente tra i
giovani dipende da una contraddizione fra un certo livello di aspirazione a una socialità più
autentica, che passi attraverso un rapporto interpersonale gratificante, e un modello dell’altro,
culturalmente ben strutturato, che induce al rifiuto, alla strumentalizzazione e alla svalutazione
dell’alterità, in luogo di portare ad una positiva accettazione” (Tullio-Altan, 1974, 17).
1.2.2. I risultati
I risultati confermarono l’ipotesi: “le aspirazioni dei giovani ad una socialità più autentica
trovavano un forte ostacolo alla loro realizzazione nel modello culturale – assorbito dall’ambiente
sociale e dalla famiglia in particolare – che prospetta l’altro da sé come un’entità strumentale o
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negativa” (Tullio-Altan, 1974, 19). Questa sfasatura si stava accentuando, indice che “l’esigenza di
una nuova società sembra essersi fatta più pressante” (Tullio-Altan, 1974, 19).
La spiegazione di tale fenomeno l’autore la attribuì ai processi di socializzazione, che
trasmettevano dei modelli culturali, dipendenti dal sistema socio-economico, diversi da quelli di cui
i giovani sentivano bisogno3. Pertanto emergevano due sistemi di valore nei giovani italiani, tra loro
contrastanti: da una parte valori di tipo acquisitivo o tradizionale, dall’altra valori di tipo espressivo
o innovativo. Tali sistemi erano compresenti nei soggetti intervistati, ma con intensità maggiore o
minore a seconda della classe sociale, del livello di cultura, del tipo di professione.
Applicando la scala di conservatorismo fece una scoperta in contrasto con le aspettative: “i
giovani che provengono dai ceti medi e medio-alti si collocano sistematicamente ai più bassi livelli
di conservatorismo e quindi in corrispondenza con le scelte politiche considerate di sinistra, mentre
i giovani che provengono dalla classe operaia si collocano sistematicamente ai livelli più alti di
conservatorismo e di conseguenza sulle posizioni occupate dai giovani che scelgono i partiti di
destra” (Tullio-Altan, 1974, 12). Questo venne confermato anche dall’applicazione delle altre tre
scale di Berkeley. Nel complesso apparivano evidenti correlazioni, in un forte numero di giovani
italiani, tra aspirazione ad una socialità più autentica, accettazione positiva dell’alterità,
atteggiamento religioso aperto. A ciò si aggiungevano significative risposte sulla sensibilità alle
ingiustizie sociali, disponibilità all’azione politica, interesse ai problemi politico-sociali e
accettazione del principio della lotta di classe. Questi dati, riscontrati in soggetti di buon livello
culturale e sociale, ponevano notevoli problemi d’interpretazione.
1.2.3. Convergenze e differenze con le teorie di Inglehart
Questo tipo di risultati costrinse il nostro autore ad allargare la prospettiva alla dimensione
internazionale ed europea e collegarsi agli studi di Inglehart 4. Da questo confronto trasse la
convinzione che con l’avvicendarsi delle generazioni si sarebbe prodotta una radicale rivoluzione
nella società, perché i valori postborghesi comportavano uno stile di vita che investiva tutti gli
aspetti dei rapporti sociali, e non solo quelli economici.
Per spiegare i fenomeni che rilevava egli ricorse al contributo di altri studiosi, oltre a Maslow:
Marx e Malinowski, che permettevano di tener conto anche delle condizioni storico-sociali (Marx) e
culturali (Malinowski). In questi due autori il nostro scoprì delle singolari convergenze con la teoria
gerarchica di bisogni di Maslow.
Stando al contributo di tali autori emergevano a tre tipi fondamentali di bisogni, più o meno
corrispondenti:
a) quelli biologici, comuni a tutti gli esseri viventi: i bisogni istintoidi di base di Maslow, i
bisogni fisici di Marx e gli imperativi primari di Malinowski;
b) quelli dei sistemi sociali, che possono essere fatti propri dagli uomini che vivono in quei
sistemi, sia in condizione di privilegio sia in condizione subordinata (sottoproletariato
alienato): gli “imperativi derivati” di Malinowski e, in un certo senso, i bisogni di sicurezza di
Maslow;
c) i bisogni superiori di autorealizzazione, cioè i “metabisogni” di Maslow, il “bisogno ricco” di
Marx, gli “imperativi integrativi” di Malinowski.
3 “La concezione dell’altro come strumento, per esempio, è strettamente legata ad un modo di produzione nel quale il lavoro è una
merce come un’altra, o nel quale le esigenze dei singoli sono strutturalmente subordinate a quelle dello sviluppo del sistema
produttivo. [Invece nelle giovani generazioni stava nascendo] il bisogno di un diverso tipo di socialità, su cui questo modello di
sfruttamento come prospettiva sull’alterità direttamente contrasta” (Tullio-Altan, 1974, 20).
4 “I valori postborghesi della ricerca Inglehart stanno sullo stesso piano dei nuovi valori cui si riferiscono i rilievi condotti con gli
strumenti usati dalla ricerca ISVET: l’aspirazione ad una socialità più autentica, l’accettazione positiva dell’alterità e la carenza di
quelle caratteristiche della personalità tradizionale che hanno come base un ordine garantito da una concezione dogmatica e
autoritaria della vita, cui si associa un’etica del lavoro e del guadagno che è quella del capitalismo in fase di affermazione” (TullioAltan, 1974, 58).
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Secondo queste teorie appariva che tali bisogni si disponevano in una posizione gerarchia,
per cui dalla soddisfazione dei primi veniva resa possibile la manifestazione dei successivi.
Un aspetto in cui Tullio-Altan si discostò nettamente dalle posizioni di Inglehart fu il ruolo
riservato agli intellettuali per la realizzazione di tale rivoluzione. Consapevole degli innumerevoli
ostacoli che sarebbe sorti di fronte alla pretesa rivoluzionaria dei giovani, egli riteneva che gli
intellettuali, conforme alla lezione gramsciana, avessero il compito di immaginare e delineare il
futuro della società. Una società in cui doveva esserci spazio per una socialità più autentica e
personalizzata, con un’accettazione positiva dell’alterità; società i cui tratti non si conoscevano
ancora e la cui cultura doveva essere immaginata in maniera originale.
1.3. La transizione culturale
Già da anni Grasso stava conducendo delle ricerche e delle riflessioni sulla “transizione
culturale” in atto tra i giovani. Egli impiegò questo termine per descrivere e spiegare le novità,
stavano emergendo tra i giovani italiani.. Quelli che erano i compiti che lo struttural-funzionalismo
assegnava allo status giovanile, cioè, il “passaggio dall’ambito familiare (solidaristico, ascrittivi,
particolaristico) al contesto sociale generale (individualistico, acquisitivo, universalistico)” (Grasso,
1974, 20), l’autore lo generalizzò per tutta l’Italia. Un paese che, in seguito alla rapida
industrializzazione del dopoguerra, si era trovato rapidamente inserito nella società moderna senza
averne i requisiti culturali. In Italia, infatti, risultavano profondamente radicati i valori tradizionali e
la cultura rurale: una cultura sostanzialmente “familistico-comunitaria”, che “privilegia
l’assorbimento dell’individuo nel gruppo familiare e la sua chiusura in un orizzonte di rapporti
primari” (Grasso, 1974, 27). Cultura in cui prevaleva un modello di rapporto “egocentricoparticolaristico”. Cultura inadatta ad un paese moderno, che esige un modello di rapporti di tipo
“allocentrico-universalistico”. Pertanto, secondo il nostro autore, i giovani avrebbero costituito un
osservatorio privilegiato delle trasformazioni culturali proprie di una società moderna: una società
in cui, ai valori acquisitivi tipici del primo capitalismo, si andavano sostituendo esigenze di tipo
solidaristico, tipiche di una società avanzata. Ma le esigenze manifestate dai giovani erano in
conflitto con la struttura tradizionale della società italiana. Questa era, a giudizio dell’autore, il
motivo contestazione giovanile: l’espressione del profondo malessere presente nel paese, che i
giovani avrebbero percepito in maniera più distinta, proprio perché il loro sistema di valori stava
cambiando5.
1.3.1. Valori e istituzioni
La ricerca che prendiamo in esame (Gioventù e innovazione, 1974) fu applicata all’intero
universo degli studenti superiori medi italiani nell’anno scolastico 1970-71. In essa si registrò
l’ascesa di nuovi valori, tra cui emergevano quelli di tipo “sociale”, “con tendenza al
superamento delle lealtà particolaristiche (primarie) e apertura ai valori ‘politici’, di solidarietà
tendenzialmente universalistiche” (Grasso, 1974, 144). Netta appariva l’aspirazione ad una
società più giusta, libera, progressista. Pertanto veniva confermata l’adesione ai valori
“progressisti”, mentre erano in declino quelli tradizionali. Infatti, emergeva una concezione
della sessualità più libera e disinibita rispetto al passato, senza condizionare l’esercizio della
sessualità al vincolo matrimoniale. La famiglia non rappresentava più l’orizzonte entro cui
5 “La condizione giovanile rappresenterebbe […] una dimensione della crisi della società di massa e dell’incapacità di gestione
realmente democratica dello sviluppo economico-sociale. Nell’assenza sostanziale di un disegno politico, la condizione giovanile
esprime con diverse modalità, e anche con esplosioni improvvise e movimenti di timbro collettivo, le più significative contraddizioni
della struttura sociale italiana” (Grasso, 1974, 23).
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confinare la vita: si dichiaravano più leali verso la società e lo Stato che verso la famiglia.
Attribuivano molta fiducia alla scienza, erano favorevoli alla politicizzazione della scuola. Si
sentivano democratici, respingendo tentazioni dittatoriali o estremiste. I diritti ritenuti
fondamentali erano quelli inerenti l’autorealizzazione della persona. Sul piano morale si
manifestavano nuove dimensioni valoriali, soprattutto la convinzione che non fosse più
necessaria una fede per un autentico sviluppo morale della persona. La Chiesa non godeva più
della loro fiducia incondizionata.
1.3.2. Disagio per i sistemi culturali in conflitto
Il contributo più originale di questa ricerca fu la scoperta del motivo della resistenza al
cambiamento, sia a livello sociale, nelle istituzioni e nelle strutture sociali, sia a livello individuale,
nella tensione tra sistemi culturali all’interno della persona stessa. I giovani, infatti, da una parte
erano affascinati dai valori “moderni” e, dall’altra, avvertivano la resistenza interna dovuta ad un
sistema di valori ben strutturato già in tenera età.
Ciò portò l’autore a sostenere la mancanza “di una struttura psicologica unitaria o di un
tratto globale che integri con qualche coerenza i diversi atteggiamenti” (Grasso, 1974, 176).
Cosicché anche i valori espressi e/o i diritti difesi non sembravano emanare da una concezione
unitaria della persona, bensì dalla loro appetibilità e fruibilità privata o dalla desiderabilità sociale.
Ne conseguiva la coesistenza psicologica di due sistemi di valori sovrapposti senza integrazione.
La maggior difficoltà d’integrazione si percepiva particolarmente nei soggetti di bassa
condizione sociale e culturale, appartenenti alle aree più arretrate del paese (Sud, comuni di piccola
grandezza, aree rurali), mentre gli appartenenti alle classi sociali più elevate e culturalmente
preparate, e alle aree sociali più avanzate, dimostravano un atteggiamento più critico verso il
passato ed una miglior predisposizione ai valori moderni6. Ciò non voleva dire che gli studenti di
estrazione inferiore non perseguissero obiettivi progressisti, solo presentavano delle caratteristiche
di “immaturità” in parecchie loro reazioni7.
Ne conseguiva un aumento di disagio, che colpiva in maniera particolare i soggetti a più alto
tasso d’innovazione (aree metropolitane, Nord, allievi di scuole umanistiche), oltre ai soggetti più
esposti alla tensione del cambio culturale (femmine, più anziani). Ciò non fu imputato a cause
psicologiche “evolutive”, bensì ad elementi ansiogeni provocati dalla mancata integrazione tra
sistemi, sia a livello sociale che personale. Infatti, “la rottura del conformismo sociale e la crisi dei
rapporti di solidarietà con le istituzioni più socialmente rassicuranti, comporta senso d’insicurezza e
di sconcerto psichico. Che dipendesse da tali fattori i disagio venne dimostrato anche dalla
correlazione positiva tra livello di innovazione e stato d’ansia. A ciò si aggiungeva la
6 “Dal confronto sistematico tra originari di classi superiori e originari di classi inferiori sembra potersi dedurre che le differenze
culturali si rivelino connesse con la situazione socio-economica del gruppo sociale di appartenenza, nel senso che a tale situazione
corrispondono diverse condizioni di sviluppo della personalità, direttamente o indirettamente influenti sull’assunzione di un dato
sistema di atteggiamenti. Così, l’inferiorità socio-economica tende a tradursi in inferiorità «mentale» e, quindi, culturale (qui intesa
come resistenza all’innovazione).
Gli originari delle classi inferiori si rivelano meno «maturi», globalmente, dei loro compagni socialmente privilegiati: in questi
ultimi appare, ad esempio, più avanzato il processo mentale di differenziazione e di integrazione degli elementi della realtà sociale,
con più diffusa capacità di percepire «universalisticamente» il dato di esperienza e di recepire più criticamente le influenze
ambientali” (Grasso, 1974, 362s.).
7 “Si può ritenere confermato anche dalla presente ricerca il carattere immaturativo di parecchie reazioni a significato culturale dei
giovani di classe inferiore. Un segno di tale «immaturità» è dato dalla «difensività» che caratterizza maggiormente le risposte di quei
soggetti: essi tendono ad utilizzare intensivamente meccanismi inconsci di difesa psichica, piuttosto che procedimenti a carattere
razionale e «obiettivo». Si potrebbe vederne una prova nella tendenza impunitiva dei nostri soggetti di estrazione popolare nel
giudicare la loro famiglia: piú condizionati all’in-gruppo familiare e alla sua cultura tradizionale, questi soggetti risentono
maggiormente del contrasto con le figure parentali censuranti le loro «deviazioni» innovative e i loro tentativi di azione contestativa:
di qui la loro tendenza a liberarsi difensivamente del conseguente senso di colpa con razionalizzazioni che minimizzano le
responsabilità dei familiari e imputano il contrasto a cause «impersonali», così da non compromettere il clima affettivo familiare da
cui dipendono - in modo piú «condizionato» - per la loro tranquillità psichica” (Grasso, 1974, 363s.)
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consapevolezza di marginalità sociale della propria situazione (culturale e strutturale), con
sensazione d’isolamento ed estraneità.
Ciò poteva spiegare anche il “riflusso” dall’ondata constestativa. Egli lo leggeva nei
termini di un “dramma psicoculturale”: “gran parte dei giovani non ha ‘sopportato’ la difficile
situazione psicologica di insicurezza e di isolamento conseguente alla rottura di quelle solidarietà e
il senso di colpa provocato dalla rinuncia alla conformità con la tradizione culturale (rinuncia
percepita più o meno consciamente come ‘tradimento del padre’ e ‘abbandono della protezione
affettiva della madre’) […] Molti dei giovani contestatori (la maggioranza della popolazione
studentesca) si sono sentiti ‘persi’ e hanno preferito, in definitiva, tornare alla ‘casa del padre’ e alla
sicurezza del ‘grembo materno’” (Grasso, 1974, 364-365).
C’era quindi un bisogno d’integrazione, accanto a quello di una socialità più autentica. Il
Grasso riteneva che fosse necessaria l’istituzionalizzazione dei nuovi valori, per far acquisire da
parte della società l’istanza innovativa proveniente dai giovani.
2. Seconda metà degli anni ’70: cambiamento nei valori e nei bisogni dei
giovani italiani
Le ricerche appena illustrate risentivano del clima particolare creatosi nella società ed in
specie tra i giovani alla fine degli anni ’60 e nella prima metà degli anni ’70. Ma nella seconda metà
degli anni ‘70 si determinò un profondo mutamento del costume e della condizione giovanili in
Italia. All’epoca dell’impegno politico e della militanza attiva per una trasformazione del sistema si
andò sostituendo un atteggiamento meno idealista e più pragmatico, in concomitanza con una
situazione socialmente più instabile. Il sistema politico tradizionale ed i ceti conservatori si
irrigidirono, respingendo ogni domanda di innovazione. Divenne evidente la sua incapacità di
gestire le richieste di cambiamento della società civile (Leccardi, 1987, 5). Il movimento del ’68,
che aveva puntato tutte le sue carte sulla politica, rimase orfano di punti di riferimento: le
organizzazioni della sinistra extra-parlamentare entrarono pesantemente in crisi. L'ottimismo che
aveva caratterizzato il clima giovanile all'inizio degli anni Settanta cedette il passo a sempre più
inquietanti simboli di morte (Borgna, 1984, 131). Il dissenso prese due strade opposte, o si
radicalizzò, trasformandosi in una lotta armata sistematica, o, nella maggior parte dei casi, divenne
indifferenza verso la politica ed i progetti di riforma. La prima strada portò al sequestro dell’on.
Aldo Moro da parte delle “Brigate rosse” nella primavera del 1978 e alla sua successiva uccisione;
la seconda al riflusso, come fu denominato dai media il ritiro dei giovani dall’ondata partecipativa e
conflittuale.
La crisi economica, iniziata attorno al '72, non si risolse, anzi da congiunturale divenne
strutturale. Iniziò in questi anni una serie di ristrutturazioni nel campo industriale che sembrava
obbedire alla "spontanea mobilitazione del capitale finalizzata al recupero dei profitti" (Graziani,
cit. da Leccardi, 1987, 5) più che a scelte programmatiche. A risentirne fu soprattutto l'occupazione
giovanile. Se questo problema accomunava quasi tutti i paesi dell'Occidente industrializzato, in
Italia esso assunse proporzioni enormi8. Particolarmente penalizzato fu il lavoro intellettuale, per la
mancanza di grosse industrie in grado di assorbire la forza lavoro qualificata9.
Il sistema scolastico italiano appariva sostanzialmente immobile. Alla forte espansione di
cui era stato fatto oggetto si accompagnava il suo elevato grado di “de-professionalizzazione”, vale
8 “Nel periodo compreso tra il 1974 ed il 1977, il numero di giovani disoccupati triplica. Nel luglio 1979 il numero di giovani in
cerca di prima occupazione sono 1.375.000, vale a dire il 73% di coloro che cercano lavoro. In questo periodo il tasso di
disoccupazione è pari al 33% dei giovanissimi dai 14 ai 19 anni e del 21.4% per i giovani dai 20 ai 24 anni. Il fenomeno coinvolge
soprattutto le ragazze e i giovani dell'Italia meridionale ed insulare” (Leccardi, 1987, 5).
9 “Tra i giovani in possesso di un diploma tra i 20 e i 24 anni, il tasso di disoccupazione si aggira introno al 36%” (Frey, cit. da
Leccardi, 1987, 5).
8
a dire, scarsa o nulla capacità di formare quadri intermedi. Il sistema d’istruzione medio-superiore si
era andato trasformando in un sistema di scorrimento verso gli studi universitari, perdendo
progressivamente le proprie capacità professionalizzanti. La formazione scolastica, priva di sbocchi
professionali, perdeva senso e finalità: la figura delle studente finiva per evocare anticipatamente
quella del disoccupato (Leccardi, 1987, 5-6).
2.1.1. La ricerca d’identità
La sempre più difficile transizione scuola/lavoro e l'assenza di prospettive di mutamento
condizionarono pesantemente il tipo di rapporto del giovane con il mondo istituzionale. Sancita la
fine del tempo dell'utopia e dei progetti totalizzanti, il futuro divenne incerto, e fu abbandonata
l'idea che di poterlo mutare con un'azione collettiva. Di fronte all'insensibilità e alla fondamentale
immutabilità del sistema politico ed al prevalere in economia delle leggi del mercato sui diritti e
bisogni dell'uomo, prese il sopravvento un senso d’impotenza e di rassegnazione (Leccardi, 1987,
6).
I bisogni che emersero con maggior evidenza in tale situazione furono quelli di sicurezza e
d’identità. Cambiando lo scenario sociale la ricerca dell’identità diventò il tema cruciale di quegli
anni10. Emarginati dalle aree produttive e decisionali del paese, i giovani degli anni ‘70 furono
costretti a cercare nuove strade per definirla. Gli adolescenti di quegli anni dimostrarono “una
funzione attiva nella determinazione del proprio destino” (Polmonari, 1979, 379). In una situazione
di complessità e disorientamento culturale la ricerca dell’identità imboccò percorsi molto
diversificati, rispondenti a criteri più soggettivi. La tensione dell’adolescente a definire la propria
identità si specificò sia nel tentativo di riconoscere se stesso in rapporto agli altri, sia come
chiarificazione a sè delle proprie mete (sé ideale) e dei mezzi necessari per raggiungerle
(Polmonari, 1979, 379).
Emerse così un tratto caratteristico della gioventù di quegli anni: la ricerca d’identità, invece
di concentrarsi su un ruolo, su un modello unico, su un’ideologia ben definita, imparò ad
approfittare di tutte le opportunità che la società offriva, senza preclusioni ideologiche. L’identità
perdeva “un centro per acquistarne molti” (Leccardi, 1987, 8). L’identità si fece più aperta e
componenziale e, nello stesso tempo, più suscettibile di crisi. Infatti, a fronte di questa
liberalizzazione dei percorsi dell’identità, si profilava la precarietà e debolezza delle soluzioni. Così
si cominciò a parlare di “identità imperfette”.
2.1.2. Nuovi bisogni giovanili
Il venir meno delle certezze sociali, economiche, politiche e culturali tradizionali, costrinse i
giovani a ripiegarsi su nuovi bisogni. Le risposte organizzate dei gruppi giovanili in questo periodo
imboccarono una doppia strada: pratica della violenza come necessità individuale e collettiva da
una parte, negazione dello spirito competitivo o esaltazione di componenti ludico-erotiche dall’altra
(Rositi, 1978, 125). Di questa sensibilità si fece interprete sopratutto il “movimento del ’77”,
denominato anche degli “indiani metropolitani”11. Per una parte di essi l’affermazione dell’alterità
10 “La ricerca di un’identità socialmente plausibile, e in parallelo, la crisi dei percorsi tradizionali della sua definizione caratterizza
lo scenario sociale della seconda metà degli anni ‘70. Questa ricerca è direttamente legata al problema del senso globale da assegnare
alla propria esistenza: un problema, specie per chi è studente, di non facile soluzione” (Leccardi, 1987, 6).
11 Gli “indiani metropolitani” furono un movimento composto prevalentemente da studenti universitari non frequentanti, di
Bologna e d’altre città italiane. Essi fecero dell’esperienza dell’emarginazione un punto “forte”, quasi una nuova identità della
condizione giovanile. L’esclusione dal lavoro, dalla scuola, dal flusso delle decisioni politiche furono da essi rielaborate in chiave
d’autoidentificazione. “Il movimento del ‘77 è un tipico esempio dell’innesto di nuove domande giovanili legate all’identità, sui
problemi prodotti dalla crisi economica, dagli squilibri tra scuola e mercato del lavoro, dall’aumento della disoccupazione giovanile e
9
dei propri bisogni, rispetto ai fini delle istituzioni, si tradusse nella rivendicazione di un’identità
“altra”, per mezzo della quale esprimere, in modo trasgressivo ed ironico, i “bisogni radicali”. La
vita privata, l’affettività, le scelte esistenziali, anche minute, acquistarono statuto politico. Ci si
definiva in base a ciò che si rivendicava (Leccardi, 1987, 7).
Terminata quest’ondata collettiva, rimase solo l’aspetto privato del problema, che comportò
un maggior risalto ai bisogni individuali. La ricerca della felicità, di esperienze gratificanti (sia
individuali che di piccolo gruppo), il principio del piacere, la rinuncia all’impegno furono il
denominatore comune che contraddistinse la generazione “fine decennio”. Dopo anni di turbolenze
i giovani abbracciarono un individualismo non conflittuale e difensivo (Borgna 1979, 407). Di qui il
rilievo dato al tempo libero, al divertimento, alla libera espressione dei propri bisogni ed ad una
ricerca della propria autorealizzazione intesa come autoespressione. I nuovi interessi giovanili
furono “l’amore, la sessualità, la nuova coppia, il corpo, la poesia ed ogni espressione creativoartistica” (Leccardi, 1987, 7).
Presero corpo fenomeni nuovi come:
a) L’aggregazione, fondata prevalentemente sul calore del gruppo, sulla dimensione
affettiva e relazionale, con preferenza per la comunicazione gestuale su quella verbale.
b) La musica, con l’esplosione della “febbre del sabato sera”, l’invasione di balere e
discoteche12, favorita anche dalla nascita e diffusione di miriadi di radio (circa 4.000 nel
‘79) e TV private (600 circa).
c) Il “ritorno del sacro”, con manifestazioni quali il “culto dell’Oriente”, la diffusione di
sette e movimenti religiosi, la ripresa della pratica religiosa. Tuttavia il ritorno al sacro
solo in pochi casi coincise con un ritorno alla religione di Chiesa, sovente si tradusse in
una ricerca di significato, con l’esplorazione personale di percorsi di senso al di fuori
delle istituzioni tradizionali (Borgna, 1984, 137-141).
Rispetto, invece, agli atteggiamenti politici e culturali, Ricolfi e Sciolla (1980), scoprirono
che esisteva ancora una notevole quota di giovani impegnati (soprattutto nelle associazioni) per i
quali i valori della contestazione erano ancora vivi13. Piuttosto, era mutata l’intensità della
partecipazione, “l’aggressività ideologica” dei “sessantottini” (quelli più politicizzati). I giovani del
‘78 apparivano più “disincantati”, credevano meno negli strumenti politici per realizzare i valori di
cui si sentivano portatori.
Il nucleo centrale del cambiamento risiedeva nella ripresa di attenzione per l'individuo e per le
sue problematiche. Ma non mostravano i caratteri dell’individualismo classico, “legato all’etica
della prestazione, ad uno spirito competitivo che attribuiva massima importanza al successo
personale, alla carriera e al prestigio professionale” (Ricolfi – Sciolla, 1980, 242). Così, in merito
all’orientamento intimista, essi sottolineavano il carattere politico del “personale”, che acquistava
valore di storia.
Per quanto riguarda i modi attraverso i quali questi orientamenti culturali si formavano, gli
autori sottolinearono l’importanza delle dimensioni cosiddette “orizzontali” del processo di
socializzazione. Alla famiglia come centro si era andata progressivamente sostituendo una struttura
policentrica, in cui il gruppo dei pari e le altre reti relazionali autonomamente definite,
l’associazionismo, la scuola e le esperienze lavorative andavano acquistando una crescente
centralità.
intellettuale e dal ruolo di parcheggio assunto dall’università. Il movimento è diviso tra la ricerca della creatività personale e la
coscienza della marginalità sociale degli studenti, privi di sbocchi professionali” (Melucci, 1982, 113). “Nel breve periodo della sua
esistenza il movimento si incarica di sancire la fine del tempo dell’utopia e dei progetti totalizzati” (Leccardi, 1987, 7).
12 “Ogni fine settimana 3 milioni e mezzo di italiani […] invadono 3.500 balere, 500 delle quali aperte di recente proprio per
assorbire l’aumento della domanda. Nel ‘78 le sale da ballo sono oltre 5.000, e, secondo stime della SIAE, le presenze del pubblico
sono aumentate del 40-50% rispetto al ‘77” (Borgna, 1984, 147).
13 Sono simili alla generazione precedente “in quanto i loro orientamenti rappresentano in molti casi una generalizzazione di
tematiche tipiche del movimento studentesco: dalla critica dell'autorità, al riconoscimento della non-neutralità dei ruoli sociali, alla
critica dell'etica della prestazione. Anche su un piano più immediatamente politico […] il consenso all'insieme delle forze politiche
della sinistra è cresciuto […]. Ma l'aspetto forse più rilevante è che questa estensione ha coinvolto, la componente femminile della
popolazione studentesca” (Ricolfi – Sciolla, 1980, 10).
10
3. I giovani di fronte alla complessità della società negli anni ’80
Gli anni ‘80 rappresentarono la normalizzazione della condizione giovanile rispetto alla
“mobilitazione” degli anni ‘70, secondo linee già emerse alla fine degli anni ’70. Tale mutamento di
strategia dipese da un processo interattivo tra giovani e società. Si ebbe, infatti, sul piano sociale
un’evoluzione della società che diventava sempre più post-industriale, complessa e, nello stesso
tempo, maggiormente flessibile. I giovani dovettero imparare a convivere con tale realtà: visto che
il tentativo della generazione precedente di contrapporsi alla società era fallito, non rimase loro che
adeguarsi. L’adattamento divenne la principale strategia giovanile in quegli anni. Infatti, la ricerca
che segnò una svolta nell’interpretazione della gioventù in quegli anni fu quella di Garelli (1984), in
cui l’adattamento fu assunto come criterio interpretativo fondamentale ed il quotidiano come luogo
dove i giovani cercavano la propria autorealizzazione. Si era venuta a delineare una situazione di
questo tipo: cadute le grandi mete collettive che avevano caratterizzato i decenni precedenti, persa
la speranza di influire sull’orientamento ideologico ed organizzativo della società, complicatasi la
transizione scuola/lavoro, sfumata l’attesa di mobilità sociale ed inserimento lavorativo attraverso la
scuola non rimase che lo spazio del tempo libero e dei rapporti informali come luogo di
autorealizzazione. Esso si presentava come ambito in cui non solo sviluppare dei rapporti, giocare
dei ruoli al di fuori del controllo degli adulti e delle istituzioni, ma anche come spazio dove
elaborare una cultura alternativa al modello prevalente, dove sperimentare dei comportamenti, degli
stili di vita in grado di fornire un sostegno alla ricerca di una soluzione alla crisi d’identità tipica
dell’età e particolarmente acuta in momenti di trapasso culturale e di travaglio sociale.
3.1. I mutamenti di scenario nella società degli anni ‘80
Le strategie di adattamento dei giovani rappresentavano, però, solo una faccia della
medaglia, l’altra faccia era rappresentata dalle imponenti trasformazioni a livello economico,
politico e sociale che caratterizzarono quegli anni. Pertanto l’analisi dei bisogni e valori giovanili
non può prescindere dai mutamenti strutturali e culturali che stavano avvenendo nell’intera società.
Furono essi a condizionare pesantemente la risposta giovanile: il mutamento dei bisogni manifestati
dai giovani era frutto dell’interazione con un ambiente profondamente mutato.
3.1.1. Mutamenti a livello economico
Negli anni ’80 l’economia riprese il sopravvento sulla politica, che negli anni ’70 aveva
avuto un ruolo egemone. L’economia risolse le sue crisi cambiando radicalmente il modo di
produzione e di distribuzione delle merci, e le stesse concezioni che l’avevano guidata per tutta la
fase dell’espansione industriale. Per questo motivo questo periodo fu denominato “post-industriale”.
A livello industriale la tendenza prevalente fu la “deverticalizzazione” dei grandi
stabilimenti, con l’attribuzione all’esterno (piccole imprese) di parte del ciclo produttivo. Iniziò in
quegli anni la rivoluzione microelettronica ed informatica. Il modello produttivo che s’impose fu
quello della “Toyota”, che rese obsoleta l’organizzazione “fordista” o “taylorista” del lavoro. I
termini emergenti furono “flessibilità”, “creatività”, “qualità”, “piccolo è bello”, superando le
logiche disumanizzanti della catena di montaggio. La nuova industrializzazione comportò la
dislocazione degli stabilimenti in aree più convenienti per il costo della manodopera. Nacquero i
fenomeni della “delocalizzazione” delle industrie e della “globalizzazione” dei mercati.
11
La terziarizzazione dell’economia si estese sempre più. L’intreccio tra terziario e cultura
comportò una razionalizzazione dei comportamenti ed una ristrutturazione dei processi decisionali,
un allargamento delle capacità conoscitive. Crebbe la domanda di qualità nella produzione. La
scienza e la tecnologia ebbero un ruolo sempre più rilevante nei processi produttivi.
Vennero incrementati i consumi. Per poter reggere all’aumento di produzione necessitavano
nuovi bisogni che potevano essere soddisfatti solo da prodotti sempre più sofisticati. La spinta ai
consumi fu sostenuta dalla pubblicità e dall’opera suadente dei mass-media. La nascita di tante
radio e TV private si reggeva su questo presupposto.
Il modello di vita occidentale e consumista venne diffuso capillarmente in tutti i continenti,
creando un’omogeneizzazione della cultura e dei consumi, funzionale alla grande distribuzione, ma
con effetti distruttivi sulle culture locali e disgregativi sul tessuto sociale.
Un altro effetto di questa rivoluzione fu il problema occupazionale. La rivoluzione
microelettronica e informatica, la “deverticalizzazione” e la “delocalizzazione” consentirono di
ridurre notevolmente la manodopera o di avvalersi di manodopera a basso costo. La nuova fase
espansiva creò lavoro in attività interstiziali, con proliferazione di tante piccole attività produttive
precarie, si diffuse il lavoro occasionale, part-time, ecc. Tutto ciò permetteva di sfuggire più
facilmente al controllo dei sindacati e degli ispettori del lavoro, con aumento del lavoro nero,
sottopagato, senza protezione sociale. Questo tipo di produzione comportò, infatti, oltre
all’espansione industriale, un aumento significativo di incidenti e i morti sul lavoro.
La crisi occupazionale segnò significativamente la condizione giovanile di quegli anni. Se
gli anni di transizione (1979-80) furono di ripresa economica, ciò non durò, perché legato a fattori
effimeri (lavoro nero, economia sommersa, dilatazione spesa pubblica). Il resto dei primi anni ‘80
registrò un aggravamento del problema. Da una parte c’era l’urgenza di reinserire nel lavoro i
disoccupati, prevalentemente adulti; dall’altra di accogliere i giovani alla ricerca del primo posto.
Le misure legislative adottate per risolvere i problemi occupazionali dei giovani, pur lodevoli nelle
intenzioni, non riuscirono a determinare una vera inversione di tendenza a causa della consistenza
quantitativa del fenomeno. Così il tasso di disoccupazione continuò a crescere nella prima parte del
decennio, con allungamento dei tempi di ricerca della prima occupazione. Ciò favorì anche, tra i
giovani, l'interesse per il lavoro indipendente, benché, l'occupazione dipendente conservasse una
forte attrazione. Insieme ne venne una notevole flessibilità e mobilità, la disponibilità a "provare"
professioni diverse, a "crearne" di nuove, a passare dal ruolo di studenti a quello di lavoratori a
quello di inoccupati con notevole disinvoltura. In genere prevaleva un atteggiamento pragmatico,
dove convivevano esigenze espressive accanto a quelle strumentali.
Le difficoltà occupazionali, insieme all’allungamento del tempo di formazione e la
procrastinazione del momento d’entrata nella vita adulta fece parlare della condizione giovanile
come di un periodo di obiettiva “emarginazione”. Nel rilevare tale situazione Cavalli parlò di una
trasformazione della fase giovanile da “processo” a “condizione”, con effetto macroscopico di
allungamento della fase di socializzazione, ma anche di mutamento nei modi di vivere la giovinezza
e nell’evoluzione verso la maturazione personale e sociale.
3.1.2. I mutamenti a livello politico
La riscossa dell’economia segnò anche le vicende politiche. In vari paesi, a cominciare da
Gran Bretagna e USA, salirono al potere partiti con programmi neo-liberisti. Ciò diede il via alla
deregulation, che comportò riduzione di limiti, dei controlli e delle tasse all’iniziativa privata,
privatizzazioni degli enti statali, ampie dismissioni e ristrutturazioni degli apparati produttivi.
Ciò ebbe forti ripercussioni anche in Italia. Negli anni ‘80 la politica risentì di una certa
stanchezza, frutto sia del lungo impegno dei partiti italiani nel combattere il terrorismo e
confrontarsi con l’estremismo politico, ma anche della percezione dell’inadeguatezza nelle strategie
12
politiche rispetto ai mutamenti sociali, economici e culturali. Mentre all’estero si facevano
esperimenti neo-liberisti, in Italia prevalevano tentativi di riformare i partiti tradizionali adeguandoli
alle mutate esigenze sociali. Ciò fece assumere alla politica italiana un orientamento molto
pragmatico, nel tentativo di rispondere direttamente alle esigenze della società. Ciò consenti
all’Italia di ottenere alcune progressi, “verso una libertà politica reale, sulla strada dell’uguaglianza
e nella partecipazione alla vita sociale” (Malizia, 1991, 21).
Accanto a questi progressi non mancarono le ombre. La politica, ispirata a questi criteri, si
presentava vivace e dinamica, ma anche spregiudicata. In quegli anni, accanto alla soluzione di
alcuni annosi problemi, all’impulso per nuove opere pubbliche e ad un trend migliore
dell’economia, aumentò anche il debito pubblico e la corruzione nei partiti. Questi problemi si
innestavano nella cronica lentezza della macchina burocratica italiana e nell’incapacità di
fronteggiare realmente le emergenze di una società in rapida evoluzione. Emblematico, a questo
proposito, fu il tentativo di risponder alla crisi del welfare state: adottando gli stessi principi
dell’economia liberale: riduzione dell’intervento statale e promozione dell’iniziativa privata.
Questa situazione generale non poteva non avere analoghi riscontri sul costume sociale.
Anche in Italia si andavano diffondendo “i valori cosiddetti neo-borghesi come la competitività, la
personalizzazione e la privatizzazione dei bisogni sociali, il rifiuto della mediocrità, la rivalutazione
della professionalità e della responsabilità e la voglia di imprenditorialità” (Malizia – Frisanco,
1991, 22). Con essi, si estendevano individualismi esasperati, competitività rampante, prassi
egoistiche e corporative. Si notava aumento di conformismo determinato dalla pubblicità,
livellamento verso il basso, assemblearismo improduttivo, emergenza di un individualismo
egoistico e corporativo. Anche molti giovani finirono per assumere questo tipo di valori. Da una
parte infatti si assisté ad un progressivo disinteresse e allontanamento dalla politica e dalla militanza
politica attiva; dall’altra, un certo nucleo di giovani fece propri i valori della competitività e li portò
alla esasperazione, dando luogo a fenomeni sociali come lo “yuppismo”.
3.1.3. Il paradigma della complessità
Negli anni ‘80 divenne sempre più frequente da parte dei sociologi applicare all’analisi della
società la categoria della complessità14. Con tale termine si volle sottolineare la forte
differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la
moltiplicazione delle relazioni tra loro15. Pertanto la complessità non era una caratteristica delle
cose o delle persone, piuttosto una modalità di descrizione di situazioni o problemi caratterizzati da
numerose interdipendenze relazionali. Di questa configurazione della società c'era chi sottolineava
di più la moltiplicazione di possibilità, la crescita di opportunità, di organizzazione, ma non
14 "Nella tradizione sociologica (da Durkheim a Simmel a Parsons) quando si parla di complessità del sistema sociale in
riferimento alle moderne società industriali si istituiscono fondamentalmente due tipi di correlazioni. La prima riguarda il numero e
la varietà degli elementi del sistema, la seconda il numero delle relazioni di interdipendenza tra questi stessi elementi. [...] E'
quest'ultima - la densità dinamica e morale della società - la caratteristica saliente in senso sociologico che si sviluppa solo con la
differenziazione e con l'affermarsi della logica della divisione del lavoro" (Sciolla, 1983, 45).
Bisogna però riconoscere che sovente tale situazione viene percepita per le difficoltà che comporta. in effetti, il concetto di
"società complessa" ha cominciato a diffondersi con la crisi socio-economica degli inizi degli anni '80, nel momento in cui
"l'attenzione non va più alla dinamica di sviluppo delle nostre società, ma all'arresto di questa dinamica, agli imprevisti effetti disgregatori: ingovernabilità, instabilità, differenziazione e disarticolazione dei processi produttivi, dilatazione dei settori distributivi e
dell'amministrazione, espansione dell'interventismo statale, disgregazione e moltiplicazione dei gruppi sociali, circolarità tra
aspettative e frustrazioni collettive" (Montesperelli, 1984, 25).
15 Secondo Donati (1985) quattro sarebbero le accezioni relative al termine "complessità" applicato alla società:
1) Complicazione, cioè "crescita quanto-qualitativa di elementi, relazioni e interazioni in un sistema sociale dato" (p. 6).
2) Moltiplicazione di codici incommensurabili, "derivante dall'operare di più e diverse logiche fra loro incompatibili, o,
incommensurabili" (p. 6).
3) Variety pool, cioè "una situazione che consente di mantenere sempre aperte un numero sempre maggiore di possibilità
alternative (più di quante possano essere effettivamente realizzate in un dato momento)" (p. 7).
4) Entropia, "ordine (sociale) probabilistico (casuale), anziché normato, fondato sulla variabilità (differenza)" (p. 7).
13
mancarono alcuni che fecero notare la progressiva ingovernabilità dei sistemi, la mancanza di un
centro organizzatore, la crescita di entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili16.
In quegli anni si registrò un’accelerazione nella pluralizzazione dei centri di potere e dei
sistemi di riferimento e di significato, con effetti di frammentazione e disgregazione della realtà
sociale. Questo comportava per gli individui un aumento di opportunità ed una diminuzione del
controllo sociale. Mentre ciò accresceva le possibilità per il singolo, aumentava anche il carico di
responsabilità personale e la probabilità di non riuscire a far fronte alle richieste della società17.
Perciò tale assetto della società poneva notevoli problemi di integrazione, di adattamento e di
identità18. Queste problematiche investirono soprattutto i giovani, alle prese con problemi ad
inserirsi ed integrarsi nella società. L’adattamento divenne la strategia vincente in tale contesto, che,
se permetteva di far fronte ai problemi immediati, diventava problematico rispetto all’assunzione di
un’identità matura. Infatti l’adattamento si presentava come “una strategia di basso profilo,
sommersa, senza differimenti di bisogni ed aspettative, portata avanti da una soggetto debole che in
ultima istanza costruisce la sua identità quasi per differenza” (Cipolla, 1989, 19).
La capacità di adeguarsi di fronte alle molteplici richieste della società e la rinuncia alla
difesa di principi precostituiti rese questa generazione molto più flessibile e adattata alla realtà, ma
ebbe come prezzo l’incoerenza, che stava diventando, insieme alla soggettivizzazione dell’etica,
uno degli aspetti più caratteristici della cultura giovanile. Il mondo giovanile si frantumò in
innumerevoli rivoli e la ricerca di autorealizzazione assunse l’aspetto della ricerca di percorsi
individuali di maturazione. Era la complessità ad esigere frantumazione e comportamenti
“incoerenti” 19. Essa poi, interiorizzata, divenne condizione esistenziale: segno della flessibilità e
dell’adattabilità ai mutamenti richiesti dal contesto, ma anche di debolezza ed insicurezza personale.
3.1.4. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale
Accanto alla differenziazione funzionale, che sarebbe alla base della complessificazione
della vita, l’affermazione della modernità si è avuto attraverso la sviluppo dei mezzi di
comunicazione sociale, che permette l’incremento della comunicazione di notizie e la possibilità di
interagire tra vari soggetti, indipendentemente dal potere politico costituito (Ungaro, 2001, 10-12).
Negli anni ’80 si ebbe una accelerazione di tale sviluppo, con la nascita di nuovi mezzi di
comunicazione e con la proliferazione degli stessi o di altri, fino ad allora riservati a pochi
privilegiati.
In quegli anni si ebbe la diffusione delle radio e televisioni private, l’introduzione dei
videogiochi e dei primi computer, la comparsa dei primi CD e la diffusione di sistemi digitali e
miniaturizzati di lettura/diffusione musicale (CD, cuffiette, lettori compressi) o video.
La diffusione di tali mezzi contribuì all’evoluzione di un nuovo tipo di uomo, molto più
digitale, dove la realtà virtuale si confondeva e a volte superava quella reale. Al linguaggio
16 "Col termine di società complessa si intende descrivere una realtà composta da tendenze ambivalenti, che risultano tra loro
incompatibili e irriducibili; una realtà in cui uno stato di integrazione precaria orienta, ma meglio sarebbe dire costringe a scelte
parziali e di medio termine, caratterizzate da scarsa capacità previsiva, e il cui esito sociale appare nel segno della non risolubilità"
(Garelli, 1991, 540).
17 - "A livello dei soggetti la complessità assume il carattere di differenziazione sociale. Nel tempo presente gli individui e i gruppi
sociali hanno a disposizione possibilità, occasioni, opportunità di scelta e di orientamento, di un livello e di una quantità
inimmaginabili nel recente passato" (Garelli, 1991, 540).
18 - "Il principio di differenziazione e di complessificazione dei rapporti sociali così inteso definisce anche il quadro sociale entro
cui si opera una radicale trasformazione del rapporto individuo/società. Il principio di individuazione, la possibilità stessa da parte
dell'individuo di costruirsi un'immagine di sé ricca di contenuto e fortemente individualizzata, di non essere più assorbito dal gruppo,
identificato in esso, sorge solo in un contesto sociale in cui molte e diversificate siano le forze in gioco" (Sciolla 1983, 45).
19 "La contingenza stessa, che per Luhmann è una proprietà dell'ordine temporale degli eventi esterni, diventa, per così dire una
proprietà della percezione interna degli eventi, la matrice psicologica di quella sindrome complessa - destrutturazione,
sperimentazione, paradigma della reversibilità - che tante ricerche sulla condizione giovanile hanno messo in luce” (Ricolfi Scamuzzi – Sciolla, 1988, 111).
14
concettuale, logico, geometrico del passato (concentrato sulla parte sinistra dell’emisfero cerebrale)
si sostituisce, per effetto del rapporto privilegiato con i “media” il linguaggio analogico, simbolico,
emotivo, intuitivo, creativo della parte destra. Di conseguenza, anche il tipo di cultura della società,
soprattutto delle giovani generazioni, divenne più “visivo”. Si privilegiò un approccio emotivo e
concreto alla realtà a scapito di quello analitico, ma freddo e distaccato, della logica scientifica,
libresca.
Il linguaggio giovanile si modificò, uniformandosi alla logica degli “spot” e dei “flash”. Le
parole vennero usate come slogan, atte a colpire più per la loro capacità evocativa, che per il
contenuto verbale. La grammatica ed il vocabolario si impoverirono, con preferenza per una
comunicazione sintatticamente scorretta, ma efficace sul piano emotivo. Il linguaggio giovanile, in
seguito a questi mutamenti, stava discostandosi notevolmente dalla tradizione.
L’uso di tali mezzi contribuì ulteriormente al distacco dai valori tradizionali, alla
superficialità, al sensazionalismo, al presentismo, alla prevalenza del principio del piacere su quello
della realtà. Rispetto alla storia e alla complessità sociale essi hanno operato in termini di
“semplificazione, manicheizzazione, attualizzazione” (Cavalli 1985).
Da ciò seguì tutta una serie di atteggiamenti e di comportamenti nuovi, primo fra tutti
l’enorme importanza attribuita al look (Battellini, 1986, 86). La moda c’era sempre stata, il nuovo
era costituito dalla velocità del cambiamento. Il fast-food può costituire il simbolo di quella
generazione20. Consumare i fretta, essere sempre sulla cresta dell’onda, essere “in” divennero gli
imperativi di quel tempo. Ciò poteva dipendere dai ritmi di una società che andava sempre più di
corsa, dai rapporti umani sempre più frettolosi: da qui l’esigenza di comunicare al primo impatto, il
proprio modo d’essere, o per lo meno, di voler sembrare, anche la cura dell’estetica in generale, del
viso, del corpo, fatta per rispondere a questa logica che privilegiava ciò che si vede (Battellini,
1986, 86-87).
Vivere alla ricerca indiscriminata del look, della «politica dello stile»,
all'inseguimento di un'identità fittizia da reinventare continuamente portava alla frammentazione in
diversi stili di vita. Tale uomo poteva considerare il mondo un dato labile, manipolabile. Il suo
imperativo era l'autorealizzazione personale, ma il suo cammino si prospettava instabile, fondato
come è su scelte pragmatiche, edonistiche e relative.
Di qui L'evoluzione dall'etica protestante a stili di vita più tipicamente edonistici, che Bell ha analizzato
[Bell 1976], implica quindi una svolta verso valori espressivi, meno legati al dato utilitaristico e più centrati sui
bisogni di autorealizzazione. L'avanzata delle classi medie, la terziarizzazione della popolazione attiva,
l'aumento del potere d'acquisto e la maggiore dispersione dei redditi nelle categorie socio-professionali (che
le rende delle variabili esplicative poco rilevanti) comportano un'evoluzione sociale verso una società in cui
sono gli stili di vita a contare sempre più.
Il continuo susseguirsi di mode e di stili di consumo favoriva in loro il consolidarsi di una
cultura dell’immediatezza.
3.1.5. La scuola
La scuola non rappresentò più, negli anni ottanta, un banco di prova e di scontro sociale,
come nel decennio precedente. Nonostante alcune manifestazioni di protesta, rigorosamente “apolitiche”, nel complesso la maggior parte degli studenti (4/5) sembrò soddisfatta dell'istruzione
ricevuta. La percentuale variava a seconda della percorso scolastico e lavorativo (Cavalli - de Lillo,
1988, 25).
Si profilava ormai sempre più la convinzione che la scuola, anche se non obbligatoria oltre i
14 anni, lo fosse nella pratica. Chi la evitava sapeva di precludersi molte opportunità d’inserimento
20 “Il ritmo di vita [é] sempre più frenetico sia in senso materiale che non: la frenesia la si riscontra anche a livello della modalità
di consumo, inteso in senso globale del termine: oggetti, mode, culture, soggetti a rapida obsolescenza, connessa a questa logica da
fast-food, causata a sua volta dalla sovrabbondanza e quindi inflazione di stimoli e possibilità, diventano meteore in un universo
regolato essenzialmente dal principio dell’autogratificazione, del piacere” (Battellini, 1986, 88).
15
sociale e professionale. La condizione di studente divenne un passaggio obbligato dell’essere
giovane, un referente ordinario dell’identità giovanile21.
Ciò non voleva dire però che la scuola fosse amata: la pretesa di trasmettere il sapere a senso
unico, lo sforzo che richiedeva, l'obsolescenza dei metodi didattici, l'incapacità di preparare
effettivamente ad affrontare la vita, la professione la rendevano poco attraente. Però il giovane anni
‘80, molto realisticamente, aveva capito che, se la scuola non pagava più, non essere istruiti era
oggettivamente un fattore di penalizzazione (Franchi, 1988, 11). Per cui era indispensabile rimanere
nella condizione di studente, per approfittare delle opportunità offerte dal sistema scolastico,
insieme a quelle offerte dall’extra-scolastico. In effetti in quegli anni ci si trovò di fronte ad un
duplice andamento della domanda formativa: da un lato la crescita del numero di coloro che
passavano dalla scuola media inferiore alla superiore, dall’altro il calo di chi proseguiva gli studi
con l’università22. Apparivano privilegiati gli studi “brevi” finalizzati all’inserimento immediato nel
mercato del lavoro (Bobba – Nicoli, 1988, 51).
Va però riconosciuto che la scuola si trovava di fronte a problemi enormi, che superavano la
sua portata: un mercato del lavoro sostanzialmente bloccato, la mancanza di strumenti adeguati per
un effettivo coordinamento tra esperienze scolastiche e sistema occupazionale, compiti impropri di
parcheggio della forza-lavoro. Tutto ciò rendeva difficile il rapporto scuola - società.
Ecco allora il duplice sentimento di amore-odio che essa suscitava: si avrebbe voluto farne a
meno, ma non se poteva. Scomparsa la conflittualità delle generazioni precedenti, c’era stato un
ritorno all'impegno scolastico, pur in senso strumentale. “Visto che comunque a scuola bisogna
andarci è meglio starci bene” – poteva essere il ragionamento di molti. Infatti la scuola era
apprezzata per le possibilità di stabilire buoni rapporti con i compagni; anche con i professori si
cercava, per quanto possibile, di stabilire relazioni accettabili (Cavalli - de Lillo, 1988, 26).
Accanto a questo modello di adattamento positivo, si registravano quote minori di giovani
che vivevano un rapporto conflittuale o fallimentare con la scuola. Erano i cosiddetti "drop-out",
che avevano interrotto il loro rapporto con la scuola. Il fenomeno delle uscite dal sistema scolastico
si intensificò tra i 15 ed i 18 anni, “in parte da attribuirsi al ritardato completamento del ciclo
dell'obbligo o alla frequenza di cicli brevi post-obbligo, in parte a veri e propri abbandoni delle
scuole medie superiori” (Cavalli - de Lillo, 1988, 20). A questi andavano aggiunti coloro che
avevano subito gli effetti negativi della selezione scolastica. A fronte di un 54% che non aveva
subito interruzioni nel ciclo di studi, un 30% aveva avuto percorsi “irregolari” ed un 16% “molto
irregolari”. Questi dati risultavano correlati con condizioni sociali e culturali svantaggiate.
3.1.6. L’importanza strategica del tempo libero
Lo sviluppo del tempo libero23, ottenuto sia con la riduzione o modifica dei tempi di lavoro,
sia con la scolarizzazione prolungata, stava diventando una realtà molto importante negli anni ‘80,
tale da far credere imminente il compimento del vaticinio marcusiano di una società senza lavoro. Il
tempo libero divenne un tempo strategico, su cui si concentrarono conflitti decisivi per il controllo
del potere24, soprattutto attraverso i “media” e l’industria del tempo libero.
“Essere giovani e essere studenti sta diventando (e certamente lo diventerà) un sinonimo” (Franchi 1988, 12).
Da uno studio del Censis sui flussi di passaggio nei cicli e tra i cicli e di abbandono relativamente all'anno 1987-88, si ricava
che “su 100 giovani che partono in prima media, 6 si perdono prima di arrivare alla licenza media, 18 escono con la licenza e 76 si
iscrivono alla scuola secondaria. Qui avviene una nuova massiccia selezione, e solo 45 arrivano al diploma. 16 giovani si fermano a
questo punto, mentre 29 si iscrivono all'università. Tuttavia, di questi, 19 abbandonano e solamente 10 arrivano alla sospirata meta
finale” (Malizia, 1991, ).
23 Non vogliamo in questa sede entrare nel merito della definizione di tempo libero, che è ancora oggetto di dibattito tra gli
studiosi, e che le stesse ricerche IARD non chiariscono. Ricordiamo solo che esso può essere inteso come il tempo non occupato dai
tempi sociali, oppure come tempo lasciato libero dal lavoro, o da altri impegni. Ma lo si può anche intendere come il contenitore
delle attività, o delle attese, o degli atteggiamenti che si assumono in tale tempo.
24 Secondo Lalive d'Epinay sarebbero stati trasferiti nel tempo libero i rapporti di forza che prima erano agiti nel mondo del
lavoro. I conflitti che caratterizzano la società sarebbero giocati “nella pratica delle attività di tempo libero, concepite come pratiche
21
22
16
Le ricerche IARD rilevarono una forte esposizione dei giovani ai mass-media: era l’attività
che occupava la maggior parte del loro tempo libero. La parte del leone spettava alla televisione e
alla musica, ma il cinema, pur meno frequentato, contava tra i giovani il pubblico migliore. La
televisione assumeva sovente una funzione di “intrattenimento”, cioè di passatempo divertente e
leggero, contribuendo ad alimentare forme di consumo passivo. Invece la lettura di libri e di
quotidiani o riviste divenne prerogativa di pochi (Cavalli - de Lillo, 1988, 130).
I giovani di quegli anni cercavano nel tempo libero quella via di autorealizzazione che la
scuola ed il lavoro rendevano sempre più precaria e incerta. In una ricerca sul “tempo dei giovani”
(Cavalli, 1985) si constatò che quote consistenti di giovani vivevano il tempo libero come momento
autentico di autorealizzazione ed autoespressione. Per alcuni il tempo libero era una risorsa da
utilizzare per la costruzione di un progetto di cui ci si sentivano artefici e per cui si tentava di
utilizzare tutte le opportunità offerte dalla società. Già la ricerca IARD dell’83 aveva rilevato
l’importanza di questo settore nelle scelte dei giovani, che veniva subito dopo valori come la
famiglia, il lavoro, gli affetti. Erano circa il 90% i giovani per i quali il tempo libero risultava
“molto” o “abbastanza importante”, anche se solo il 70% ne era soddisfatto: segno di una certa
discrepanza tra aspettative e realtà. Coloro che risultavano più soddisfatti erano quelli che avevano
maggiori potenzialità materiali e culturali, che consentivano loro una miglior organizzazione dei
propri bisogni. Dove queste potenzialità mancavano, o erano scarse, prevalevano atteggiamenti
passivi nei riguardi del tempo libero.
Infatti, risultò che, per altri, l’abbondanza di tempo produceva noia, indifferenza, apatia,
abulia. Se il tempo fortemente strutturato, con richieste troppo elevate, creava facilmente ansia, il
tempo lasciato ampiamente a disposizione dell’individuo rischiava di dare origine alla noia, per lo
stress che veniva dal sottoutilizzo delle risorse. Si profilava così la “sindrome di destrutturazione
temporale”, “caratterizzata da una forte frammentazione e labilità della memoria storica; da una
contrazione dell’orizzonte temporale dei progetti; dall’assenza di criteri stabili di allocazione del
tempo quotidiano” (Leccardi, 1987, 10; cfr. anche Cavalli, 1984, 39-40). La conseguenze furono
frammentazione del tempo psichico, segmentazione del vissuto individuale, disturbi alla percezione
temporale, difficoltà per la soluzione della crisi d’identità. Infatti, l’identità non passava più
necessariamente per il lavoro, il successo professionale, ma piuttosto attraverso il tempo libero, che
veniva sempre più investito da attese di autorealizzazione.
3.2. Materialismo e postmaterialismo negli anni ‘80
Le tendenze sociali, economiche e politiche emerse a livello nazionale ed internazionale
suonarono come una smentita delle previsioni di Inglehart e misero in questione il suo modello
interpretativo. In effetti, in quegli anni, accanto ad una crescita della tendenza postmaterialista, si
registrarono significativi ritorni, anche nei giovani, a posizioni e valori di tipo materialista, effetto
delle precarie condizioni, soprattutto a livello economico. Ma furono soprattutto i successi elettorali
delle destre a mettere più profondamente in questione il modello di Inglehart.
3.2.1. L’accentuazione della variabile “cultura” nel modello di Inglehart
Inglehart, di fronte alle critiche rivolte al suo modello, non si limitò a registrare le
provocazioni, ma rispose con vari articoli che raccolse in un libro: Culture Shift in Advanced
Industrial Society (1990). In tale libro egli affermava che il carattere postmaterialista non andava
misurato con le fortune politiche del momento, bensì con i valori ed i comportamenti della gente.
di consumo culturale” (Lalive d'Epinay, 1980, 87).
17
Osservando i dati delle cross-national surveys25, egli sostenne essere in atto una progressiva, anche
se lenta, affermazione del carattere postmaterialista nelle popolazioni dei paesi più evoluti. A
conferma di ciò, citava il maggior favore che godeva tra i giovani la permissività sessuale, il
controllo delle nascite, l’aumento dei casi di divorzio e la denatalità in tutto l’Occidente. In questo
senso andava letta anche la maggior tolleranza e accettazione a livello pubblico dell’omosessualità.
Certamente il processo si presentava lungo: bisognava aspettare che la socializzazione
compiuta in epoche di prosperità e sicurezza producesse i suoi effetti. Una socializzazione lenta e
progressiva, che subiva i contraccolpi delle varie situazioni ambientali. Momenti di crisi economica
o politica producevano un aumento del carattere materialista, mentre periodi di tranquillità o
sviluppo economico e sociale più facilmente davano luogo a caratteri postmaterialisti. Inoltre,
bisognava considerare la possibilità di ridefinizione da parte dei partiti politici, che potevano fare o
non fare proprio il programma postmaterialista. Così poteva esserci una nuova destra che favoriva
più iniziativa e libertà nelle persone: e ciò si accordava con il carattere postmaterialista. Mentre
poteva anche darsi una sinistra che si attardava a difendere l’intervento statale nella produzione ed il
controllo sugli individui (come avveniva in quegli anni nell’URSS di Breznev). Succedeva allora
che in alcuni paesi, “comunismo” fosse sinonimo di conservatorismo, e “destra” di progresso.
Inoltre potevano verificarsi fenomeni di reazione di fronte all’affermazione dei valori
postmaterialisti o ad altri fenomeni sociali che minacciavano una comunità. Per esempio, l’aumento
di movimenti xenofobici contro gli immigrati rappresentava la reazione di fronte a ciò che sembrava
minacciare l’identità nazionale, cioè i valori e le norme introiettati nel periodo della socializzazione.
Nell’opera ribadiva ciò che aveva già avanzato come ipotesi nel ’71, che due sono gli
elementi fondamentali che permettevano l’affermarsi del carattere postmaterialista: l’abbondanza e
sicurezza sociale, la socializzazione. In quest’opera preferì soffermarsi sull’importanza della cultura
nella strutturazione della personalità, soprattutto nel periodo “pre-razionale”. Le norme,
interiorizzate a quell’età, affermava, risentevano del sistema culturale in cui si era cresciuti. Certe
norme tradizionali rispondevano alle esigenze sociali dei tempi e ai bisogni in cui erano state
formulate. Tempi in cui si cercava di controllare gli istinti perché non potevano essere soddisfatti
altrimenti i bisogni elementari. “Non uccidere”, “non rubare” costituivano norme presenti in quasi
tutte le culture e rispondono al bisogno di disciplinare socialmente bisogni di sicurezza e
sopravvivenza generalizzati, creando un carattere cooperativo invece che competitivo. Queste
norme venivano interiorizzate e funzionavano come un “poliziotto interiore”, più efficace del
controllo armato. Ogni nazione aveva elaborato la sua cultura, le sue norme ed i suoi valori, a cui
socializzare i suoi membri. Questo aveva determinato il “carattere nazionale”: elemento di assoluta
importanza nella valutazione dei mutamenti a lungo termine.
A questo punto introdusse una correzione importante alla teoria della “rational choice”,
originariamente era basata esclusivamente su variabili economiche. Tale teoria, affermava, non
teneva conto dei fattori culturali, i quali si rivelavano importanti nel lungo termine più che quelli
economici, utili invece nelle spiegazioni dei mutamenti a breve termine. Ricorrendo alla teoria
weberiana dell’importanza della cultura, svolse un’ampia dissertazione dimostrando come il
carattere nazionale, rappresentato dalla religione, spiegasse molti fenomeni della modernizzazione e
della rivoluzione industriale. Sottolineò come la rivoluzione industriale avvenne prima nei paesi di
cultura protestante, poi cattolica e poi di altre religioni (soprattutto confuciana). Tale
consequenzialità rimaneva una costante nel tempo (tolta qualche eccezione). Le nazioni a cultura
protestante raggiunsero per prime un buon livello di sviluppo economico-capitalista (come già
Weber aveva dimostrato): una volta raggiunto un buon livello, il tasso di crescita economica,
rallentò, mentre aumentava molto in altri paesi di cultura cattolica (Francia, Italia, Irlanda, ecc.) e
confuciana (Giappone, Cina, Corea), che ebbero un tasso di sviluppo notevole negli anni successivi.
Ma il livello di partecipazione democratica, di soddisfazione per la vita, di sviluppo dei valori
postmaterialisti rimaneva ancora appannaggio dei paesi a tradizione protestante.
25
All’epoca dell’uscita del libro (1990) erano già 40 i paesi che avevano applicato il questionario Inglehart.
18
Da questi dati Inglehart non trasse però la conclusione, come Weber, che fosse la cultura a
determinare il tipo di sviluppo economico, bensì che le due cose erano interconnesse e
interdipendenti. Anzi, non solo la cultura ma anche la politica. Perciò, cultura, politica ed economia
erano, a suo giudizio, interdipendenti. Chiedersi quale fosse la più importante e venisse per prima
era come chiedersi se fosse “nato prima l’uovo o la gallina”: non aveva senso, perché tutti e tre i
fattori intervenivano nel delineare i tratti di una nazione. Un certo tipo di economia non era
possibile se non c’era una cultura ed una politica che ne permettesse e favorisse lo sviluppo, e
viceversa. Sviluppo economico, democrazia e carattere postmaterialista erano, per lui, tre aspetti tra
loro collegati che si sostenevano a vicenda. Qualora se ne togliesse uno, anche gli altri sarebbero
entrati in difficoltà. Se non ci fosse sviluppo economico non si darebbe carattere post-materialista
(perché la gente sarebbe ancora preoccupata dei bisogni fondamentali), ma non si darebbe
democrazia stabile nemmeno se non ci fosse una cultura adeguata che la sostenesse (ed il
postmaterialismo favorirebbe la democrazia). Così pure non si darebbe sviluppo economico se non
ci fosse un regime democratico, e così via. Quindi esisterebbe, a suo giudizio, una perfetta
interdipendenza tra i tre sistemi.
Inglehart concluse facendo notare la continua tendenza verso un’economia postindustriale,
una maggior democrazia ed una cultura postmaterialista. Questo sembrava, a suo parere, essere il
futuro del mondo, nonostante resistenze, involuzioni, contraddizioni. Queste tendenze andavano
colte nel lungo periodo, osservando una grande mole di dati. Sul breve periodo agivano meglio
previsioni che tenevano conto delle variabili economiche, che sovente davano origine a
preoccupazioni o a senso di sfiducia, che a loro volta influenzavano le scelte elettorali e i valori di
riferimento. Questo poteva spiegare, a suo giudizio, il momentaneo successo delle destre o le
reazioni xenofobiche o fondamentaliste.
3.2.2. Indicazioni dalle ricerche europee
Gli spostamenti valoriali furono colti da varie inchieste del tempo. Tra le più significative
vanno annoverate le ricerche al livello europeo26.
La ricerca EVSSG dell’81 evidenziò che, in Europa, alcune certezze morali si stavano
dissolvendo: solo un quarto degli Europei dimostrava dei principi sicuri che consentivano di
distinguere sempre il bene dal male. Molte credenze religiose si erano indebolite, quasi cancellate.
Non solo la chiesa, ma anche altre istituzioni pubbliche venivano messe in discussione: i sindacati e
la stampa, i parlamenti e le pubbliche amministrazioni, la politica. Reggeva solo la famiglia e il
lavoro.
Se da una parte alcuni valori tradizionali conservavano la loro importanza, era evidente uno
spostamento verso posizioni “postmaterialiste”. Le giovani generazioni non davano più la stessa
importanza alle virtù tradizionali che sostituivano con nuove virtù, come l’immaginazione e lo
spirito d’indipendenza. Tuttavia le loro posizioni non coincidevano nemmeno con quelle degli
“estremisti di sinistra”, che potevano, per certi versi, essere assimilati ai “postmaterialisti” di
Inglehart.
Solo metà dei giovani approvava una completa libertà sessuale e la convivenza senza essere
spostati riguardava una debole minoranza. Certamente l’arrivare vergini al matrimonio era
26 Oltre alle ricerche promosse dalla CEE (Eurobarometro), vanno sottolineate quelle che ebbero luogo per iniziativa della
Fondazione “European Value Systems Study Group” (EVSSG), costituita ad Amsterdam nella seconda metà degli anni ’70 con lo
scopo di monitorare l’evoluzione del sistema di valori in Europa. Questa fondazione condusse delle inchieste ad intervalli regolari a
livello europeo. La prima inchiesta fu condotta nel 1981 in 9 paesi della CEE (+ Irlanda del Nord) ed affidata per la cura del rapporto
al prof. Jean Stoetzel. Un approfondimento per l’Italia fu affidato a persone del CENSIS e venne pubblicato a cura di C. Calvaruso e
S. Abbruzzese. La seconda inchiesta fu condotta nel 1990 e seguita, per l’Italia, dall’Università di Trento (R. Gubert) che divenne il
punto di riferimento per l’EVSSG in Italia. Fu poi ripetuta nel 1999. Un analogo progetto venne studiato al livello mondiale dando
origine al World Value Surveys (WVS), coordinato da Inglehart, che coinvolge ormai 70 paesi. In analogia, l’EVSSG divenne più
semplicemente EVS (European Value Study).
19
considerato sempre meno importante, tuttavia i tre quarti degli Europei rifiutavano di considerare il
matrimonio un’istituzione superata: la fedeltà tra i coniugi era considerata importante ed augurabile.
Un’eventualità spesso rifiutata era lo smembramento della famiglia.
I dati emersi da questa ricerca indicavano una situazione fluttuante, non omogenea: il sistema
di valori che aveva retto l’Europa fino a qualche anno prima sembrava non tener più, ma non
appariva ancora all’orizzonte un nuovo sistema di valori, che potesse rimpiazzarlo. Le persone
sembravano aderire in parte a valori tradizionali e in parte essere alla ricerca di nuovi. Ciò
provocava una frantumazione nelle adesioni valoriali e nei mondi simbolici che poteva dare
l’impressione di una crisi dei valori.
Pertanto, il bisogno di senso o di significato divenne uno dei valori più avvertiti in questo
tempo, anche se non più espresso attraverso l’adesione ad una religione di chiesa, bensì come
ricerca individuale e personalissima di un senso e significato alla vita.
3.2.3. I valori dei giovani italiani
La sezione italiana della ricerca EVSSG rilevò molte convergenze tra il campione italiano e
quello europeo. Le differenze più notevoli riguardavano: lo scarso livello di scolarizzazione; la
percentuale di giovani, tra i 18 ed i 24 anni, conviventi con i loro genitori (80%, contro una media
europea del 64%); la bassa percentuale di aderenti ad organizzazioni di qualsiasi tipo.
Le scelte dei giovani non apparivano molto diverse da quelle del campione adulto, al
massimo si segnalavano per un’accentuazione delle tendenze in corso. In particolare, nella sfera
religiosa, essi dimostravano maggior relativismo morale, scarsa fiducia nella chiesta cattolica, una
minor pratica religiosa. Non ritenevano che il comportamento sessuale dovesse essere sottomesso a
delle regole morali indipendenti dalle scelte degli individui. Alla caduta di attenzione nei confronti
dell’insegnamento morale della chiesa e alla messa in discussione della sua validità non
corrispondeva però un’analoga flessione nella sfera del sacro.
Analoghi riscontri erano riscontrabili nella sfera della famiglia. Il 72% era d’accordo sul
fatto di amare e rispettare i propri genitori. Se per la maggioranza il matrimonio non era
un’istituzione sorpassata, alla riuscita contribuivano la fedeltà, la stima ed il rispetto reciproci, la
comprensione e la tolleranza ed, infine, l’accordo sessuale. Assieme al riconoscimento dei valori
radicati nell’etica collettiva emergevano i tratti di una nuova moralità: il 78% dei giovani
individuava nella fine dell’amore di uno dei coniugi verso l’altro, uno dei motivi sufficienti per
chiedere il divorzio.
Anche i partiti politici stavano perdendo consenso: il 46% dichiarava di non sentirsi vicino
ad alcun partito politico. Ma il 69% affermava che “bisogna migliorare a poco a poco la società con
la riforma”. Le istituzioni non godevano in genere di molta fiducia. Quella che ne godeva di più era
la polizia (56%), seguita dall’università (52%), e poi dalla chiesa (48%). Poca ne godevano le
istituzioni politico-sindacali (28%).
Il futuro si preannunciava incerto, ciò produceva contrazione dell’orizzonte temporale, per
cui il 64% preferiva “vivere alla giornata”. Nel lavoro era importante la sicurezza del posto e una
buona paga, ma molto più importante “svolgere un lavoro interessante”, che servisse a qualcosa e
fosse utile alla società, piuttosto che un lavoro “rispettato dalla gente”, “non pesante” o “con lunghe
vacanze”. Più in generale il 60% non era d’accordo nel dare, in futuro, meno importanza al lavoro.
Per i grandi interrogativi esistenziali, il 41% dei giovani intervistati ammetteva di pensare
spesso al senso ed allo scopo della vita, il 41 % dei giovani dichiarava di avere pensato non di rado
che la vita non avesse alcun senso. Nonostante tali elementi di incertezza, solitudine e crisi di
significato, ben 1’82% si dichiarava “molto” o “abbastanza felice”.
Appariva evidente che la famiglia e la professione continuavano ad essere sede di valori
sociali e non si riducevano a semplici strumenti di gratificazione personale. In esse si rielaboravano
20
valori nuovi come l’onestà, le buone maniere, il senso di responsabilità e la lealtà, la tolleranza e
rispetto per gli altri. Nessuna delle qualità indicate era individualistica, ma tutte rinviavano al
sistema sociale nel quale il singolo era inserito. In altri termini, erano tutte qualità relazionali, che
trovavano la loro estrinsecazione nel momento in cui l’individuo entrava in rapporto con gli altri
(Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 172-173). Riemergeva anche in questa ricerca quella dimensione
civica della vita associata, già riscontrata qualche anno prima da Ricolfi e Sciolla (1981).
Pertanto gli autori registrarono “una profonda ed estesa vocazione civile, che, scavalcando
spesso le singole istituzioni, ricoglie la radice di valori collettivi di fondo” (Calvaruso - Abbruzzese,
1985, 176). Insieme a questa riscoperta notarono che non appariva “né una progettualità specifica di
mutamento dell’esistente, né un riconoscimento gratuito alle singole istituzioni” (Calvaruso Abbruzzese, 1985, 176). Se la rivolta generazionale, la critica radicale sembravano scomparsi, al
loro posto emergeva un rispetto profondo per le idee altrui ed una vocazione sociale, ciò non
significava una delega in bianco per nessuna istituzione, la quale, in ogni caso, doveva
riconquistarsi la propria legittimità (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 177).
3.2.4. Bisogni materialisti e postmaterialisti nelle indagini IARD
La ricerca IARD dell’87 inserì una domanda specifica sui valori materialisti/postmaterialisti
impiegando l’indice corto di Inglehart27.
Le risposte rivelarono l’influenza dei fattori politico-economici e sociali sui giovani italiani,
con un ritorno a valori e bisogni di sicurezza che sembravano superati nel decennio precedente. I
ricercatori, infatti, rilevarono “un forte bisogno di ordine e sicurezza economica” (Cavalli - de Lillo,
1988, 83), non controbilanciato da altrettanta attenzione ai valori postmaterialisti.
Incrociando ed elaborando le risposte i ricercatori ottennero delle indicazioni importanti,
espresse nella seguente tipologia:
a) materialisti-autoritari (lotta all’inflazione o alla disoccupazione e mantenimento dell’ordine): 35.2%;
b) liberal-materialisti (libertà di parola e lotta all’inflazione o alla disoccupazione): 26.6%;
c) materialisti (lotta all’inflazione e alla disoccupazione): 20.8%;
d) democratico-materialisti (maggior potere alla gente e lotta all’inflazione o alla
disoccupazione): 14.2%;
e) postmaterialisti (libertà di parola e maggior potere alla gente): 2.7% (Cavalli - de Lillo,
1988, 83).
Da questa analisi appare evidente, oltre alla prevalenza dei valori materialisti ed del bisogno
di sicurezza sociale ed economica, la mescolanza di valori post-materialisti con preoccupazioni
materialiste, mentre i postmaterialisti “puri” non arrivavano al 3%!
Anche un approfondimento su questi dati mediante analisi fattoriale, condotto per proprio
conto da Ricolfi, rivelò che “gli items materialisti hanno un impatto sul livello generale di
soddisfazione per la vita in generale di oltre cinque volte superiore rispetto a quello degli items
postmaterialisti” (Ricolfi, 1990, 501). Proseguendo nella sua analisi, fece osservare come il quadro
si presentasse frastagliato e di non facile lettura. Apparivano posizioni contraddittorie all'interno
dell’universo culturale giovanile. I giovani italiani risultavano “materialisti sul piano dei valori e dei
modelli culturali e postmaterialisti sul piano delle preferenze” (Ricolfi, 1990, 522).
Tuttavia, a parziale conferma delle ipotesi di Inglehart, si può far osservare che i valori
postmaterialisti erano più presenti tra i ceti più progrediti e in grado di gestire meglio la propria vita
(impegno politico e sociale, visione più chiara del futuro), mentre “le componenti materialistiche ed
27 Per un incidente tecnico in quest’edizione della ricerca fu inserito un item in più (“combattere la disoccupazione”) che ottenne
un’adesione plebiscitaria (57,6% per il primo posto, 28,8% per il secondo), rendendo difficile la comparazione sia con i dati delle
ricerche di Inglehart sia con le altre ricerche IARD.
21
autoritarie si rafforzano in combinazione con quei tratti culturali e di personalità che tendono al
fatalismo e al senso di impotenza nel governare il proprio futuro” (Cavalli - de Lillo, 1988, 84). Ciò
confermerebbe l’ipotesi che si accede ai valori postmaterialisti solo quando siano stati soddisfatti i
bisogni di tipo materiale e che questo si correli con il tipo di cultura interiorizzata nel periodo
formativo.
3.3. Emergenza di nuovi bisogni nelle scelte valoriali dei giovani
Dai dati analizzati appare una certa contraddittorietà nelle interpretazioni del verso di marcia
dei giovani e della società. In particolare il carattere postmaterialista per alcuni sembrava in
aumento e per altri in regressione. Forse erano vere entrambe la proposizioni: si sa infatti che una
certa ambivalenza è insita nei fatti sociali, soprattutto in tempi di complessità.
Nel tentativo di comprendere l’andamento della gioventù in tema di bisogni e valori,
possiamo tentare una lettura più accurata di alcuni dati.
Dalle ricerche, sia IARD che di altra fonte, emerse la seguente gerarchia valoriale dei giovani
negli anni ‘80:
a) preminenza dei valori affettivi, relazionali, espressivi; dei sentimenti, del privato
(famiglia, amicizia, amore)
b) persistenza della tensione autorealizzativa (lavoro, salute, viaggiare, tempo libero,
divertimento)
c) sempre minor importanza, ma non scomparsa, di alcuni dei valori acquisitivi (carriera,
successo, affermazione, stima sociale),.
d) poco impegno sociale, politico, religioso; scarsa risonanza di temi quali l'uguaglianza, la
giustizia, la solidarietà sociale.
Ciò che colpisce è la scarsa rilevanza dell'impegno socio-politico e la preminenza dei valori
espressivo-affettivi, soprattutto se posti a confronto con quelli della generazione precedente. Molte
delle scelte valoriali degli anni ‘80 non si ponevano però in senso antinomico, bensì palesavano una
buona capacità di composizione, frutto del pragmatismo tipico dell’epoca. Ciò permetteva di
combinare insieme valori e bisogni in sé molto diversi e ritenuti, in altri tempi, incompatibili.
Questa situazione di frammentazione dei comportamenti e dei sistemi di valore all'interno
del mondo giovanile rendeva difficile una lettura unitaria e mettevano in crisi i tradizionali modelli
di spiegazione causale lineare. Non appariva più un unico fattore capace di spiegare i mutamenti né
una cultura giovanile dominante o un carattere prevalente, cui rifarsi. L'identità giovanile si
mostrava sostanzialmente frammentata, dispersa: più un miscuglio di culture che una cultura a sé.
Anche i comportamenti individuali rivelavano una vocazione all'eclettismo e all'indifferenza.
Soprattutto non appariva più un tipo "puro" che aderisse totalmente ad un’area di valore. Si
assisteva in quegli anni alla compresenza in uno stesso individuo o gruppo sociale di elementi di
espressività e di acquisività, di competitività e di solidarietà, di tradizionalità e di ultramodernità.
Così anche i bisogni non apparivano più disposti in forma organica e gerarchica, come
Maslow ed Inglehart avevano ipotizzato. Ciò non consentiva però di affermare che essi non
apparissero, solo che la combinazione di scale di valore diverse manifestava una diversa coscienza
del bisogno. Non erano cambiati i bisogni, era bensì venuta meno la percezione di una priorità nella
soddisfazione. Il giovane di quegli, se impossibilitato a soddisfare un bisogno, preferiva cercare un
altro modo per placarlo, ed eventualmente cambiava l’ordine d’importanza da attribuire ad un
singolo bisogno.
I modelli interpretativi prevalenti del momento erano orientati a leggere tali comportamenti
come risposte adattive alla complessità emergente e alla sostanziale ingovernabilità dei sistemi. In
questo modo, agire strumentale e agire comunicativo non si escludevano, ma si integravano a
vicenda. Lo stesso concetto di autorealizzazione, come quello di identità, non scomparvero, ma si
22
adattarono, cercando delle vie di soddisfazione accessibili ai propri mezzi. Ma era soprattutto la
ricerca di un “senso” che caratterizzò quell’epoca, come riconobbe un autore: “autorealizzazione è,
infatti, la consapevolezza di non volere rinunciare ai propri interessi personali; autorealizzazione è
anche l'attribuzione di senso ai rapporti con gli altri e con il mondo quotidiano; autorealizzazione è
infine il coinvolgimento verso nuovi obiettivi sociali e civili” (Buzzi, 1986, 74). D’altra parte, come
riconosceva un altro, “la ricerca di senso è un comportamento tipico di tutti gli uomini quando
attraversano momenti particolarmente densi di difficoltà” (Milanesi, 1982, 4).
3.3.1. La caduta della solidarietà sociale
Il distacco dei giovani dalla politica, intesa come militanza o come “dimensione pervasiva
che informa di sé tutte le attività e le relazioni umane” (Cavalli - de Lillo, 1984, 85), nel corso degli
anni ’80 si fece sempre più evidente. Ciò poteva indicare che le ideologie e la militanza politica non
costituivano più una fonte di identificazione e non erano più capaci di mobilitare le masse giovanili.
In compenso cresceva l’adesione a temi, come la pace, il disarmo, la scuola, l’ambiente. Su tali temi
si registravano improvvise, quanto discontinue ed episodiche, mobilitazioni giovanili, soprattutto
studentesche. Ciò poteva indicare il venir meno di un concetto classico di partecipazione politica,
intesa come “una forma di agire dotata di un minimo di organizzazione e di continuità” (Cavalli - de
Lillo, 1988, 92).
La tendenza a mobilitarsi su temi “issue oriented”, poteva invece dare ragione alle ipotesi di
Inglehart, che la interpretava come una “democratizzazione” della politica; ma poteva anche
confermare l’ipotesi della “strategia dell’evitamento, descritta da Offe a proposito dei Verdi
tedeschi” (Ferrarotti, 1986, 15).
Lo stesso aumento di partecipazione a forme di volontariato, all’associazionismo e
all’aggregazione di base, o ad iniziative localistiche indicava la rottura di solidarietà socialmente
consolidate ed il ripiegamento su solidarietà “corte”, immediatamente controllabili, fungibili, e fonti
di gratificazione immediata. Il venir meno di un mondo di realtà condivise spezzava le solidarietà
faticosamente costruite nel corso delle lotte operaie dell’800 e della prima metà del ‘900. Tutto ciò
veniva ricondotto, dalla lettura di alcuni autori, alle logiche della società complessa, che
frammentava gli universi simbolici e scomponeva le appartenenze, per cui tutto diventava relativo.
Mancando delle "strutture di plausibilità", che rendessero comprensibile il proprio mondo ed
evidenti i motivi per cui impegnarsi in esso, ne nascevano movimenti tendenti a supplire a tale
mancanza. Ecco allora la frantumazione delle esperienze e dei sistemi di significato. Di qui la
"sindrome privatistica" (Ardigò, 1980, 74): mancando un progetto collettivo ci si ritirava nella sfera
individuale, privata. Si pensava solo a salvare se stessi, avendo perso ogni prospettiva e speranza di
salvare gli altri. Non percependo le mete della società come proprie, si preferiva ripiegarsi su se
stessi, sulla sfera privata, rinchiusa nell'orizzonte della quotidianità. Ciò portava a forme di
“narcisismo” e di “solipsismo sociale”, che non era autarchia o segregazione, ma “apertura al
contesto per singole dosi, senza precedenze sociali, […] morte dello spazio pubblico, […]
disincanto e disimpegno” (Cipolla, 1989, 10). “La solidarietà o è posta al servizio di un ideale
esterno che la eleva e la purifica, per così dire, o rimane un fatto in fondo narcisistico, di pura
gratificazione personale, particolaristico” (Cipolla, 1989, 8).
3.3.2. La crescita dei rapporti interpersonali come domanda di senso
La realizzazione di sè, pur non escludendo il riferimento alle grandi mete ideali, era ricercata
invece nel confronto e nella comunicazione interpersonale da vivere in piena aderenza alle esigenze
23
offerte dal "quotidiano". Venendo meno le evidenze comuni e condivise, si cercavano sistemi di
significato che aiutassero a superare il senso di vuoto, che dessero senso al proprio agire
contingente, senza pretese di validità universale. Queste evidenze venivano cercate nel mondo
vitale, "regno di evidenze originarie". Ma tra esso ed il sistema sociale non c’era più connessione
(Ardigò, 1980, 23). Di conseguenza veniva meno il consenso verso le istituzioni e diventava assai
più difficile l'integrazione sociale. Il mondo vitale diventava l'unico produttore di senso ed in esso ci
si rifugiava di fronte alla complessità della vita ed alla sua incomprensibilità. Così si cercava "un
nuovo senso comune attraverso la festa, la poesia, la musica, anche attraverso aggregazioni informi
di masse di spettatori, soggettività ormai emarginate o autoemarginate" (Ardigò, 1980, 57).
La strategia adottata dalla maggior parte dei giovani fu quella di valorizzare i rapporti del
“mondo vicino”, luogo di evidenze originarie e nei rapporti faccia a faccia, per ricostruire un senso,
un rapporto sociale.
D’altra parte queste esperienze si rivelavano anche funzionali a ricostruire un’identità
altrimenti scomparsa a livello sociale. L’esperienza del gruppo, per esempio, risultava funzionale
alla crescita dell’autonomia sociale dell’adolescente. Esso acquisì un ruolo fondamentale nel
processo di formazione dell’identità: “luogo di elaborazione di senso” e “mondo vitale”. Esso
inoltre soddisfaceva i bisogni di amicizia e amore. L’esperienza di coppia servì alla ragazza anche
per negoziare maggior autonomia dalla famiglia e per partecipare più attivamente alla vista sociale
esterna. Il fatto, poi, che la famiglia fosse riuscita a adattarsi alle esigenze dei suoi membri (Cavalli
- de Lillo, 1988, 110), rendeva possibile sviluppare la propria autonomia senza produrre rotture
insanabili e fuoriuscite precoci dalla famiglia.
In tal modo si delineavano le tappe della socialità e dei rapporti primari: dalla famiglia al
gruppo per concludersi nel rapporto di coppia: “la famiglia sarebbe il luogo della strumentalità
materna e dell’espressività paterna, mentre il gruppo assumerebbe la funzione di ambito privilegiato
di comunicazione celata agli adulti, libera e capace di superare nella sua concretezza l’astrazione
impersonale, concepita come valorizzazione della soggettività, ed infine, la operazione autarchica di
coppia porterebbe ad un amore più romantico nella ragazza e più pragmatico nel ragazzo” (Cipolla,
1989, 59).
3.3.3. Ruolo del tempo libero e dei consumi nella definizione dell’identità
Diventando sempre più incerte e precarie le possibilità di inserimento professionale, agli
adolescenti non rimase che il ruolo di consumatori per sentirsi protagonisti nella società.
Il consumo divenne il nuovo mezzo per produrre identità personale e solidarietà sociale, in
quanto inaugurava delle distinzioni non più basate sugli status sociali, ma sugli stili di vita. Divenne
importante giocare con dei segni, delle immagini, dei significanti culturali, rappresentati sempre più
dalle merci. I prodotti vengono semantizzati, per permettere al nuovo consumatore di marcare delle
differenze simboliche che costruiscono l'io. La segmentazione dei mercati, la crescente
personalizzazione di servizi e prodotti, allargarono il mercato dell'identità, permettendo ad ognuno
di costruirsi un'immagine (Dall’Aquila, 2003, 1).
Il consumo stava così acquistando un ruolo sociale “ben diverso da quello storico di mera
sussistenza, di pura soddisfazione dei bisogni primari o di necessario complemento alla produzione”
(Cipolla, 1989, 35). Esso divenne un’espressione di “opzione di valore, di senso, cioè indicatore
forte e non occasionale di identità personale” (Cipolla, 1989, 36). In esso “il giovane tenderebbe ad
esprimere fino in fondo le proprie vocazioni, a manifestare la propria carica ideale, a mostrare la
direzione delle proprie fedi, a suggerire strategie o tattiche di innovazione sociale” (Cipolla, 1989,
57). Ciò spiega il forte investimento economico-culturale sui consumi.
Questa sostituzione del tempo di lavoro e delle capacità professionali con il tempo libero e le
possibilità di consumo "come sede della identificazione individuale e sociale dell'individuo"
24
(Ancona, 1988, 18), produsse, come esito, un’identità sempre più passiva e dipendente dal
consumo: i valori della produzione furono rimpiazzati da quelli del consumo. Tale tipo di identità
non poteva farsi progetto, perché “non rinvia al domani, né al ieri, ma all’oggi; [… ] non è dunque
tradizione né innovazione, non è bisogno primario, ma neppure post-materialismo […]. È
comunicazione visiva, […] è esteticità, attenzione a se stessi, preminenza delle proprie idee e dei
propri desideri. Esporsi, vedere, essere visti, aprirsi al mondo attraverso la musica […]. Essi ci
indicano una forma della coscienza giovanile sempre più forma” (Cipolla, 1989, 58).
Dagli incroci delle inchieste IARD appariva però evidente la diversità nell’approccio ai
consumi in relazione al livello culturale: più la famiglia era colta ed il figlio preparato, più questi
risultava capace di scegliere consumi culturali o associare attività consumistiche ad attività colte e
quindi di cogliere meglio le opportunità a disposizione nel tempo libero. Chi invece non aveva
adeguati supporti culturali era più indifeso di fronte al potere persuasivo dei media e delle strutture
di consumo (Cavalli - de Lillo, 1988, 124-132).
3.3.4. La domanda di senso come “bisogno religioso”?
Di fronte al riemergere della domanda di senso qualcuno si chiese se ciò poteva essere
interpretato come segnale di un “bisogno religioso”?
L’inchiesta “Oggi credono così” (Milanesi, 1981), distinguendo tra bisogno (o domanda) e
risposta, rilevò che:
a) Esisteva una domanda esplicita di religione, anche se non maggioritaria. Il “ritorno al sacro”
era più sul piano qualitativo che su quello quantitativo.
b) Questa domanda religiosa rischiava molto quando cercava i canali entro cui esprimersi: parte
di essa si vanificava in una privatizzazione che era funzionale solo ai bisogni di sicurezza e di
equilibrio psicologico, mentre soltanto una piccola parte cercava un costante equilibrio tra
fede e prassi, tra identità settaria ed integrazione ecclesiale, rischiando anche forme di
ghettizzazione, forme di integrismo, o forme di secolarismo (Milanesi, 1981, 361-368).
In pratica si riconobbe che la religiosità dei giovani di quella generazione era sottoposta ad
una forte spinta verso la soggettivazione e la privatizzazione, da intendersi sia come
"psicologizzazione" della religione, cioè come utilizzazione della religione a strumento di soluzione
e risposta ai propri problemi psicologici, sia come tendenza al consumo passivo ed individualistico
della religione. Il carattere soggettivo era presente però anche in termini di domanda di
protagonismo dei giovani nei riguardi della religione. Essa era riconoscibile come una spiccata
disponibilità alla riappropriazione del fatto religioso in chiave personale, accompagnata da un certo
distanziamento dal modello istituzionale e da una esplicita richiesta di fare esperienza religiosa in
aggregazioni vivaci (Mion, 1986, 514).
Pertanto il bisogno di senso poteva anche incontrare la risposta religiosa, ma sempre in una
prospettiva che riguardava “l’autorealizzazione, l’autoassicurazione (e cioè la capacità di darsi
autonomia e sicurezza da soli), l’identità individuale, le proprie esperienze strettamente personali,
emotive ed affettive, i rapporti interpersonali immediati” (Milanesi, 1982, 6). La domanda di senso
nasceva là dove i bisogni della sfera del privato risultavano minacciati dalle incongruenze del
pubblico e perciò come prevalente domanda di liberazione personale, più che collettiva.
3.4. Conclusione: ricerca di senso e di identità in un contesto complesso ed incerto
Sintetizzando, si potrebbe dire che la “filosofia” sottesa agli atteggiamenti emersi dalle
ricerche sui giovani degli anni ‘80 manifestava:
25
a) una tendenza alla cultura del privato, nel senso della personalizzazione autorealizzatrice
del sistema bisogni/interessi/ideali/valori ed una propensione verso la soddisfazione
privata di tale sistema;
b) una tendenza ad una certa segmentazione del vissuto individuale che si manifestava
come frammentazione del tempo psichico (incapacità di riconciliare insieme passato,
presente, futuro} e frammentazione del vivere quotidiano, (incapacità di comprendere in
modo unitario le diverse esperienze di vita attorno a dei valori fondanti); ciò faceva
supporre una difficile integrazione interna dei sistemi di significato che si manifestava
come gap tra «bisogni» e «progetti», tra «percezione valoriale» e «condotta operativa»,
tra «vissuto intenzionale» e «vissuto esperienziale»;
c) una tendenza ad un modesto livello di fiducia nella possibilità di realizzare grandi ideali
ed una propensione pragmatica, invece, verso progetti di concreto profilo direttamente
controllabili dai giovani; ciò non significava assenza di ideali quanto il bisogno e
l'esigenza di verificarli nel quotidiano, senza abbandonarsi a grandi e globali progetti di
rinnovamento (Bucciarelli, 1988, 164-165).
Tali tendenze erano il frutto delle strategie di adattamento ad un società sempre più
complessa, “veloce”, indecifrabile. Le tecniche di adattamento indicavano una notevole
soggettivizzazione dei processi e degli obiettivi. In tutto questo si manifestava “il passaggio tra un
modello antropologico ed etico oggettivo e naturale, giocato sulla assimilazione dei progetti che
investono la persona dall'esterno e un modello che tende a fondarsi sulla personale autonomia,
legato alla coscienza di sé, la cui forza normativa è espressa dal consenso soggettivo” (Bucciarelli,
1988, 165). Era visibile in tutto ciò un diffuso bisogno di riscattare la propria soggettività, con
tendenze pragmatiche e povere di mediazioni (tendenza alla deistituzionalizzazione e alla
deideologizzazione). Di qui il contrasto tra una marginalità oggettiva e il tentativo di recupero di
una centralità soggettiva attraverso una riduzione intenzionale della complessità. La domanda verso
i nuovi valori veniva perciò espressa in termini di realismo: ideali, valori, progetti, aspirazioni,
attese di senso risultavano “eventi” segnati da una visione a corto respiro; vi era nei giovani una
certa tensione etica, mai disgiunta dalla propria soggettività o dal proprio progetto di “piccolo e
concreto profilo”, ma tale tensione era più nutrita di “buon senso” e di un pragmatico narcisismo
esistenziale che di scelte ideali o di progettazioni alternative. Si trattava di giovani realisti e
disincantati, risucchiati nel quotidiano; con un’esistenza senza chiaroscuri violenti e senza progetti
omnicomprensivi.
Essendo tutto consegnato alla soggettività ed ad un pragmatismo immanente, era difficile
decifrare in tali manovre una precisa linea di manifestazione dei bisogni. Se questa c’era, essa
rispondeva più a dinamiche personali, che a strategie comuni e oggettive. Tuttavia nei vari metodi
di adattamento molti autori riconobbero il perseguimento di due bisogni essenziali: definire
l’identità e dare un senso all’esistenza. Solo che questi bisogni si manifestavano in maniera diversa
rispetto al passato.
3.4.1. L’emergenza di un’identità fragile
L’identità appariva di gran lunga il bisogno più urgente nel nuovo contesto sociale. Ma era
un’identità cercata e definita su indicatori e con processi ben diversi dal passato. Nel passato, infatti,
la definizione dell'identità era affidata prevalentemente alle istituzioni, responsabili della
socializzazione e dell’educazione. Negli anni della contestazione essa era stata assolta dalle
ideologie e dalla mobilitazione politica, che tentava di rendere operativo il progetto sociale. Dalla
fine degli anni ‘70 la costruzione dell'identità risentì profondamente del nuovo contesto,
caratterizzato da forte complessità culturale e strutturale e segnato da un intenso pluralismo
26
ideologico; era inoltre tramontata la possibilità di governare il processo attraverso agenzie di
riferimento e di controllo.
I giovani degli anni ’80 considerarono la propria identità come “provvisoria” e continuamente da ricomporre perché esposta ai flussi complessivi dell'esperienza sociale, per questo
tendevano a prediligere nei rapporti personali una comunicazione più diretta e privatizzante, il
piacere immediato e momentaneo, la sensazione maggiormente espressiva, la crescente coincidenza
tra fini collettivi e bisogno individuale di scambio emotivo, la soddisfazione dei desideri che spesso
scambiavano per bisogni reali, l'assunzione del relativismo valoriale.
Al modello tradizionale d’identità, definito come “forte”, contrapposero un’identità
“fragile”: il soggetto perdeva la forza di un’identità innestata su fondamenti sicuri. L'identità
“fragile” risultava così più ricca di interrogativi che di punti esclamativi. Tuttavia, chi la viveva,
non la percepiva pero come una situazione patologica, che producesse sofferenza; essa era ciò che
gli serviva in quel momento e ciò gli bastava. Non era un'identità in crisi, ma un'identità per un
tempo di crisi; non un'identità debole nell’accezione dell'incertezza, ma della parzialità e della
frammentarietà; non un'identità debole perché disattenta di sé, ma una fragilità dovuta al fatto che la
realtà giovanile si presentava spesso come un arcipelago di isole autarchiche, non eccessivamente
interessate a giocarsi a fondo nella comunicazione (Bucciarelli, 1988, 166).
3.4.2. Un modo nuovo di ricercare il «senso» della realtà personale e collettiva
Anche il bisogno di senso, già fin dalla ricerca europea EVSSG, apparve come uno dei
bisogni perseguiti con più insistenza dai giovani anni ’80. Ma anche la domanda e la ricerca di
senso risentiva della situazione sociale appena descritta. Dalle ricerche sui giovani intervistati,
apparivano prevalenti valori/interessi più di natura autocentrica che allocentrica, con progetti
centrati su obiettivi immediati, realistici, quotidiani, particolaristici, familistici con scarso respiro
solidarista.
Pertanto il senso e significato era cercato più dentro di sé, o nel proprio “mondo vicino”, che
nell’“ulteriore”, società o trascendente che fosse. Giovani così realisticamente assennati e
pragmatici dal punto di vista esistenziale da diventare individualisti da un punto di vista sociale.
La ricerca del “senso” della vita e delle cose, depurata da ogni riferimento ideologico o
metafisico, non era più un qualcosa da comprendere, ma da sperimentare e da vivere; l'attenzione si
spostava dalla sfera cognitiva alla dimensione esperienziale. Il “senso” non era un dato da scoprire e
da accogliere, ma da produrre, momento per momento, nel frammento di vita concesso. Ciò
indicava “il passaggio dal tradizionale confronto con i valori, intesi come indicatori del senso
oggettivo del reale, alla ricerca di valorizzazioni, come espressioni soggettive di quello che una
persona valuta importante per sé” (Bucciarelli, 1988, 167).
Tutto ciò poneva problemi sul “peso” che poteva avere un “senso”, i cui riferimenti non
andavano oltre il contingente e l’esperienza immediata. Parecchi autori ritenevano che questo
bisogno si manifestasse piu con i caratteri dell’assenza che della presenza; che nei giovani di
quell’epoca ci fosse una certa vergogna o pudore a rivelare aspirazioni “più alte”. Ciò poteva essere
letto come una manifestazione di “vuoto”, un appello indiretto a qualcosa d’altro che non si voleva
nemmeno nominare, per non evocare traguardi impossibili. Poteva essere indice sia della lezione
appresa dalla disillusione della generazione precedente, sia dell’accentuato pragmatismo di fronte
all’insensibilità e immodificabilità del sistema sociale. Ma poteva anche essere visto, dal punto di
vista dei bisogni, come segno di una «generazione appagata», “non più «figlia di un benessere
desiderato», ma di un «benessere goduto», […] tentata di adagiarsi sui risultati ottenuti (beni
strumentali ed espressivi), mortificando il gusto di scoprire e soddisfare nuovi bisogni e valori o
cedendo, sulle ali dell’immaginario simbolico, ad una qualità del vivere quotidiano il cui senso
è più nella linea dell’artificio effimero che dell’autenticità umana” (Bucciarelli, 1988, 167).
27
4. Gli anni ’90: i giovani in una cultura postmoderna
Nel quadro relativamente tranquillo e scontato degli anni ottanta, si inserirono avvenimenti
di portata internazionale che sconvolsero gli assetti tradizionali e rimisero in discussione il quadro
politico consolidato. Questi hanno preso l’avvio con il sovvertimento politico avvenuto nel blocco
sovietico alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90.
L’avvenimento più rilevante fu, simbolicamente, la caduta del muro di Berlino (1989), con
l’implosione dell’impero sovietico, la sua dissoluzione in tante repubbliche nazionali e, di
conseguenza, la frantumazione dell’Est europeo. Tali vicende sconvolsero la storia e cambiarono la
geografia politica del pianeta. L’effetto più rilevante, a livello mondiale, fu la caduta del principale
baluardo dell’ideologia comunista, la conseguente crisi delle visioni del mondo ispirate a forme di
egualitarismo sociale o socialiste, e l’egemonia indiscussa del modello liberista. Anche i partiti
legati a quel particolare tipo di pensiero entrarono in crisi, dissolvendosi o rinnovandosi
profondamente.
4.1. La politica italiana dopo l’89
Con la caduta del muro di Berlino e gli avvenimenti dell’Est europeo risultò non più così
essenziale il baluardo della democrazia eretto dalla DC e dagli altri partiti che dal dopoguerra
avevano, con formule diverse, governato l’Italia e assicurato la sua permanenza nell’area
occidentale. Così si ritenne che fosse giunto il momento di cambiare. La corruzione che aveva
caratterizzato in maniera più marcata l’ultimo decennio divenne l’occasione per dare una spallata al
sistema. Attraverso una serie di processi ad amministratori dei partiti di governo, avviata da un pool
di giudici di Milano, si diede inizio alla stagione di “Tangentopoli” che raccolse e condensò la
voglia di pulizia morale e di onestà dei cittadini, insieme alla volontà di riscossa dei partiti rimasti
da sempre all’opposizione. Ciò portò alla progressiva dissoluzione o cambiamento dei vecchi partiti
che avevano per cinquant’anni governato l’Italia: DC, PSI, PSDI, PRI, PLI.
Nello stesso tempo nuove istanze politiche e nuovi partiti nascevano dalla frantumazione del
vecchio quadro politico. Già prima dell’89 in Italia erano emerse forti spinte particolaristiche, con
manifestazioni di xenofobia ed esaltazione delle tradizioni locali. La nascita del movimento politico
della “Lega Nord”, fornì una base ideologica ed un’organizzazione politica a queste istanze,
provenienti soprattutto da ambienti dell’artigianato, proprietà terriera, media e piccola industria
delle aree pedemontane e rurali del Nord Italia.
Anche l’esperimento politico di “Forza Italia”, promosso da un imprenditore milanese,
Silvio Berlusconi, fu in qualche modo una conseguenza del caduta del muro di Berlino. Esso, con
alcuni principi del neoliberismo economico, ma soprattutto con un elevato senso di pragmatismo,
raccolse parte delle istanze dell’elettorato moderato, rimasto orfano di punti di riferimento dopo la
dissoluzione della DC e del PSI.
Anche i giovani seguirono, in qualche modo, tali andamenti politici. Secondo lo IARD, nel
1996 si ebbe un’ulteriore polarizzazione delle posizioni giovanili verso gli estremi, e, nelle
preferenze elettorali, un consistente spostamento verso destra con propensione per i partiti di nuova
fondazione (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 108-109). Soprattutto la Lega Nord, all’inizio, registrò
una notevole crescita di consensi tra l’elettorato giovanile. Tuttavia, dagli approfondimenti condotti
dallo IARD, non risultò che ciò significasse un aumento del pericolo separatista contro le tendenze
universalistiche, tradizionalmente retaggio dei giovani. Anzi apparve chiaro che i giovani italiani,
pur interessati alle vicende politiche, reagivano di fronte alla minaccia separatista recuperando il
valore della patria, fino ad allora poco considerato. Conseguenza di ciò fu la rivalutazione
dell’istanza localista senza perdere il senso di un’appartenenza più vasta. La cosa apparve così
28
chiara che l’estensore, che pur aveva intitolato il capitolo “l’Italia: un puzzle di piccole patrie”
(Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 145), concludeva definendo i giovani “localisti, italiani e
cosmopoliti, senza contraddizioni” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 168).
4.2. L’economia
Gli avvenimenti a livello nazionale e internazionale ebbero notevoli ripercussioni a livello
economico. La caduta del regime sovietico comportò l’oblio delle teorie interventiste dello stato e
l’adozione a raggio universale dell’economia di mercato. L’indirizzo neo-liberista dalla Gran
Bretagna e dagli Stati si estese a tutta l’Europa, occidentale prima e poi orientale, con non
indifferenti problemi a livello sociale.
Ma, nonostante l’entusiasmo suscitato da questi avvenimenti e la fiducia incondizionata
nelle regole del mercato e nel capitalismo, dopo qualche anno la situazione economica non fu così
brillante come ci si era illusi. “L’Occidente, finita la grande contrapposizione [con l’impero
sovietico], ha conosciuto una lunga congiuntura negativa, con alti tassi di disoccupazione”
(Detragiache, 1996, 107). ).
Tutto questo ebbe notevoli ripercussioni anche in Italia. In un primo momento (fine degli
anni ’80, inizio anni ’90) la situazione economica sembrò migliorare, ma dopo il ’93 essa cominciò
a deteriorarsi e a peggiorare notevolmente. Al grande sforzo per una nuova fase di espansione e
sviluppo degli anni ’80, succedette una certa stanchezza, anche per effetto della depressione
internazionale. Si notò con preoccupazione che era “entrata in crisi la tensione ad innovare e a fare
qualità”; in particolare che si erano “appannate fantasia e creatività” (Malizia, 1997, 10). Anche lo
stato non era più in grado di sostenere e pilotare l’espansione economica.
Ciò influì sull’andamento dei tassi di disoccupazione. La ricerca IARD del ‘92 aveva
registrato, infatti, una bassissima percentuale di giovani in cerca di prima occupazione (3.7%) e il
numero più basso da quando erano cominciate le ricerche IARD di giovani in cerca di lavoro (26%
sotto i 25 anni, 28.8% sotto i 30). Ma qualche anno dopo (’93) la situazione precipitò nuovamente e
le condizioni lavorative peggiorano di molto. La ricerca IARD del ‘96 registrò un debole aumento
della ricerca di prima occupazione (5.4%) e uno più marcato di lavoro in genere (33.3% sotto i 25
anni, 36.8% sotto i 30), con un aumento complessivo di 6-7 punti percentuali di giovani con
problemi occupazionali. A questo si aggiunse l’aumento delle disuguaglianze territoriali (favorito il
Nord-Est, sfavorito il Sud e le Isole), dando luogo a differenti opportunità d’impiego per i giovani,
disparità nella qualità del lavoro e nella retribuzione, maggiori discriminazioni per sesso e cultura.
Una leggera inversione di rotta si registrò alla fine degli anni ’90 non per effetto del miglioramento
del quadro economico, ma per la maggior flessibilità del mercato e la capacità dei giovani di
adattarsi alle nuove situazioni.
Queste alternanze economiche ebbero effetti anche sulla percezione dei bisogni da parte
giovanile. Fino al ‘92, gli andamenti furono in sintonia con le previsioni di Inglehart: diminuiva
l’importanza del lavoro nella gerarchia dei valori (cedendo il posto agli affetti), crescevano le attese
di autorealizzazione e autonomizzazione, con notevole disponibilità alla flessibilità. Ma dopo il ‘92
le attese rispetto al lavoro si invertirono: aumentavano le domande in merito allo stipendio e al
reddito, mentre diminuivano rispetto all’ambiente, ai rapporti, all’autoespressione.
Le diverse situazioni sociali e culturali influirono a loro volta nella tipologia delle risposte. I
giovani più scolarizzati tendevano ad essere relativamente più soddisfatti del lavoro, lo concepivano
più in termini autorealizzativi, ma anche di carriera, mentre i meno scolarizzati mostravano maggior
apprezzamento per la dimensione relazionale ma anche per quella retributiva. Pertanto elementi
espressivi (o postmaterialisti) si intrecciavano con quelli strumentali (o materialisti) in entrambi i
casi, rendendo difficile una lettura lineare dell’evoluzione dei bisogni e dei valori giovanili in
merito al lavoro.
29
4.3. La scuola
La scuola italiana negli anni novanta registrò da una parte l’accentuazione di fenomeni già
emersi negli anni precedenti; dall’altra la comparsa di fenomeni nuovi, alcuni di segno positivo altri
negativo.
Sul versante positivo si registrò in quegli anni:
a) Una sostenuta domanda di formazione e qualificazione: dagli anni Ottanta, infatti si notò
“un costante incremento dei tassi di scolarizzazione a livello di scuola secondaria
superiore e di immatricolazione all'università” (Besozzi, 1998, 21). Crebbe il tasso di
passaggio dalla SSS all'università e aumentarono gli iscritti in valore assoluto. Ad
incrementare in qualche misura la domanda di qualificazione contribuì anche la
formazione professionale regionale con una prevalenza del settore di attività
commerciale e la formazione in azienda. Questo indicava una diffusa e sostenuta
domanda di istruzione che, tuttavia, si perdeva lungo il percorso (Besozzi, 1998, 21).
b) La domanda di formazione continua: i Rapporti CENSIS e ISFOL registrarono negli
ultimi anni del decennio la crescita di un fenomeno nuovo, in decisa controtendenza
rispetto alla situazione precedente: lo “sviluppo della domanda di formazione continua e
di consumi culturali, indice dello sviluppo di un orientamento verso la formazione per
tutta la vita” (Besozzi, 1996, 22). Questa domanda trovò accoglienza soprattutto negli
accordi sul lavoro e nelle circolari del ministero del Lavoro, che gettarono le basi per lo
sviluppo di strategie in ordine alla rimotivazione, riqualificazione, riconversione degli
adulti e all'attivazione delle imprese nella forma di reti interaziendali per la
predisposizione di iniziative formative (ISFOL, 1997, 445-446).
c) L’asse legislativo e l’impegno di soggetti istituzionali e non. Nella seconda metà degli
anni ‘90 furono avviati o conclusi iter legislativi fondamentali per il riordino
complessivo del sistema della formazione e per il governo delle varie modalità di
transizione tra formazione e mondo del lavoro. La più importante fu senza dubbio la
“legge quadro sul riordino dei cicli dell'istruzione” presentata dal ministro Berlinguer
nel 1997. In essa si sottolineava la centralità del soggetto in formazione delle differenze
interindividuali, valorizzando la personalizzazione dei percorsi, ma in stretto legame
con la crescita della società. All'art. 2 (sistema di istruzione e formazione), si faceva
riferimento ad un sistema che andasse oltre quello scolastico, includendo anche la
formazione professionale e la formazione continua. Il diritto alla formazione si
realizzava “attraverso la progressiva espansione dell'offerta di formazione professionale e dell'integrazione tra questa e l'istruzione”. Ne conseguiva la necessità di
flessibilità dei percorsi, di un rapporto stretto tra le diverse agenzie formative e non e
l'importanza della formazione continua lungo tutto l’arco della vita, all'interno della
quale diventavano importanti i crediti formativi acquisiti nel corso di esperienze
scolastiche o nell'ambito della formazione professionale, crediti che consentivano di
riprendere un percorso formativo interrotto facendoli valere nell'ambito nel quale si
intendeva proseguire. La legge sul riordino dei cicli dell'istruzione faceva quindi
riferimento ad un sistema formativo allargato (policentrico) ma anche integrato e
regolato. Ad un asse legislativo che si rinnovava corrispondeva una mobilitazione di
vari soggetti istituzionali e anche non istituzionali, per concorrere a predisporre il
cosiddetto "patto formativo" che richiedeva il decentramento istituzionale e
l'autonomia decisionale ed amministrativa (Besozzi, 1998, 20-21).
d) Il sostegno economico e culturale dell'Europa. L'Europa rappresentò una risorsa
fondamentale per la messa a punto e la realizzazione di una riforma globale del sistema
della formazione nel nostro paese. Una risorsa prima di tutto culturale, quale interfaccia
30
e ambito globale delle tendenze in atto nei diversi paesi europei e nel contesto
internazionale. Ma la Comunità Europea rappresentò anche una risorsa dal punto di
vista economico, attraverso l'erogazione di contributi a sostegno delle diverse iniziative
e dei progetti che hanno rilevanza per la formazione e istruzione dei giovani,
soprattutto a livello regionale (Besozzi, 1998, 21).
Gli elementi problematici erano, invece:
e) Il ritardo rispetto all'Europa. Malgrado il progressivo aumento della domanda di
istruzione e l'innalzamento del numero di licenziati, diplomati e laureati, il nostro paese
presentava nel corso degli anni ‘90 gravi ritardi rispetto all’Europa e ai paesi
industrializzati per quanto riguarda il livello complessivo di istruzione raggiunto dalla
popolazione adulta. Anche sugli altri livelli di scolarità si evidenziava una distanza
considerevole. Il confronto con i tassi di formazione e scolarizzazione con le altre
nazioni europeee evidenziavano un "deficit" formativo non indifferente, anche se in
progressiva riduzione (Besozzi, 1998, 22-23).
f) Il basso grado di efficienza ed efficacia del sistema scolastico. Ancora negli anni
Novanta, i dati su ripetenze e abbandoni nella scuola media inferiore e superiore e i
tassi di abbandono universitario mostravano che l’efficacia e l’efficienza del sistema
scolastico italiano non erano obiettivi realizzati. Il quadro della dispersione scolastica si
presentava in termini molto problematici, a partire dalla scuola media inferiore dove,
ancora negli anni Novanta, su 1.000 ragazzi che iniziavano la prima media, 47 lasciano
senza conseguire il titolo di licenza media inferiore (ISFOL, 1997, 266). Ma anche la
dispersione nella scuola secondaria superiore e all'università evidenziava le
contraddizioni presenti nel sistema: infatti, a fronte di tassi elevati di passaggio dalla
scuola media alla scuola secondaria superiore e dalla secondaria superiore all'università
si verificava un tasso di caduta elevato che portava a diplomarsi solo circa il 70% degli
iscritti 5 anni prima e a laurearsi solo uno studente su tre. Questo faceva sì che ancora
negli anni Novanta, l’Italia nel confronto europeo figurasse fra i paesi con il più basso
tasso di diplomati. L’anomalia più evidente era evidenziata dalla mancata
corrispondenza tra la propensione a prolungare e quindi permanere nel sistema
d'istruzione e il corrispondente conseguimento del titolo finale. Un altro fenomeno
importante era mostrato dai percorsi discontinui, irregolari e dai rientri in formazione
(Besozzi, 1998, 23-24).
g) Le disparità territoriali, di genere, di classe sociale. In Italia permanevano all'interno
del sistema di istruzione forti disparità in relazione alla classe sociale d'origine, al
genere, alla zona geografica. Si trattava di disparità che mostravano una diversa
fruizione della formazione e quindi l’esistenza di profonde disuguaglianze che il
sistema non era ancora riuscito a fronteggiare. Una specie di "segregazione formativa"
in ordine alla forza di attrazione che il sistema esercitava verso canali o indirizzi più
deboli o di minor prestigio o consistenza: era il caso per esempio delle femmine che
frequentavano quasi solo certi indirizzi di scuola secondaria superiore o della fruizione
da parte delle classi sociali basse soprattutto di canali formativi professionalizzanti. La
frequenza ai licei e di certe facoltà più prestigiose era ancora appannaggio delle classi
sociali medie e alte. Evidente anche la disparità di fruizione e di esiti al Sud e nelle
Isole (Besozzi, 1998, 24).
h) La domanda di personale qualificato. In Italia si continuò a registrare una forte
disparità di situazioni, per cui per esempio era solo la grande industria a richiedere
personale altamente istruito. Le piccole imprese tendevano ancora ad assumere
personale con basse qualifiche e quindi ad esprimere una domanda di forza-lavoro
istruita molto contenuta. Le medie e grandi imprese richiedevano invece personale
31
istruito, ma la loro capacità di assorbimento di giovani con elevata scolarità era limitata
sia dagli oneri fiscali sia dalla regolazione istituzionale del mercato del lavoro
(Schizzerotto, 1997, 357-8) L'analisi del rapporto tra domanda e offerta di lavoro
mostrava pertanto come il mercato del lavoro in Italia investisse in maniera
insufficiente nelle risorse umane.
4.4. La cultura post-moderna
Le trasformazioni a livello strutturale ebbero notevoli ripercussioni a livello culturale con
andamento circolare e interattivo: la cultura risente delle trasformazioni sociali e si adegua; ma è
anche vero l’incontrario: la società sceglie il tipo di cultura che le fornisce gli strumenti migliori per
interpretare la situazione e adattarsi. Ovviamente, con effetti di feed-back continui, per cui è
difficile decidere “cosa influenzi chi”. Ciò risultò particolarmente vero in quegli anni.
Le accelerazioni che aveva assunto negli ultimi anni la modernità, assunsero un ritmo così
rapido e vorticoso da far pensare di trovarsi in un altro tipo di civiltà, affatto diversa da quella che
l’aveva preceduta. Tale mutamento fu etichettato come “postmoderno”. Con tale termine, inventato
dall’architettura ma preso a prestito anche dalla filosofia e sociologia, si volle dare un nome alle
caratteristiche che andava assumendo la modernità. Anche se il conio del termine risale agli anni
’70, la sua applicazione sociologica su larga scala avvenne proprio in quegli anni, come si può
evincere da varie pubblicazioni dell’epoca: segno che solo allora si cominciò prendere coscienza di
trovarsi non solo di fronte ad un diverso modo di produrre (postindustriale), o di organizzarsi della
società (più complesso), ma anche ad una vera svolta epocale.
In realtà è questione dibattuta tra i teorici se si tratti di un mutamento radicale, oppure
semplicemente un’accelerazione della modernità. C’è chi pensa che la modernità sia un periodo non
ancora concluso, per cui la interpreta come un progetto incompiuto (Habermas), una modernità
radicale (Giddens e Luhmann), una modernità esplosa (Touraine)28.
Altri invece intendono con il termine “postmodernità” una rottura radicale rispetto al
passato. Gli elementi assolutamente nuovi sarebbero: “l’assenza di una descrizione unitaria del
mondo, di una razionalità valida per tutti, di un concetto di giustizia condiviso, ma anche la
riscoperta dei limiti delle azioni umane, la tolleranza della diversità, il rifiuto di basarsi
esclusivamente su valori materialistici” (Ungaro, 2001, 20).
Alla forza delle ideologie o delle “grandi narrazioni” che avevano caratterizzato la
“modernità”, succederebbe un atteggiamento più rinunciatario e insicuro. E’ di quei tempi “la
scoperta che nulla è dato conoscere con certezza, dal momento che tutti i precedenti fondamenti
dell’epistemologia si sono rivelati inattendibili; il fatto che la storia è priva di ogni teleologia e che
di conseguenza non si può difendere plausibilmente alcuna versione di progresso; e infine la nascita
di un nuovo programma sociale e politico in cui assumono crescente importanza le preoccupazione
ecologiche e forse i nuovi movimenti sociali in genere” (Giddens, 1994, 53). Prendeva così corpo
una forma mentale che metteva radicalmente in dubbio la stessa possibilità di un fondamento non
illusorio per le convinzioni che fino ad allora avevano guidato la cultura moderna.
Entrò così in dubbio la validità del ragionamento umano29, i valori e le convenzioni sociali e
soprattutto l'idea stessa di uomo e di società30.
28 Con tali termini si indica che il progetto illuministico non è stato portato adeguatamente a termine, oppure che è stato talmente
estremizzato da comportare più conseguenze dannose del previsto: “libertà che diventa licenza, scienza che si diventa anti-umana,
ecc.” (Ungaro, 2001, 16).
29 Il pensiero postmoderno, comprende tutte quelle filosofie e posizioni teoriche che, fin dalla fine del secolo scorso, hanno
espresso una forte critica alla ragione, intesa come "capacità progettuale di una soggettività che si dispiega verso un orizzonte di fini
di cui ritiene di possedere la chiave" (Villani, 1985, 5-6). Esso reagisce ad un'impostazione classica della razionalità, non
riconoscendole più la validità di cui aveva goduto fino ad allora, ponendo con ciò in crisi i fondamenti stessi su cui poggiava,
particolarmente quello epistemologico e quello ontologico. Nello stesso tempo rinuncia, per principio, a cercare un proprio
fondamento, in quanto ritiene che la ragione umana non sia, di per sé in grado di raggiungere la verità e di trovare un fondamento ad
32
Il tipo di pensiero a cui ci si faceva riferimento era piuttosto quello di Nietszche o di
Heidegger, di Gadamer, di Derida, di Lyotard. Sul versante scientifico il “principio di
indeterminazione” di Eisenberg diventò la pietra di confronto per tutte le teorie.
4.4.1. I riflessi sociali del pensiero postmoderno
La relativizzazione del pensiero classico occidentale e lo scetticismo sui suoi atteggiamenti
mentali aveva comportato degli innegabili vantaggi: una maggior flessibilità e differenziazione
nella società; il declino delle ideologie totalizzanti; la diminuzione di individui dalla personalità
autoritaria e l'accresciuta tolleranza ed accettazione delle "diversità" etniche, sociali e religiose; la
tendenza alla parità tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro; l'accresciuta sensibilità verso i
diritti di tutti i cittadini, e in particolare delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di
handicap); l'indebolimento del formalismo sociale e della deferenza verso l'autorità politica e
sociale (Vaccarini, 1990, 121).
Però esso rappresentò anche la distruzione di tutto ciò che era collegato al passato più che la
effettiva costruzione di una nuova razionalità. Ciò ha voluto dire crisi delle agenzie di
socializzazione tradizionali31; egemonia ideologica dell’ "individualismo radicale" e svuotamento di
valore del lavoro, dell'amore e del matrimonio, della comunità democratica32. Crisi dei valori e delle
concezioni base su cui aveva costruito finora il consenso e le motivazioni all’azione.
Insieme ne era venuta la "cultura del narcisismo", ispirata alla rigida dissociazione tra sfera
privata e sfera pubblica; perdita di potere e di funzione sociale dell'intellettuale; perdita di
credibilità intellettuale della nozione stessa di soggetto umano, e quindi della possibilità di definire
una identità qualsiasi. Crisi di senso e di orientamento generale.
La condizione dell’uomo moderno appariva sempre più simile a quella descritta da Berger:
un “homeless mind”, una “mente senza fissa dimora”; uno sradicato in patria, errabondo, inquieto,
senza un punto fisso, un punto di riferimento sicuro. Questa cultura fu il segno della profonda crisi
che stava attraversando la società.
una forma di pensiero che non sia ideologica.
30 "L'idea forza della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione ai
valori ultimi, fondati sulla capacità dell'uomo di esercitare la ragione per un'opera di chiarificazione, di illuminazione (di qui il nome
di illuminismo come tratto qualificante la modernità) nei confronti del mondo e di se stesso. Ora - come hanno puntualizzato, sia pur
da angolazioni contrapposte, J. F. Lyotard e J. Habermas -, ciò che definisce l'essenza della condizione postmoderna è proprio la
negazione della capacità umana di chiarificazione: questa condizione si impernia sul disconoscimento dei valori ultimi, in grado
appunto di chiarire, cioè di fondare, giustificare, legittimare un qualsiasi ordinamento della società (fosse anche rivoluzionario o
riformatore), di motivare e orientare comportamenti, di conferire un senso unitario e quindi un'effettiva intelligibilità alla vita umana
e alla società" (Vaccarini, 1990, 128-129).
31 "Famiglia e scuola hanno perduto la capacità di trasmettere immagini del mondo, modelli di azione e un senso profondo del
legame con gli altri, fattori questi che danno significato, intensità ed autenticità all'esistenza" (Vaccarini, 1990, 121).
32 "R. Bellah chiarisce che la modernità è stata promossa da una concezione, rispettivamente, del lavoro, dell'amore e del
matrimonio e della comunità democratica, che è contrassegnata dall'interdipendenza e dalla sintesi tra sfera privata e sfera pubblica,
tra individuo e collettività. [...] Il risultato di questa integrazione tra sfera privata e sfera sociale è la prospettiva di formare delle
personalità dotate di carattere e di capacità autonome e responsabili delle proprie azioni. Ora, l'«io» ribalta la suddetta concezione
propria della modernità postulando la dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività, e valorizzando in
modo esclusivo la sfera individuale e privata a scapito della sfera sociale e pubblica. Secondo questa ideologia individualistica l'«io»
è completamente libero da vincoli, e peculiarmente da vincoli dettati da un fine morale e stabile. La base teorica di questa libertà è
l'assunto che non esiste alcun criterio oggettivo di discernimento del vero dal falso, del bene dal male; pertanto sono soltanto i nostri
sentimenti a poter fungere da guida morale delle nostre azioni. L'«io» si trova dunque atomizzato, e indotto a scavarsi una nicchia in
cui cercare l'auto-espressione e adottare un proprio stile di vita. All'interno di questa nicchia l'«io» è illimitatamente libero; per
contro, tutto ciò che è all'esterno di questa nicchia gli è fondamentalmente indifferente. Ma, a ben vedere, l'indifferenza permea l'«io»
anche nella sua nicchia privata: infatti la nozione di un «io» assolutamente libero conduce all'esperienza di un «io» assolutamente
vuoto. Cioè ad una identità destrutturata e frammentata" (Vaccarini, 1990, 122-123).
33
4.4.2. Postmaterialismo e postmodernità
I valori postmaterialisti vennero da vari autori e dallo stesso Inglehart, associati alla nuova
cultura. Fu lo stesso autore a trattare la cosa in maniera sistematica nel suo libro: “Modernization
and postmodernization. Cultural, economic and political change in 43 societies” (1996), uscito in
Italia col titolo “La società postmoderna” (1998). In essa affrontò il rapporto tra “posmaterialismo”
e “postmodernizzazione”, affermando che il postmaterialismo è un processo che contribuisce in
maniera cospicua alla “postmodernizzazione” e ne definisce contenuti e prospettive. Per dimostrarlo
indicò le convergenze tra le sue ricerche sul postmaterialismo e i tratti della società postmoderna.
4.4.2.1. Correlazione tra sviluppo economico e culturale
I risultati delle ricerche condotte in 43 paesi, da quelli più avanzati a quelli più arretrati, gli
avevano fornito conferme convincenti all’ipotesi materialismo/postmaterialismo. Oltre a registrare
una costante aumento del postmaterialismo tra le società avanzate dell’Occidente, in particolare tra i
giovani ed i settori più benestanti e colti della popolazione, egli andava scoprendo che i paesi più
poveri si trovavano ancora alle prese con i bisogni materiali di sopravvivenza, mentre nei paesi più
ricchi il processo di “postmaterializzazione” si andava affermando sempre più, pur con alterne
vicende.
Il lavoro più interessante fu di accostare i tassi di sviluppo al tipo di cultura. Apparve
evidente che, a seconda del livello economico raggiunto, ogni società riproduceva un pattern
culturale preciso. Le società che vivevano in un’economia di sussistenza, riproducevano anche una
cultura in cui la tradizione aveva un ruolo molto importante, e le norme erano ancorate ad
un’autorità trascendente. Mentre le società in via di modernizzazione tendevano ad attribuire molta
importanza alla scienza-teconologia, al successo, ad avere un’autorità di tipo razional-secolare, e
quindi ad interessarsi di più della politica e a darsi norme che derivavano dal consenso sociale.
Infine, le società che avevano superato il livello di sopravvivenza e vivevano
nell’abbondanza, tendevano a mutare i loro criteri in base ai nuovi bisogni che la loro condizione
evidenziava: meno importanza alla scienza-tecnologia, preferenza per i temi ecologici e per la
qualità della vita, depotenziamento dello stato e della burocrazia, più libertà, più fantasia ed
autoespressione33. Ma nello stesso tempo continuava il processo di secolarizzazione messo in atto
dalla modernizzazione: la riduzione dell’importanza della famiglia, la maggior tolleranza verso il
diverso, la parità di diritti tra uomo e donna, ecc. Cioè, il carattere postmaterialista sembrava
correlarsi più probabilmente con le tendenze postmoderne che con quelle tipiche della modernità
(secondo il modello weberiano).
Pertanto, concludeva, “il postmaterialismo costituisce una componente centrale dei valori
postmoderni” (Inglehart 1998, 126).
33 “L’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia era stato l’elemento centrale della modernità. Ma le popolazioni di paesi
con alte percentuali di postmaterialisti (alla fine del continuum postmoderno) tendono ad avere poca fiducia che i progressi scientifici
aiuteranno piuttosto che ledere l’umanità […]; analogamente tendono a mettere in dubbio che assegnare una maggiore importanza
alla «tecnologia» sarebbe una buona cosa. Al contrario, le stesse società hanno alti livelli di consenso nei confronti dei movimenti per
l’«ecologia». Il fatto che le società informate alla sicurezza tendano a rifiutare la scienza e la tecnologia è il punto principale di
allontanamento dalla fiducia fondamentale della modernizzazione - un’altra ragione del perché questa dimensione riflette un
cambiamento nella direzione postmoderna” (Inglehart, 1998, 124).
“Oltre all’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia, un’altra caratteristica chiave della modernizzazione è stata la
tendenza a burocratizzare tutti gli aspetti della vita. Ma i valori postmoderni sono connessi con il declino del consenso per un
governo grande: credere che lo Stato (piuttosto che l’individuo) possa assumersi più responsabilità per assicurare che ciascuno
«provveda a» («responsabilità dello Stato»), è legato ai valori di sopravvivenza, e non ai valori di benessere; lo stesso accade per la
«gestione pubblica/dei dipendenti» piuttosto che per la gestione privata. Il consenso per un governo grande era la componente
principale per la modernizzazione. Il fatto che non sia connesso con i valori postmoderni è un’altra indicazione che la
postmodernizzazíone rappresenta un fondamentale mutamento di direzione” (Inglehart, 1998, 126).
34
4.4.2.2. Correlazione tra postmaterialismo e postmodernizzazione
Sulla postmodernizzazione Inglehart aveva avanzato alcune osservazioni, distinguendo tra
aspetti che erano, a suo avviso, accettabili ed altri che non condivideva.
a) Riconosceva, con i tanti autori postmoderni, che fosse in atto una “deenfatizzazione” della:
i. efficienza economica;
ii. autorità burocratica;
iii. razionalità strumentale, scientifica.
b) Condivideva la richiesta di una società più umana, in cui ci fosse:
i. più spazio per l’autonomia personale, per la cultura;
ii. maggior tolleranza per la diversità, contro l’uniformità e la gerarchizzazione
precedente;
iii. maggior spazio per l’autoespressione e l’autoaffermazione;
iv. più spazio all’estetica;
v. recupero selettivo del passato;
vi. ricerca della qualità della vita.
c) Condivideva anche una certa critica alle “metanarrazioni” (ideologiche, politiche, religiose),
ma rifiutava posizioni estreme come quelle di Lyotard e Braudillard che tendevano ad
assolutizzare il ruolo della cultura. Per lui postmodernità voleva dire aumento dell’influenza
della cultura sulla vita sociale, ma non riduzione alla sola cultura. La realtà rimaneva con la
sua componente oggettiva, non riducibile a solo pensiero. Natura e cultura erano egualmente
presenti e solo dal loro rapporto è possibile la vita dell’uomo e della società. Come già
aveva sostenuto in un’opera precedente (1990) egli concepiva la società come
un’interazione continua tra fattori economici, politici e culturali. Ciò che caratterizzava la
società postmoderna era l’importanza che stava acquisendo la dimensione culturale rispetto
a quella economica e politica.
d) Respingeva anche il radicalismo estremo che negava ogni fondamento sul quale fondare
criteri morali universali. Egli invece condivideva con Habermas la convinzione che fosse
possibile “una base razionale per la vita collettiva […] quando le relazioni sociali sono
organizzate in modo tale che la validità di ogni norma dipende al consenso raggiunto in una
comunicazione libera dal dominio” (Inglehart, 1998, 45).
e) Come pure rifiutava il pregiudizio anti-occidentale di Derida. Egli sosteneva che, se è vero
che la società industriale e moderna è nata in occidente, essa non è solo occidentale. Gli
elementi fondamentali della “modernizzazione” sono stati l’industrializzazione,
l’urbanizzazione, la secolarizzazione, la burocratizzazione e una cultura basata sulla
burocrazia: “una cultura che richiedeva il passaggio da una status ascritto ad uno status
acquisito, da forme diffuse a forme specifiche di autorità, da obbligazioni personalistiche a
ruoli impersonali e da leggi particolaristiche a leggi universali” (Inglehart, 1998, 50). Tali
aspetti non sono esclusivi della società occidentale. Se hanno preso l’avvio in occidente fu
per merito dell’etica protestante che cambiò il sistema di valori: l’accumulazione economica
non più osteggiata o tollerata, ma incoraggiata. Tale mutamento culturale aprì la strada al
capitalismo e all’industrializzazione. Ma laddove si danno gli stessi mutamenti culturali,
come per esempio in Estremo Oriente dove prevale la cultura confuciana, avviene lo stesso
processo. E l’industrializzazione è perseguita come una meta desiderabile da tutte le nazioni,
indipendentemente dalla loro posizione geografica o culturale.
35
4.4.2.3. Cambio epocale
Ciononostante, egli sosteneva di trovarsi di fronte ad un cambiamento culturale senza
precedenti. Il cambiamento dalla società moderna a quella postmoderna veniva fatto risalire ai limiti
raggiunti dalla società moderna, che egli spiegava con la tesi dell’“utilità marginale decrescente dei
profitti economici”. Questa motiverebbe il fatto che, una volta raggiunti certi livelli di vita, non
interessa più accumulare ricchezza, ma invece accedere ad una maggior qualità di vita. Quindi,
anche per lui, come per Habermas, la società postmoderna si presentava come un “progetto
incompiuto”, che richiede di essere rivisto, ma non ripudiato. La postmodernizzazione doveva
rappresentare il completamento del processo di modernizzazione, non la sua negazione.
Tuttavia i benefici della modernizzazione non andavano dimenticati o sottovalutati, anche se
era ormai giunto il momento di cambiare corso, perché essa aveva imposto costi non più necessari: i
sacrifici per il successo e l’eccessiva diffusione dell’organizzazione burocratica34.
Così ecco emergere nuovi valori e stili di vita, più funzionali alla situazione determinatasi in
seguito al raggiungimento di una notevole sicurezza materiale. Ma il “postmaterialismo” implicava
il superamento del “materialismo”, ma non il suo rinnegamento: “i postmaterialisti non sono non
materialisti, e neppure antimaterialisti. Il termine «postmaterialista» indica un set di fini che sono
ritenuti importanti dopo che le persone hanno ottenuto la sicurezza materiale e proprio perché
l’hanno ottenuta. […] L’emergere del postmaterialismo non riflette un capovolgimento delle
preferenze, ma un mutamento delle priorità: i postmaterialisti non attribuiscono un valore negativo
alla sicurezza economica e fisica – la valutano positiva come tutti – ma, diversamente dai
materialisti, danno priorità all’autoespressione e alla qualità della vita” (Inglehart 1998, 57).
La società postmoderna attribuisce molta più importanza ai problemi della qualità della vita
ed esige livelli molto più alti di prestazioni sociali. Le attese sono per un lavoro sicuro, un aumento
degli standard di vita, guide illuminate, un governo generoso, un’assistenza sanitaria d’alta qualità,
l’armonia razziale, un ambiente pulito, città sane, un lavoro soddisfacente e soddisfazione
personale.
Questi elementi costituiscono per la società moderna «entitlements», “titoli” o diritti espressi
con una convinzione nuova, una maggiore sensibilità che definisce gli atteggiamenti degli
occidentali nei confronti delle condizioni sociali, delle istituzioni nazionali e anche del mondo.
Sempre più si crede che certe cose sono (o dovrebbero essere) garantite. Non è che la gente non si
preoccupi, ma si preoccupa di cose diverse.
Questi atteggiamenti sarebbero destinati, sempre a giudizio dell’autore, a diffondersi
progressivamente e a diventare patrimonio comune di quote sempre maggiori di popolazione, non
solo nelle nazioni occidentali, ma in tutti quegli stati che intendono intraprendere la strada verso la
modernizzazione. Perciò il pattern culturale postmoderno e/o postmaterialista starebbe per
affermarsi come un modello culturale universale verso cui tutto il mondo sarebbe incamminato.
Ovviamente se perduravano le condizioni economiche e politiche.
4.4.3. L’Italia fra tradizione e postmodernità
Il problema se ci si trovasse di fronte ad un cambio epocale o solo ad un mutamento di
valori venne affrontato anche dalla versione italiana della ricerca europea EVSSG (Gubert, 1992).
Si trattava di capire dove stesse andando la società, se verso un riequilibrio dei valori, come
sosteneva il coordinatore italiano della ricerca, dopo le accelerazione dei decenni precedenti, oppure
verso una nuovo civiltà, dai contorni ancora poco definiti. L’analisi dei valori divenne allora la
cartina di tornasole per verificare l’ipotesi più probabile.
34 La loro obsolescenza era decretata da due motivi: “primo, hanno raggiunto i limiti della loro efficienza funzionale; secondo,
stanno raggiungendo i limiti della loro accettabilità di massa” (Inglehart, 1998, 48)
36
4.4.3.1. I valori degli italiani
Per quanto riguarda i valori della famiglia, della sessualità e della coppia negli anni ’90, si
rilevarono comportamenti e valori contraddittori: si era assistito ad un calo di accordo tra le coppie,
era aumentata la disponibilità alla libertà nei comportamenti sessuali; ma nel contempo era aumento
il consenso al matrimonio come istituzione (auto-fondata sulla relazione), l’amore incondizionato
dei figli per i genitori, la soddisfazione per la vita di famiglia.
Per i valori del lavoro: era aumento il peso, già elevato, delle motivazioni strumentali, come
il guadagno, ma anche le motivazioni di tipo espressivo-comunicativo, specie tra i giovani.
Era ulteriormente calata la partecipazione ad associazioni, specie in quelle religiose,
sindacali, politiche, di volontariato sociale, ma per alcuni tipi (associazioni culturali, associazioni
che si occupano del “Terzo Mondo”) essa era cresciuta.
Si voleva che la società assegnasse meno peso al denaro, al lavoro, all’acquisizione di beni
materiali a favore, invece, di una maggiore attenzione alla crescita della persona, alla vita di
famiglia, alla qualità all’ambiente, ma a livello concreto si dava più importanza a mete di natura
economica, anche se cresceva pure la preoccupazione per garantire i diritti di libertà di parola e di
partecipazione sociale e politica.
Era calata la fiducia nello Stato, nelle sue istituzioni, l’impegno nei partiti e nei sindacati,
ma era cresciuto l’interesse e la partecipazione politica. C’era stata una perdita delle posizioni
politicamente conservatrici, ma era aumentato di molto il favore per l’autonomia dell’imprenditore
e la fiducia nel grande padronato.
Era cresciuta la convinzione che dovessero esserci dei criteri validi in ogni circostanza per
decidere ciò che è bene e ciò che è male, ma nel contempo era aumentano il permissivismo e
l’incertezza di giudizio etico su azioni un tempo ritenute sicuramente immorali.
Era aumentata la riflessione sul senso della vita e della morte, l’importanza del riferimento
religioso per sé e nell’educazione dei bambini, la pratica religiosa, ma era diminuita l’affiliazione
alla chiesa e la credenza nelle “verità”, specie di tipo escatologico, che tradizionalmente avevano
fatto da supporto all’esperienza religiosa e che costituivano parte importante del patrimonio di fede
cristiano.
Era aumentato il senso di soddisfazione per la vita che si conduceva, ci si sentiva meno
annoiati e meno soli, meno tesi ed insoddisfatti, era aumentato il senso di fiducia nella gente, ma si
era rilevato più desiderio di star lontani da categorie o gruppi che potevano portare disturbo, più
desiderio di cambiare la società.
4.4.3.2. Postmaterialismo o riequilibrio? Modernità e tradizione nel caso italiano
Di fronte a questi dati Gubert propose alcune riflessioni conclusive. Ponendosi il problema se questi
fossero indicatori di progresso o di ritorno al passato, di postmaterialismo o di materialismo, di
postmoderno o di pre-moderno, egli suggerì un’altra ipotesi, quella del riequilibrio. Con tale
termine intedeva dire che, di fronte all’incertezza se cultura post-materialistica stesse crescendo o si
se stessero recuperando i valori tradizionali, si stava delineando un duplice andamento: “aspetti
trascurati della tradizione riemergerebbero, ristabilendo così un equilibrio più accettabile tra
soddisfacimento di bisogni di tipo prevalentemente materiale ed altri di tipo prevalentemente
spirituale, tra una socialità da ‘soci in affari’, come la chiamava F. Toennies, ed una socialità più
comunitaria ed attenta alla solidarietà (a cominciare dalla famiglia per arrivare allo Stato ed alle
organizzazioni internazionali), tra lo sviluppo della razionalità strumentale e l’attenzione, anche
razionale, ai valori, alla dimensione del ‘senso’ della vita e dell’universo” (Gubert, 1992, 571). Egli
concludeva, sottolineando come “per alcuni aspetti l'ipotesi del riequilibrio può senz'altro sostituire
quella evolutiva, ma a patto che essa non interpreti il riequilibrio come riproposizione tali e quali di
37
elementi della tradizione. E proprio le apparenti contraddizioni mettono in evidenza le diversità
rispetto al passato” (Gubert, 1992, 572).
Tra le principali contraddizioni rilevò quella della famiglia, dove il recupero era fondato
solo (per la gran parte delle persone) “sulla gratificazione derivante dalle relazioni tra i suoi
membri” (Gubert, 1992, 572); del lavoro, con la compresenza di motivazioni strumentali e autorealizzative; del modello di sviluppo, con richieste di attenzione alle dimensioni umanistica ed
ambientale, ma con modi di intervento diversi dall’azione politica classica: l’individuo “vuole
mantenere senza deleghe il controllo della sua quota di potere politico” (Gubert, 1992, 573). Ma era
soprattutto nel recupero dei criteri per stabilire ciò che è bene e ciò che è male che appariva un
cambiamento di rotta in relazione al passato: l’atteggiamento morale sembrava meno intransigente
per i valori materiali e le convenzioni sociali, mentre era assai più esigente quando entravano in
gioco le persone, il rispetto per esse (Gubert, 1992, 573).
A questo punto egli avanzò ipotesi che, per quanto attiene l’etica, la “transizione postmoderna rappresenti solo un ulteriore sviluppo della modernità” (Gubert, 1992, 574). E che i
cambiamenti in atto segnassero, per molti aspetti, un recupero di dimensioni che agli inizi degli anni
Ottanta sembravano meno rilevanti (Dio e famiglia). Arrivò così a suggerire di utilizzare il termine
“postmaterialista” piuttosto che “postmoderno” per interpretare il momento storico-culturale35, in
quanto la tendenza prevalente sembrava indicare un aumento di individualismo e di edonismo,
“secondo una dinamica dei bisogni ben illustrata da Maslow” (Gubert, 1992, 575).
L’Italia, poi, nel contesto europeo, sembrava caratterizzarsi per una maggior tendenza postmaterialista: maggior peso alla famiglia, alla religione, e valori socio-politici più aperti alla
dimensione umanistica. Ma anche per un minor permissivismo etico, per una più forte appartenenza
alla Chiesa ed una maggiore fiducia in essa, per una più elevata condivisione di valori di giustizia
sociale. Questi, egli notava, erano elementi propri della tradizione, che si mescolavano con elementi
nuovi. Per questo avanzava l’ipotesi “che la caratterizzazione dell’Italia rispetto alla media europea
derivi dal congiungersi di due fenomeni, il permanere più forte di valori tradizionali e l’emergere di
valori secondo una prospettiva post-materialista” (Gubert, 1992, 576).
4.5. Valori e bisogni dei giovani europei
Gli elementi riscontrati a livello generale, sia mondiale che italiano, trovano parziale
conferma anche nelle analisi giovanili, pur con elementi tipici dell’età, che andranno messi in
evidenza. Diamo il via con l’analisi del giovane europeo.
L’identikit del giovane europeo “medio” che emerse dalle inchieste dei primi anni ‘9036
dava l’immagine di una generazione tendenzialmente appagata sia sotto il profilo delle relazioni so35 “In un certo senso […] il termine post-moderno sembrerebbe meno adatto del termine post-materialista: questo sottolinea il
passaggio dall’accentuazione posta su oggetti e valori di tipo materiale ad altri, ma potrebbe lasciare impregiudicati sia il grado di
individualismo, sia quello di edonismo, sia quello di secolarizzazione, in base ai quali si misurerebbe, secondo Thomas e Znaniecki,
la modernità in termini socio-culturali. Ed in effetti risulta aumentare l’individualismo, ma neppure l’edonismo sembra conoscere
battute d’arresto. […] E’ quindi rischioso ritenere suffragata dai dati l’ipotesi del cambio epocale o dell’esaurimento della spinta
culturale della modernità; si è piuttosto di fronte ad un suo sviluppo secondo una dinamica dei bisogni ben illustrata da Maslow, ma
nei termini essenziali già nota a psicologi, sociologi ed economisti: la disponibilità di un “bene” in dosi crescenti ne diminuisce
l’utilità marginale, diminuisce la desiderabilità di quote aggiuntive e quindi le preferenze si orientano verso “beni” relativamente
trascurati. Se a ciò si aggiunge l’altra dinamica, del resto assai simile, per cui allo stesso bisogno si tende a dare risposte con
“varianti” sempre più ricche e pregiate, si comprende almeno in parte la crescente attenzione verso la “qualità” relazionale della vita,
verso la “qualità” del lavoro, verso la “qualità” dell’ambiente; si comprende come le mete per le quali valga la pena “combattere”,
mettendo a rischio la propria integrità ed il proprio benessere, siano sempre meno (o siano inesistenti) e come tali scelte siano
riservate esclusivamente al proprio personale convincimento” (Gubert, 1992, 575-576).
36 Nel 1990 la Comunità Economica Europea realizzò un significativo sondaggio sui giovani dai 15 ai 25 anni (Young Europeans
in 1990). I dati di questo sondaggio sono stati analizzati da Maurizio Sorcioni (1992), un ricercatore del Censis, e riportati nella
rivista “Tuttogiovani Notizie”. Essi sono stati posti a confronto con i dati di qualche anno prima (Young Europeans: 1987) e con le
ipotesi di Inglehart. Un’altra significativa ricerca è stata quella EVSSG del ’90, affidata, per la parte italiana, al commento di docenti
dell’Università di Trento.
38
ciali (il 75% viveva in famiglia ben oltre i 25 anni) sia per quel che riguarda le condizioni economico-finanziarie. Infatti più dell’80% si dichiarava molto o abbastanza soddisfatto della propria
condizione finanziaria e 9 giovani su 10 vivevano una realtà relazionale (amicale e parentale)
altrettanto soddisfacente. Confrontandoli con i dati di rilevazioni precedenti appariva sensibile il
miglioramento dei livelli di soddisfazione rispetto alle condizioni “materiali” e, soprattutto, una
minore variabilità tra gli Stati membri.
Tuttavia la realtà era meno idilliaca di quanto appariva a prima vista. Gli inoccupati tra i1525 anni era pari al 7%; 19 giovani europei su 100 vivevano condizioni di difficoltà economicofinanziarie. Il disagio maggiore sembrava però stesse spostandosi verso la sfera valoriale. Si parlava
sempre più di un “disagio derivante dall’esperienza della complessità, inteso come profonda
sensazione di smarrimento di fronte alla crescente complessità valoriale e sociale delle democrazie
europee” (Sorcioni, 1992, 7). In questo senso venivano letti i fenomeni di xenofobia e di radicalismo nazionalista esplosi in Germania, Francia e Italia, che avevano visto giovani come protagonisti37. Quindi il disagio sembrava investire sempre più la sfera immateriale dei valori, dell’identità,
della capacità di dare senso alla vita38.
D’altro canto la dimensione immateriale del disagio giovanile tendeva a generare nuovi
bisogni di sussistenza spostando verso l’alto la soglia minima di soddisfazione materiale attraverso
la selezione dei consumi e delle aspettative. Ciò comportava un aumento di domanda di beni di
consumo di status, dove i bisogni materiali non erano più causa delle nuove istanze valoriali ma
piuttosto l’effetto.
4.5.1. Una cultura postmaterialista ma soprattutto ricombinatoria
Il miglioramento delle condizioni materiali rendeva sempre più evidente l’avanzata di più
bisogni di tipo postmaterialistico. Il confronto con l’“indice di Inglehart” confermava la tendenza in
atto. Prevalevano tra i giovani europei, rispetto alle generazioni precedenti, priorità e bisogni
valoriali di tipo post-materialistico e misto. I tassi di scolarizzazione, cresciuti costantemente negli
ultimi 15 anni in tutti gli Stati membri, risultavano sistematicamente più elevati tra i giovani che
non tra gli adulti. Di conseguenza si manifestava maggiore sensibilità verso istanze e riferimenti
valoriali di tipo post-materialistico.
Ma quello che colpì in questi anni fu “l’incidenza di bisogni misti39”, che risultò trasversale
alle varie classi di età, interessando oltre metà della popolazione comunitaria (cfr. Tab. 1).
Tab. 1 - Polarizzazione valoriale nel corpo sociale europeo. Indice Inglehart per classi d’età. Confronto 19871990.
Tipologia della priorità valoriali
Materialisti
Misti
Giovani (15-24)
’87
’90
16
10
60
62
Adulti (+25)
’87
’90
35
34
52
53
37 “Si tratta di tensioni che esprimono in modo esplicito […] un disagio latente, legato proprio alla difficoltà di vivere dentro quel
conflitto sociale della modernità (Darhendorf, 1988) tipico delle società aperte ed in particolare delle democrazie europee. Scriveva
Simone Weil, in un articolo comparso su Le Monde all’indomani dell’esito del referendum francese sul trattato di Maastricht, che la
perdita di identità evoca l’immagine del precipizio e che spesso dal terrore del vuoto può nascere la rabbia. Ed è verosimile ritenere
che proprio la crisi di identità valoriale e sociale costituisca il filo rosso che caratterizza le molteplici forme del radicalismo
giovanile” (Sorcioni, 1992, 7).
38 “Ciò che appare ormai chiaro, in buona sostanza, è che i livelli di disagio presenti nel variegato universo giovanile europeo non
possano più essere valutati a partire dal grado di soddisfacimento soltanto dei bisogni materiali ma vadano piuttosto riconsiderati a
partire dal più vasto universo dei bisogni valoriali: dalle esigenze di autoespressione e qualità della vita fino ai bisogni crescenti di
identità” (Sorcioni, 1992, 7).
39 “Rientrano in quest’ultima categoria istanze sociali, esigenze e valori materiali ed immateriali anche opposti tra loro, la cui
possibile coesistenza anche in uno stesso individuo tende inevitabilmente a generare gerarchie valoriali instabili, potenzialmente
antinomiche e per loro natura in continua trasformazione” (Sorcioni, 1992, 9).
39
Postmaterialisti
Totali
24
100
28
100
13
100
13
100
Fonte: Elaborazione su dati C.E., Young Europeans, 1987 e 1990 (Sorcioni 1992, 8).
Confluivano nella categoria dei bisogni misti esigenze di autoespressione, individualità e
partecipazione insieme ad istanze materiali, quali la difesa della propria posizione socio-economica
(occupazione e reddito) o dell’identità territoriale. Coesistevano simultaneamente spinte verso
modelli di società aperta e chiusure verso l’esterno (rifiuto dell’immigrazione). “Un crogiuolo di
esigenze ed aspettative, tipico dei processi di transizione, entro il quale possono manifestarsi
pulsioni integrative e spinte disintegrative, e dove i problemi d’identità possono esprimersi in una
logica tanto complessa quanto socialmente dolorosa” (Sorcioni, 1992, 9).
Il bisogno di individualità si manifestava come opposizione alla cultura di massa,
scomposizione dei principali riferimenti ideologici, rifiuto delle tradizionali forme della
partecipazione politica. Superate le logiche di verticalizzazione del conflitto intergenerazionale
degli anni ‘70, il rapporto giovani-adulti si era andato orizzontalizzando, con perdita delle gerarchie
valoriali. Il che faceva intravedere il vuoto lasciato dalla scomparsa dei vecchi meccanismi di
trasmissione dei valori. Di qui le difficoltà delle generazioni adulte e più in generale delle agenzie
educative (prima fra tutte la famiglia) ad assumere un ruolo non più autoritario ma autorevole nei
confronti delle giovani generazioni 40. Ne conseguiva il carattere misto delle gerarchie valoriali,
caratterizzato dalla combinazione di bisogni, comportamenti ed aspettative anche contraddittorie
nello stesso individuo.
Di conseguenza anche la cultura giovanile appariva tendenzialmente ricombinatoria. Tutti i
linguaggi espressivi che interessavano l’arcipelago giovanile si caratterizzavano per un alto tasso di
contaminazione (influenze etniche, artistiche, tecniche e comunicazionali). Musica, cinema,
tecnologie informatiche e in generale ogni forma espressiva consumata o direttamente prodotta dai
giovani europei, assumeva carattere combinatorio e ricombinatorio.
4.5.2. Forme di partecipazione e bisogno d’identità
Uno degli scopi dell’indagine riguardava il processo d’integrazione europea tra i giovani. I
giovani non manifestavano una esplicita ostilità al processo di unificazione europea (solo 2 giovani
su 100 erano negativi) piuttosto non lo consideravano in grado di rispondere alle domande valoriali
e di identità che la complessità della società aperta comportava.
Questa freddezza al tema dell’integrazione europea contrastava con la forte disponibilità dei
giovani verso la lotta al razzismo e gli aiuti al Terzo Mondo. Insieme all’interesse verso le realtà del
Terzo Mondo, si notava un’accentuata attenzione alle culture di altri paesi e l’interesse verso la cultura locale. Il tema ambientalista si confermava come uno dei principali argomenti su cui si
coagulava l’attenzione dell’universo giovanile. Come pure alta appariva la sensibilità verso i problemi sociali mentre diminuiva l’interesse verso lo sport, lo spettacolo e i movimenti per la pace.
Basso appariva l’interesse verso la politica internazionale e nazionale (ed in parte anche
verso i tradizionali “movimenti”), bassa l’adesione a partiti politici ed organizzazioni sindacali,
oltre alla conferma della scarsa attrattiva per le tradizionali forme di partecipazione politica.
Appariva così evidente la frantumazione dei riferimenti politico-valoriali, l’incapacità delle forme
tradizionali di fornire risposte alle domande giovanili ed il fallimento dei tradizionali meccanismi di
generazione delle identità politiche.
40 “La difficoltà […] di generare nuovi processi di trasmissione valoriale partecipativi (e non solo anti-autoritari) ha finito per
produrre una riduzione dell’entropia generazionale. E se la crescita di bisogni ed istanze valoriali di tipo misto all’interno del corpo
sociale europeo appare la risultante di una progressiva attrazione della sensibilità collettiva verso quelle esigenze immateriali, di
qualità di cui appare portatrice la cultura giovanile, essa è anche il sintomo dell’assenza di quei valori riordinanti di cui invece
dovrebbe farsi portatrice la società adulta” (Sorcioni, 1992, 9).
40
In compenso si rivelavano tra i giovani forme di adesione a realtà e valori in antinomia tra
loro, dando ragione del sostanziale carattere combinatorio della cultura giovanile. Ciò portava ad
escludere forme di radicalismo. Ma era “al centro” che si manifestavano le più forti contraddizioni e
tensioni valoriali generate da quella combinazione di esigenze materiali ed immateriali, denominata
“dei bisogni misti”.
4.6. Materialismo e postmaterialismo tra i giovani italiani
Oltre che dalle ricerche europee, anche da quelle specificamente italiane, giunsero
significative indicazioni sull’evoluzione di bisogni e della realtà giovanile. Queste confermarono
orientamenti messi in evidenza nella ricerca precedente, dimostrando la sostanziale omogeneità
della condizione giovanile tra Italia e resto dell’Europa. Confermarono anche tendenze già emerse
nel decennio precedente, portando ad una maggior diffusione e penetrazione di fenomeni già
segnalati. Si confermò la propensione a dare la preminenza ai valori-bisogni di ordine affettivo
(famiglia, amici, amore), in secondo luogo a quelli di tipo strumentale (lavoro, successo), infine a
quelli di tipo ludico-espressivo (gioco, divertimento, sport, tempo libero), e poi di tipo formativoculturale (studio). Mentre valori che riguardavano prevalentemente la sfera sociale e l’impegno per
gli altri (impegno sociale, religioso, politico, patria) erano costantemente al fondo della scala delle
preferenze: tali valori erano percepiti nella loro importanza solo da un’esigua minoranza. Pertanto,
fu l’emergenza dei valori affettivi che caratterizzò quest’epoca a livello giovanile.
Quanto ai “valori-realizzazione”, cioè quelli ritenuti importanti per sentirsi realizzati nella
vita, i giovani sembravano convenire principalmente su quattro: vivere con onestà; essere colto,
sapere molte cose; essere aggiornato su ciò che accade nella società e nella propria città; svolgere
una professione di prestigio. Il primo posto in assoluto era occupato dall'onestà della vita, un valore
etico, di un'etica segnata da un’adesione a contenuti valoriali laici piuttosto che religiosi, come
mostrava anche la rilevanza piuttosto modesta attribuita al testimoniare la propria fede religiosa; si
trattava inoltre di un'etica individualista in quanto la partecipazione alla vita sociale otteneva una
valutazione media (Malizia, 1997, 13).
Un'indagine affermò che “gli anni '90 (...) potrebbero essere caratterizzati dal progressivo
deterioramento dei contenuti dei valori, in nome di un criterio d’uso strumentale dei significati, con
processi quindi di mercificazione e di consumismo dei valori che li svuotano dei contenuti. In altri
termini questa ipotesi ritiene che non vi sia più lo spazio per non condividere i valori generali, ma
cresca invece la capacità di adattarli a sé: le conseguenze sono facilmente immaginabili, perché le
vie degli egocentrismi si lastricano di buone intenzioni e di apparenti solidarismi” (Scanagatta,
1992, 8). In particolare lo stesso autore fece notare che tra gli anni '80 e '90 il significato del
volontariato si era allargato ad attività di tipo edonistico e che nelle motivazioni dell'adesione erano
venute in primo piano le ragioni egoisticamente soggettive rispetto a quelle più altruistiche.
4.6.1. Le ricerche IARD
Anche le indagini IARD continuarono, negli anni ’9041, a monitorare l’andamento dei valori
41 Le ricerche IARD degli anni ‘90 si segnalarono per l’ampliamento dell’età del campione (fino ai 29 anni) e per
l’approfondimento di alcuni ambiti, come le scelte politiche e associative, diventate particolarmente significative dopo i mutamenti
della società e della politica italiana in quegli anni. Quella del ‘92 (febbraio-marzo) si svolse su un campione di 2.500 soggetti, scelti
con gli stessi criteri delle precedenti. L’innalzamento dell’età fu motivata dall’allungamento della fase giovanile, che tendeva a
spostarsi sempre più in alto, anche per effetto delle difficoltà lavorative. Ma la scelta procedeva pure dalla possibilità di seguire le
stesse coorti d’età nella loro maturazione. Quella del ‘96 (primavera), il cui campione era stato scelto con gli stessi criteri della
precedente, analizzò con particolare attenzione la propensione al rischio tra i giovani, il tempo libero, i consumi e i nuovi
orientamenti culturali.
41
in senso materialista/postmaterialista. Come in Europa, anche in Italia prevaleva la tendenza al
rimescolamento. Se da una parte l’esigenza di sicurezza economica sembrava saturata, per cui la
domanda di combattere l’aumento dei prezzi ottenne un bassissimo consenso, dall’altra la forte
domanda di ordine e sicurezza sociale indicava che tale bisogno non era ancora adeguatamente
soddisfatto. Nel compenso i due item postmaterialisti mostravano andamenti divergenti: in calo la
richiesta di “dare maggior potere alla gente nelle decisioni politiche”, mentre era in netta ascesa la
domanda di libertà di parola, che divenne nel ‘96 la risposta più frequente.
Per quanto difficile, sembra che sia possibile ricavare dai dati le seguenti indicazioni:
a) I valori postmaterialisti si stavano affermando anche tra i giovani italiani, pur con lentezza,
incertezze ed involuzioni.
b) Permanevano domande diffuse di sicurezza economica e sociale, conseguenza probabilmente
della situazione economica e politica del paese. Soprattutto il problema della sicurezza sociale
sembrava molto avvertito, senza escludere quello della sicurezza economica (occupazione).
c) Dei bisogni postmaterialisti emergeva con molta evidenza quello di libertà, mentre era
decisamente in ribasso quello di partecipazione politica. Segno della prevalenza dei bisogni di
tipo individualistico, a scapito di quelli solidaristici e collettivi.
d) Non era possibile stabilire, dalle risposte fornite dai giovani italiani nel decennio ’90, se si
stesse nettamente affermando una cultura postmaterialista. Invece apparivano emergenti
domande che riflettevano l’attenzione a bisogni diversi, che potevano essere indistintamente
sia di tipo materialista che postmaterialista, a seconda delle esigenze del momento.
4.6.2. I bisogni formativi nelle ricerche sociologiche dell’Università salesiana
Negli anni ’90 fu condotta dal gruppo di ricerca dell’Istituto di Sociologia dell’Università
salesiana di Roma una serie di ricerche sui “bisogni formativi dei giovani” in varie realtà territoriali,
di cui la più importante, per estensione, fu il Veneto, ma non irrilevanti furono quelle in Abruzzo,
Sardegna, Lazio, ecc42. Queste ricerche confermarono sostanzialmente dati già emersi nelle altre
ricerche, ma con una loro peculiarità. L’obiettivo di tali ricerche era indagare sui “bisogni
formativi” in aree deprivate del paese, per “evidenziare il rapporto esistente tra rappresentazione dei
bisogni in generale, e formativi in particolare, e specifiche esperienze di vita” (Malizia, 1991, 61). I
campi in cui le indagini indagarono furono quelli della vita di relazione (sia tra pari che
associativa), del tempo libero, del rapporto con i genitori, della scuola e/o lavoro, dei valori, bisogni
e comportamenti, dell’esperienza religiosa e di quella trasgressiva. Infatti, tali ricerche mutuavano
un’accezione ampia del concetto di “bisogno formativo”, non circoscrivibile al solo intervento delle
agenzie formative e educative, ma aperto ai contributi socializzanti dell’intera società, che
costituivano un’occasione di autoformazione per l’adolescente.
4.6.2.1. L’evoluzione verso bisogni sempre più immateriali e misti
Anche le ricerche UPS confermarono la tendenza ad una sempre maggiore domanda di
attenzione per i bisogni immateriali, accanto ad un rimescolamento della loro struttura.
In particolare i giovani veneti dimostravano di aver bisogno soprattutto di:
a) relazioni familiari soddisfacenti (domanda di relazioni di tipo affettivo ed emotivo e di libertà
e autonomia);
42 Nel Veneto le ricerche furono condotte a varie riprese, ma sempre con lo stesso impianto di fondo: una nelle aree costiere delle
province di Venezia, Rovigo e nella Bassa Padovana nel 1991 (Malizia, 1991), un’altra a varie riprese tra il 1992 e il 1995 nel
Bellunese (Malizia, 1993), infine una terza a Schio nel 1996 (Malizia, 1997). In Abruzzo rilevante fu quella condotta ad Ortona da
Caliman e Pieroni (1998).
42
b) relazioni amicali (aggregazioni spontanee, richieste di amicizia, di scambiare opinioni su
argomenti di interesse comune, di fare attività sportive e spontanee);
c) di tempo libero e di consumi (sulla strada, in piazza, ai giardini, nei bar, birrerie, pizzerie,
discoteche; in letture sbrigative, davanti alla TV o con hobbies e passatempi non
impegnativi);
d) di istruzione (nella scuola e FP in ordine ad acquisire una maggior professionalità, meno
come interesse per la cultura);
e) di occupazione e di autorealizzazione (conciliando pragmaticamente aspetti espressivi con
quelli strumentali);
f) di valori e di significati (gli affetti, il successo nella scuola e lavoro, la grinta per affrontare la
vita);
g) meno avvertiti quelli di tipo impegno solidale e di trascendenza (Malizia – Frisanco – Pieroni,
1997, 17-23).
Questi bisogni risultarono più meno presenti in tutte le realtà territoriali in cui le ricerche si
applicarono, pur con delle diverse accentuazioni. Per esempio l’attenzione ai bisogni
postmaterialisti emerse soprattutto in aree economicamente più sviluppate (Medio e Basso Veneto),
cioè lì dove la domanda di tipo materiale era stata abbondantemente saturata. Invece in aree più
arretrate (es. il Bellunese) apparivano più consistenti le richieste di attenzione ai bisogni primari, ma
anche significative attenzioni alla cultura e alle trazioni locali. Confermando con ciò, anche nel
campione giovanile intercettato, un dato omogeneo con quello delle inchieste EVSSG (Gubert,
1992, 576).
Questa lista evidenziò che i bisogni dei giovani di una regione italiana non erano molto
diversi, nel complesso, da quelli nazionali e nemmeno da quelli europei, dando ragione di una certa
omogeneizzazione dei bisogni e della cultura giovanile, in rapporto al raggiungimento di un certo
livello di benessere economico.
Inoltre essa indicò che non era più possibile una lettura di tipo gerarchico dei bisogni. Se,
infatti, da una parte la tesi di Inglehart appariva sostanzialmente confermata, rivelando l’emergenza
di bisogni postmaterialisti, proprio lì dove sono stati meglio saturati quelli materiali, dall’altra
appariva evidente che la scala gerarchica di Maslow non aveva valore assoluto. Infatti, si
manifestavano significativi ritorni a valori e bisogni di tipo materiale (consumi) o di tipo acquisitivo
(sicurezza lavorativa e sociale), o di tipo tradizionale (famiglia, tradizioni locali). Era chiaro il
carattere misto di questi bisogni e la cultura combinatoria che vi presiedeva.
4.6.2.2. Contraddizioni e ambivalenze nel concetto di autorealizzazione
La contraddizione presente nella struttura valoriale e dei bisogni apparve chiara quando si
approfondì il concetto di autorealizzazione sottostante le aspirazioni degli intervistati. Analizzando
le risposte del campione più “maturo”, risultò che le loro attese erano in contrasto con i valori che
dichiaravano e che le aspettative erano tra loro contraddittorie e irrealizzabili. Essi, infatti,
proiettavano sul lavoro gran parte delle attese psicologiche di realizzazione personale: esso
comprendeva attese di una buona retribuzione, di possibilità di carriera e di mobilità. “Una
professione non qualunque ma ricca di responsabilità e di prestigio, in cui il lavoro, anch'esso vario,
non rivesta l'aspetto predominante, ma permetta di partecipare sia alla vita sociale come pure a
forme di relax anche dispendiose” (Mion, 1992, 1284). Di conseguenza appariva “una forte
domanda di cultura, di incontri sempre nuovi, di esperienze sempre diverse e molteplici, di
informazioni-controllo sul proprio territorio” (Mion, 1992, 1284).
Già di per sé tali risposte evidenziavano un’immagine di sé idealistica e irrealistica,
condizionata probabilmente dai modelli diffusi dai mass-media e dagli stili di vita dominanti.
Inoltre, le esigenze ed i valori espressi apparivano nettamente in contrasto tra loro, divisi tra un
43
modello autorealizzativo segnatamente individualista e acquisitivo, e valori solidaristici di chi
affermava di credere ancora nonostante le difficoltà, di chi si spendeva nell'impegno sociale per
migliorare sé e gli altri, “in contrapposizione ad altri stili emergenti come quelli del «disincanto»,
dell’apatia, del «rampismo» e del carrierismo” (Mion, 1992, 1284). Ciò non poteva che dar luogo
ad una serie di atteggiamenti ambivalenti e forse contraddittori, che conducevano inevitabilmente
ad una situazione di disagio. Disagio che si manifestava nel disorientamento percepito, per esempio,
rispetto al mondo del lavoro e alle possibilità di impiego. Oppure, che poteva dar luogo a fenomeni
disadattanti come la rinuncia ad ogni progettualità e l’indifferenza valoriale, col rischio del
“cinismo”.
4.7. Le cause sociali della destrutturazione dei bisogni
Il duplice andamento dei bisogni, verso aspettative sempre più alte e verso una sempre
maggiore destrutturazione/conflitto tra loro, venne, dai ricercatori, messo in relazione con alcune
situazioni determinatesi all’interno della società e che erano riconducibili alla sua evoluzione
economico, culturale e organizzativa e alla sua complessificazione.
4.7.1. Una società evoluta, complessa e a-centrica
In particolare si sottolineavano gli elementi problematici della società complessa, come
l’aumento di componenti sociali e delle loro interconnessioni, l’a-centricità, con effetti di
disgregazione sociale e di difficoltà da parte del singolo di conoscenza, scelta e controllo.
L’eccedenza di opportunità poteva costituire un ostacolo nei soggetti, incapaci di impiegarle “in
modo non acritico ma progettuale in un percorso di crescita” (Malizia, 1991, 31).
Dal punto di vista culturale lo sviluppo della complessità rendeva inevitabile la caduta di
consenso nei confronti di modelli che rappresentavano un carattere universale e immutabile. La
cultura cessava di essere un tutto organico e si trasformava in una “serie di tessere accostate l'una
all'altra senza grande coerenza e ordine e secondo modelli tra loro non congruenti, se non
contraddittori, soggetti alle mode del momento” (Malizia, 1997, 9). Si creava una “moltiplicazione
delle opportunità di informazione e di formazione e parcellizzazione” (Malizia, 1997, 9) che
ostacolava ogni tentativo di sintesi. Si instaurava una cultura del frammento, che, se serviva a
combattere il dogmatismo del passato, poneva gravi problemi al sistema formativo, privandolo della
possibilità di fornire una visione organica per l’elaborazione di un progetto di vita. Anche una
“pluralizzazione dei centri” comportava sul “micro” la difficoltà “a trovare un quadro di riferimento
unitario, organico, coerente e ordinato nel quale situare la propria vita” (Malizia, 1997, 9).
In tale contesto l'autorealizzazione diventava “l'obiettivo prioritario di ogni persona, il valore
guida su cui puntare tutto” (Malizia, 1997, 9). L'attuazione delle attese e dei progetti personali
appariva come il centro di tutti gli sforzi, mentre il perseguimento delle finalità comuni veniva
ricercato “condizionatamente al raggiungimento degli obiettivi individuali” (Malizia, 1997, 9). Si
affermavano così, sia a livello individuale che collettivo, l’individualismo, la “caduta della
solidarietà collettiva e riflusso nella privatizzazione radicale o nella esasperata ricerca del successo
ed autorealizzazione personale” (Malizia, 1991, ). Dall’altra, la provvisorietà e la reversibilità delle
scelte, “una legalità ‘appropriativa’ apparentemente pulita, l'appiattimento sul presente e la
frammentazione delle concezioni morali” (Malizia, 1997, 10).
Le caratteristiche della società complessa e flessibile, che rendeva sempre più precarie e
reversibili le scelte, senza un centro organizzatore, sembravano favorire in molti soggetti il
disorientamento nella costruzione dell’identità, “mentre la assenza di progettualità e di contenuti
44
tendeva ad essere surrogata dal consumismo” (Malizia, 1991, 30). A rendere inquieto questo
quadro, e più plausibile l’ipotesi, si aggingeva la crisi delle istituzioni educative e l’allentamento
della loro funzione. Per dei soggetti deboli ciò può equivalere ad una maggior probabilità di disagio
e di percorsi a rischio.
4.7.2. Aumento di opportunità come causa del conflitto
Il miglioramento delle condizioni generali di vita comportava, da una parte un’evoluzione
dei bisogni (e quindi della cultura), con l’evidenziazione di “una struttura dei bisogni sempre più
‘esigente’ e omogenea tra i giovani che chiedono più cose, più opportunità materiali e strutturali ma
anche più comunicazione, più partecipazione/appartenenza/identificazione” (Malizia, 1991, 32).
Dall’altra, per effetto dell’innalzamento della soglia di bisogni e la moltiplicazione delle
opportunità si ipotizzava “un costante conflitto tra valori-bisogni di tipo acquisitivo-realizzativo (la
competitività, il successo, il guadagno, la capacità di consumo, la possibilità di status e di potere) e
quelli di tipo espressivo-post-materialistico (la spontaneità, la fraternità, l'autenticità dei rapporti
interpersonali, la libertà personale, la qualità della vita)” (Malizia, 1991, 31-32). Questo rivelava, a
sua volta, un conflitto interno “tra una promessa di opportunità senza limiti (autonomia,
autorealizzazione) e la presenza di vincoli molto precisi (sistema scolastico-formativo, mondo del
lavoro, struttura delle professioni, processo di omologazione/massificazione dei comportamenti,
partecipazione sociale, ecc.)” (Malizia, 1991, 31). Ciò non poteva non rinviare alle antinomie
presenti a livello sociale, che si riproducevano all’interno dei singoli.
4.7.3. Perdita dell’orizzonte di senso
Uno degli effetti possibili della società complessa e flessibile poteva consistere nella perdita
di significato delle scelte fatte: “nella società flessibile esiste il rischio che le scelte manchino di
senso perché spesso vengono effettuate nel vuoto sociale, in assenza di punti di riferimento
generalmente condivisi che rendano possibile un vera decisione libera” (Maliza, 1991, ). In effetti,
La frammentazione strutturale e culturale comportava “la progressiva scomparsa di un quadro
omogeneo e generalmente condiviso di significati e valori in grado di rappresentare unitariamente il
corpo sociale e quindi la tendenziale ‘soggettivizzazione individualistica’ del comportamento”
(Malizia, 1991, ).
In accordo con tale assunto, la mancanza di una struttura gerarchica nella scala valoriale e
dei bisogni, le contraddizioni nelle attese, l’assenza di progettualità, fu anche letta dai ricercatori,
come un indicatore di un bisogno di senso non soddisfatto. Bisogno che appariva particolarmente
evidente quando questo veniva negato. La frustrazione di tale bisogno portava a sperimentare il
“vuoto esistenziale”, che costituirebbe una patologia tipica della società postmoderna e complessa.
Esso si manifesterebbe soprattutto in occasione di condotte a rischio, che evidenzierebbero un
disagio non altrimenti spiegabile: le crisi adolescenziali, gli stadi depressivi, le condotte suicidarie.
La percezione del disagio per mancanza di senso, se non accolto e soddisfatto, porterebbe a risposte
“illogiche” che si manifesterebbero nella ricerca di compensazioni, di felicità nei mezzi anziché nei
fini. Queste, sostanzialmente, tenderebbero a manifestarsi “nel potenziamento dei mezzi (il denaro,
l'altro, la moda, l'apparenza, il corpo) come fini per il raggiungimento della felicità, e in casi più
intensi con l'autodistruzione (il suicidio), ma anche nel desiderio di evasione che si manifesta nella
ricerca della droga, dell'alcol, della vita allo sballo, della velocità” (Caliman – Peroni, 1998, 10). Se
invece, a giudizio degli autori, riuscisse a lasciarsi guidare dal bisogno di significato come
motivazione ultima il soggetto riuscirebbe a dare senso ad altri valori che, messi in una gerarchia
45
costituirebbero il riferimento in base al quale orientare le proprie decisioni. Quando venissero meno
questi riferimenti di valore, altri motivi, generati dalla situazione presente, o dai bisogni più urgenti,
orientebbero il processo decisionale del soggetto. Ciò indurrebbe a “prese di posizioni,
atteggiamenti e scelte guidate dalla sfera degli impulsi, che tendono a motivare le soluzioni
indirizzate al momento, e ad appagare i bisogni in base a criteri senza riferimenti più precisi”
(Caliman – Pieroni, 1998, 10).
4.7.4. Una visione orizzontale, pragmatica, a forte soggettività
Le tendenze alla destrutturazione gerarchica dei bisogni erano individuate anche in una
tendenza tipica della gioventù del tempo, definita “orizzontale, pragmatica, a forte soggettività”
(Malizia, 1997, 15).
La tendenza all’orizzontalità, non era certo una peculiarità esclusiva delle ricerche dell’UPS.
Essa era stata rilevata da vari autori già negli anni ’80 e rimarcata dal Censis come caratteristica
specifica degli anni ’90, conseguenza, in qualche modo, dell’evoluzione della società ad una sempre
maggior complessificazione. Tuttavia poteva essere anche un indicatore della conseguenza
dell’evoluzione dei bisogni che comportava una sempre maggior autonomia del giovane rispetto ad
istituzioni, passato e mondo adulto, come aveva già fatto rilevare Inglehart fin dagli anni ‘70.
Il mondo giovanile sembrava manifestare in quegli anni un sempre maggior distacco dal
passato, con perdita di riferimenti verticalizzanti, da quelli ideologici e politici, a quelli
“soggettuali, propri della crescita di una frammentazione di comportamenti di consumo, di valori, di
stili di vita che ormai non distingue più, bensì accomuna trasversalmente gli individui e i gruppi,
secondo logiche labili e provvisorie” (Censis, 1992, 6). Se ciò permetteva di registrare la
riduzione/estinzione del conflitto tra generazioni ed una certa omogeneità dei riferimenti valoriali
tra mondo giovanile e mondo adulto, poteva dare luogo anche a “patologie”, riconducibili
sostanzialmente alla contrazione dell’orizzonte temporale. Ciò portava alla soggettivizzazione del
bisogno e al tentativo di rispondere con micro-adattamenti che risultavano funzionali alle esigenze
del momento ma non ala costruzione della personalità e a far fronte alle esigenze future. Questo
poteva spiegare lo “spostamento verso bisogni e priorità valoriali essenzialmente postmaterialistici,
verso cioè esigenze di autoespressione, di qualità e di individualità” (Censis, 1992, 8). Ma metteva
seriamente in crisi i processi di costruzione dell’identità, non più “fattore collettivo” di una classe o
generazione, bensì “elemento privato”, da conseguirsi con micro-aggiustamenti nel proprio privato
o nel mondo vicino. Ma, se l’identità ha bisogno del conflitto, perché essa si gioca
contemporaneamente su due piani, su quello della “contrapposizione e su quello
dell’identificazione” (Censis, 1992, 7), la mancanza di conflitto, indicava una pericolosa deriva,
portatrice di patologia o disagio. La scelta dell’evitamento del conflitto o di ridurlo entro un ambito
ristretto non fungeva da fattore di prevenzione del disagio, bensì da detonatore.
Il Censis individuò proprio nell’ambito delle relazioni intersoggettive, delle interazioni
quotidiane e di familiarità il probabile ambito produttore di parte del disagio. Se infatti queste
rappresentavano “il recinto entro il quale i giovani ritrovano stabilità ed identità, in cui le loro
azioni e la loro comunicazione acquista immediata riconoscibilità, viene da chiedersi quale effetto
produca quando dentro tale recinto siano presenti anche fattori patogeni” (Censis, 1992, 9).
Esso individuava i fattori patogeni in alcuni comportamenti molto diffusi tra i giovani
italiani:
a) la rilevante tendenza da esasperare le relazioni amicali anche nella sfera del “loisir”;
b) una forte resistenza a pensare il futuro;
c) l’abbandono del conflitto intergenerazionale nel contesto familiare, che si traduce nella
ricerca di accordi piuttosto che nel confronto sui valori;
d) presenza di tendenze xenofobe;
46
e) marginale incidenza di patologie devianti (Censis, 1992, 10).
4.8. Elementi caratteristici della gioventù degli anni ‘90
Le indicazioni emerse nelle ricerche sui bisogni giovanili vengono confortate anche dai dati
forniti dalle varie ricerche sulla condizione giovanile, nel corso del decennio funzionano da
conferma di tale diagnosi ed indicatore di bisogni traditi e di situazione potenzialmente devianti.
4.8.1.1. La famiglia “negoziale”
Come già annunziato, la famiglia negli anni ’90 non fu più caratterizzata da una
conflittualità aperta come anni prima. Il clima familiare appariva abbastanza aperto, dialogico,
sereno e costruttivo (Cavalli - de Lillo, 1993, 211-214). Non che mancassero prescrizioni da parte
dei genitori nei confronti dei figli, ma erano relativamente poche e non particolarmente gravose. Le
richieste-bisogno dei figli nei confronti dei genitori si orientavano non tanto verso la domanda di
autonomia e libertà, quanto nella direzione dell’instaurazione di relazioni amichevoli e affettuose in
un clima di dialogo e di comprensione. In questo clima la trasmissione dei valori da parte dei
genitori si orientava sempre più al ribasso; pare che, pur di conservare un clima sereno, i genitori
rinunciassero a stimolare i loro figli verso una cultura etica più impegnativa della responsabilità
solidale e della legalità (Malizia, 1996, 11).
Questo clima a-conflittuale e amichevole favorì la permanenza dei giovani in famiglia,
dando luogo ad un fenomeno tutto italiano: “il prolungamento della fase giovanile”. Se, da una
parte, esso poteva essere attribuito alle difficoltà lavorative e abitative, al prolungamento della
scolarità e alle incertezze per il futuro, dall’altra indicava evidenti ritardi nell’assunzione di
responsabilità e di maturazione della personalità, di definizione dell’identità. Nella ricerca IARD
del ‘92 lo si attribuiva, infatti, alla “sindrome di Peter Pan” (rifiuto di crescere, di assumersi
responsabilità adulte e di distaccarsi dalla comodità e dai vantaggi d’essere adolescenti). Un’altra
motivazione è stata rintracciata anche nelle caratteristiche culturali del nostro popolo: il
“mammismo” o il “familismo”. Certamente, di fronte alle incognite di una società che non forniva
certezze, la famiglia restava il “luogo degli affetti e delle relazioni primarie, rifugio e fonte di
sicurezza” (Buzzi - Cavalli – de Lillo, 1997, 344).
4.8.1.2. Preminenza dei valori affettivi
L’indagine IARD registrò nel ‘92 lo scavalcamento del valore amore-amicizia su quello del
lavoro: indice dell’importanza sempre più strategica che stavano assumendo valori affettivi nella
vita dei giovani. Nel contempo calava l’interesse e la disponibilità per l’impegno pubblico,
necessario per garantire quei diritti e quelle condizioni sempre più esigiti come “titoli” dalla persona
moderna. Da ciò emergeva “un quadro complessivo dei modi con i quali le nuove generazioni
paiono costruire la propria vita decisamente orientato verso il sé ed il privato. Si cerca anzitutto la
soddisfazione sul piano delle relazioni, siano essi parentali, amicali o d’amore e si chiede tutela dei
propri diritti di cittadino e di lavoratore. Solo dopo sembra si possa cominciare a dedicarsi alla
dimensione collettiva (solidarietà ed eguaglianza) ed infine al soddisfacimento dei vari interessi
relativi a tempo libero e alla cultura” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 348).
47
4.8.1.3. Espansione del tempo libero e di consumi
Negli anni ‘90 aumentò ancora l’importanza al tempo libero, con crescita della componente
ludica (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 357), dimostrando così di essere l’ambito privilegiato della
socializzazione, identificazione e autorealizzazione giovanile. Erano proprio i “luoghi neutri” i posti
di ritrovo preferiti per il consumo del tempo libero. Luoghi dove non c’erano pretese di insegnare
niente a nessuno, dove l’approccio alla cultura si attuava con le stesse modalità degli altri beni: tutto
a disposizione senza nessuna pretesa gerarchica o prescrittiva.
D’altra parte però, accanto all’ambizione di democratizzare tutti i rapporti e la stessa
trasmissione della cultura, apparvero evidenti contraddizioni: la differenziazione fu praticata
prevalentemente all’interno di un terreno che si pretendeva “neutro” e che in realtà divenne il spazio
privilegiato di scontro e di affermazione di sé, secondo quanto già vaticinato da Lalive d’Epinay.
Infatti il tempo libero divenne l’ambito dove maggiormente sancire la differenza, attraverso la
disomogeneità nell’accesso ai consumi, che rendevano conto “dell’origine sociale, del grado
d’istruzione, della differenza di genere, del tipo di offerta culturale presente nelle diverse aree
regionali e nei comuni a seconda della loro ampiezza” (Buzzi – Cavalli – de Lillo, 1997, 357).
Così l’affermazione di sé non si giocava più sulle competenze, sul livello culturale, sulla
professione, bensì sull’accessibilità ai consumi. Con ciò scatenando la corsa ad essere sempre più
“in” e la paura di rimanere “out”, di non essere socialmente accettati e considerati. Si ingeneravano
pericolose spirali che portavano facilmente alla lotta con ogni mezzo per evitare l’esclusione, per
essere sempre più visibili ed affermati. Così le manifestazioni dell’ “eccessivo” divennero gli
indicatori di visibilità sociale e fattori d’identità. Esse però costituivano anche sintomi del profondo
disagio che pervadeva quest’epoca e fattori di rischio. Infatti, essendo destituito di valore ogni
riferimento etico ed essendo giocato tutto sulla visibilità sociale, qualsiasi azione poteva essere
legittimata dal bisogno di “apparire”. Chi non aveva con mezzi per farlo, era legittimato ad usare
quelli illeciti: quello che contava era il risultato. Dando così il via a pericolose forme di devianza.
Tali forme si coagularono, a detta degli esperti, in alcune “arene” dove avveniva prevalentemente
la rappresentazione di sé da parte dei giovani e dove esplodevano più facilmente i conflitti: lo stadio
e la discoteca.
Tali “arene” avevano il pregio di costituire dei luoghi circoscritti in cui praticare una
trasgressione controllata, nello spazio e nel tempo, attraverso soprattutto l’assunzione occasionale di
droghe o le manifestazioni di violenza, soprattutto di tipo xenofobico (Censis, 1992, 40). Tali
manifestazioni potevano sembrare “strategie di comprensione e di adattamento volte a favorire il
proprio percorso di integrazione sociale e di autoaffermazione” (Censis, 1992, 39), ma anche
significative scorciatoie per la riduzione e semplificazione della complessità. Palcoscenici per
esibire se stessi, ma anche per esprimere le proprie pulsioni emotive inespresse. Luoghi di
elaborazione di senso e d’identità collettive, ma anche segnali di una coscienza sociale indebolita:
“La propensione all’eccesso appare incoraggiata […] da un rilassamento della coscienza morale –
orientata ad una definizione marcatamente soggettiva, delle stesse categorie del lecito e dell’illecito
– e da una elasticità di atteggiamento nei confronti della trasgressione che porta a confinare
facilmente dalla tolleranza all’indulgenza, fino alla complicità” (Censis, 1992, 40-41).
4.8.1.4. Perdita d’incidenza formativa della scuola
Mentre cresceva il ruolo dei mass-media e dei rapporti informali nella socializzazione
giovanile, diminuiva in pari misura quello della scuola, la quale non riusciva più ad influire sulle
scelte e sulla struttura valoriale degli allievi (o, forse, non si poneva nemmeno più il problema). Di
fatto, si accentuarono, negli anni ‘90 caratteristiche già emerse negli anni ’80. Se l’esperienza
scolastica conservava un ruolo centrale nella vita dei giovani, era più per le sue caratteristiche
socializzanti che educative. Infatti erano le possibilità di rapporto tra i pari e d’acquisizione di una
48
cultura generica, che venivano più apprezzate dagli allievi, mentre l'apprendimento di capacità
professionali era considerato insufficiente. Meno del 10% dimostrava molta fiducia negli
insegnanti, e la percentuale di coloro che ne avevano poca non superava il 30%.
I dati erano anche significativi sul livello di dispersione scolastica, in particolare nel biennio
e nell’istruzione tecnico-professionale: segnali del malessere diffuso e dell'inefficienza sul piano
qualitativo dei processi e dei contenuti dell'offerta di istruzione (Censis, 1995).
4.8.1.5. Il riferimento religioso
Anche la religiosità sembrava obbedire alle dinamiche di orizzontalizzazione, con una
tendenza alla soggettivizzazione dell'esperienza religiosa, privatizzazione della fede, perdita di
relazione con le gerarchie. Ciò appariva sia dai comportamenti, soprattutto in materia sessuale ed
elettorale, distanti dagli appelli dell’autorità religiosa, ma anche con significative prese di distanza
dal punto di vista dottrinale su punti qualificanti la religione ufficiale43 . Emergevano certamente
elementi positivi, come l’esigenza di una religiosità più autentica, che andasse alla ricerca delle
motivazioni personali per credere e che si esprimeva con una preghiera più personale o di piccolo
gruppo (Mion 1991). Oppure con la riscoperta del carisma, la ricerca di una religione
dell'esperienza a forte accentuazione emotiva e comunitaria, la tensione nei confronti di un'integrità
spirituale da salvaguardare.
Tali forme religiose sembra rispondessero a bisogni di sicurezza di fronte alle molteplici
precarietà e incertezze della vita moderna. Senza che ciò comportasse un ricompattamento nella
Chiesa, anche se c’era maggior simpatia verso di essa (e verso il Papa), soprattutto quando
sembrava perdente. Ma l’etica si stava autonomizzando in rapporto alla religione.
D'altra parte, chi aderiva al Cristianesimo, sia nel senso di una forte riaffermazione di
identità, sia nel senso di un rinnovato impegno missionario e di adattamento alle prospettive della
nuova modernità, dimostrava una capacità di scelta molto più alta che nel passato e trovava sovente
in esso delle risposte ai suoi bisogni (Mion, 1995, 46).
4.9. Conclusioni
Negli anni ’90 apparve radicalizzarsi il processo già emerso negli anni ’80, cioè, da un parte
della crescita dei bisogni e dei valori verso sfere sempre più immateriali, dando sostanzialmente
ragione alle tesi di Inglehart, dall’altra al tendenza all’abbandono di tale gerarchia, rivelando la sua
debolezza strutturale. Infatti vennero confermate le tendenza alla contingenza e la precarietà
giovanile nelle scelte e negli orientamenti di valori, in correlazione con i mutamenti delle situazioni
generali della società. Per cui i comportamenti giovanili apparivano sempre più come un tentativo
di adattamento ad una società sostanzialmente incomprensibile e imprevedibile, certamente
complessa. Ciò spiegherebbe la continua alternanza nelle preferenze valoriale e nelle indicazioni dei
bisogni e la presenza del fenomeno dei “bisogni misti”: la nascita di un carattere postmaterialista
veniva da Inglehart messo in relazione con un tipo di sviluppo economico, sociale e politico
sostanzialmente lineare. Il venir meno delle caratteristiche fondamentali del sistema sociale
introduceva elementi di contingenza, generando incertezza collettiva e incentivando il ricorso a
strategie individuali di adattamento alla realtà in trasformazione. In sostanza la “cultura
43 Ciò si esprimeva attraverso una “relativizzazione delle credenze, crescita di autonomia, privatizzazione della pratica religiosa,
sviluppo del ruolo dei laici di fronte alla scarsità dei sacerdoti, valorizzazione dell'impegno «terreno e sociale» a danno di
un'attenzione al Trascendente e alla Storia della Salvezza, affievolimento del senso di colpa e della necessità di una salvezza, nonché
della perdita di coscienza circa la gravità del peccato (crisi della pratica della confessione e dei Novissimi) (Mion 1995, 42-43).
49
combinatoria” dei giovani appariva come la trascrizione sul piano dei comportamenti culturali della
loro capacità di adattamento.
Di qui anche l’accentuazione della perdita di prospettiva temporale, la crisi dei processi di
formazione dell’identità e la sostanziale perdita di ogni orizzonte di senso. Esse appaiono logiche
conseguenze di un quadro sociale fortemente instabile, che se forniva agli individui molte risposte
sul piano materiale, contribuiva ad alimentare il senso di insicurezza. A tale insicurezza contribuiva
non solo la “logica del sociale”, ma anche quella del “culturale”. La crisi epocale stava in quegli
anni giungendo all’apice, favorendo processi di disorientamento e disadattamento. Non solo
venivano meno i processi di trasmissione culturale alle nuove generazioni, ma anche i contenuti.
Non sapendo più dove andare, per che cosa impegnarsi, studiare, lavorare si condannavano le nuove
generazioni a riporre le loro attese di realizzazione sul contingente, sull’apparenza, sul provvisorio.
Ma un senso di vuoto aleggiava impercettibilmente su di loro.
5. I giovani al passaggio del millennio: la globalizzazione dell’insicurezza
L’insicurezza ed il senso di disorientamento e di vuoto che era serpeggiata nell’ultimo
decennio, divenne palpabile ed evidente al passaggio del millennio.
Di per sé il nuovo millennio aveva suscitato molte attese e speranze, confermato dalle feste e
dagli eventi che ne caratterizzarono il passaggio, sia a livello civile che religioso. Ma insieme era
presente un sottile senso di trepidazione, alimentato dalle solite “profezie millenariste”, che
trovavano terreno fertile nell’incertezza diffusa di una popolazione sostanzialmente scettica, che si
dichiara “laica”, ma che in realtà esorcizza l’angoscia con il ricorso a riti scaramantici.
Tuttavia se le celebrazioni del millennio passarono illese la prova dell’apocalisse,
tranquillizzando sulle nefaste conseguenze che il passaggio del millennio avrebbe comportato, le
peggiori previsioni cominciarono ad avverarsi nell’anno successivo.
L’attentato alle Torri Gemelle di New York (11 settembre 2001), ad opera di un gruppo di
terroristi membri del gruppo Al-Qaeda guidati dal principe saudita e petroliere Ben Laden, rese tutti
più consapevoli della propria fragilità. Dopo di allora il mondo divenne più insicuro, i viaggi,
soprattutto in aereo, e le vacanze precipitarono al minimo storico, facendo fallire varie compagnie
aeree e rendendo difficile la vita a tutte le altre. Tutta l’economia mondiale ne risentì pesantemente,
con diminuzione dei consumi, limiti alle esportazioni-importazioni, fallimenti clamorosi di società
economiche, alcuni dei quali coinvolsero i colossi dell’economia americana, con pesanti cadute dei
valori in borsa e perdita della fiducia. Tale situazione si ripercosse sull’andamento dell’economia e
politica italiana che registrò nell’anno 2002 una crescita prossima allo zero, rendendo così, di fatto,
impraticabili molte delle proposte liberiste del programma di governo.
A questo si aggiunga il clima di guerra con alcuni paesi arabi e contro il terrorismo. La riscossa
contro il terrorismo era iniziata con l’Afghanistan che ospitava i terroristi di Al Qaeda. Fu
proseguita con un pesante intervento militare in Iraq, per deporne il dittatore, Saddam Hussein ed
avviare un processo di democratizzazione del paese. Ma la mancata cattura dei principali
responsabili del terrorismo, sia in Afghanistan che in Iraq, i ripetuti attacchi terroristici in Medio
Oriente e la pesante risposta militare di Israele, le minacce del Presidente americano Bush verso
altri paesi “canaglia” come l’Iran, non contribuiscono certo alla tranquillità del quadro
internazionale. Anzi, dopo un iniziale arresto dell’attività terroristica, conseguenza delle brillanti
avanzate americane sul territorio dei suoi nemici, si registra una ripresa ed un intensificarsi
dell’attività terroristica, che coinvolge sia i territori occupati che il livello internazionale, rendendo
evidente la sostanziale vulnerabilità dell’occidente. A questo punto non è solo il modello ad essere
in crisi, ma la sua stessa esistenza, almeno nei modi e termini con cui si era andato delineando negli
ultimi cinquant’anni. Questa situazione non favorisce certo la ripresa economica e la fiducia.
50
5.1. Valori e bisogni europei al passaggio del millennio
Attorno al passaggio del millennio sono state condotte altre ricerche sugli europei, utili per
cogliere i mutamenti che stanno avvenendo44.
I due valori fondamentali, la libertà e l’uguaglianza, vengono affermati in misura assai
disuguale nei diversi Paesi. Nell’insieme dell’Europa la libertà (con il 53%) supera l’uguaglianza
(con il 41%). Solo in alcuni paesi, tra cui l’Italia, l’uguaglianza viene prima della libertà.
Dappertutto la famiglia viene considerata come l’elemento di gran lunga più importante. È
seguita dal lavoro, le amicizie, il tempo libero, la religione e la politica. Presso i giovani vi è la
tendenza a sottolineare sempre più l’amicizia, che supera a volte la famiglia. Presso i giovani
dell’Europa occidentale il tempo libero acquista, di anno in anno, una crescente importanza.
Per quanto riguarda la religione, la diversificazione è grande. Una minoranza la considera
importante nei Paesi nordici (eccettuata l’Islanda). Nell’Europa del Sud (Italia, Portogallo, Grecia e
Malta) essa ottiene la maggioranza dei consensi, ma in Spagna si verifica il contrario. Il 72%
dichiara di appartenere ad una denominazione religiosa, con due estremi: Malta (99%) e la
Repubblica Ceca (33%). Di questo gruppo, il 58% si considerano cattolici, il 18% protestanti e il
17% ortodossi. Il 28% della popolazione, tra cui molti cristiani, dichiarano di non essere religiosi e
il 5% affermano di essere «atei convinti». Tuttavia, i tre quarti della popolazione continuano a
volere una cerimonia religiosa in occasione di una nascita, di un matrimonio e, più dell’80%, per un
funerale. Non mancano le credenze più o meno alternative. Quasi la metà degli Europei dice di
credere alla telepatia. Un quarto ammette la reincarnazione. Colpisce il fatto che molti che credono
nella risurrezione credono anche nella reincarnazione. L’atteggiamento verso la Chiesa appare
problematico. Se, complessivamente, il 54% degli Europei dichiara di avere fiducia in essa, in quasi
tutti i Paesi tale fiducia è diminuita nel corso dei due ultimi decenni, soprattutto tra i giovani. In
generale, meno della metà degli Europei si aspetta un aiuto da parte della Chiesa per i propri
problemi personali, familiari e sociali, ma i tre quarti dicono di aspettarsi da essa una risposta ai
loro bisogni spirituali. L’ambito etico si è molto secolarizzato e non si vogliono intrusione delle
Chiese nelle questioni politiche.
5.1.1. L’individualismo
Si constata un’accentuazione progressiva dell’individualismo. Questo si manifesta
particolarmente in tutto ciò che si riferisce all’etica personale (divorzio, aborto, eutanasia,
omosessualità), dove soprattutto le classi d’età nate dopo la seconda guerra mondiale mostrano una
netta propensione a scelte personali. Dappertutto prevale l’etica della situazione. In compenso, per
le questioni di carattere pubblico, come la frode fiscale e il furto, la grande maggioranza rifiuta il
relativismo etico.
Mentre si esprime molta fiducia in alcune istituzioni (scuola, esercito, Chiesa, polizia), del
resto con forti differenze da Paese a Paese, solo una minoranza dichiara di fidarsi delle istituzioni
che si riferiscono direttamente alla politica (Parlamento, ordinamento giudiziario, pubblica
amministrazione, Unione Europea, Nazioni Unite). I due terzi diffidano della stampa e dei sindacati.
In generale, i giovani sono più diffidenti delle classi di età più anziane.
44 Nel 1999-2000 la Fondazione European Values Study (EVS, già European Systems Study Group - EVSSG) ha compiuto la sue
terza indagine sui valori degli europei. Questa volta essa ha coperto tutti i Paesi europei, anche la Russia e l’Ucraina, con l’eccezione
di Albania e Repubblica Federale Iugoslava. Per la prima volta è stata inclusa la Turchia. Tale inchiesta ha toccato circa 800 milioni
di persone. Per l’Italia, l’Università di Trento ha già prodotto un primo commento dal titolo “La via italiana alla postmodernità”,
curata dal prof. Renzo Gubert (2000). Per analizzare le risposte degli Europei ci avvarremo di un commento sintetico di Jan Kerkhofs
(2002).
51
L’individualismo tocca anche la famiglia: almeno un quarto della popolazione considera il
matrimonio un’istituzione superata (in Francia il 36%). Questa percentuale si eleva molto presso le
giovani generazioni. Dappertutto il divorzio è divenuto sempre più accettabile. Quasi dappertutto si
considera che il numero ideale di figli per famiglia sia 2.5, ma in nessuna nazione il tasso di
natalità raggiunge tale cifra. Dei fattori di riuscita di un matrimonio, tre vengono in testa al lungo
elenco proposto agli intervistati: il mutuo rispetto, la fedeltà e la tolleranza, seguiti da buoni rapporti
sessuali e dai figli. Sebbene la grande maggioranza sia dell’opinione che a un bambino, per crescere
in una atmosfera felice, occorrono un padre e una madre, il 43% riconosce alla donna non sposata il
diritto ad avere un figlio suo. Quantunque l’atteggiamento verso i figli sia generalmente positivo, il
fatto di non averne non preoccupa più tanto la gente. Molti rinviano il matrimonio, molte donne
aspettano a lungo prima di avere il primo bambino e i figli rappresentano sempre meno un ostacolo
a un eventuale divorzio.
Nonostante questi segnali di individualismo, ce ne sono altri si segno inverso: a grande
maggioranza esprime una reale preoccupazione per le persone anziane e per i portatori di handicap,
e considera un dovere morale l’aiuto a questi soggetti. Inoltre, gli Europei sono ben consapevoli dei
problemi dell’ambiente: il 60% concorda sul fatto che una parte dei loro redditi sia destinata alla
prevenzione dell’inquinamento. Sono i Paesi nordici ad essere più sensibili alla questione
dell’ambiente e, a livello di categorie, i giovani e le persone con una formazione migliore.
La politica viene all’ultimo posto nella lista dei settori per i quali si doveva esprimere il grado
d’importanza loro attribuito. Ciò non significa affatto che la gente si disinteressi totalmente della
politica. La metà degli Europei afferma di seguire la politica sui mezzi di comunicazione di massa
ogni giorno e 1’80% almeno una volta alla settimana. Gli Europei sono un po’ più inclini verso la
sinistra che verso la destra. Ma in pari tempo una maggioranza relativa del 45% considera il
mantenimento dell’ordine più importante che una maggiore partecipazione nelle grandi decisioni
governative (26%) e la tutela della libertà di espressione (10%). Due terzi ritengono si debba
attribuire una minore importanza al denaro e ai beni materiali (soprattutto nei paesi più benestanti).
5.1.2. La ricerca di qualità di vita
Dopo la famiglia, viene considerato come molto importante il lavoro. Ma le opinioni sono
diversificate. Nell’Europa dell’Est i genitori vogliono insegnare ai figli in famiglia a lavorare
duramente. Il salario occupa ancora il primo posto. Mentre nell’Europa occidentale questo fattore è
superato dalla qualità delle relazioni sociali all’interno delle imprese. Si sottolinea inoltre sempre
più la possibilità di prendere iniziative, di avere un’occupazione interessante in cui si possa dar
prova delle proprie capacità. Parallelamente si esprime in misura maggiore la propria
insoddisfazione. La tendenza ad organizzare proteste, scioperi e azioni di boicottaggio è
continuamente cresciuta. I Paesi dell’Europa occidentale si pongono sempre maggiori interrogativi
sull’evoluzione della tecnologia. Dappertutto si aspira a uno stile di vita meno complicato e più
naturale. Le donne, molto più degli uomini, dichiarano di saper combinare vita di famiglia e lavoro,
e considerano il lavoro come un mezzo per emanciparsi.
La tolleranza è un valore sempre più in rialzo tra gli europei. Essa viene considerata dai
genitori come una delle qualità più importanti da trasmettere ai figli in famiglia. Viene sottolineata
soprattutto dai giovani e da coloro che hanno ricevuto una formazione migliore. Solo una
minoranza (inferiore al 20%) dichiara di non volere come vicini degli immigrati e dei lavoratori
stranieri (15%), persone di altre razze (12%), musulmani (19%). Gli Europei sono molto più
diffidenti verso gli estremisti di sinistra (31%) e di destra (36%), e soprattutto verso gli alcolizzati
(60%) e i drogati (68%). Sebbene il 35% non voglia omosessuali come vicini, l’atteggiamento
negativo nei loro confronti è quasi esclusivamente caratteristico dell’Europa dell’Est. Tuttavia quasi
52
il 70% degli Europei afferma che non si può essere mai abbastanza prudenti verso di loro; solo nei
Paesi nordici la maggioranza dichiara che si può avere fiducia negli altri.
In campo politico quasi tutti preferiscono un sistema democratico perché la democrazia
garantisce la tolleranza e la libertà. Ma la maggioranza si lamenta delle carenze della democrazia. In
generale, le persone sono assai poco soddisfatte del sistema di giustizia praticato nei loro Paesi. Più
della metà si lamenta delle carenze della giustizia, soprattutto nell’Europa dell’Est.
Anche se nell’ultimo decennio gli Europei hanno sempre più sollevato questioni a riguardo
dell’Unione Europea,), tuttavia l’integrazione europea non è in questione. L’euro è stato in genere
bene accolto, l’Unione Europea (con il 43%) e soprattutto le Nazioni Unite (con il 51%) riscuotono
maggiore fiducia di quella ottenuta dai Governi nazionali (35%). La maggioranza è del parere che
l’integrazione europea non minaccia la cultura dei diversi Paesi. Come sempre, sostengono
maggiormente l’Europa i giovani e le persone dotate di una migliore formazione. Tuttavia la metà
degli Europei (49%) considera sempre il proprio villaggio o la propria città come il luogo per
eccellenza del radicamento territoriale. Per il 27% tale luogo è il Paese, per il 13% la regione.
La grande maggioranza degli Europei (79%) dichiara di essere felice. Ma anche qui vi sono
differenze regionali: i Paesi nordici si sentono molto più felici di quelli del Sud e soprattutto di
quelli dell’Est (ortodossi e poveri). Si considera infelice la maggioranza in Romania, Bulgaria,
Ucraina e Russia. I più felici risultano gli abitanti delle due isole alla periferia dell’Europa, l’Islanda
e l’Irlanda.
5.1.3. Un nuovo impulso per la gioventù europea
In uno studio promosso dalla Commissione Europea 45 i giovani non sono ritenuti un
problema, ma una risorsa; sono attori sociali da ascoltare e da valorizzare per le idee che li
animano e li guidano. «Investire nella gioventù, si legge nel Libro Bianco, significa inve stire
nella ricchezza delle nostre società di oggi e di domani». Per questo motivo si intende andare
oltre quanto da tempo si sta realizzando con il «Programma Gioventù» per rispondere alle
nuove sfide.
Viene dato atto che le nuove caratteristiche dei giovani sono dovute alle «modifiche del
contesto sociale, dei comportamenti individuali e collettivi, delle relazioni familiari e delle
condizioni del mercato del lavoro». Questi cambiamenti, insieme alle nuove realtà
demografiche, hanno prodotto nei giovani nuove caratteristiche a livello sociale, culturale ed
economico. In particolare, sono tre le constatazioni fatte circa la nuova realtà dei giovani:
1. La prima riguarda “il prolungamento della gioventù”: “I demografi osservano che, sotto
l'influsso di fattori economici (occupabilità, disoccupazione, ecc.) e di fattori socioculturali i
giovani sono, mediamente, più avanti con gli anni allorché superano le diverse tappe della vita:
fine degli studi, accesso al lavoro, creazione di una famiglia, ecc.”
2. La seconda evidenzia “percorsi di vita non lineari”: “Si assiste oggi a `un accavallamento
delle sequenze della vita': si può essere contemporaneamente studente, avere responsabilità
familiari, essere lavoratore o alla ricerca di un lavoro, vivere presso i genitori; e il pas saggio
dentro e fuori da tali condizioni è sempre più frequente. I percorsi individuali sono meno lineari
proprio per il fatto che le nostre società non offrono più le stesse garanzie di un tempo (si curezza del posto di lavoro, prestazioni sociali, ecc.)».
3. La terza sottolinea la non pertinenza dei modelli collettivi tradizionali perché le traiettorie
personali sono sempre più individualizzate. Non più quindi percorsi standard, e questo richiede
anche politiche nuove da parte delle autorità pubbliche.
45 Alla fine del 1999, la Commissione Europea ha proposto di varare un Libro Bianco per una nuova cooperazione europea in
materia di gioventù. L'adesione unanime ha fatto avviare un'ampia consultazione, dal maggio 2000 al marzo 2001, «che ha
interessato i giovani di qualsiasi origine, le organizzazioni della gioventù, la comunità scientifica, i responsabili politici e le loro
amministrazioni». Il Libro Bianco è stato pubblicato nel novembre 2001.
53
Un altro elemento significativo emerso dalle consultazioni è la disponibilità dei giovani
europei ad essere promotori e attori della democrazia. La difficoltà viene dalla diffusa
diffidenza nei confronti delle strutture istituzionali.
Da questo, tuttavia, non si può dire che i giovani siano disinteressati alla vita politica. Il
problema è piuttosto come trovare nuove vie per farli partecipare colmando “il fossato che
separa o la volontà di espressione dei giovani e le modalità e strutture offerte a tal fine dalle
nostre società”. In questo modo si potrà impedire “il deficit di cittadinanza” e non “incoraggiare
la contestazione”.
La sfida per tutti è quella di riuscire a “creare le condizioni per far sì che i giovani europei
siano cittadini solidali, responsabili, attivi e tolleranti in società pluralistiche”.
Occorre, pertanto, far emergere nel mondo giovanile una cittadinanza attiva attraverso un loro
maggiore coinvolgi mento “nella vita della collettività locale, nazionale ed europea”.
Le prospettive di attenzione alla realtà giovanile e al suo inserimento attivo nella nuova Europa
sono senza dubbio uno stimolo efficace perché si possa individuare il da farsi anche a livelli territoriali diversi. Il Libro bianco prevede anche una migliore presa in considerazione dei bisogni
specifici dei giovani nelle politi che comunitarie e nelle politiche nazionali, nella consapevolezza
che una migliore cooperazione su scala europea rafforzerebbe l'impatto e la coerenza delle politiche
nazionali.
“Da qui deriva la principale ambizione del Libro bianco: dotare l'Unione Europea di un nuovo
quadro di cooperazione nel campo della gioventù ambizioso, all'altezza delle aspettative dei
giovani, e realista, che stabilisca priorità tra le numerosissime questioni evocate in occasione della
consultazione, e che rispetti i diversi livelli di competenze interessati.
Questa cooperazione deve partire dallo zoccolo di attività esistenti, essere compatibile e
complementare con le altre iniziative in corso, in particolare nei campi dell'occupazione, dell'istruzione e dell'integrazione sociale, ove ciò risulti necessario, e assicurare una migliore sinergia tra i
diversi livelli di potere e gli attori del settore della gioventù”.
5.2. L’indagine EVS 1999 nel contesto italiano
Come già per la ricerca precedente (1990) anche per la terza rilevazione EVS, l’Università di Trento
ha rappresentato l’Italia, come nodo di rete, nell’indagine europea. Il campione di 2000 soggetti
sembra abbastanza rappresentativo dell’Universo statistico, soprattutto tenuto conto
dell’accuratezza del metodo di campionamento, che ha impiegato un metodo stratificato (per
regione, dimensione demografica del comune, sesso, età) all’interno del quale sono stati sorteggiati
prima i comuni e poi i soggetti. I dati del campione italiano sono stati commentati in un tempo assai
ristretto dal solito gruppo dell’Università di Trento, coordinati dal prof. Renzo Gubert che ha curato
anche la pubblicazione del rapporto (2000). Come nelle passate edizione non ci sono i dati dei
minorenni ed il campione giovanile non è stato analizzato a parte.
5.2.1.1.1. Tradizione e modernità nei valori degli italiani
Come nell’edizione precedente, i ricercatori italiani avevano una questione prioritaria da affrontare,
essa “concerneva il permanere o meno di orientamenti di valore che, nonostante la secolarizzazione
che rende sempre più autonome le diverse sfere culturali da quella religiosa, possono essere
considerati eredità del patrimonio tradizionale comune alla cultura europea, fortemente impregnato
di cristianesimo” (Gubert 2000, 475).
Dall’indagine emergono conferme e nuove indicazioni.
Per quanto riguarda la famiglia, si può dire che i sintomi di recupero di valori tradizionali (cristiani)
evidenziato dal confronto tra i dati del 1981 e del 1990 non risultano confermare negli anni Novanta
l’inversione di tendenza. Se per valori tradizionali si intende la desiderabilità di una vita di famiglia
fondata sul matrimonio, con forti, stabili e incondizionati rapporti di solidarietà interna tra genitori e
tra genitori e figli, compresi quelli concepiti ma non ancora nati, che trova nel suo fondamento
54
religioso una delle ragioni forti di tale solidarietà, si deve dire che negli anni Novanta si registra un
loro arretramento, anche se talora non è tale da riportare alla situazione del 1981. Aumenta la quota
di coloro che giudicano il matrimonio un’istituzione sorpassata (pur senza raggiungere quella del
1981), diminuisce il valore attribuito al generare figli per essere felici, diminuisce
l’incondizionatezza della solidarietà tra genitori e figli, aumenta la legittimazione dell’aborto quale
mezzo di controllo delle nascite, diminuisce l’importanza di trasmettere ai bambini non solo
l’obbedienza, ma anche l’altruismo e la fede religiosa (sia pure senza raggiungere i bassi livelli del
1981), aumenta l’accettabilità dell’omosessualità. Se a questo si aggiungono dati del solo 1999
quali il prevalere dell’opinione che debbano essere equiparate ai fini delle politiche sociali coppie
sposate e coppie conviventi non sposate, si comprende come negli anni Novanta sia ripreso
l’allontanamento dai valori tradizionali della famiglia. Non mancano, tuttavia, fatti che non sono
coerenti con tale tendenza di mutamento. In linea generale è diminuita la giustificazione sia
dell’adulterio, sia del divorzio che dell’aborto. Con riguardo a quest’ultimo è diminuita la sua
giustificazione per i motivi ritenuti più diffusamente sufficienti, quale il pericolo per la salute della
madre e la malformazione del nascituro, mentre è aumentata quella per i motivi ritenuti meno
diffusamente sufficienti (controllo delle nascite per coniugi che hanno già figli o l’essere la madre
non sposata), ma in generale, complessivamente, è diminuita. È altresì diminuita l’approvazione del
fatto che una donna non sposata possa avere figli, se li desidera. Ancora, sono i laureati ad essere
meno favorevoli ad una produzione in eccesso di embrioni ai fini della fecondazione artificiale.
Riguardo al giudizio etico, negli anni Ottanta si era assistito ad un aumento generale della
permissività (o meglio dell’incertezza etica), pur con una diminuzione di sostegno a posizioni di
relativismo etico totale. Negli anni Novanta il relativismo etico totale non è ulteriormente diminuito
(come lo era negli anni Ottanta), ed è aumentato il rifiuto di una posizione di assoluta certezza etica
su che cosa sia bene e che cosa sia male in ogni circostanza. Di conseguenza è incrementata la
quota di coloro che rifiutano le due posizioni estreme, specie da parte dei più istruiti. Per contro,
oltre a registrare un prevalente giudizio di inammissibilità per tutti i ventidue comportamenti
considerati, per alcuni di essi la tollerabilità è aumentata, proseguendo un andamento ventennale
(omosessualità, eutanasia, assunzione di droghe leggere, non pagare il biglietto sui mezzi di
trasporto, suicidio. prendersi un’auto non propria per divertimento), mentre per altri è diminuita, e
non solo per azioni contro i doveri verso lo Stato (accettare bustarelle, cercare di ottenere benefici
cui non si ha diritto, evadere le imposte), ma anche per azioni relative a relazioni interpersonali
(aborto, adulterio, prostituzione, dire il falso).
Una terza area valoriale è quello della religiosità. I risultati dell’indagine del 1999 confermano e
rafforzano i segnali di inversione di tendenza debolmente presenti nel 1990, rispetto all’81. Il dato
più pesantemente in controtendenza riguarda l’appartenenza ecclesiale, che diminuisce. Gli altri,
invece, testimoniano tutti una ripresa di interesse religioso, e non solo nelle forme generiche e varie
legate al sentimento religioso, ma anche in quelle istituzionalizzate. Aumentano la percezione di
importanza della religione nella vita, l’attenzione al problema del senso della vita, la definizione di
sè come persona religiosa, l’importanza percepita di Dio nella vita, la frequenza della preghiera
personale, la credenza in Dio e nelle verità cristiane, la pratica religiosa, l’impegno in associazioni
religiose, la soddisfazione per l’azione della Chiesa, la fiducia nella Chiesa, che tra le istituzioni
considerate è quella che riscuote il maggior grado di fiducia.
Meno chiari sono orientamenti in riferimento alla patria, ossia l’appartenenze e la lealtà tra i diversi
livelli di organizzazione politica della società.
Per quanto riguarda l’area delle appartenenze socio-territoriali, i risultati della ricerca confermano
che i sentimenti di appartenenza si distribuiscono in modo composito e non esclusivo, con tendenza
a combinare livelli locali con livelli sovranazionali. Rispetto al 1990, emerge nel 1999, con una
frequenza limitata ma significativa, il modello di appartenenza definibile come “glocalista”, mentre,
rispetto alle attese generate dalla globalizzazione, negli anni Novanta si rafforzano le appartenenze
regionali a scapito di quelle sovranazionali cosmopolite.
55
Negli anni Novanta diminuisce l’importanza attribuita ad aspetti del lavoro quali il reddito, la
sicurezza del posto, l’utilità sociale del lavoro stesso, mentre cresce quella attribuita al
riconoscimento e al prestigio sociale, al poter esprimere una propria personale responsabilità, al
poter disporre di più tempo libero, al non essere troppo “sotto pressione”. Risulta evidente il
progredire della sensibilità verso dimensioni non materialistiche del lavoro, testimonianza, secondo
talune ipotesi, dell’emergere di una cultura post-moderna del lavoro. Non si può, tuttavia, trascurare
il fatto che, per es., le dimensioni “materialistiche” del guadagno e della sicurezza trovano più
attenzione nelle grandi città, che pur dovrebbero essere luogo privilegiato dello sviluppo postmoderno. Né si può trascurare il fatto che l’obiettivo del l’autorealizzazione nel lavoro non è solo
più condiviso dai ceti più istruiti, che dovrebbero essere più sensibili alla post-modernità, ma anche
dai più anziani e dai residenti nel Sud, i quali, viceversa, custodiscono maggiormente i valori della
tradizione.
5.2.1.1.2. La via italiana alla postmodernità
L’autore nella conclusione discute ampiamente, riprendendo i vari ambiti nell’indagine per
verificare se le ambiguità presenti nei valori degli italiani siano segno di modernità (nella sua
versione più recente, detta postmodernizzazione), oppure si sia in presenza di un recupero del
passato (tradizione). Già nel paragrafo precedente sono state avanzate varie riserve sulla tesi del
ritorno alla tradizione. Come si vede, almeno nel caso italiano, dove pure la tradizione ha un peso
così forte, i nuovi assetti valoriali e sociali non sono tali da prefigurare un ritorno al passato.
Piuttosto siamo in presenza di contaminazione della modernità con elementi del passato, frutto di
attività combinatoria. Tuttavia, anche rispetto alle ipotesi postmoderne, l’Italia si differenzia nei
riguardi di quei paesi dove il processo di modernizzazione è avvenuto in tutta la sua profondità.
Pertanto alcuni segnali rimangono sostanzialmente equivoci e difficili da interpretare. L’autore ne
fa qualche esempio:
Se il post-moderno nell’etica significa un’accentuazione del relativismo assoluto,
un’accentuazione del soggettivismo, si è già visto come gli andamenti siano tutt’altro che
univoci; si fa anzi strada un’opzione che rifiuta sia le certezze assolute e incondizionate,
sia la dichiarata impossibilità per principio di distinguere il bene dal male. Per alcuni
ambiti cresce l’incertezza etica, ma per altri diminuisce e nel complesso prevale la capacità
di un giudizio negativo su tutta la serie di azioni “devianti” poste a valutazione.
Se il post-moderno nella religione significa la totale soggettivizzazione dell’esperienza
religiosa, un suo prescindere dagli aspetti istituzionali sia nell’organizzare la credenza che
le azioni religiose (Dobbelaere, 1995), non si può escludere che presso taluni tale
fenomeno non si verifichi, ma nell’insieme la ripresa della religiosità, al di là della
possibile riduzione del significato della celebrazione religiosa dei principali momenti di
passaggio nella vita (nascita, matrimonio, morte) […] sembra configurare un’inversione di
tendenza rispetto all’allontanamento dalla religiosità tradizionale, della quale una
componente rilevante è anche quella istituzionale. Ciò ovviamente non significa che la
maggioranza degli italiani sia osservante delle prescrizioni ecclesiastiche (Gubert 2000,
480).
Nell’area dei valori politici, due sono i gruppi di indicatori più direttamente rilevanti in merito allo
sviluppo di una sensibilità post-moderna: il tipo di mutamento desiderato nei modi di vita e la
priorità assegnata ad alcune mete politiche.
Per quanto concerne il primo gruppo, […] non è facile distinguere quelli tipicamente postmoderni da quelli tradizionali pre-moderni. Dare più spazio alla vita di famiglia, dare più
importanza alla maturazione delle persone, preferire modi di vita più semplici e naturali
non è solo sintomo di post-modernità; tali desideri non sono estranei all’orizzonte valoriale
tradizionale. Considerando il modello di differenziazione sociale relativo al desiderio di
modi di vita più semplici e naturali, emerge, anzi, come esso si avvicini assai a quello
56
proprio di valori tradizionali.
Per quanto concerne il secondo gruppo di indicatori, relativo alle mete politiche, si può
ricordare come aumentino di importanza negli anni Novanta quelli che Ronald Inglehart
ritiene indicatori di orientamento post-materialistico (partecipazione alle decisioni
politiche e salvaguardia della libertà di parola), ma aumenti di importanza anche una di
natura diversa, il mantenimento dell’ordine, a scapito della lotta all’inflazione. Si può
ricordare anche come diminuisca negli anni Novanta la disponibilità a sacrificare denaro
proprio per migliorare la qualità dell’ambiente. Pure in questo caso, quindi, la tendenza
non è univoca, anche se in prevalenza va forse nella direzione della post-modernità. La
concretezza dei problemi della collettività politica (negli anni Ottanta l’inflazione e negli
anni Novanta l’ordine pubblico) risulta interferire e modificare orientamenti che nelle
attese dovrebbero rivolgersi verso bisogni di livello superiore a quello della sicurezza.
Quanto, poi, la priorità assegnata alla salvaguardia della libertà di parola oppure alla
partecipazione politica sia coerente con la modernità o la post-modernità non è del tutto
chiaro, se si pensa ai valori proposti dalla rivoluzione francese, uno dei quali è la libertà
(Gubert 2000, 481).
Egli rileva l’insufficienza degli schemi concettuali per comprendere la situazione italiana, che rivela
delle peculiarità specifiche.
Più che rendere evidente un trapasso da una sensibilità moderna ad una post-moderna,
l’esame dei valori socio-politici merita segnalazione per l’evidenziazione di situazioni che
non si inquadrano in alcuno degli schemi. Basti segnalare il calo di importanza delle
appartenenze sovranazionali cosmopolite, nonostante che esse risultino incentivate da più
elevata istruzione, la prevalenza di atteggiamenti di attribuzione di funzioni forti di filtro ai
confini nazionali nei confronti dell’immigrazione, accentuata nei giovani e al Nord, la
diminuzione di riconoscimento di responsabilità sociale nel causare la povertà, con i ceti
più disponibili alla modernità maggiormente a favore di una spiegazione della povertà
sostanzialmente fatalista (sia pure imputando il progresso e non la sfortuna), la minore
sensibilità al valore della giustizia distributiva da parte dei medesimi ceti, l’esistere di
riserve sulla bontà del sistema democratico più sviluppate tra i giovani e al Nord, l’ampia
percezione che i diritti umani in Italia siano poco o punto rispettati, l’ampia sfiducia verso
le istituzioni pubbliche, il calo di interesse dei giovani per la politica.
Si tratta di fatti che testimoniano una crisi del rapporto tra istituzioni politiche e società, il
cui rilievo risulta certamente maggiore di eventuali spostamenti dei valori socio-politici in
direzione non materialista, anche se non si deve trascurare che tale crisi può proprio trarre
alimento anche da mutamenti nelle aspirazioni e nelle attese, il cui fondamento è
rintracciabile nella dinamica dei bisogni, sulla quale si basa anche l’ipotesi dell’evoluzione
post-materialista e post-moderna (Gubert 2000, 481-482).
Non si può negare che vi siano tendenze di mutamento in direzione post-moderna, ma si tratta
tutt’altro che di tendenze chiare ed uniformi. Non sono chiare per la difficoltà di capire il confine, in
taluni casi, tra moderno e post-moderno e in altri tra tradizionale e post-moderno. Non sono
uniformi perché alcuni valori, ritenuti non post-moderni, nella famiglia, nel lavoro, nella
valutazione etica, nell’area religiosa e nella politica trovano negli anni Novanta rafforzamenti.
Considerando congiuntamente quanto emerso da una rilettura rapida dei risultati con
riferimento alle due principali ipotesi che motivano la ricerca, pur con le limitazioni di una
prima analisi dei dati, si può dire che nella realtà italiana, come già anticipato con
riferimento ai valori politici, paiono muoversi contemporaneamente tre correnti culturali,
quella modernizzatrice, quella post-moderna e quella legata alla tradizione. […]
La società italiana si è ampiamente modernizzata, le solidarietà comunitarie di sangue e di
luogo, per dirla con Toennies, si sono largamente sfaldate; i valori della solidarietà si sono
indeboliti specialmente tra i ceti più evidentemente portatori della modernità, il senso del
57
dovere si fa più tenue in ragione della forza del principio di piacere, la questione del senso
ultimo della vita poco può dire sul come una persona o l’intera società debbono agire nella
vita quotidiana o nei grandi momenti della storia. L’indebolimento della incondizionatezza
della solidarietà familiare, la sottovalutazione delle conseguenze sociali di comportamenti
individuali quali suicidio, eutanasia, assunzione di droga, aborto, omosessualità, ecc.
un’interpretazione prevalentemente forte della laicità, la prevalenza di una posizione etica
relativista, le quote minoritarie di praticanti religiosi regolari, una concezione autoritaria
della legge, per non ricordare il quasi ossessivo richiamo di leader della politica e
dell’economia alla necessità di “modernizzare” il paese, sono tutte conseguenze evidenti
dell’operare di tale corrente culturale (Gubert, 2000, 482).
Sembra che la società italiana sia riuscita, da una parte a perseguire una strada della
modernizzazione e dall’altra di evitare, grazie alla sua attenzione alla tradizione, certi estremismi
tipici di processi troppo azzardati.
È proprio la riconsiderazione di alcune unilateralità e di alcune esasperazioni della
modernità da parte della componente più intellettuale delle forze sociali modernizzatrici, è
proprio l’affermarsi non generale, ma in alcuni ambiti e per alcuni elementi, della corrente
culturale post-moderna che consente la vitalità di una terza corrente culturale, quella più
legata alla tradizione, negli ultimi decenni considerata addirittura scomparsa.
[…]
In Italia, vuoi per la sua articolatissima morfologia territoriale, vuoi per il ritardo dei
processi di industrializzazione specie in alcune aree, vuoi per una presenza istituzionale
più forte della Chiesa Cattolica o per altre ragioni ancora, la dialettica modernitàpostmodernità è iniziata quando ancora la tradizione trova aree e ceti nei quali essa ha una
sua vitalità. Il Sud, i numerosissimi piccoli centri rurali, gli anziani, le persone meno
scolarizzate, le donne specie se casalinghe, gli agricoltori sono altrettante aree sociali che
hanno conservato tratti della cultura tradizionale ancora vitali quando già inizia qua e là la
crisi della modernità.
Già negli anni Ottanta, ma ancor più per taluni aspetti negli anni Novanta, come s’è visto,
elementi della cultura tradizionale hanno riconquistato spazi (Gubert 2000, 483).
In base a questa analisi l’autore conclude con una previsione a breve, che vede proseguire il
processo combinatorio delle tre culture presenti in Italia (tradizionale, moderna e postmoderna).
Il futuro prossimo dei valori degli italiani non è la modernità, non è la post-modernità, non
è la tradizione: è una mescolanza di tutto ciò che trova tendenziali parziali consonanze tra
post-modernità e tradizione e fra modernità e post-modernità. Risulta sconfitta la pretesa
della modernità di rappresentare il futuro evolutivo, progressivo e progressista, ma essa
rimane tuttora in campo, specie laddove il confine tra essa e la post-modernità non è
chiaro, laddove la post-modernità rappresenta la continuazione della modernità, nella
valorizzazione della soggettività individuale che indebolisce legami istituzionali e certezze
etiche e gnoseologiche, nel premio all’orientamento edonistico rispetto a quello al
sacrificio per il compimento del proprio dovere, nella tendenziale separazione tra risposta
religiosa al problema del senso ultimo della vita e altri ambiti della vita. Risulta peraltro
altrettanto sconfitta la pretesa della post-modernità di rappresentare l’unico esito della crisi
della modernità, proprio perché tale crisi ed alcune sottolineature valoriali che essa
provoca ridanno spazio e prospettiva anche a mutamenti che si pongano come direttamente
continuatori, con adattamenti, della tradizione, specie laddove questa dà risposte al
problema del senso ultimo della vita, limita l’assolutezza individualistica ed edonista sia in
campo etico e gnoseologico, sia nel campo delle relazioni umane, riscoprendo la
distinzione tra bene e male, vero e falso e rivalorizzando solidarietà interpersonali ed
appartenenze non solo episodiche o occasionali o strumentali nella famiglia e negli abiti di
vita sociale comunitaria (Gubert 2000, 485) .
58
5.3. La condizione giovanile nelle successive a cavallo del millennio
L’indagine IARD46 del 2000 ha posto ancora una volta la la domanda sugli obiettivi politici,
utilizzando l’indice corto di Inglehart. Le risposte ottenute sono raggruppabili e confrontabili per
anno di rilevazione. Ecco le tabelle con i risultati:
Tabella.1 – Indicazione dell’importanza relativa di alcune misure politico-sociali nei rapporti IARD
46. Se dovesse scegliere tra i seguenti obiettivi
politici, quale Le sembra personalmente il più
importante, quale metterebbe al secondo posto e
quale al terzo?
% di risposta all’item “primo posto”
Mantenere l’ordine nella nazione
Dare alla gente maggior potere nelle
decisioni politiche
Combattere l’aumento dei prezzi
Proteggere la libertà di parola
1992
1996
2000
15-24 a.
15-29 a.
15-24 a.
15-29 a.
15-24 a.
15-29 a.
35.8
31.6
35.6
32.2
26.5
27.0
26.2
26.9
27.6
21.9
27.4
23.2
8.2
24.5
8.8
23.4
14.8
31.7
16.4
30.4
12.4
35.5
12.8
35.1
Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 631).
Figura 1 – Grafico dell’andamento delle scelte materialiste/postmaterialiste dei giovani (15-24 anni) negli ultimi 3
rapporti IARD
40
35
Mantenere l’ordine
nella nazione
30
20
Dare alla gente
maggior potere nelle
decisioni politiche
15
Combattere
l’aumento dei prezzi
25
10
Proteggere la libertà
di parola
5
0
1992
1996
2000
Fonte: Elaborazione propria su dati IARD (cfr. Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 631).
Come si evince anche dal grafico, le tendenze postmaterialiste ci sono, ma non sono molto nette.
46
L’indagine IARD del 2000, registra una notevole variazione rispetto alla precedenti, sia per l’estensione ulteriore dell’età (15-34
anni), sia per i nuovi campi di osservazione, per cui si passa dalle 100 domande del questionario originario alle 150 dell’attuale.
Perciò il questionario è stato diviso in 2 versioni, quella corrispondente al vecchio questionario e quella più recente con risposte più
personali e riservate. Il questionario è stato somministrato a 3.000 soggetti scelti con i soliti criteri. Il motivo dell’ulteriore estensione
del campione corrisponde alle stesse logiche per cui negli anni novanta era stato innalzato a 29 anni. Solo che questa volta arriviamo
a 35 anni: età in cui si dovrebbe essere ormai adulti. In realtà questo non si dà per tutti, ed i risultati sembrano avvallare le scelte fatte
dai ricercatori. Già da questo emerge che il tema principale della ricerca è la dilatazione della condizione giovanile, con ritardo
nell’assunzione di ruoli adulti e di entrata nella vita attiva. Tema già al centro delle precedenti indagini, che qui assume però
un’evidenza ancora maggiore, perché il processo sembra ulteriormente in espansione. Insieme a questo tema, hanno nella ricerca
notevole rilievo temi connessi all’immagine di sé, ai valori e agli orientamenti culturali. Il tutto indagato con il contributo di nuovi
specialisti, che ampliano in campo di osservazione e ne rendono più variegate e complesse le interpretazioni.
59
Prevale la tendenza al rimescolamento. Se da una parte l’esigenza di sicurezza economica sembra
saturata, per cui la domanda di combattere l’aumento dei prezzi ottiene un bassissimo consenso,
tuttavia la forte domanda di ordine e sicurezza sociale indica che questo bisogno non è ancora
adeguatamente soddisfatto: calato nel ‘96, risulta leggermente in ripresa nel 2000. Nel compenso i
due item postmaterialisti mostrano andamenti divergenti: è in calo la richiesta di “dare maggior
potere alla gente nelle decisioni politiche” (perde quasi 10 punti percentuali in meno di 10 anni),
mentre è in netta ascesa la domanda di libertà di parola (recupera più di 10 punti percentuali), che è
diventata dal ‘96 la domanda più frequente.
Per quanto sia difficile trarre delle conclusioni su un periodo di solo 8 anni per un movimento
così ampio, sembra che sia possibile ricavare dai dati queste indicazioni:
1. I valori postmaterialisti si stanno affermando anche tra i giovani italiani, pur con lentezza,
incertezze ed involuzioni.
2. Permangono domande diffuse di sicurezza economica e sociale, dipendenti probabilmente
dalle situazioni economiche e politiche del nostro paese. Soprattutto il problema della sicurezza
sociale sembra molto avvertito (ma probabilmente anche economica, se teniamo conto della
domanda di occupazione).
3. Dei bisogni postmaterialisti emerge con molta evidenza quello di libertà, mentre è decisamente
in ribasso quello di partecipazione politica. Segno che i bisogni più avvertiti sono quelli di tipo
individualistico, mentre bisogni più ampi e collettivi stentano a tradursi in progetti politici.
4. In ogni caso l’avvertenza di un bisogno e la nascita di valori ad esso connessi sembra obbedire
ad una logica di tipo contingente: a seconda delle carenze del momento emerge l’avvertenza di un
bisogno con una domanda corrispondente. Non sembra sottostare alle risposte fornite dai giovani
italiani nel decennio ‘90 una cultura nettamente postmaterialista, bensì domande che riflettono la
necessità di saturare bisogni diversi, che possono essere indistintamente sia materialisti che
postmaterialisti, a seconda di quello sul momento più avvertito.
Tabella.2 – Variazioni dei valori giovanili nelle cinque indagini IARD (1983-2000)
2. La prego di dirmi se Lei
considera importanti per la Sua vita
le cose in questo elenco
% di risposte all’item «Molto importante»
(Risposte multiple)
Non so, non posso prevedere
Famiglia
Lavoro
Amicizia
Attività politica
Impegno religioso
Impegno sociale
Studio e interessi culturali
Svago nel tempo libero
Attività sportive
Successo e carriera personale
Eguaglianza sociale
Solidarietà
Amore
Autorealizzazione
Libertà e democrazia
Vita confortevole e agiata
Patria
Divertirsi, godersi la vita
Base
1983
1987
1992
1996
2000
15-24 a.
15-24 a.
15-24 a.
15-29 a.
15-24 a.
15-249 a.
15-24 a.
15-29 a.
16.5
81.9
67.7
58.4
4.0
12.2
21.9
34.1
43.6
32.1
4.000
18.3
82.9
66.6
60.9
2.8
12.4
17.9
32.2
44.2
31.9
2.000
18.3
85.6
60.2
70.6
3.7
13.2
23.5
36.4
54.4
36.1
1.718
17.2
86.2
61.7
67.8
4.0
13.3
23.0
35.2
50.9
33.2
2.500
25.8
85.5
62.5
73.1
4.7
13.6
22.2
39.5
53.6
34.3
45.8
56.0
58.5
78.5
62.5
67.9
38.5
1.686
23.3
86.7
63.8
72.4
4.6
13.6
22.3
37.4
50.6
32.7
42.2
56.0
59.8
79.5
62.9
69.5
38.5
2.500
35.8
85.3
60.5
74.7
2.7
10.7
17.5
33.4
52.1
32.7
38.3
48.6
47.4
77.9
63.2
62.5
35.5
16.6
54.8
1.429
33.7
85.3
62.7
72.2
2.7
10.1
16.9
33.7
49.7
29.7
35.7
47.7
47.7
77.4
62.0
63.0
34.5
15.7
51.0
2.297
Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 598).
60
5.3.1. Valori “politici”
La natura fondamentale delle ipotesi di Inglehart è di sociologia politica: attraverso
l’individuazione degli orientamenti di valori egli ha tentato di cogliere l’andamento della società e
quindi sapere come meglio governarla. È ovvio che i suoi principali pronunciamenti riguardino il
campo politico. Egli su questo fa una specie di “profezia”: all’emergere di valori postmaterialisti tra
i giovani avrebbe corrisposto uno spostamento delle preferenze elettorali verso sinistra, sovvertendo
i tradizionali riferimenti di classe; la sinistra, percepita come progressista e universalista, avrebbe
attratto le classi più benestanti e colte, mentre i ceti meno abbienti, “proletari”, si sarebbero orientati
su posizioni più conservatrici, per la necessità di tutelarsi nei bisogni di base. Nel contempo una
coscienza più tollerante, aperta e universalista avrebbe connotato sempre di più le nuove
generazione costituendo la domanda politica prevalente nel futuro.
Da quando erano state formulate queste previsioni sono passati molti anni e molte cose sono
cambiate da allora. Molti di questi cambiamenti sono stati recepiti dallo stesso Inglehart nelle sue
opere successive, di cui abbiamo dato conto. Nonostante questi cambiamenti egli riesce a scorgere
l’avveramento progressivo della sua “profezia”. Ovviamente si parla di grandi mutazioni a livello
politico, economico, sociale e culturale la cui portata ed i cui esiti sono difficili da cogliere in tutta
la loro complessità e quindi anche da decifrare. Soprattutto è difficile dare un giudizio complessivo
quando si osservano i fenomeni a livello planetario. Per quanto riguarda i giovani italiani, e per il
ventennio osservato dalle ricerche IARD, le sue previsioni non sembrano realizzate, tuttavia non si
può nemmeno sostenere che siano completamente smentite, solo non hanno avuto un’evoluzione
così lineare e precisa come previsto. Cerchiamo di cogliere di seguito l’andamento degli
orientamenti politici dei giovani, visti nel quadro dei grandi mutamenti socio-politici che hanno
contraddistinto gli anni in questione.
5.3.1.1. Gli orientamenti politici dei giovani italiani
Se escludiamo la parentesi ‘92-’96, la tendenza dei giovani italiani è stata sempre più verso
destra, verso l’estremismo, verso la delegittimazione della politica e verso il ritiro di consenso e
partecipazione sia alla politica diretta sia ai movimenti di opinione (scuola, lavoro, ambiente, pace,
diritti della donna, ecc.). Ciò fa scalpore soprattutto se si tiene conto dell’alto livello di
partecipazione realizzatosi nel ‘68 e negli anni ‘70.
Anche i tentativi di movimento che hanno dato un qualche sussulto non hanno avuto né la
risonanza né l’ampiezza dei precedenti. “I ragazzi dell’85”, come tutti gli altri movimenti di
protesta studentesca, che da allora, con cadenza quasi regolare, hanno caratterizzato la vita
scolastica italiana, appaiono finalizzati più ad ottenere un miglior funzionamento della scuola che
una riforma della società. In ogni caso sono movimenti che si segnalano per una precisa astensione
da ogni forma di impegno diretto nella politica e per mancanza di strategie di ampio respiro.
Una certa mobilitazione l’ha ottenuto il movimento antiglobalizzazione, iniziato a Seattle alla
fine del Millennio e poi riprodottosi in vari incontri internazionali, di cui in Italia ha fatto scalpore,
più per la violenza delle manifestazioni che per le sue ragioni, quello mobilitatosi in occasione del
G8 di Genova nel luglio 2001. Il Social forum di Firenze (novembre 2002) ha stupito tutti per la
mancanza di fatti violenti e forse così è riuscito a far sentire all’opinione pubblica qualcuna delle
sue ragioni. In ogni caso, nonostante l’attenzione che i media vi riservano, sembra che sia un
fenomeno di minoranze elitarie riconducibili ai centri sociali, ai gruppi terzomondismi o pacifisti, ai
militanti di sinistra o a cattolici impegnati sul sociale. Questo movimento ha il pregio di sottoporre
all’opinione temi altrimenti disattesi dall’agenda dei mass media e dei politici. Di certo interpella la
coscienza di molti cittadini progressisti e dei giovani in particolare, ma non sembra per ora riuscire
a produrre una mobilitazione nemmeno lontanamente confrontabile con quella del ’68. Tutte queste
61
mobilitazioni o movimenti si prestano a letture contraddittorie. O sono fenomeni isolati, sia per
frequenza che per durata, oppure riflettono più le paure e le ansie dell’attuale generazione che
un’autentica vocazione alla solidarietà. In ogni caso è difficile documentarne la consistenza e
prevederne lo sviluppo con le normali procedure delle indagini demoscopiche (cfr. Buzzi, Cavalli,
de Lillo 2002, 520).
Il passaggio dalla stagione pubblico-partecipativa a quella di ritiro nel privato viene da alcuni
attribuita ad un fenomeno fisiologico, una specie di pendolo che oscilla tra la partecipazione
pubblico-politica e la ricerca di felicità privata (Hirshman 1983). Sarà anche vera questa alternanza
di fasi storiche, tuttavia sono state messe in luce carenze notevoli nei processi di transizione tra la
protesta giovanile ed il momento politico-istituzionale. Se da una parte si può far colpa al
movimento giovanile di non essere riuscito a tradurre l'Utopia in proposte politiche praticabili e di
aver rifiutato la mediazione delle forme partitiche tradizionali, è anche vero che il sistema politico
italiano si è chiuso a riccio di fronte alla carica innovativa del '68, rifiutando sostanzialmente il
contributo giovanile, limitandosi solamente a gestire la contestazione finché essa esaurisse la sua
spinta (Leccardi 1987). Cosicché, abbiamo già visto, il movimento si vide costretto a scegliere o la
lotta armata ad oltranza o l'abbandono dell'idea, perché senza sbocchi positivi e quindi frustrante.
Pensiamo che tale esperienza pesi gravemente sulla coscienza collettiva di questa generazione e
sia alla base del suo attuale rifiuto della politica. Essa ha probabilmente interiorizzato la lezione e
rinuncia in partenza ad impegnarsi su un'impresa che ritiene impraticabile. Ciò viene verificato
dalla permanenza del desiderio di cambio, di mutare l'attuale situazione politico-sociale e dalla
contemporanea denuncia dell'impossibilità di attuarlo.
Più che fermarsi a sondare eventuali segnali di rinascita dei movimenti, sembra più produttivo
approfondire le correlazioni tra istanze valoriali e orientamenti di voto per cogliere le domande e i
bisogni inespressi dei giovani.
Figura.2 – Grafico delle variazioni nei principali valori giovanili sempre presenti in tutte le cinque indagini IARD
(1983-2000) per l’età 15-24 anni
90
80
Non so, non posso
prevedere
Famiglia
70
60
Lavoro
50
Amicizia
40
Attività politica
30
Impegno religioso
20
10
Impegno sociale
0
Studio e interessi
culturali
1983
1987
1992
1996
2000
Svago nel tempo
Fonte: elaborazione propria su dati IARD
Ciò che più impressiona dell’ultimo rapporto (2002) è il numero libero
elevato di giovani che
manifestano disgusto per la politica (26% vs. 12% dell’83). Questo dato,Attività
unito alla
constatazione
sportive
dell’alto numero di coloro che non vogliono collocarsi nell’asse destra-sinistra, o non sanno cosa
62
votare, o voterebbero un partito extra-sistema (i Radicali), otteniamo l’indicazione che circa un
giovane su due (43%) resta in disparte rispetto alla politica. Prescindendo da motivi diffusi, come la
tendenza generale di aumento di astensione dal voto e di sfiducia verso la politica, caratteristiche
delle democrazie più avanzate, di cui Putnam ha di recente tracciato un’impietosa analisi,
leggendole come una malattia della democrazia, cerchiamo,cerchiamo di individuare le cause
specifiche del comportamento elettorale dei giovani italiani.
Esse sembrano riconducibili, secondo l’estensore del rapporto, a motivi etici. Analizzando in
maniera approfondita alcune risposte sull’ammissibilità/non ammissibilità di certi comportamenti,
risulta che esse spiegano i comportamenti elettorali più di ogni altra precedente spiegazione (classe
sociale, cultura familiare, reddito, confessione religiosa). Pertanto criteri etici sembrano essere la
spiegazione più attendibile del comportamento elettorale47. Ne risulterebbe che chi vota a destra è
più disposto ad accettare l’inganno verso l’altro (stato, partner, altro generico), mentre chi vota a
sinistra è più favorevole al rischio e alla trasgressione. Queste preferenze manifesterebbero in quelli
di destra tratti fortemente autoaffermativi, “una sorta di espansione dell’io a danno degli altri, al
limite della prevaricazione” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 276); mentre in quelli di sinistra “una
specie di sindrome nichilista o autodistruttiva, una sorta di dispersione dell’io, o indifferenza
all’integrità del corpo” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 277).
Rimane da interpretare il comportamento di coloro che non votano o non si pronunciano. Anche
questo comportamento può essere spiegato con criteri etici. Incrociando, per esempio,
l’ammissibilità dell’omosessualità con quella dell’evasione fiscale e correlandone gli esiti con le
preferenze elettorali (compresi i “non voto” e i “non so”), emerge una tipologia in cui appare che
quelli di sinistra (i “civici”) sono per l’accettazione dell’omosessualità e il rifiuto dell’evasione
fiscale, quelli di destra (gli “integristi”) vogliono esattamente l’incontrario. Rimangono fuori i
“rigoristi” (né omosessualità, né evasione fiscale) che corrispondono al “non so” e i “permissivi”
(favorevoli sia all’omosessualità che all’evasione fiscale) i quali non votano o votano radicale. Ciò
darebbe ragione del forte disimpegno politico di tanti giovani italiani: nessuna delle proposte
politiche in questo momento interpreterebbe adeguatamente le loro istanze etiche. Troppo
permissivi o compromessi gli attuali partiti per i “rigoristi”, troppo poco liberali per i “permissivi”.
Tutto ciò indica una forte domanda etica da parte dei giovani italiani, ma anche una forte
diversificazione valoriale ed un probabile aumento di intolleranza politica. Se si analizzano bene i
risultati ci si accorge che ognuna delle posizioni espresse è incompatibile con l’altra. Da alcuni
autori viene paventato il pericolo di una specie di “razzismo etico”, imperniato sull’idea di
superiorità etica nei confronti dell’avversario, relegato a livello di essere inferiore, che può essere
anche soppresso. Se queste analisi hanno un certo fondamento, il quadro politico che si prospetta
non è dei più rosei. Una certa intransigenza nei giovani è fisiologica, ma se la situazione non si
evolve c’è il rischio di andare incontro ad una stagione di conflitti insanabili, basati proprio su
questioni di principio. Questioni più radicali di quelle politiche, perché non si tratta solo di decidere
quale via perseguire per raggiungere il bene comune, ma addirittura qual è il bene comune. Almeno
da una parte della gioventù italiana viene messo in questione un punto fondamentale
dell’orientamento progressista: la sempre maggior tolleranza verso i comportamenti trasgressivi.
Ora tale orientamento sembra minoritario tra i giovani italiani e la sua assenza può annunciare
conflitti di tipo fondamentalista.
5.3.1.2. La partecipazione associativa
Un altro elemento che può indicare una coscienza “politica” è la partecipazione a forme
associative o di volontariato. Secondo Inglehart (1990), è la nuova via della democrazia, che
47 Questa sembra essere una costante del comportamento elettorale degli italiani. Già anni fa Inglehart aveva osservato che “nei
Paesi Bassi e in Italia le priorità dei valori di un individuo paiono costituire un’influenza molto importante sulla scelta di partito di
sinistra o di destra” (Inglehart 1983, 287).
63
diventa meno rappresentativa e più diretta attraverso l’impegno personale e la partecipazione a
movimenti di opinione, a cortei, manifestazioni (“partecipazione politica non convenzionale”).
La partecipazione associativa volontaria dei giovani italiani ha visto una crescita notevole negli
anni ’80, per poi consolidarsi negli anni ’90 vicino alla media dei giovani europei.
“L’ultima rilevazione IARD, pur registrando una leggera inversione di tendenza, conferma
la presenza di una consistente partecipazione associativa giovanile nel nostro paese”
(Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 439).
Si calcola che l'associazionismo organizzato investa circa 1/3 degli italiani. Solo il 18,2% dei
giovani non ha mai partecipato ad alcuna forma associativa organizzata
In una società complessa ed in un tempo di sfiducia generalizzata verso la politica e le istituzioni,
essa diventa sovente l'unico strumento di mediazione tra gli interessi privati e quelli più generali,
svolgendo quell'opera di coscientizzazione che altrimenti difficilmente sarebbe raggiunta dal
giovane lasciato a se stesso.
Naturalmente l'osservazione vale per quelle forme di associazionismo che contengono,
chiaramente espressi, motivi e modelli formativi. Prescindiamo quindi dall'aggregazione informale,
i cui scopi si riducono principalmente alla soddisfazione del bisogno di stare assieme senza
progettualità. Rispetto a questi ultimi, infatti, la partecipazione associata rappresenta un valida
alternativa per la formazione alla “solidarietà lunga”:
“Rappresentano anche l’antidoto a una chiusura nel piccolo gruppo (familiare o amicale),
in un momento storico in cui la politica, intesa come luogo che dovrebbe produrre
solidarietà lunghe, non riesce a raccogliere i frutti del protagonismo giovanile” (Buzzi,
Cavalli, de Lillo 2002, 440)
Le forme di associazionismo che fanno più presa sull'elemento giovanile sono quelle (in ordine
decrescente) sportive, religiose e di volontariato.
Le attività associazionistiche più diffuse, secondo l’ultimo rapporto IARD, sono quelle di
fruizione (29.2% di tutto il campione), di impegno verso gli altri (20.9%) e, molto più in basso,
quelle di impegno religioso (11%).
L'associazionismo si presenta con le seguenti caratteristiche:
-
Le due forme prevalenti (sportivo, religioso) tendono a ridursi con l’avanzare dell’età, mentre
recupera con gli anni l'associazionismo d’impegno;
L'associazionismo resta un'esperienza prevalentemente maschile.
La partecipazione ad associazioni è correlata positivamente con la condizione di studente, con un
miglior livello socioculturale della famiglia e con la residenza (prevale al Nord).
Negli anni ’80 si era sviluppata una forte partecipazione giovanile ad azioni dimostrative per la
pace, la scuola, l'ambiente, le donne, i problemi del quartiere, ecc. In quegli anni si poteva notare la
crescita della coscienza ecologica e del pluralismo sociale e culturale; l’impegno per la pace;
l’incremento di forme di volontariato. Queste forme di partecipazione, che già allora avevano
suscitato qualche perplessità nei sociologi più attenti48, sono letteralmente precipitate a fine secolo,
fata eccezione per quelle sui problemi locali.
A parte una spiegazione legata al momento storico (la sinistra al governo) ed una certa ripresa, di
questi ultimi anni dei movimenti di piazza (no-global, scuola, lavoratori, girotondi, ecc.) sembra
però che la partecipazione stia effettivamente scendendo sempre di più. Forse in questo Inglehart ha
48 - G. Milanesi così concludeva l’inchiesta da lui diretta sui giovani europei e la pace: “Resta incombente l’impietosa ipotesi di
A. Heller secondo cui l’interesse dei giovani (e in particolare quelli legati a certi movimenti per la pace) per le tematiche della guerra,
della violenza, della pace e della non violenza non rivela che la paura dell’espropriazione dei privilegi e delle opportunità fin qui
raggiunte e, viceversa, non nasconde altro che un vitalismo senza progetto, che è più rivolto alla conservazione dello status quo che
all’invenzione di una diversa qualità della vita. [...] La cultura della pace è per ora più chiacchierata che interiorizzata, più pensata
che vissuta, più auspicata che prodotta (Istituto di Sociologia - FSE/UPS- Roma 1988, 162-163).
Ed è sintomatico anche il commento di Ferrarotti su questi movimenti: “ La fiammata pacifista ed ecologista è del tutto
riconducibile alla strategia dell’evitamento descritta da Offe a proposito dei Verdi tedeschi. E’ riappropriazione di una razionalità
difensiva, quasi istinto di conservazione nutrita di inclinazioni al fondamentalismo che non può trovare saldatura se non contingente
con le stesse organizzazioni della sinistra e la loro memoria storica” (Ferrarotti et alii 1986, 15)
64
previsto le cose come una continuazione degli anni ’70. Probabilmente c’è una coscienza civica
ancora da attivare, ma anche degli strumenti interpretativi da aggiornare. C’è un atteggiamento
sempre più di delega nella società e nei giovani; chi vuole impegnarsi lo fa in ambiti ristretti al di
fuori del clamore dei mass-media e della politica.
5.3.1.3. Il senso di appartenenza territoriale
Secondo l’ultima indagine, risulta che, pur percependo in qualche modo la minaccia dello
sradicamento territoriale, frutto della società postmoderna, complessa e multiculturale, i giovani
hanno reagito coagulandosi attorno al recupero delle tradizioni locali (52%), senza rinunciare ad
essere contemporaneamente cittadini di qualcosa di più vasto, sia esso l’Italia (28%), l’Europa (4%)
o il mondo (15%). Sembra, secondo l’estensore del rapporto, che
“nonostante siano cambiate le condizioni politiche e sociali dello scenario, non sia
cambiato molto, negli ultimi anni, il senso di appartenenza territoriale dei giovani. […] Di
conseguenza, essi appaiono, anzitutto, attaccati alla loro città, ma anche alla nazione. Si
dichiarano orgogliosi di essere italiani, ma senza esprimere identità esclusive. Essi, cioè,
non appaiono né localisti né nazionalisti. Piuttosto, in questi anni hanno allargato il loro
sguardo oltre i confini nazionali. Si presentano, quindi, più cosmopoliti e più europei. Con
una battuta: hanno molte patrie, molti orizzonti territoriali; e, dunque, nessun riferimento
esclusivo” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 338).
Pertanto, nonostante tante minacce e provocazioni, i giovani non sembrano tradire la propensione
postmaterialista: anche se meno universalisti degli utopisti degli anni ‘70, essi non rinunciano ad
essere anche cittadini di un contesto più ampio. La loro appartenenza territoriale non contraddice il
cosmopolitismo, ma lo presuppone. È un’appartenenza che si fa più concreta senza rinunciare ai
grandi ideali, così come d’altra parte risulta dagli orientamenti tipici del postmodernismo (cfr.
Inglehart 1998). Pertanto, il bisogno d’appartenenza sembra venga saturato dai giovani Italiani
percorrendo due vie: da una parte col sentirsi appartenenti ad una comunità locale, dall’altra
coltivando gli ideali universalistici di una cultura, che moltiplica le occasioni di conoscenza e
contatto con tutto il mondo. Ciò che può stupire è, al massimo, la scarsa attrattiva esercitata
dall’Unione Europea. Non che la rifiutino, ma non la sentono come patria. Al massimo chiedono ad
essa di diventare più forte e meglio organizzata.
5.3.1.4. Materialisti, postmaterialisti o semplicemente pragmatici?
L’orientamento manifestato da molti giovani verso destra sembrerebbe indicare un ritorno a
valori e bisogni di tipo materiale, segnatamente di sicurezza sociale, ma è questa la giusta
interpretazione da dare al comportamento elettorale dei giovani italiani?
Gli avvenimenti succeduti a livello nazionale e internazionale, le acclerazioni della società sia nel
campo delle scoperte che dell’economia sono tali da rimettere in discussione le classiche definizioni
“politiche” e, dall’altra, introducono nuovi elementi di valutazione con cui misurarsi. Possono le
ipotesi di Inglehart tenere in questo nuovo contesto?
Una risposta l’ha tentata lui steso. Già nella prima opera egli dedicò un capitolo per capire “come
distinguere la sinistra dalla destra”, riconoscendo che “il loro significato può variare da un paese
all’altro e […] nel tempo all’interno di uno stesso paese” (Inglehart 1983, 218). In particolare
riconosceva che “l’Italia è un paese nel quale la dicotomia sistema/antisistema si presenta con forza
particolare”, per cui il voto risultava bloccato ed era difficile stabilire “dove finisce la sinistra e
dove inizia la destra” (ibid., 225). In un’opera successiva (1990) egli prese atto del mutamento in
corso, in seguito al quali alcune istanze postmaterialiste potevano essere fatte proprie da partiti di
destra, mentre partiti di sinistra si rischiavano di attardarsi nella difesa di posizioni superate: per cui
65
attribuire alla destra e alla sinistra un ruolo conservatore o progressista diventava difficile.
Questo rimescolamento di posizioni si rende particolarmente evidente nel caso italiano, dove
alcune istanze progressiste sono state assunte dalla destra mentre altre lo sono state dalla sinistra.
Questo a dispetto di una certa chiarificazione delle posizioni avvenuta nel corso degli anni ‘90.
Infatti in quegli anni la situazione italiana si è sbloccata, rimettendo il gioco forze che fino ad allora
non potevano andare al governo perché parte dell’antisistema (comunisti, fascisti). Questa
“rivoluzione” politica ha consentito di creare due schieramenti alternativi, corrispondenti alla
classica divisione “destra-sinistra”: da allora è diventato più facile riconoscersi in polarità comuni
alla maggior parte dei paesi occidentali. Ma cosa significa oggi essere di destra o di sinistra? E,
soprattutto, che significato ha in ordine alla polarità materialismo/postmaterialismo e alle previsioni
fatte da Inglehart negli anni ‘70?
Il nostro autore, avvalendosi degli studi di Janda (1970), assunse, già fin all’inizio, il seguente
schema come punto di riferimento:
“i partiti della sinistra tendono ad essere relativamente favorevoli alla proprietà del
governo dei mezzi di produzione; un ruolo più importante del governo nella
programmazione economica; la ridistribuzione della ricchezza; ampi programmi di
assistenza sociale a spese dello stato; l’allineamento con il blocco orientale, piuttosto che
con quello occidentale; la laicizzazione della società; maggiori stanziamenti per l’esercito;
l’indipendenza dal controllo straniero; l’integrazione internazionale; l’integrazione
nazionale; l’estensione del diritto di voto e la protezione dei diritti civili” (Inglehart 1983,
219).
Già al momento della verifica empirica questo schema apparve approssimativo, infatti, la
correlazione tra partiti della sinistra e spese militari o diritti civili non corrispondeva all’immagine
diffusa tra gente. Perciò questi due item furono espunti dallo schema. A queste correzioni, fatte in
corso d’opera, se ne sono aggiunte altre in seguito ai mutamenti di questi ultimi anni.
Il crollo del blocco sovietico ha reso inutile la distinzione tra favorevoli al blocco occidentale od
orientale. Tra l’altro il PCI aveva già affrontato questo tema negli anni ‘70, affermando la propria
fedeltà alla NATO, anche se bisogna riconoscere che il sentimento anti-americano è più diffuso tra
gli elettori di sinistra. La crisi del “Welfare” ha costretto anche i partiti della sinistra ad approntare
programmi di governo che prevedono una riduzione della spesa previdenziale ed una progressiva
privatizzazione delle aziende pubbliche. Su questo, però, la destra si muove con maggior
determinazione e disinvoltura, anche se la presenza di AN nella coalizione di governo ne attenua la
vocazione antistatalista. Ciò in cui la destra italiana sembra emergere è la maggior propensione a
favorire l’iniziativa privata nella produzione e a preoccuparsi di meno dei temi previdenziali; di
conseguenza a porre meno vincoli sugli investimenti e sulla mobilità dei capitali o della
manodopera, a difendere con maggior impegno l’identità nazionale (e regionale) a scapito della
dimensione internazionale e solidaristica, a razionalizzare la burocrazia, a diminuire i vincoli e i
controlli statali e a aderire più prontamente alle iniziative internazionali della politica americana,
stanziando più capitali per gli armamenti e le forze armate.
Da queste analisi sommarie è difficile dire quale orientamento politico sia più progressista in
senso postmaterialista. Rispetto ai bisogni materiali, le due formazioni sembrano spartirsi a metà la
posta: la sinistra più attenta ai bisogni di sicurezza economica (posto di lavoro garantito, previdenza
sociale), la destra ai bisogni di sicurezza sociale (ordine pubblico, difesa). Rispetto ai valori
postmaterialisti appare avvantaggiata la sinistra (maggior libertà e partecipazione dei cittadini,
universalismo ed ecologia), però la destra sembra molto attenta a garantire le libertà individuali, che
sembrano costituire la domanda politica attualmente più forte. Perciò stabilire se la destra sia
materialista e la sinistra postmaterialista sembra azzardato. Anche perché certe scelte sono
inderogabili, data la partecipazione dell’Italia a sistemi sovranazionali, come l’Unione Europea, la
Nato e, comunque, al sistema socio-politico ed economico occidentale. Per cui lo scarto tra destra e
sinistra in merito ai grandi obiettivi politici ed economici risulta minimo; ciò che le differenzia è il
grado di sensibilità ai valori sottostanti e le strategie che questi dettano nel perseguimento dei
66
grandi obiettivi. Perciò, definirsi di destra o di sinistra può non essere così decisivo in ordine ai
valori postmaterialisti.
L’indice di materialismo/postmaterialismo non sembra più passare attraverso un’opzione politica.
Probabilmente i dati vanno letti in termini più ampi: il voto di destra può nascondere una domanda
di maggior libertà, con un’istanza individualistica, come d’altra parte la tendenza al disimpegno
potrebbe confermare.
D’altra parte non manca chi fa notare il valore innovativo e quindi profondamente politico di certi
atteggiamenti giovanili tendenti al disimpegno e al disinvestimento affettivo dalla politica.
“La crisi delle grandi narrazione (Lyotard), delle spiegazioni e dei modelli globali,
restituisce al reale la sua vera configurazione di molteplicità contraddittoria che non può
essere compresa per intero. [...] Anche la politica, come sintesi superiore e globale, cede il
passo ad un suo ridimensionamento in senso più pragmatico. [...] La fine delle grandi
prospettive non genera però disinteresse ed apatia; anzi l’attenzione si fa più puntuale ma
anche più concreta, si rivolge al presente, a ciò che è realizzabile qui e ora. In tal senso si
possono interpretare la rivalutazione della quotidianità e dei rapporti interpersonali”
(Bianchi 1986, 35).
Possono essere compresi in quest’ottica anche la crescita del volontariato e dell’associazionismo
ed il rifiuto dell’“egemonia” di partiti ed ideologie da parte dei movimenti giovanili. “Si alla
partecipazione, no al consenso” potrebbe essere lo slogan che sintetizza parte degli atteggiamenti
politici dei giovani di questi anni.
Rispetto al significato del lavoro, abbiamo due grandi trend nelle risposte dei giovani italiani.
Fino al ‘92, gli andamenti sono stati in sintonia con le previsioni di Inglehart: diminuisce
l’importanza del lavoro nella gerarchia dei valori (cede il posto agli affetti), in compenso crescono
le attese di autorealizzazione e autonomizzazione, con notevole disponibilità alla flessibilità. Ma
dopo il ‘92 le attese rispetto al lavoro si invertono: aumentano le domande in merito allo stipendio e
al reddito, mentre diminuiscono rispetto all’ambiente, ai rapporti, all’autoespressione, come si può
evincere dalla seguente tabella riassuntiva.
Tabella.3 – Elenco delle aspettative rispetto al lavoro di giovani italiani nelle ricerche IARD
23. Qual è l’aspetto più importante del lavoro tra le
cose di questo elenco? E quale metterebbe al secondo
1992
posto? E quale invece considera meno importante e
metterebbe al penultimo e ultimo posto?
% di risposta all’item “1° posto”
15-24 a. 15-29 a.
Lo stipendio, il reddito
Le condizioni di lavoro (ambiente di lavoro,
tempi di trasporto…)
Buoni rapporti con i compagni di lavoro
Buoni rapporti con i superiori, i capi
La possibilità di migliorare (reddito e tipo di
lavoro)
La possibilità di imparare cose nuove ed
esprimere le proprie capacità
L’orario di lavoro
La possibilità di viaggiare molto
La sicurezza del posto di lavoro
Non indica
1996
2000
15-24 a.
15-29 a.
15-24 a.
15-29 a.
18.6
13.6
19.0
13.4
32.8
14.9
32.0
13.7
29.8
11.4
29.9
10.4
9.8
3.5
15.4
9.2
3.2
15.6
9.4
3.5
12.5
9.6
3.5
13.3
6.1
3.4
9.5
6.0
3.3
10.9
31.1
30.8
22.8
23.4
14.6
16.0
1.5
3.1
1.8
3.0
1.1
1.3
1.4
2.3
3.4
4.0
0.7
0.8
0.8
2.8
13.6
7.9
1.4
2.2
12.9
7.1
Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 614)
Se confrontiamo gli item tipicamente postmaterialisti (buoni rapporti; possibilità di migliorare
reddito e tipo di lavoro, di imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità, di viaggiare molto;
condizioni e orario di lavoro), li vediamo tutti in flessione. Impressionante è la netta caduta di
67
interesse per l’item più postmaterialista (imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità) che
passa dal 31.1% del ‘92 al 14.6% del 2000, cui fa da controparte la netta ascesa della domanda di
stipendio e reddito (dal 18.6% al 29.8%).
Lo spartiacque sembra essere rappresentato dai dati della ricerca del ‘96, infatti in tale rapporto
viene evidenziato il “deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro” (Buzzi, Cavalli, de
Lillo 1997, 55), conseguenza della sfavorevole congiuntura economica verificatasi a metà degli anni
‘90. Mentre la ricerca del ‘92 aveva registrato una bassissima percentuale di giovani in cerca di
prima occupazione (3.7%) e il numero più basso da quando erano cominciate le ricerche IARD di
giovani in cerca di lavoro (26% sotto i 25 anni, 28.8% sotto i 30), quella del ‘96 registra un debole
aumento della ricerca di prima occupazione (5.4%) e più marcato di lavoro in genere (33.3% sotto i
25 anni, 36.8% sotto i 30), con un aumento complessivo di 6-7 punti percentuali di giovani con
problemi occupazionali. È indicativo che la domanda cresca più per il lavoro in genere che per la
prima occupazione, segno del deterioramento complessivo delle condizioni di lavoro e dell’aumento
dei rischi d’espulsione dal mondo del lavoro. Altra caratteristica di questi anni è l’aumento delle
disuguaglianze territoriali (favorito il Nord-Est, sfavorito il Sud e le Isole), che comportano
differenti opportunità d’impiego per i giovani, disparità nella qualità del lavoro e nella retribuzione,
maggiori discriminazioni per sesso e cultura.
Questi fattori di tipo strutturale possono dare ragione dei mutamenti registrati nelle valutazioni
del lavoro e sono perfettamente in linea con le ipotesi di Inglehart. Infatti, affermano i curatori del
rapporto del ‘97 che “l’aumento consistente di importanza attribuita alla retribuzione, cui
corrisponde una perdita di attenzione verso la dimensione formativa e realizzativa del lavoro” sia da
attribuire “alla crisi economica, al mutato clima del mercato del lavoro e alla maggior difficoltà di
trovare un posto, rispetto gli inizi degli anni Novanta” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 81). Le
diverse situazioni sociali e culturali influiscono a loro volta nella tipologia delle risposte. I giovani
più scolarizzati tendono ad essere relativamente più soddisfatti del lavoro, lo concepiscono più in
termini autorealizzativi, ma anche di carriera, mentre i meno scolarizzati mostrano maggior
apprezzamento per la dimensione relazionale ma anche per quella retributiva. Pertanto elementi
espressivi (o postmaterialisti) si intrecciano con quelli strumentali (o materialisti) in entrambi i casi,
rendendo difficile una lettura lineare dell’evoluzione dei bisogni e dei valori giovanili in merito al
lavoro. Ciò che appare evidente è che il bisogno immediato è quello che determina la risposta in
termini di preferenze e di valori.
Anche un altro elemento considerato da Inglehart, la soddisfazione, non sembra dare indicazioni
indiscutibili: a dispetto del deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro, aumenta il
numero di giovani che attribuiscono molta importanza al lavoro e di giovani occupati che
esprimono soddisfazione per il lavoro. Ciò, a detta degli estensori del rapporto, non va attribuito ad
“improbabili tendenze culturali emergenti”, ma, più verosimilmente, al “mutato clima del mercato
del lavoro”: i giovani occupati, “considerandosi in qualche modo dei privilegiati, esprimono più alti
livelli di soddisfazione del lavoro” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 79).
Analoghe considerazioni vanno fatte per la ricerca 2000. Pur essendo in atto ampie
trasformazione in campo produttivo, che i giovani colgono molto rapidamente adeguandosi con
notevole flessibilità, non cambiano sostanzialmente i giudizi e le attese sul lavoro. Le
trasformazioni più rilevanti riguardano l’aumentata disponibilità del mondo produttivo verso i
giovani, connessa con il declino dell’organizzazione fordista del lavoro. Conseguenza di ciò è
l’aumento di giovani occupati e, soprattutto, che hanno fatto esperienze, anche brevi, di lavoro. La
quota di giovani che non studia e non lavora diminuisce notevolmente (13.8% nel 2000 contro il
19.2% del ‘96), i giovani occupati sono il 52.9% e, degli studenti a tempo pieno, la metà ha avuto
almeno un’esperienza di lavoro retribuito, per cui a 22 anni l’80% della popolazione giovanile ha
avuto un’esperienza lavorativa, anche se solo dopo i trent’anni tale esperienza si traduce in
occupazione stabile nella medesima proporzione. Complessivamente “i giovani disoccupati o in
cerca di un primo lavoro sono il 10.6% del totale, in sensibile diminuzione rispetto alla precedente
edizione dell’indagine (14.0%)” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 135). Queste variazioni dipendono
68
da due fattori concomitanti e interagenti: la maggior flessibilità del mercato del lavoro e l’aumentata
disponibilità dei giovani a adattarsi alle nuove situazioni occupazionali, superando concezioni
troppo rigide e tradizionali e sfruttando tutte le opportunità che si offrono loro. Ma ciò non significa
un netto miglioramento della condizioni lavorative. Sono molti che stanno cercando un lavoro
migliore, più adatto e sicuro: il 46% degli occupati a termine, il 21.5% degli occupati stabili e il
15.2% dei lavoratori indipendenti… “I giovani entrano più facilmente nel mondo del lavoro, ma si
devono spesso accontentare di occupazioni marginali e meno sicure di una volta” (Buzzi, Cavalli,
de Lillo 2002, 150).
Questa situazione può spiegare la permanenza degli stessi trend, nelle attese verso il lavoro,
dell’edizione precedente. Se è vero che gli item strumentali perdono alcuni punti percentuali, lo
stesso capita anche agli item espressivi, il tutto a vantaggio di nuovo item inserito solo in
quest’ultima edizione: “sicurezza del posto di lavoro” (13.6%), che non rappresenta certo un valore
postmaterialista. Complessivamente le maggiori preferenze vanno agli item strumentali, e l’opzione
“stipendio, reddito” ne ottiene il doppio rispetto alla prima delle scelte espressive: “possibilità di
imparare ed esprimere le proprie capacità”. Solo in un particolare le concezioni di Inglehart
possono trovar conferma in questi dati: nella dipendenza delle risposte dalla dinamica dei bisogni.
Lì dove si danno condizioni sociali, economiche e culturali migliori emergono con maggior
evidenza i valori espressivi, quando invece queste condizioni sono di bassa qualità (Mezzogiorno,
poco colti, di ceto basso) le scelte tendono a privilegiare gli aspetti strumentali del lavoro.
Sostanzialmente non vengono smentite le ipotesi di Inglehart: infatti le sue previsioni erano
subordinate alla stabilità del quadro economico, sociale e politico. In caso di variazioni di tali
parametri le sue stesse ipotesi prevedevano regressioni a valori materialisti, in difesa dei bisogni
minacciati. Questo è ciò che si è verificato negli anni ‘90. Però bisogna riconoscere pure che, se il
trend verso una cultura postmaterialista non è cessato, tuttavia il suo corso non appare così lineare e
sicuro come previsto da Inglehart, e ciò non solo per il deterioramento delle condizioni economiche,
ma anche per altri mutamenti sociali, politici e culturali intervenuti nel frattempo. Infatti già nel ‘92,
quando la congiuntura economica era favorevole, i ricercatori registravano che “gli ideali di
realizzazione e autonomia lasciano spazio anche ad atteggiamenti moderatamente opportunistici
[…] e anche gli interessi sono perseguiti con una logica prevalentemente individuale” (Cavalli, de
Lillo, 1993, 69-70). Questa tendenza all’opportunismo e all’individualismo viene colta soprattutto
dalla forte flessione nella partecipazione sindacale, ma anche da una serie di altri atteggiamenti di
adattamento pragmatico emersi già nel decennio precedente, che negli anni ‘90 diventano ancora
più evidenti.
5.3.2. Il rapporto giovani - istituzioni
Una delle spiegazioni utilizzate per spiegare il rifiuto della politica da parte dei giovani è stata la
constatazione della distanza-incomprensibilità della società organizzata (istituzioni) dal mondo
giovanile. D’altra parte Inglehart pronosticava un sempre maggior distacco delle nuove generazioni
dalel istituzioni tradizionali, come forma di conquista dell’autonomia personale. In questo sembra
che sia stato buon profeta.
Le ricerche ci rimandano una situazione di progressiva sfiducia/distacco dei giovani dalle
istituzioni. Però è anche vero che esistono delle diversità di atteggiamento verso istituzione ed
istituzione. La ricerche Iard hanno costantemente monitorato tale cambiamento nel tempo.
Dall’ultima indagine appare che la fiducia nei riguardi delle istituzioni, fatta qualche rara eccezione,
è andata costantemente calando dalla prima indagine all’ultima.
Solo verso un gruppo, gli scienziati, i giovani mostrano generalmente (85.2%) “fiducia”,
all’estremo opposto della scala si collocano i politici, che godono di una sfiducia generalizzata. A
livelli intermedi si collocano altre categorie.
69
Godono di fiducia diffusa (60% ca.) le principali istituzioni internazionali (ONU, Unione
Europea, NATO), gli apparati pubblici di controllo (polizia, carabinieri, magistratura), gli
insegnanti e la scuola.
Appartengono invece all’area della fiducia solo relativamente diffusa (meno del 50%) sacerdoti,
industriali e banche, giovanali e TV.
Sette gruppi/istituzioni godono scarsa fiducia (militari di carriera/esercito, amministratori
communali e funzionari pubblici/burocrazia, governo, sindacalisti, partiti e uomini politici).
Alcuni di questi gruppi hanno avuto, negli anni, momenti di crescita e altri di caduta della fiducia.
Per esempio, i sacerdoti avevano avuto un buon recupero attorno agli anni ’90 (51%), per poi
precipitare nell’ultima alle posizioni di partenza (46.6%), lo stesso andamento hanno registrato gli
industriali (50% nel ‘96). Deboli segnali di recupero, rispetto alla precedente, lo mostrano le
banche, i funzionari dello stato e il governo. Ma questo non significa fiducia nella politica
Globalmente si può osservare che i giovani ripongono fiducia nelle istituzioni dell'ordine sociale,
mentre hanno poca fiducia nelle istituzioni di tipo politico. Le istituzioni economiche godono
anch'esse di una fiducia abbastanza diffusa. Questa fiducia poi subisce delle variazioni in relazione
al sesso, all'età e l'estrazione sociale e geografica.
Le ragazze hanno più fiducia nella Chiesa, nell'esercito e nei militari, mentre i ragazzi ne hanno
di più verso la magistratura e nella burocrazia.
Il tasso di fiducia nelle istituzioni decresce con l'età, eccetto che per la magistratura. Decresce
anche passando dalle regioni settentrionali a quelle meridionali, ma subisce delle varianti
rispecchianti le culture locali.
I giovani di classe inferiore danno più preferenza per esercito, carabinieri. Quelli di classe
superiore preferiscono la magistratura, banche, insegnanti, sacerdoti, burocrati, governo. I
sindacalisti ottengono un certo riconoscimento solo nella classe medio-bassa, non in quella bassa.
Questo atteggiamento di caduta della fiducia nelle istituzioni che più rappresentano lo stato e
l’organizzazione politica, è una costante della coscienza giovanile italiana, ma non solo. E’ un
problema registrato in diversi paesi dell’occidente. Il fenomeno negli USA si è manifestato fin dagli
anni ’60. All’interno del contesto europeo l’Italia si è sempre dimostrata tra le nazioni dove è più
alto il livello di sfiducia, talmente che Inglehart ne fece uno dei termini di paragone della sua
ricerca. Ciò che appare nuovo nella situazione giovanile italiana nell’ultima ricerca è.
- l’approfondimento di questa tendenza
- la sua estensione:
“se sino ad alcuni anni fa fra i giovani italiani la crisi di fiducia aveva riguardato
soprattutto la situazione della politica, oggi si aggrava e si allarga ad altre aree del sociale,
coinvolgendo in particolare il mondo dell’informazione e gli apparati di controllosicurezza” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 284-285).
5.3.3. Valori pertinenti la sfera immateriale
I valori che appaiono invece in netta ascesa sono quelli riferiti alla sfera individuale e dei rapporti
interpersonali. Gli estensore dell’ultimo rapporto fanno notare “l’evolvere del sistema di valori
verso al sfera della socialità ristretta e della vita privata, a scapito soprattutto dell’impegno
collettivo” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 43).
Come si evince dai dati il valore che è sempre rimasto in testa nelle preferenze giovanili è quello
della famiglia (± 85%). Al secondo posto negli anni ‘80 c’era il lavoro, che ha ceduto la piazza
d’onore negli anni ‘90 all’amicizia e all’amore. Questo non tanto per una sua grave perdita
d’importanza, quanto per una maggior crescita dei valori affettivi (dal 58% al 74% l’amicizia, fino
70
al 78% l’amore)49. L’emergenza di valori affettivi è ciò che caratterizza dunque le attese giovanili di
questi anni manifestando un bisogno in tal senso. Un altro valore in costante ascesa in tutti questi
anni è quello legato all’espressività nel tempo libero e ad atteggiamenti ludici e edonistici. Di tutti
questi, che sembrano i valori emergenti tra i giovani, ci occuperemo in questa ultima parte del
paragrafo, che tratta appunto i valori collegati con la sfera più immateriale.
5.3.3.1. I valori familiari
La ricerca del 2000 aggiunge un altro tassello importante alla comprensione del fenomeno. Oltre
indicare la mancanza di politiche di riduzione della precarietà del lavoro, utilizza soprattutto i
modelli culturali per la comprensione del fatto. In base ad analisi più approfondite risulta che la
maggior parte di giovani italiani usufruisce di alti margini di libertà senza fornire in cambio
adeguata partecipazione alla conduzione familiare. Su questo scambio si basa l’accordo tra genitori
e figli. Risulta così che il “modello italiano” ha beneficiato di una congiuntura favorevole, costituita
dalla combinazione del “nuovo” diffuso benessere sociale con la “tradizionale” struttura familiare.
Ciò ha permesso alla generazione attuale di approfittare di un modello “innovativo” di relazioni
genitori-figli, non più centrato su rapporti gerarchici e autoritari, ma sul dialogo e la comprensione,
senza perdere dall’altro i vantaggi del modello “solidaristico” tradizionale, che contemplava un
elevato grado di accudimento ed una corrispondente “disponibilità ad offrire ai figli tutta una serie
di opportunità, sia in termini di qualità della vita, sia in termini di possibilità per il futuro” (Buzzi,
Cavalli, de Lillo 2002, 184).
“Il risultato di questa ‘felice’ congiuntura è che se l’abitare in famiglia costituisce per
molti ragazzi una ‘necessità’ collegata alla incertezza lavorativa o alla scarsissima
presenza di politiche pubbliche di sostengo dell’autonomia, per molti, o almeno per quanti
sono ormai in un’età adulta e lavorano, si tratta invece di una scelta, sulla quale giocano sì
considerazioni di carattere affettivo, e in particolare il complesso del ‘gradimento’ del
‘clima familiare’, ma anche le caratteristiche del modello sopradelineato, che da un punto
di vista strettamente ‘razionale’, rendono decisamente vantaggiosa la permanenza nella
famiglia di origine” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 184).
Non è detto però che, di fronte ai cambiamenti in atto nelle famiglie italiane (sempre più
monogenitoriali o con madri professionalmente attive), esso si confermi: da tendenze in atto,
soprattutto nei ceti più elevati, sembra che stia avanzando un modello più simile a quello
nordeuropeo.
Pertanto attorno all’alto valore attribuito alla famiglia, si concentrano bisogni e valori diversi, a
volte contrastanti tra loro. Da una parte esigenze di tipo materiale, come quella di trovare casa di
fronte alla crisi degli alloggi e alle difficoltà e precarietà occupazionali, ma anche quella di
risparmiare sul vitto e alloggio e di non doversi prendere cura della casa, dall’altra però avanzano
valori che sono perfettamente in linea con quelli delle società più avanzate: procrastinare e ridurre
nuzialità e natalità, instabilità coniugale, nuovi tipi di relazione tra i generi e mutazione del tipo di
rapporti tra generazioni.
Se da una parte perciò sembrano smentite le previsioni di Inglehart sulla famiglia (cosa avvenuta
anche a livello internazionale), dall’altra non paiono essere messe in crisi le logiche che portavano a
quelle previsioni e l’andamento globale dei valori. Infatti il successo del “modello italiano” di
“famiglia lunga” sembra riposare su logiche del tipo “scelta razionale”, che sono le stesse impiegate
da Inglehart per spiegare l’andamento dei valori e comportamenti previsti. Perciò, se in Italia si è
sottolineato maggiormente il valore della famiglia, in parte può essere ricondotto ad una tipica
tendenza culturale, dall’altra esso appare frutto di comportamenti collettivi che corrispondono a
adattamenti alla situazione secondo logiche opportunistiche o di “rational choice”.
49
Fino all’indagine del ‘92 costituivano un unico item: “Ragazzo/a e amici/che” (cfr. Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 598).
71
Per il resto, le tendenze ed i valori dei giovani italiani non sembrano essere molto difformi da
quelli dei loro coetanei europei e rispondo ai bisogni di autorealizzazione e libertà già individuati da
Inglehart negli anni ‘70:
“Maggiori rispetto al passato sono, inoltre, i bisogni di libertà individuale e di autonomia,
più pressante è la spinta all’autorealizzazione, più forte è il desiderio di avere tempo per sé
soprattutto da parte dei giovani adulti. Tutte queste tendenze portano all’abbassamento del
tasso di nuzialità e all’aumento dell’età al momento del matrimonio (sempre più lungo
diventa il periodo di fidanzamento) che, assieme all’incremento del numero dei single e
delle convivenze more uxorio, provocano un sempre più ritardato concepimento della
prole” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 188).
Perciò da questo dato emergono, oltre a quelli affettivi e di sicurezza economica, evidenti bisogni
di libertà, autonomia e autorealizzazione, che comportano una riduzione degli impegni in famiglia,
sia in quella di origine, sia in quella di destinazione: ciò spiegherebbe sia il ritardo o la diminuzione
della nuzialità, la riduzione di natalità, come anche la convivenza di genitori e figli adulti sotto lo
stesso tetto. Non viene intaccato il principio di autonomia ma esso ha trovato nelle famiglie italiane
un indubbio vantaggio nel comporlo con il bisogno di sicurezza economica. Per il resto i valori non
sono difformi da quelli degli altri giovani europei…
Resta ancora da spiegare il forte bisogno d’affettività.
5.3.3.2. I valori affettivi
Il campo dove i valori hanno dimostrato di essere continuamente in ascesa in questi ultimi 20 anni è
quello dei rapporti affettivi, siano essi di coppia che di gruppo, mono o eterosessuali. A prescindere
dalle dinamiche evolutive dell’età, la crescita costante di questo valore va adeguatamente analizzata
perché è un indicatore di un bisogno sempre impellente. Il bisogno cui fa riferimento questo valore
è certamente quello classificato da Maslow come “appartenenza”, collocato al terzo livello nella sua
scala gerarchica, subito dopo i bisogni di tipo materiale. D’altra parte, l’appartenenza è un concetto
fondamentale in sociologia, anche se non sempre bene precisato50. Il fatto che stiano cambiando i
modi attraverso cui si struttura e si definisce l’appartenenza, costringe a spostare l’ottica sui
processi di socializzazione.
Ancora più preciso appare questo quadro nell’indagine del 2000, dove emerge un nucleo forte di
valori (famiglia, amore, amicizia, autorealizzazione e lavoro) che rappresentano il punto focale di
attenzione di giovani.
“Raggiunta la sicurezza su questo nucleo centrale ci si può dedicare al mondo
dell’esteriorità (lo sport, il successo e la carriera, la vita agiata, il divertimento) o al mondo
dell’impegno che arricchisce la nostra vita interiore (religione, impegno sociale, studio e
cultura)” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 47).
Anche valori appartenenti alla vita collettiva come uguaglianza, solidarietà, libertà e democrazia
sono percepiti dai giovani assai vicini alla sfera individuale. Ciò porta gli autori a trarre la
conclusione che
“tali temi non vengano tanto visti come esercizio di virtù civiche o riconoscimento di
diritti generalizzati quanto piuttosto come elementi costitutivi della propria identità
personale. In altre parole la libertà e la democrazia sono intese più come diritti personali da
far valere, che come conquiste collettive” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 47-48).
50 - “Il concetto di appartenenza non ha ricevuto, nel pur ampio uso che se ne fa nelle scienze umane e sociali, una definizione
esplicita e rigorosamente univoca. [...]. Il concetto tende peraltro ad essere generalmente assunto nel suo significato intuitivo,
elementare, quasi non richiedesse né chiarificazione teorica, né una precisazione in termini operativi. Con esso ci si riferisce alla
condizione di inclusione di una entità semplice (normalmente un individuo) in una entità complessa (normalmente un gruppo)
considerata come unità (non come mero aggregato), entro una gamma di situazioni che variano con il grado di volontarietà
dell’inclusione e con la reversibilità della stessa” (Struffi “Appartenenza” in Demarchi, Ellena, Cattarinussi 1987, 155)
72
Rimane la constatazione di una certa caduta di solidarietà sociale, come documentato da una
ricerca alla fine degli anni ‘8051. “Essa sembra associarsi ad una concezione della vita di tipo
narcisistico” (Cipolla 1989, 9), tendente all’autocompiacimento, a tattiche autoreferenziali, al ritiro
in se stessi, nelle proprie micro-realizzazioni, nella propria immagine, nel proprio solipsismo
sociale. “Ma tutto ciò non significa individualismo esasperato o retro-datato, né isolazionismo o
separatezza. Rappresenta piuttosto un pragmatismo circostanziato e contingente che ha paura di
concludere e che tende a superare il senso del vuoto nell’apertura al gruppo dei pari o nel rifugio in
problemi universali” (Cipolla 1989, 9-10).
5.3.3.2.1.1 Ritorno della capacità progettuale e di fiducia nel futuro al passaggio del millennio
La quinta indagine IARD offre interessanti spunti sia in riferimento al superamento delle tappe
di passaggio, che in relazione alla previsione di raggiungerle nei prossimi anni. Dall’indagine, a
prima vista, emerge una certa consapevolezza del proprio futuro personale; ad esempio il 59% del
campione è convinto di avere le idee piuttosto chiare sui propri destini, con una punta minima 48% - tra i più giovani e una punta massima - 67 % - tra i meno giovani. Tuttavia i ricercatori
avanzano il sospetto che tali risposte non siano del tutto attendibili sugli atteggiamenti giovanili
verso il futuro. Essi affermano:
In realtà la relatività di tale convinzione è dimostrata dal fatto che ben oltre la metà dei
giovani italiani (58%, senza grosse distinzioni per coorti di età) si dice altrettanto convinta
che fare delle esperienze interessanti nel presente sia più importante che pianificare il futuro. Pur non sminuendo la rilevanza delle cose che potranno accadere, la maggioranza dei
giovani italiani esprime una chiara ed evidente tensione verso la dimensione presentistica
dell’esistenza e una certa difficoltà a prefigurare i propri percorsi futuri. Ciò lo si nota
soprattutto osservando l’indeterminatezza delle scelte fino ai 24 anni, che probabilmente
prospetta il prevalere di un orientamento pragmatico al proprio futuro (Buzzi, Cavalli, de
Lillo 2002, 34).
E poi, riportando alcuni dati, risulta che:
“un giovane ogni dieci si dice incerto oppure esclude di terminare gli studi, un giovane
ogni sette esprime le stesse perplessità relativamente alla possibilità di entrare nel mondo
del lavoro, un giovane ogni quattro tra i 25-29enni e uno ogni sei tra i 30-34enni pensa sia
irrealistico prevedere di uscire definitivamente dalla casa dei genitori, rispettivamente il
39% e il 24% esclude di potersi sposare o di formare una nuova famiglia, il 55 % e il
30% di mettere al mondo un figlio. Poiché le previsioni coprono l’arco temporale del
quinquennio successivo al momento dell’intervista, nella percezione di questi giovani gli
eventi ora elencati hanno scarsa probabilità di verificarsi neppure, nel caso dell’ultima
fascia di età considerata, entro i 35-40 anni. Se a queste percentuali si aggiunge la quota
di coloro (per le ultime tre tappe, intorno al 20% per i 25-29enni e oscillante tra il 9% e il
17% per i 30-35enni) che sostengono probabile ma non certo, il verificarsi dei suddetti
eventi, si ha un quadro sufficientemente articolato della difficoltà con la quale molti
giovani italiani si accingono a diventare adulti (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 35-36).
La conclusione che ne traggono è la seguente:
“In una società caratterizzata da ritmi di trasformazione rapidissimi l’idea di prefigurare il
proprio futuro, e con essa la capacità di costruire dei propri percorsi di crescita, diventa
51 Costantino Cipolla distingue tre tipi di solidarietà: 1) di mondo vitale “vincolo oggettivo costituito, all’interno di un piccolo
gruppo, da una rete di relazioni (piene di senso) di tipo quotidiano, nell’ambito del quale prevalgono rapporti d’amicizia, di affetto, di
simpatia, di mete comuni, di interessi convergenti”. Questo tipo di solidarietà interna rimane un fatto molto particolaristico,
narcisistico, di pura gratificazione personale; 2) Universale orientata “su una presenza normativa che privilegia ciò che è comune
[...], ciò che al fondo conta veramente e che rimanda alla morte, alla malattia, alla violenza, alla natura”. Questa solidarietà rischia
l’astrattezza; 3) Sociale che “si orienta all’esterno del proprio mondo vitale quotidiano [...], ma resta dentro le diversità fra gli
uomini. [...] Tende a ridurre le disuguaglianze di classe e di ceto, [...] si prefigge compiti assistenziali e previdenziali” (Cipolla 1989,
8-9).
73
enormemente più complicata ed incerta. Alcune tendenze evolutive che informano le
motivazioni e gli orientamenti giovanili ben si adattano a queste difficoltà e costituiscono
il sostrato culturale col quale le nuove generazioni tentano di spiegare rallentamenti ed
indecisioni. Accanto a consistenti minoranze che esprimono un vero e proprio timore verso
ciò che potrà accadere («vedo il mio futuro pieno di rischi ed incognite»: 29,8%) o
addirittura una esplicita rinuncia a farsi carico del proprio destino («è inutile fare tanti
progetti perché succede sempre qualcosa che ti impedisce di realizzarli»: 16,7%), troviamo
cospicue maggioranze che sostengono la rischiosità di anticipare scelte rigide e precise
(«nella vita è meglio tenersi sempre aperte molte possibilità e molte strade»: 70,4%)
quando non il principio della reversibilità di ogni scelta («anche le scelte più importanti
della vita non sono mai per sempre, possono essere riviste»: 56,8%). Sotto questa luce si
comprende come per molti giovani i passi decisivi di uscire dall’ala protettiva della propria
famiglia e di accollarsi le responsabilità di una convivenza di coppia, di una nuova
famiglia, della nascita di un figlio vengano visti come una limitazione delle proprie
possibilità di scelta e retroazione (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 36-37).
74
5.4. Indicatori strutturali e culturali della condizione giovanile in Europa
Come abbiamo visto, dagli anni ’70 in Europa sono in atto processi notevoli di
modernizzazione, postmodernizzazione e globalizzazione, con progressiva complessificazione della
vita e della società. Ciò ha delle notevoli ripercussioni anche sui giovani, le cui condizioni possono
essere considerate per un certo verso un prodotto. È perciò difficile distinguere nella condizione dei
giovani europei quali sono i processi di cui sono soggetti attivi da quelli di cui sono invece solo
oggetto passivo: si può dire che tra i giovani e la società, come per qualsiasi altra categoria sociale,
c’è una continua interazione, per cui ogni situazione è, contemporaneamente, frutto e causa di altre
situazioni. Le condizioni dei giovani sono quindi poste in un rapporto circolare di causa ed effetto,
di cui è difficile rintracciare l’origine.
A) I fenomeni strutturali che maggiormente investono i giovani europei, si possono
sinteticamente riassumere in questi punti:
1. il numero dei giovani europei è costantemente in calo. Il tasso di diminuzione media della
consistenza delle classi d’età giovanile è di circa il 3%;
1. la modernizzazione richiede sempre più formazione e qualificazione, oltre a flessibilità,
disponibilità alla mobilità, individualizzazione della condotta;
2.
2. la transizione scuola-lavoro diventa sempre più difficile. “La disoccupazione rischia di
diventa un’ «esperienza sociale normale»“ (Bendit, 1998, 135);
3. di conseguenza anche la transizione alla vita adulta si sta allungando; la gioventù non è
più un fase di passaggio, ma una condizione a sé (o un insieme di tante condizioni), e i
suoi confini stanno diventando sempre più indefiniti;
4. allungandosi il periodo di formazione e non avendo indipendenza economica, sono
costretti a dipendere più a lungo dalla famiglia; il fenomeno è particolarmente palese in
Italia;
5. ritardano il momento della creazione di una famiglia propria;
6. viene ritardato di conseguenza anche il momento della nascita del primo figlio, con
conseguente diminuzione dei tassi di natalità;
7. la condizione della donna sta progressivamente avvicinandosi a quella dell’uomo, anche
se permangono differenze: la sua realizzazione professionale comporta un’ulteriore
posticipazione del matrimonio e aumento di denatalità;
8. in ogni caso sulle ragazze incombe in genere un doppio progetto di vita, orientato sia al
lavoro che alla famiglia: ciò comporta per loro maggiori conflitti e difficoltà;
9. a lungo esclusi dal ciclo produttivo e decisionale della società, i giovani sono ne invece
inclusi dal punto di vista dei consumi, del tempo libero, dei mass-media e genericamente
come immagine vincente (“giovanilismo”);
10. i giovani si segnalano per una forte propensione ed abilità nell’uso dei nuovi linguaggi e
degli strumenti di comunicazione, dal telefonino ad Internet, dalla musica ai videoclip;
11. la conoscenza dei linguaggi, l’uso si tecnologie nuove, la conoscenza delle lingue
consente una maggior comunicazione e la formazione di una cultura, o almeno degli stili
culturali, comune a tutti i giovani, europei e occidentali ma, potenzialmente, di tutto il
mondo;
12. la conoscenza delle nuove tecnologie e delle lingue produce differenze sull’accesso alle
opportunità occupazionali, ad una istruzione più qualificata, a scambi e conoscenze
internazionali, tra cui quelle promosse e finanziate dall’Unione Europea.
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B) Dal punto di vista culturale dagli anni ‘70 si stanno registrando dei mutamenti nella
struttura valoriale dei giovani e nei loro stili di vita, che si possono schematicamente
riassumere nei seguenti passi:
13. perdita di deferenza per l’autorità (religiosa, politica, familiare). La fonte di
legittimazione delle norme non sta più nel passato;
14. caduta della fiducia nelle istituzioni;
15. ritiro dalla partecipazione alla politica, sfiducia nei partiti tradizionali e nei sindacati;
16. tendenza a partecipare attraverso movimenti di opinione, appoggio ai “movimenti delle
donne”, ai movimenti ecologista, pacifista, no-global, dei diritti dell’uomo;
17. diminuzione della fiducia nello Stato, nel Welfare, nell’intervento statale nell’economia,
nella burocrazia, preferenza per l’iniziativa privata;
18. tendenza all’universalismo, ma anche rivalutazione della cultura locale e del passato;
19. accettazione e adattamento alla complessità sociale, al pluralismo;
20. diminuzione della centralità e importanza del lavoro, dei valori del sacrificio, della
rinuncia, della fatica, della disciplina;
21. diminuzione dell’importanza del successo economico, della determinazione, della
parsimonia, del risparmio;
22. centralità del tempo libero, importanza dello svago, del divertimento, del consumo;
23. prevalenza del presentismo (vivere alla giornata), valori della quotidianità, mancanza di
progettualità;
24. diminuzione dell’importanza della religione, della credenza e appartenenza religiosa
(secolarismo);
25. ricerca di un significato e senso della vita, di interiorità e spiritualità, sganciato da Chiese,
istituzioni, momenti formali;
26. relativismo etico: mancanza di una chiara distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male,
certezze morali tradizionali in costante declino;
27. soggettivismo etico: il soggetto arbitro del bene e del male;
28. morale della situazione: le norme morali valgono in base alla situazione contingente;
29. aumenta il permissivismo morale;
30. maggior tolleranza e accettazione per il “diverso”;
31. principio-guida: la ricerca del benessere soggettivo (edonismo);
32. incoerenza nel sistema di valori;
33. aumento di importanza degli aspetti affettivi e relazionali, ricerca di equilibrio affettivo;
34. mutamento dell’immagine e dei compiti della famiglia, ruoli non più determinati per
sesso, posizione generazionale, ecc.;
35. scissione tra morale sessuale e famiglia;
36. aumento dell’importanza della fantasia e dell’autoespressione;
37. ricerca della propria libertà, indipendenza, autorealizzazione;
38. ricerca della qualità della vita;
39. ricerca di una vita ricca, stimolante, movimentata, intensa, piena di attività e di
eccitazione;
5.4.1.1. Autonomia e nuove dipendenze
Desiderio d’autonomia e nuove dipendenze sono due elementi in contraddizione
nell’esperienza giovanile attuale. Con l’avanzare dell’età cresce sempre più il desiderio di
autonomia e indipendenza affettiva ed economica dei giovani, ma è anche sconcertante il dato che
evidenzia il numero dei giovani che restano ancora nella famiglia di origine intorno ai 30 anni: il
41.1%. E’ il dato che pone ai primi posti l’Italia nel fenomeno della cosiddetta “famiglia lunga”. Il
motivo immediato può essere la mancanza di lavoro, la difficoltà di trovare una casa, ecc. Ma non è
solo questo, perché il fenomeno non è dovuto unicamente alla necessità. Si tratta molte volte di
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scelte di vita, forse anche calcolate, che fanno prolungare la permanenza sulla soglia dell’età adulta,
perché diventare adulti significa assumere responsabilità, rinunciare ai comodi della casa paterna,
accollarsi impegni e farsi carico di altri, ecc. Prevale l’individualismo, si è ripiegati sul privato,
centrati sulla propria soggettività che trova spazio di realizzazione nel lavoro e negli affetti, ma che
imprigiona e impedisce di compiere il salto generazionale, di assumere ruolo e responsabilità di
adulti52. La situazione attuale dei giovani, pertanto, è certamente condizionata dalla realtà
socioculturale e da un insieme di limiti, d’incertezze per il futuro, di sfiducia nelle istituzioni e nella
società in generale. Tutto questo però, invece di provocare tensioni al cambiamento, proteste e
intraprendenza anche in ambito sociale, spinge a trovare soluzioni individuali, a ripiegarsi su se
stessi e trovare rifugio nel “nido domestico”. Tanto più che l’ambiente familiare si caratterizza
sempre più per la sua tolleranza, la libertà di manovra, una sufficiente autonomia, un complice
atteggiamento dei genitori che non vogliono rischiare di perdere qualcosa che sentono ancora come
propria.
L’insieme di questi atteggiamenti ha fatto dire a qualcuno che siamo di fronte ad una
generazione che non vuole crescere, che indugia sui campi della giovinezza, forse perché ha paura
ad entrare nella cosiddetta vita e ama sostare davanti ad una soglia che forse non si aprirà mai.
Tutto questo viene collegato all’incertezza sulla propria identità: si chiedono sempre quale sia il
loro io e non lo identificano in un carattere stabilito, ma in un complesso quasi inesauribile di
possibilità53.
In una prospettiva più di tipo psicosociale, qualcuno ha interpretato la famiglia lunga come una
perdita delle contrapposizioni interiori da parte del giovane che cresce. Il sentirsi grande gli fa
vivere una maggiore democrazia interiore che lo porta anche ad accrescere la sua partecipazione,
senza rimuovere gli stadi precedenti: «La normalità dello sviluppo non procede più attraverso
rimozioni, ma attraverso integrazioni; si rimane sempre un po’ adolescenti, sempre un po’ giovani,
sempre un po’ bambini, il livello inferiore viene cooptato in quello superiore; e a livello sociale
quest’evoluzione sembra accettata, non ci sono più iniziative che condannano a morte il bambino
per far venire fuori il giovane guerriero, si può rimanere bambini e guerrieri senza che occorra
sancire col sangue questa trasformazione»54. Tutto questo è facilitato anche dal fatto che, a livello
sociale, non vi sono più riti di passaggio che segnano la morte dello stadio precedente.
Una situazione in cui gli stessi giovani stanno piuttosto comodi, a cui hanno imparato a
adattarsi senza rinunciare alle opportunità che si presentano. Situazione in cui però accumulano
incertezza perché non è facile capire dove si sta andando e s’incontrano troppe situazioni in cui non
è facile scegliere. Un’incertezza, quindi, che viene dalla pluralità delle opzioni potenzialmente
disponibili e dalla difficoltà di valorizzare propensioni e capacità personali.
Anche l’immagine che gli stessi adolescenti hanno di sé spesso appare contraddittoria. Vivono
accarezzando sogni, ma riescono a farli diventare progetti più nel mondo virtuale che in quello
reale.
Per gran parte degli adolescenti, tuttavia, la situazione si presenta in modo diverso sia in riferimento alla consapevolezza della propria identità che alla relazione con i genitori. Appare diffusa la
difficoltà di assumere la responsabilità della propria crescita, ma questa cambia a seconda delle
condizioni di vita e delle relazioni familiari. I processi di formazione della propria identità possono
essere sollecitati da situazioni familiari in cui viene richiesta una maggiore corresponsabilità e in cui
le relazioni tra genitori e figli non siano troppo cameratesche. L’inquinamento dei rapporti può
indebolire la proposta educativa e l’eccessiva tolleranza senza un minimo di fermezza riduce l’intraprendenza. È proprio vero che «dare sempre ragione a uno può significare fargli torto»; come pure,
52 Letteratura, cinema, canzone, da qualche tempo si occupano della “sindrome di Peter Pan” per designare proprio questo
atteggiamento dei trentenni ed ultra. Il film di Gabriele Muccino L’ultimo bacio e il più famoso Hook - Capitan Uncino di Steven
Spielberg, la canzone L’isola che non c’è di Edoardo Bennato, una ricerca svolta da Paolo Bianchi, Avere 30 anni e vivere con la
mamma, Milano, Bietti 1997, offrono spunti molto significativi su questo’aspetto della vita dei giovani.
53 Il 2 agosto 1999 apparve su “La Repubblica” (p. 17), un articolo di Pietro Citati, Questa generazione che non vuol crescere mai.
In esso si presentava con una dovizia di riferimenti e con linguaggio provocante notevoli interrogativi sulla realtà giovanile, tanto da
suscitare altri interventi.
54 Un’Agorà familiarizzata. La ricerca di partecipazione nelle nuove generazioni, intervista a G. Pietropolli Charmet, (a cura di)
Roberto Camarlinghi, in Giovani e Periferie. Un possibile protagonismo, in “Quaderni di animazione e formazione”, Torino 1999,
Edizioni Gruppo Abele, 27.
77
«accettare il punto di vista altrui senza farlo passare al vaglio del nostro, è come riconsegnare una
lettera al mittente prima ancora d’averla letta».
Questo significa, in effetti, che offrire punti fermi nel processo di crescita è sempre una cosa
efficace per gli orientamenti degli adolescenti.
5.4.1.2. Fast-generation e società dell’immagine
La rapidità dei mutamenti e l’attenzione all’immagine sembrano i due caratteri che
contraddistinguono il costume giovanile. L’attuale disponibilità di media, in particolare della
televisione ha cresciuto una società di videodipendenti. La diffusione dei computer, dei videogiochi,
di telefonini, dei giochi elettronici ha contribuito ad evolvere una nuovo tipo di uomo, molto più
digitale, dove la realtà virtuale si confonde e a volte supera quella reale. Al linguaggio concettuale,
logico, geometrico del passato (concentrato sulla parte sinistra dell’emisfero cerebrale) si
sostituisce, per effetto del rapporto privilegiato con i “media” il linguaggo analogico, simbolico,
emotivo, intuitivo, creativo della parte destra. Di conseguenza, anche il tipo di cultura della società
attuale, e in modo particolare delle giovani generazioni cresciute dopo l’avvento della tv e
dell’elettronica, è essenzialmente visivo. Si preferisce un approccio emotivo e concreto alla realtà a
scapito di quello analitico, un po’ freddo e distaccato, che vorrebbe la logica scientifica, libresca.
Lo esprimono le forme espressive e il linguaggio dei giovani di oggi. Il loro linguaggio e fatto a
spot e flash. Parole usate come slogan, che colpiscono più per la loro capacità evocativa, che per il
contenuto verbale. La grammatica ed il vocabolario si impoveriscono, prevale la logica degli SMS e
delle “e-mail”, con comunicazione sintatticamente incomprensibili, ma molto efficaci sul piano
evocativo. Anzi, los tesso linguaggio si sta evolvendo, come ricerche stanno documentando.
I mezzi comunicativi diventano sempre meno quelli scritti e sempre più quelli simbolici. Per
esempio, il corpo e la musica, continuano, dal ’77, ad avere un ruolo decisivo per intercettare i
bisogni giovanili.
“Uno degli spazi espressivi preferiti dei giovani è il corpo. Il corpo come territorio
personale, strumento di linguaggio, laboratorio di speri-mentazione, interfaccia per la
socializzazione. Basti pensare a fenomeni come piercing, tatuaggi, trucco, vestito,
acconciature, ecc. La musica, è molto di più di un semplice consumo. È stata definita
anche come una delle nuove forme religiose dei giovani. Contrariamente ad un luogo
comune che tende a ridurre i giovani e la musica ad un fenomeno omogeneo, la musica è
un fattore altamente discriminante che divide i giovani in tante fedi e in tante religioni
quanti sono i generi musicali. Metallari, punk, dancer, multietnici, techno, ecc., non sono
solo generi musicali, ma sono modi di pensarsi e di percepirsi con visioni di stili di vita
spesso diametralmente opposti gli uni dagli altri” (Pasqualetti 2001, 10).
Legata alla musica e al corpo vi è anche la danza ricca di gesti, riti, significati, finalità.
Un’attenzione particolare merita la notte, cercata anche in contrapposizione al giorno spazio del
mondo adulto. La notte nel vissuto giovanile appare come
“spazio del mistero, dell’avventura, del non definito, del possibile, del trasgressivo, del
‘poter osare’, del limite da oltrepassare… anche a costo della vita” (ibid.).
Da ciò discende tutta una serie di atteggiamenti e di comportamenti, primo fra tutti l’enorme
importanza attribuita al look (Battellini 1986, 86). La moda c’è sempre stata, quello che colpisce
oggi è la velocità con cui oggi essa cambia.
Il fast-food può essere il simbolo di questa generazione. Consumare i fretta, le mode cambiano
rapidamente, bisogna essere sempre sulla cresta dell’onda. Si può dire che esso dipenda
“dai ritmi di una società che va sempre più di corsa, dai rapporti umani sempre più
frettolosi: da qui l’esigenza di comunicare al primo impatto, il proprio modo d’essere, o
per lo meno, di voler sembrare. [...] anche la cura dell’estetica in generale, del viso, del
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corpo, è fatta per rispondere a questa logica che privilegia ciò che si vede. La spettacolarità
corrisponde ad un desiderio di uscire dall’anonimato, di emergere, logica conseguenza di
una società tutt’altro che arcaica, com’è l’attuale” (Battellini 1986, 86-87).
“Il ritmo di vita [é] sempre più frenetico sia in senso materiale che non: la frenesia la si
riscontra anche a livello della modalità di consumo, inteso in senso globale del termine:
oggetti, mode, culture, soggetti a rapida obsolescenza, connessa a questa logica da fastfood, causata a sua volta dalla sovrabbondanza e quindi inflazione di stimoli e possibilità,
diventano meteore in un universo regolato essenzialmente dal principio
dell’autogratificazione, del piacere” (Battellini 1986, 88).
“I nuovi giovani stanno crescendo con il mito della velocità [...] L’informatica cha
velocizzato la nostra produttività, la video-musica velocizza le nostre capacità di
immagazzinamento di informazioni visive, i fast-food ci offrono l’opportunità di mangiare
più in fretta, un look efficace ci permette di presentarsi all’istante... alle parole i giovani
preferiscono sempre più un linguaggio gestuale, più superficiale ma anche più diretto,
immediato. Perfino dal punto di vista biologico si cresce più in fretta. [...] E se la ricerca di
felicità continua ad essere per tutti l’obiettivo primario dell’esistenza è altrettanto vero che
stanno cambiando i traguardi simbolici e ideali di questa ricerca, e le strategie per
raggiungerli” (Coriasco 1988, 184).
Il continuo susseguirsi di mode e di stili di consumo favorisce in loro il consolidarsi di una
cultura dell’immediatezza. Ne consegue che l’unico tempo significativo è solo il presente.
D’altra parte, la relativa incidenza della scuola sul vissuto giovanile, le precarie prospettive
occupazionali orienta molte delle loro attese di realizzazione e di soluzione dei compiti di sviluppo
sulle attività di tempo libero.
5.5. Alcuni rilievi sulla struttura valoriale dei giovani
Se confrontiamo i valori espressi dai giovani negli anni ’80 con quella che viene considerata
la “morale tradizionale”, ci si rende conto di quanto i valori postmaterialisti siano penetrati nella
cultura giovanile. La morale tradizionale (o moderna) dava rilievo alla carriera, alla posizione
sociale, al denaro, al successo, ad un atteggiamento di lealtà e di identificazione verso le istituzioni.
Su questi criteri di realizzazione “esterna”, istituzionale, su un modello di vita basato sulla fissità
dei ruoli e delle scelte, su un orientamento basato sulla stabilità sociale i giovani non si riconoscono
più. L'impegno nel campo lavorativo per il valore del lavoro o per la posizione sociale,
l'interiorizzazione di un atteggiamento di un dovere di fedeltà nei rapporti di coppia per il valore
della fedeltà, la valorizzazione della coppia soltanto in relazione ai figli, alla procreazione o alle
esigenze di stabilità e sicurezza affettiva, l'assunzione di un atteggiamento di lealtà istituzionale in
rapporto alla posizione sociale acquisita e alle possibilità di successo e di carriera... tutti questi
orientamenti di valore e criteri di scelta sembrano assai lontani dal modello di vita e di realizzazione
delle nuove generazioni.
In luogo di ciò i giovani sembrano caratterizzati da una coscienza morale che dà ampio spazio
ai valori espressivi, alla ricerca della felicità, al raggiungimento di obiettivi di realizzazione in grado
di avviare a soluzione i problemi immediati, alla pratica di rapporti interpersonali soddisfacenti,
all'aumento del tasso di consapevolezza e di riflessività circa le proprie condizioni di vita.
J. Stoetzel (1984), che curò il primo rapporto europeo EVSSG (1981), vedeva nei nuovi
orientamenti di valore una minaccia o un rischio. Minaccia verso i valori tradizionali, non solo
perché tradizionali, ma perché vengono messi in dubbio alcuni dei principi fondamentali su cui si
reggeva tutta la cultura europea e moderna: la coscienza, l’identità, ed in definitiva il concetto
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stesso di persona. Quando Stoetzel poneva il problema di valori collegati a concetti base come
quello di persona, poneva un problema sostanziale e non solo una questione formale.
Comportamenti, atteggiamenti, fattori, sono legati tra loro […]. Le scelte politiche,
religiose, morali, professionali, familiari, formano degli intrecci complessi, con legami
reciproci e con certe caratteristiche individuali (Stoetzel 1984, 10).
I valori che stavano cambiando come quelli del lavoro, della famiglia, della politica, delle
credenze, non sono solo aggiustamenti intersistemici, ma un sistema che si sfalda.
5.5.1. L’approccio sistemico: il ruolo della complessità
Una prima risposta a questo tipo di preoccupazione la diedero gli autori del rapporto italiano
della ricerca EVSSG dell’81 (Calvaruso – Abbruzzese, 1985). Essi rintracciarono nella complessità
sociale il motivo fondamentale della crisi dei valori e quindi della situazione problematica a livello
sociale e personale. Essi riconoscevano che l’evoluzione della società metteva in crisi molte
certezze consolidate. Ma questo non dipendeva da scelte rinunciatarie da parte degli individui, bensì
dalla necessità di adattarsi ad una nuova realtà sociale. Infatti con termine “complessità” si
intendeva sottolinea la forte differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli
sottosistemi al loro interno e la moltiplicazione delle relazioni tra loro 55. La frammentazione della
realtà sociale e la pluralizzazione dei centri di potere e dei sistemi di riferimento e di significato,
provocava effetti disgregatori sul tessuto sociale e sulla struttura cognitiva dei soggetti. La perdita
di un centro unitario, fonte di legittimazione, di controllo e di riferimento, la pluralizzazione dei
centri e dei sistemi davano luogo a logiche diverse, che tendevano ad elidersi a vicenda e
postulavano la fine di una visione unica del mondo. Ne conseguiva che, al succedersi delle diverse
visioni del mondo, si succedevano diverse interpretazioni della realtà e quindi una diversa gerarchia
dei valori.
5.5.1.1. La relativizzazione e soggettivizzazione dell'etica
Se la complessità diventa l'ambiente sociale e culturale in cui stanno crescendo le nuove
generazioni è in questo sistema che vanno cercate le motivazioni del comportamento giovanile.
Esso si presenta come una risposta adattiva a tale situazione.
Di fronte alla moltiplicazione dei riferimenti, ad una certa rigidità interna delle istituzioni, e
alle esigenze dovute alle diverse appartenenze, il soggetto è costretto a comportarsi secondo logiche
diverse e a volte tra loro incompatibili. Ne consegue la necessità di ridurre l’intensità di adesione ai
valori ed introdurre una certa relatività tra principi assoluti. Non per niente gli autori appena citati
suggeriscono di distinguere tra rottura dell’omogenietà e dell’univocità dei valori e il loro declino,
come pure di distinguere tra declino dell’intensità ed il variare del campo d’applicazione. Infatti il
sistema dei valori sembra risentire delle seguenti dinamiche:
- mutamento dei criteri di riferimento che presiedono al comportamento e alle scelte delle
55 “Col termine di società complessa si intende descrivere una realtà composta da tendenze ambivalenti, che risultano tra loro
incompatibili e irriducibili; una realtà in cui uno stato di integrazione precaria orienta, ma meglio sarebbe dire costringe a scelte
parziali e di medio termine, caratterizzate da scarsa capacità previsiva, e il cui esito sociale appare nel segno della non risolubilità”
(Garelli 1991, 540).
Secondo Pier Paolo Donati (1985) quattro sarebbero le accezioni relative al termine “complessità” applicato alla società:
1) Complicazione, cioè “crescita quanto-qualitativa di elementi, relazioni e interazioni in un sistema sociale dato” (p. 6).
2) Moltiplicazione di codici incommensurabili, “derivante dall’operare di più e diverse logiche fra loro incompatibili, o,
incommensurabili” (p. 6).
3) Variety pool, cioè “una situazione che consente di mantenere sempre aperte un numero sempre maggiore di possibilità
alternative (più di quante possano essere effettivamente realizzate in un dato momento)” (p. 7).
4) Entropia, “ordine (sociale) probabilistico (casuale), anziché normato, fondato sulla variabilità (differenza)” (p. 7).
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istituzioni in quanto tali: l’evoluzione del riferimento pragmatico nei partiti, nelle
istituzioni di rappresentanza parlamentare ed in altre realtà sociali, sono quindi il primo
elemento scatenante di un processo di progressivo «scolorimento» della gerarchia dei
valori;
- ambiguità crescente tra riferimento etico e riferimento pragmatico in istituzioni, come la
Chiesa e la Famiglia, che sono state, per secoli, il principale centro di elaborazione e
diffusione dei principi che regolano la gerarchia dei valori;
- una diminuita funzione etica delle istituzioni in quanto tali, sempre più percepite e
giudicate in base alla loro operatività concreta e sempre meno « ascoltate » come centri
capaci di porre un ordine all’interno del politeismo dei valori, stabilendovi una gerarchia di
priorità;
- conseguente e progressivo riorientamento dei comportamenti individuali che
ricominciano a cercare all’interno di loro stessi, della rete di relazioni informali, della
tradizione locale, i criteri di orientamento, dato che nessuna istituzione sembra più fornirli
in modo credibile;
- progressiva perdita di peso degli insiemi normativi che continuano ad essere diffusi dalle
istituzioni stesse, e che tuttavia perdono la loro capacità di affermarsi, in quanto non più
sostenuti da un riferimento etico presente nell’istituzione e collettivamente avvertito
all’esterno di essa (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 199).
Per questo appare in crescita la relativizzazione dell’etica, soprattutto per quanto riguarda la
posizione su questioni attinenti la sfera più personale e soggettiva, come quella sessuale, familiare o
la gestione della stessa vita. Chi, per cultura, professione o stato sociale si trova più facilmente
coinvolto in sfere di appartenenza molteplici e distinte, deve, per necessità adattarsi alle situazioni e
relativizzare alcuni principi etici. Tale situazione sta diventando prevalente non solo in Europa ma
anche in Italia, e viene percepita come segno di progresso e apertura mentale, mentre
l’assolutizzazione dell’etica rimane un tratto tipico delle persone più religiose (credenti e praticanti)
e tradizionali. I giovani esprimono in maniera preferenziale il tratto soggettivo dell’etica.
In tale contesto sarebbe errato valutare i comportamenti secondo criteri tradizionali. Il
giovane, stando alle inchieste esaminate, non ha rinunciato ad essere protagonista dei suoi
riferimenti culturali e morali, a governare il proprio campo d'azione e di ridefinizione, a ricercare
una risposta al problema del significato e dell'identità personale. Non ci troviamo quindi di fronte
"ad un'eclisse della coscienza morale dei giovani" (Garelli, 1984, 6), ad una assenza di valori.
Ciò che cambia non è la tensione morale, bensì i contenuti di essa ed i modi di formazione
ed espressione. Non sono più possibili quei percorsi di appropriazione dei valori e delle norme che
avevano contraddistinto le stagioni precedenti. La situazione di complessità, di pluralismo e
relativismo culturale rende impraticabile un percorso unitario, coerente, logico, comune. Non
rimane che l'interiorizzazione della frammentarietà sociale.
Si rinuncia a cammini precostituiti, ad un'obbedienza a valori consegnati dalla tradizione, ad
una norma che si presenti con i caratteri dell'oggettività e dell'assolutezza. E' questo che il giovane
non può più accettare. Non che dichiari destituito di valore ciò che prima lo era, ma non ha più quel
valore assoluto che vi si attribuiva un tempo.
Di fronte ad un mondo che sembra aver smarrito il senso di ciò che fa, il giovane non
rinuncia a ricercare un senso "suo", ad elaborare dei criteri personali di orientamento morale. Ma
l'unica via è quella della riduzione personale della complessità: individuare alcuni criteri che
servano da guida nell'affrontare la quotidianità. Non può chiudersi in un programma valido per
sempre, in una fedeltà a vita. Per trovare il senso alle azioni quotidiane sarà necessario restringere
gli obiettivi, le prospettive, i modelli di realizzazione a misura delle proprie capacità e possibilità.
Di fronte al mercato dei significati della società pluralista d'oggi egli si dota di un atteggiamento
selettivo che gli permette di svolgere una funzione di filtro tra le tante proposte e individuare un
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proprio cammino di realizzazione. Questo non vuol dire rinunciare ad essere protagonisti, a porsi il
problema di senso, solo che questo va risolto in modo personalissimo.
E' il principio della soggettivizzazione dell'etica, che è il contrario della
deresponsabilizzazione, ma è anche il non volere affrontare problemi più grossi di quelli che si
possono risolvere. E' un ethos che vuole misurarsi con le sfide della cultura contemporanea e
conservare la capacità di decisione e di adattamento in relazione alle condizioni di vita quotidiana.
E' cercare la propria via di realizzazione, di ritagliarsi una propria identità peculiare, di non
confondersi con le condizioni standard. E' assumersi la responsabilità delle proprie scelte: il che
richiede una prolungata riflessione. Per questo si preferisce non scegliere o fare scelte non
irreversibili: si vuole conservare intatta la propria autonomia e non delegare a nessuno (movimento,
gruppo, chiesa, partito) la determinazione del proprio futuro. Per questo le appartenenze sono "a
tempo", gli impegni di corto respiro, i legami provvisori.
Recupero dell'etica in chiave personale vuol dire anche riappropriarsi dei propri desideri,
persino dei propri istinti, cercare nelle relazioni interpersonali, nella gestione della propria sessualità
quella sincerità e verità di rapporto che una morale oggettivata aveva mortificato.
5.5.2. Trasformazione dei criteri di azione, degli orientamenti etici
Ciò che un tempo costituiva la continuità tra nuove e vecchie generazioni era la persistenza
di principi unitari di riferimento. Ora questi, per effetto delle trasformazioni socio-culturali, stanno
radicalmente cambiando.
Lo stesso concetto di bene e male non ha più lo stesso significato di un tempo: bene e male
non si presentano più per le giovani generazioni come principi assoluti di una morale oggettiva. Essi
valgono solo come principi soggettivi, "personali", "contingenti". Valgono qui ed ora, in base alla
situazione concreta, personale, valutati in base alla capacità di assicurare benessere, felicità o no.
Diventando relativi, essi perdono il carattere di incompatibilità che li distingueva precedentemente.
Nello stesso soggetto si può incontrare sia l'uno che l'altro: essi fanno parte inscindibilmente
dell'esperienza umana, forze contrapposte ma compresenti nella realtà come nella coscienza. E
quindi giudicare buona o cattiva un'azione dipende dalla situazione, dal soggetto, da un'infinità di
altre variabili.
In mancanza di una autorità effettiva che legittimi le norme non rimane che la propria
sensibilità ed esperienza il criterio per giudicare e valutare tra le varie proposte. La
soggettivizzazione dell'etica comporta la prevalenza dei criteri interni, soggettivi, estremamente
personalizzati. Ciò può essere definito col termine della "normatività dell'esperienza": rifiutato il
principio di autorità, venute meno le evidenze oggettive di palusibilità, l'esperienza diviene il
criterio di bene autoevidente.
Stanno perciò mutando i criteri etici che regolano le scelte degli individui.
Oltre a quelli cui abbiamo accennato ora, altri li abbiamo trattati via via nelle pagine precedenti. In
sintesi possiamo dire che si sta passando
Da:
A:
Distinzione bene/male
Distinzione tra felicità/infelicità, malessere benessere
Primato dei principi morali
Primato dei bisogni personali, individuali, dell'esperienza
Centralità dell'impegno
Centralità dei sentimenti
Principio della prestazione
Principio dell'identità
Etica del sacrificio
Etica dell'appagamento
Attenzione all'appartenenza, problema della
devianza
Attenzione, apprezzamento della diversità
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5.5.3. Verso quale morale?
Il modello etico che si ricava dall'analisi degli orientamenti valoriali del nostro tempo e delle
nuove generazioni è senza dubbio carico di profonde ambivalenze. L'accentramento di attenzione
sulla soggettività risponde ad un bisogno di recupero dell'identità divenuto ineludibile, esprime una
giustificata reazione nei confronti di una civiltà che per troppo tempo ha mortificato il soggetto
reificandolo, attraverso processi di massificazione sociale e di omologazione culturale o
sacrificandolo ad ideali talora irraggiungibili.
La rivincita delle soggettività assume dunque i caratteri di rivalsa del desiderio represso e di
riemergenza dell'inconscio individuale e collettivo. Essa conduce non tanto al rifiuto di ordinamenti
etici precostituiti e imposti autoritativamente dall'alto, ma più radicalmente alla messa in questione
del modello etico che era il modello del dovere dell'obbligazione, del sacrificio e dell'impegno. La
tendenza dominate è quella di andare verso un'etica centrata sull'affettività e sulla soddisfazione dei
bisogni e dei desideri, sull'eros e sulla piena esplicazione del principio del piacere. In una parola, è
la tendenza a concentrare l'attenzione sul problema della felicità e dell'autorealizzazione.
Tuttavia l'assenza quasi totale di riferimento a parametri assoluti e l'insorgenza del modello
in chiave più negativa che positiva - di ribellione cioè indiscriminata nei confronti del passato
piuttosto che di confronto critico-costruttivo con esso - pone una serie di inquietanti interrogativi
circa la possibilità stessa di una rifondazione dell'etica.
Il pericolo è, infatti, quello di un totale relativismo culturale e di un adeguamento passivo
alle istanze della cultura dominante. Il rifiuto di criteri di giudizio oggettivi, in base ai quali
discernere il bene ed il male e valutare concretamente le proprie azioni nei diversi settori nei quali si
sviluppa l'esistenza, può condurre all'assunzione acritica di bisogni indotti nel soggeto dalle
ideologie del momento o dai meccanismi del sistema economico-sociale e politico.
Il prevalere del consumismo, che moltiplica le esigenze dell'uomo in funzione della logica
del mercato, e la legittimazione che ad esso viene dalla cultura "radicale", fondata
sull'esasperazione del diritto soggettivo e sulla interpretazione secondo il "principio del piacere", fa
giustamente sorgere gravi sospetti e motivi di seria preoccupazione nei confronti del processo di
totalizzazione della soggettività.
Se è vero infatti, da una parte, che i giovani hanno acquisito una notevole capacità di
immunizzazione e di resistenza di fronte alle pressioni negative del contesto in cui vivono, grazie
all'elevarsi del livello culturale; non è meno vero, dall'altra, che la maggior fragilità psicologica
dovuta all'età e la difficoltà a riflettere, dovuto alla rivoluzione massmediologica, li rende più
facilmente preda delle suggestioni ambientali (Piana 1985).
C'è inoltre da chiedersi quanto sia sufficiente la ricerca di un senso parziale e contingente o
se la vita non necessiti di riferimenti globali che la giustifichino al di là delle vicissitudini
contingenti. Si tratta di domandarsi di quali quadri di riferimento necessiti il concetto di
autorealizzazione.
Inoltre, fino a che punto l'incoerenza giovanile è funzionale ad un giusto adattamento,
oppure non finsice per essere disgregante la stessa personalità e produrre individui schizzofrenici, e
globalmente una cultura debole di fronte alle sollecitazioni del consumismo e di altri poteri politicosociali?
Oppure la diversificazione delle scelte non premia una certa disgregazione sociale e
favorisce quell'individualismo e solitudine di cui già soffre la nostra società?
Di fronte a questi interrogativi, ci sembra che gli esiti possibili siano molteplici: si va dalle
forme elevate di libertà fino alle acquiescenze più totali al conformismo imperante, dal senso di
responsabilità estremamente personale a forme di anarchia anche interiore in cui la libertà viene
confusa con spontaneità56
56 - "La spontaneità non è libertà, è determinismo; essa si oppone sì alla coazione, alla necessità e costrizione esteriore, ma non è
altro che una suadente coazione interiore, la spinta irresistibile ad agire in un determinato modo: Quando un valore o settore di valori
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Le possibilità di una moralità più autentica, autonoma, personale, convinta e responsabile sono
maggiori di quelle che avevano le generazioni precedenti. Ma tutto questo per essere adeguatamete
utilizzato ha bisogno di una notevole "riflessivita", di un capacità di essere culturalmente molto
attenti e critici di fronte alla realtà sociale e culturale. Una buona scelta morale ha bisogno di un
filtro selettivo molto attento. La realtà ha bisogno di un continuo processo di "risignificazione
personale" per elaborare le risposte più adeguate. Solo un atteggiamento consapevolmente selettivo
ed accorto può resistere alle lusinghe del consumismo senza esserne fagocitato.
5.6. Tentativi di interpretazione della devianza e disagio
5.6.1.1.1.1 Devianza, disagio e bisogni disattesi secondo l’approccio tradizionale
Secondo questo approccio la devianza è data dalla trasgressione alle norme che reggono la
società, siano essi i “comandamenti” o le leggi civili. Ma il venir meno di quei principi morali che
caratterizzavano l’uomo moderno: il lavoro, la famiglia, la patria, Dio, la dirittura morale, le
questioni di principio, la fedeltà alla parola data, l’impegno professionale, morale, politico,
religioso, ecc. comporta una situazione di “anomia”, di disorientamento che favorisce il disordine
morale e sociale. L’anarchia etica comprende la mancanza di principi morali sicuri, la dissoluzione
dei valori, il relativismo morale, la morale della situazione, l’affermazione dei principi
dell’edonismo e dell’individualismo.
Di conseguenza le preoccupazioni che emergono di fronte a questi mutamenti riflettono la
percezione di bisogni che altrimenti verrebbero disattesi: il bisogno di appartenenza, di solidarietà,
di coerenza, di orientamento, di sistematicità e organicità, di un quadro culturale coerente e
omogeneo, il bisogno di protezione sociale, il bisogno di sicurezza, il bisogno di finalizzazione, ecc.
Questa flessibilità e tolleranza, che contraddistingue sempre di più l’uomo moderno, adottata
per necessità, diventanta un tratto culturale tipico della modernità, non è detto che si realizzi senza
sofferenza e un senso di lacerazione intima.
5.6.1.1.1.2 Disagio e bisogni in una società complessa
La crescita di opportunità, la diminuzione del controllo sociale, comporta molti benefici per i
singoli, ma anche nuove difficoltà. Infatti la mancanza di un centro organizzatore, la crescita di
entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili per gli individui si traduce in un aumento
del carico di responsabilità personale e la probabilità di non riuscire a far fronte alle richieste della
società. Inoltre tale assetto della società pone notevoli problemi d’integrazione e quindi di
adattamento e di identità.
Di fronte alla dissoluzione di un sistema normativo condiviso tendono ad emergere le esigenze
singole e gli aspetti soggettivi ed espressivi dell’identità. Questa può assumere l’aspetto di
rivendicazione radicale del diritto a definire i propri bisogni e i modi di soddisfarli. Questa
rivendicazione ha come oggetto esigenze poco negoziabili (nascita, morte, affetti, relazioni,
malattia, sopravvivenza, pace, ecc.); rifiuta il controllo politico (partitico e sindacale) sulla negoziazione del bisogno, riappropriandosi il controllo diretto sulle condizioni di esistenza,
indipendentemente dal sistema; tende a coniugare sempre più privato e pubblico, superandone la
separatezza; tende ad avvalersi di solidarietà comunitarie (di piccolo gruppo) come supporto ad un
conflitto di minoranze capaci di gestire in proprio il confronto.
Al centro di questa lotta riappare il “corpo”, luogo della resistenza contro la manipolazione e
luogo dell’espressione del desiderio rivoluzionario; allo stesso tempo riappare il “vecchio” concetto
occupa tutto lo spazio interiore dell'uomo, vi esercita un influsso deterministico: l'individuo non ha possibilità di scelta nei confronti
di quel valore, perchè esso è l'ispirazione delle sue scelte, la radice e la totalizzazione delle sue opzioni" (Ibid., 11-12)
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di natura che sta a sottolineare il carattere non assoluto della storicità del bisogno; riemerge infine
l’individuo come soggetto sociale irriducibile, terreno dei conflitti sociali fondamentali
Si crea conflitto attorno a questi oggetti sociali, perché i sistemi tendono ad imporre le identità
da loro predisposte (a loro funzionali) indiscriminatamente a tutti i soggetti, che in molti casi
reattivamente difendono e rivendicano il proprio diritto all’identità. Questi conflitti si possono
riprodurre anche a livello micro, in famiglia, nella scuola, nell’ambienti di lavoro, ecc. perché i
sistemi di valore e l’importanza attribuita alle norme cambia a seconda della socializzazione
ricevuta.
Questi conflitti, che raramente si traducono in rivolte aperte, sovente assumono aspetti
striscianti attraverso cui ognuno rivendica il suo spazio d’autonomia operativa e valoriale. Si creano
così frizioni, adattamenti forzati, conflitti sopiti ma non sedati, che danno luogo ad un disagio
diffuso.
Infatti, anche di fronte a comportamenti ritenuti tradizionalmente aberranti, non è più possibile
parlare di devianza, perché, essendo moltiplicati i centri, ogni comportamento o norma può essere
considerata deviante sotto un certo punto di vista e normale sotto altri. Perciò si comincia a parlare
di disagio, in quanto si percepiscono gli effetti sgradevoli di questa situazione, sia a livello
individuale che societario. Ma il disagio è generato, più profondamente dalla situazione di
incertezza, di disorientamento in seguito alla moltiplicazione dei sistemi e dei codici di riferimento.
Ciò è quanto sembra rilevare lo stesso Sorcioni quando afferma che “l’essenza del disagio giovanile
sembra piuttosto interessare, in modo crescente, la sfera valoriale, fino a manifestarsi […] come
vera e propria crisi di identità. Disagio derivante dall’esperienza della complessità, inteso come
profonda sensazione di smarrimento di fronte alla crescente complessità valoriale e sociale”
(Sorcioni 1992, 5).
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Capitolo primo __________________________________________________________________ 1
bisogni e valori giovanili DAGLI ANNI ‘70 AL 2000 ___________________________________ 1
1.
Inizio anni ’70: le teorie del cambio culturale _____________________________________ 1
1.1. Dal materialismo al postmaterialismo_________________________________________ 2
1.1.1. Gli indicatori __________________________________________________________ 2
1.1.2. I risultati ______________________________________________________________ 3
1.2. I valori postborghesi _______________________________________________________
1.2.1. L’ipotesi ______________________________________________________________
1.2.2. I risultati ______________________________________________________________
1.2.3. Convergenze e differenze con le teorie di Inglehart ____________________________
4
4
4
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1.3. La transizione culturale ____________________________________________________ 6
1.3.1. Valori e istituzioni ______________________________________________________ 6
1.3.2. Disagio per i sistemi culturali in conflitto ____________________________________ 7
2.
Seconda metà degli anni ’70: cambiamento nei valori e nei bisogni dei giovani italiani ___ 8
2.1.1. La ricerca d’identità _____________________________________________________ 9
2.1.2. Nuovi bisogni giovanili __________________________________________________ 9
3.
I giovani di fronte alla complessità della società negli anni ’80 ______________________ 11
3.1. I mutamenti di scenario nella società degli anni ‘80 ____________________________
3.1.1. Mutamenti a livello economico ___________________________________________
3.1.2. I mutamenti a livello politico _____________________________________________
3.1.3. Il paradigma della complessità ____________________________________________
3.1.4. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale______________________________
3.1.5. La scuola ____________________________________________________________
3.1.6. L’importanza strategica del tempo libero ___________________________________
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3.2. Materialismo e postmaterialismo negli anni ‘80 _______________________________
3.2.1. L’accentuazione della variabile “cultura” nel modello di Inglehart _______________
3.2.2. Indicazioni dalle ricerche europee _________________________________________
3.2.3. I valori dei giovani italiani _______________________________________________
3.2.4. Bisogni materialisti e postmaterialisti nelle indagini IARD _____________________
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3.3. Emergenza di nuovi bisogni nelle scelte valoriali dei giovani _____________________
3.3.1. La caduta della solidarietà sociale _________________________________________
3.3.2. La crescita dei rapporti interpersonali come domanda di senso __________________
3.3.3. Ruolo del tempo libero e dei consumi nella definizione dell’identità ______________
3.3.4. La domanda di senso come “bisogno religioso”? _____________________________
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3.4. Conclusione: ricerca di senso e di identità in un contesto complesso ed incerto ______ 25
3.4.1. L’emergenza di un’identità fragile _________________________________________ 26
3.4.2. Un modo nuovo di ricercare il «senso» della realtà personale e collettiva __________ 27
4.
Gli anni ’90: i giovani in una cultura postmoderna _______________________________ 28
4.1. La politica italiana dopo l’89 _______________________________________________ 28
4.2. L’economia _____________________________________________________________ 29
4.3. La scuola _______________________________________________________________ 30
4.4. La cultura post-moderna __________________________________________________ 32
4.4.1. I riflessi sociali del pensiero postmoderno ___________________________________ 33
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4.4.2. Postmaterialismo e postmodernità _________________________________________ 34
4.4.3. L’Italia fra tradizione e postmodernità______________________________________ 36
4.5. Valori e bisogni dei giovani europei _________________________________________ 38
4.5.1. Una cultura postmaterialista ma soprattutto ricombinatoria _____________________ 39
4.5.2. Forme di partecipazione e bisogno d’identità ________________________________ 40
4.6. Materialismo e postmaterialismo tra i giovani italiani __________________________ 41
4.6.1. Le ricerche IARD ______________________________________________________ 41
4.6.2. I bisogni formativi nelle ricerche sociologiche dell’Università salesiana ___________ 42
4.7. Le cause sociali della destrutturazione dei bisogni _____________________________
4.7.1. Una società evoluta, complessa e a-centrica _________________________________
4.7.2. Aumento di opportunità come causa del conflitto _____________________________
4.7.3. Perdita dell’orizzonte di senso ____________________________________________
4.7.4. Una visione orizzontale, pragmatica, a forte soggettività _______________________
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46
4.8. Elementi caratteristici della gioventù degli anni ‘90 ____________________________ 47
4.9. Conclusioni _____________________________________________________________ 49
5.
I giovani al passaggio del millennio: la globalizzazione dell’insicurezza_______________ 50
5.1. Valori e bisogni europei al passaggio del millennio _____________________________
5.1.1. L’individualismo ______________________________________________________
5.1.2. La ricerca di qualità di vita ______________________________________________
5.1.3. Un nuovo impulso per la gioventù europea __________________________________
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5.2. L’indagine EVS 1999 nel contesto italiano ____________________________________ 54
5.3. La condizione giovanile nelle successive a cavallo del millennio __________________
5.3.1. Valori “politici” _______________________________________________________
5.3.2. Il rapporto giovani - istituzioni ___________________________________________
5.3.3. Valori pertinenti la sfera immateriale ______________________________________
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5.4. Indicatori strutturali e culturali della condizione giovanile in Europa _____________ 75
5.5. Alcuni rilievi sulla struttura valoriale dei giovani ______________________________
5.5.1. L’approccio sistemico: il ruolo della complessità _____________________________
5.5.2. Trasformazione dei criteri di azione, degli orientamenti etici ____________________
5.5.3. Verso quale morale?____________________________________________________
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5.6. Tentativi di interpretazione della devianza e disagio ___________________________ 84
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