Capitolo primo BISOGNI E VALORI GIOVANILI DAGLI ANNI ‘70 AL 2000 Gli anni settanta hanno rappresentato un momento decisivo per le società occidentali 1, e per l’Italia in particolare. Dal punto di vista politico e sociale sono stati segnati da turbolenze varie, dalla contestazione studentesca alla lotta armata, dalle maggiori rivendicazioni sindacali all’aumento di disoccupazione, dalla ridefinizione dei partiti classici (soprattutto della sinistra) alla nascita di nuovi soggetti politici. Per il mondo giovanile indubbiamente il ’68 aveva rappresentato una svolta e, dalle ricerche di quegli anni, si comprende quanto fosse elevato il silenzioso potenziale contestativo dei giovani, quanto fosse viva l'ansia di rinnovare la società attraverso una critica radicale alle sue istituzioni, e quanto fosse allettante la speranza di poter influire sulle strutture politiche. “Dapprima si mise sotto accusa l’autoritarismo nella scuola, poi si lottò per avere parte alla gestione del potere della scuola, infine si tese ad analizzare le interdipendenze tra scuola e società” (Tomasi, 1986, 105). “Considerati i modi in cui quella ondata di ribellione investì il mondo degli adulti, sfuggirono in quegli anni le ragioni profonde, il significato, le istanze di un movimento così diffuso” (Tomasi, 1986, 105). In genere il mondo adulto si sentì minacciato dalla violenza contestativa (verbale e fisica) e si chiuse a riccio, nella difesa della tradizione. Infatti “uno degli elementi più tipici fu il rifiuto della tradizione elaborata e trasmessa dagli adulti; si ingenerò così il fenomeno del ‘giovanilismo’. Il rifiuto della tradizione postulava quello dell'autorità, reputata dannosa alla propria libertà” (Tomasi, 1986, 105). In realtà, ciò che la contestazione esprimeva, al di là delle formule e degli stessi proclami giovanili, era la percezione di un bisogno di rinnovamento di una società, ormai inadeguata ai processi che essa stessa aveva ingenerato. Infatti, mentre gli anni sessanta potevano apparire come il punto culminante di un processo di sviluppo ininterrotto dal dopoguerra in poi, gli anni settanta (ma anche l’ultima parte degli anni sessanta) rivelarono molta più inquietudine e confusione. Dal punto di vista economico mostrarono evidenti segni di crisi, decretando la fine del concetto di “sviluppo illimitato”. La fine di tale concetto non riguardava solo l’economia, ma la stessa concezione del mondo, che aveva guidato fino ad allora la “modernità”. Di fatto, si cominciò a parlare di “svolta epocale” e si tentò progressivamente di ridefinire la nuova epoca, ricorrendo ai “post” (post-industriale, post-moderno, post-fordista, ecc.) per distinguerla dalla precedente, senza però segnarne una cesura definitiva. Anche dal punto di vista dell’analisi sociale si pose l’accento sulle difficoltà crescenti di una società sempre più complessa ed ingovernabile, contro le letture dicotomiche e i nessi causali lineari, tipici delle analisi degli anni precedenti. 1. Inizio anni ’70: le teorie del cambio culturale La contestazione, protrattasi per alcuni anni dopo il '68, disorientò molti. Per anni le analisi sociologiche privilegiarono la lettura politica di questo periodo. Ma non tutti si uniformarono a questa tendenza. Alcuni autori percepirono che, più che un mutamento strutturale, come invocavano i contestatori, era in atto un cambiamento a livello culturale. Per questo le teorie che indagarono su questa dimensione furono denominate del “cambio culturale”. Tali teorie furono espresse, a livello 1 Tale opinione è sostenuta e condivisa da vari autori: “nella seconda metà del secolo XX, soprattutto a cominciare dagli anni Settanta, è avvenuto un «mutamento antropologico», cioè è sorto nel mondo occidentale (Europa occidentale e America del Nord) un nuovo modello culturale di uomo, con caratteri che lo contraddistinguono dalle figure umane del passato, anche recente” ( La Civiltà Cattolica, 2002, 524–525). Tra le date più significative vengono indicate: la pubblicazione del libro “I limiti dello sviluppo” (1970), l’esplosione della crisi petrolifera in seguito alla guerra arabo-israeliana (1973) e la conseguente crisi economica (Ungaro, 2001, 106). Ma anche atti politici dovuti all’amministrazione americana, che, sotto la presidenza di Nixon, decretò la cessazione del rapporto di parità tra dollaro e oro (1971), e la fine dei limiti alla circolazione dei capitali (1974), segnando, di fatto, l’inizio della globalizzazione (Salvini, 2002, 550). mondiale, da Inglehart e, a livello nazionale, da Tullio-Altan e dal Grasso. Tali teorie partivano dalla convinzione che l’emergenza di nuovi valori nascesse dalla percezione giovanile di nuovi bisogni, conseguenti allo sviluppo socio-economico di quegli anni. Queste impostazioni di ricerca possono fornire indicazioni interessanti per comprendere la società e i giovani, soprattutto per un’analisi dei loro bisogni. Perciò abbiamo deciso di avvalerci delle loro indagini per ritrovare una chiave interpretativa dei mutamenti, intervenuti nella società da allora fino ad oggi. Attraverso tali teorie cercheremo di individuare quali bisogni e quali problemi o disagi si sono storicamente manifestati nelle società occidentali, soprattutto a livello giovanile, europeo e italiano, dagli anni ‘70 ad oggi. 1.1. Dal materialismo al postmaterialismo Inglehart, utilizzando una vasta mole di dati ottenuti da varie indagini promosse dalla Comunità Europea, ebbe la possibilità di verificare una sua ipotesi di partenza che, cioè, nei paesi occidentali che avevano raggiunto un notevole grado di benessere, fosse in atto un mutamento sostanziale nei valori che egli chiamò “rivoluzione silenziosa”. Utilizzò come teoria di riferimento la gerarchia dei bisogni elaborata da Maslow (1973), secondo la quale gli individui soddisfano i loro bisogni in un determinato ordine, secondo l’urgenza in rapporto alla sopravvivenza. La priorità massima viene data ai bisogni fisiologici. Quando questi sono soddisfatti ci si rivolge a bisogni di sicurezza fisica. “Qualora un individuo ha raggiunto la sicurezza fisica ed economica può iniziare a perseguire altri obiettivi non materiali […], il bisogno di amore, di appartenenza e di stima […]; successivamente si profila una serie di obiettivi correlati al soddisfacimento intellettuale ed estetico” (Inglehart, 1983, 47). Questi ultimi vengono chiamati “bisogni di autorealizzazione”. Ora, siccome nei vent’anni precedenti i paesi occidentali avevano goduto di una prosperità economica mai raggiunta prima e di un lungo periodo di pace (e quindi di sicurezza), ipotizzò che notevoli quantità di soggetti stessero spostando il loro interesse da obiettivi di tipo primario (sopravvivenza e sicurezza) ad obiettivi di tipo secondario. A sostegno di quest’ipotesi ritenne che potessero contribuire anche altri fattori: l’espansione dell’istruzione superiore, lo sviluppo delle comunicazioni di massa, le differenti esperienze formative delle nuove generazioni. Dal momento che “la gente tende a mantenere nel corso della vita adulta una serie di priorità dei valori dopo che questi si sono consolidati durante gli anni formativi […], possiamo pensare che i gruppi di giovani, e in particolare quelli cresciuti dopo la seconda guerra mondiale, diano meno enfasi alla sicurezza economica e fisica” (Inglehart, 1983, 47). Pertanto dovrebbero essere soprattutto i più giovani a mostrare i segni di questo spostamento culturale, e quindi a manifestare maggior attenzione ai valori post-materialisti. Inoltre ipotizzò che al mutamento di valori corrispondesse anche uno spostamento nelle preferenze elettorali. In particolare che all’appartenenza di classe si stesse sostituendo un’adesione partitica in base ad orientamenti di valore. Ipotizzò quindi che si sarebbe potuto constatare uno spostamento nelle preferenze elettorali: i benestanti verso sinistra e i più poveri verso destra. Un’altra ipotesi che avanzò, come conseguenza dello spostamento dei valori, fu quella del “declino della legittimità dell’autorità gerarchica, del patriottismo, della religione” (Inglehart, 1983, 26), con caduta della fiducia nelle istituzioni. 1.1.1. Gli indicatori Per verificare la sua ipotesi Inglehart ebbe a disposizione i dati dei sondaggi di opinione effettuati a varie riprese negli anni 1970-1982 tra tutta la popolazione di 9 paesi della Comunità Europea. Inoltre, per alcuni anni, anche dei dati di ricerche condotte in Svizzera e negli Stati Uniti. 2 a) Egli, in un primo momento (1970-1971), inserì nel questionario una domanda con 4 item indicatori di “materialità/post-materialità” (indice corto), che suonava così: “Se dovesse scegliere tra le seguenti cose, quali sono le due più importanti per lei? - Mantenere l’ordine nella nazione. - Dare alla gente maggior potere nelle decisioni politiche importanti. - Combattere l’aumento dei prezzi. - Proteggere la libertà di parola” (Inglehart, 1983, 51). b) Nei sondaggi successivi (dal 1973 in poi) aggiunse altre domande per rilevare con maggior precisione lo spostamento dei valori. Produsse un indice con 12 item (indice lungo), che metteva maggiormente in evidenza la dimensione “materialista/postmaterialista”. Tuttavia i risultati non differirono da quelli degli anni precedenti. Il che significava che il primo indice era sufficiente. I due indici vennero utilizzati alternativamente. Ne risultarono delle “scale di atteggiamento” che comprendevano a livello più basso i bisogni fisiologici (o materialisti): bisogni di sostentamento (lotta all’aumento dei prezzi, favorire la crescita economica, assicurare un’economia stabile) e i bisogni di sicurezza (mantenere l’ordine, lotta alla criminalità, garantire la difesa nazionale); a livello più alto i bisogni sociali e di autorealizzazione (post-materialisti): bisogni di appartenenza e stima (maggior potere decisionale nel governo, sul lavoro e nella comunità, società meno impersonale), intellettuali ed estetici (libertà di parola, preminenza delle idee, città più belle/natura). c) Inoltre vennero aggiunte altre domande che rilevano il mutamento degli obiettivi personali in ordine al lavoro, alla dimensione provinciale/cosmopolita, all’innovazione, all’orientamento politico. 1.1.2. I risultati I dati raccolti confermarono tutte le ipotesi di Inglehart. a) Innanzitutto venne rivelata dall’analisi fattoriale l’esistenza di un carattere (o dimensione) post-materialista tra le popolazioni in esame. Infatti nel primo fattore gli item indicatori di post-materialismo risultavano tutti correlati positivamente tra loro e negativamente con quelli materialisti. Solo l’indicatore estetico non risultò significativo per questo fattore. b) Venne confermata l’ipotesi di una ascesa dei valori post-materialisti nelle popolazioni occidentali e la persistenza negli anni del fenomeno. Per la prima volta nella storia questi valori diventavano significativi presso quote consistenti di popolazione fino ad arrivare a competere alla pari con i valori materialisti. c) Venne confermata l’erosione della fiducia verso i partiti e le istituzioni tradizionali. d) Venne confermata l’esistenza di correlazione tra declino dei valori materialisti e avanzamento delle “sinistre”: i soggetti postmaterialisti tendevano a sostenere maggiormente i partiti di sinistra, nonostante notevoli diversità tra paese e paese.2 e) Venne confermata l’incidenza della socializzazione nella formazione dei valori, per cui i valori riflettono gli orientamenti assunti durante il periodo formativo. Tale orientamento si 2 “In ognuno dei dieci paesi il declino dei valori materialisti è associato alla crescita del sostegno di posizioni politiche di ‘sinistra’ o liberal. In media, circa il 46 per cento degli intervistati che appartiene al tipo materialista puro si colloca a sinistra; del tipo postmaterialista puro si ha invece l’80 per cento. La forza della relazione varia da un massimo in Francia e in Italia a un minimo in Irlanda e Belgio, ma in ogni caso il tipo postmaterialista puro è situato a sinistra di ogni altro gruppo” (Inglehart, 1983, 83). 3 manteneva negli anni, nonostante fattori contingenti potessero determinare uno spostamento generale di orientamento. f) Vennero scoperte correlazioni significative tra carattere postmaterialista e scelte personali: sul lavoro (più propenso all’espressività: soddisfazione personale e buoni rapporti interpersonali), sull’appartenenza geografica (orizzonte più ampio, carattere universalista), verso le novità (più attratto). g) Venne confermata la dipendenza del tipo di valori dall’istruzione, e quindi che il carattere postmaterialista si correlava positivamente con un più alto livello di istruzione (soprattutto se universitaria). h) Si scoprì che anche altre variabili producevano differenze significative rispetto all’essere materialista o postmaterialista: professione di una fede religiosa (correlazione negativa con postmaterialista), sesso (positiva per l’uomo, negativa per la donna), età (negativa), iscrizione al sindacato (positiva), nazionalità, occupazione del capofamiglia. 1.2. I valori postborghesi Anche in Italia, negli anni ‘70, alcuni studiosi recepirono il mutamento di clima culturale e, almeno inizialmente, indipendentemente dai lavori di Inglehart, condussero delle ricerche allo scopo di cogliere le novità in campo culturale tra i giovani. Il lavoro sociologico di maggior rilievo fu quello di Tullio-Altan, che si muoveva in una prospettiva socio-antropologica. 1.2.1. L’ipotesi La sua analisi non fu motivata dalla volontà di verificare un’ipotesi scientifica, come Inglehart, ma da osservazioni dirette. Tullio-Altan, in base alla sua esperienza universitaria, volle capire i motivi dell’inquietudine che serpeggiava nel mondo studentesco. Si rese conto che alcuni temi suscitavano più intense reazioni emotive: cioè quando si trattavano temi che riguardavano il problema del rapporto con gli altri. In particolare essi “si dichiaravano insoddisfatti del tipo di società in cui vivevano, soprattutto perché i contatti che essi avevano nei rapporti sociali risultavano inautentici e frustranti e dicevano di aspirare ad una socialità diversa, nella quali i rapporti fossero migliori. Ma quando veniva affrontato il tema dell’alterità, del prossimo, allora sembrava scattasse una meccanismo preciso culturalmente ben definito e psicologicamente molto attivo: il prossimo è una realtà negativa, strumentale, con la quale ci si deve costantemente confrontare” (Tullio-Altan, 1974, 17). Da queste osservazioni l’autore trasse spunto per la formulazione dell’ipotesi secondo cui “una delle ragioni dello stato d’inquietudine e d’insoddisfazione che si avverte chiaramente tra i giovani dipende da una contraddizione fra un certo livello di aspirazione a una socialità più autentica, che passi attraverso un rapporto interpersonale gratificante, e un modello dell’altro, culturalmente ben strutturato, che induce al rifiuto, alla strumentalizzazione e alla svalutazione dell’alterità, in luogo di portare ad una positiva accettazione” (Tullio-Altan, 1974, 17). 1.2.2. I risultati I risultati confermarono l’ipotesi: “le aspirazioni dei giovani ad una socialità più autentica trovavano un forte ostacolo alla loro realizzazione nel modello culturale – assorbito dall’ambiente sociale e dalla famiglia in particolare – che prospetta l’altro da sé come un’entità strumentale o 4 negativa” (Tullio-Altan, 1974, 19). Questa sfasatura si stava accentuando, indice che “l’esigenza di una nuova società sembra essersi fatta più pressante” (Tullio-Altan, 1974, 19). La spiegazione di tale fenomeno l’autore la attribuì ai processi di socializzazione, che trasmettevano dei modelli culturali, dipendenti dal sistema socio-economico, diversi da quelli di cui i giovani sentivano bisogno3. Pertanto emergevano due sistemi di valore nei giovani italiani, tra loro contrastanti: da una parte valori di tipo acquisitivo o tradizionale, dall’altra valori di tipo espressivo o innovativo. Tali sistemi erano compresenti nei soggetti intervistati, ma con intensità maggiore o minore a seconda della classe sociale, del livello di cultura, del tipo di professione. Applicando la scala di conservatorismo fece una scoperta in contrasto con le aspettative: “i giovani che provengono dai ceti medi e medio-alti si collocano sistematicamente ai più bassi livelli di conservatorismo e quindi in corrispondenza con le scelte politiche considerate di sinistra, mentre i giovani che provengono dalla classe operaia si collocano sistematicamente ai livelli più alti di conservatorismo e di conseguenza sulle posizioni occupate dai giovani che scelgono i partiti di destra” (Tullio-Altan, 1974, 12). Questo venne confermato anche dall’applicazione delle altre tre scale di Berkeley. Nel complesso apparivano evidenti correlazioni, in un forte numero di giovani italiani, tra aspirazione ad una socialità più autentica, accettazione positiva dell’alterità, atteggiamento religioso aperto. A ciò si aggiungevano significative risposte sulla sensibilità alle ingiustizie sociali, disponibilità all’azione politica, interesse ai problemi politico-sociali e accettazione del principio della lotta di classe. Questi dati, riscontrati in soggetti di buon livello culturale e sociale, ponevano notevoli problemi d’interpretazione. 1.2.3. Convergenze e differenze con le teorie di Inglehart Questo tipo di risultati costrinse il nostro autore ad allargare la prospettiva alla dimensione internazionale ed europea e collegarsi agli studi di Inglehart 4. Da questo confronto trasse la convinzione che con l’avvicendarsi delle generazioni si sarebbe prodotta una radicale rivoluzione nella società, perché i valori postborghesi comportavano uno stile di vita che investiva tutti gli aspetti dei rapporti sociali, e non solo quelli economici. Per spiegare i fenomeni che rilevava egli ricorse al contributo di altri studiosi, oltre a Maslow: Marx e Malinowski, che permettevano di tener conto anche delle condizioni storico-sociali (Marx) e culturali (Malinowski). In questi due autori il nostro scoprì delle singolari convergenze con la teoria gerarchica di bisogni di Maslow. Stando al contributo di tali autori emergevano a tre tipi fondamentali di bisogni, più o meno corrispondenti: a) quelli biologici, comuni a tutti gli esseri viventi: i bisogni istintoidi di base di Maslow, i bisogni fisici di Marx e gli imperativi primari di Malinowski; b) quelli dei sistemi sociali, che possono essere fatti propri dagli uomini che vivono in quei sistemi, sia in condizione di privilegio sia in condizione subordinata (sottoproletariato alienato): gli “imperativi derivati” di Malinowski e, in un certo senso, i bisogni di sicurezza di Maslow; c) i bisogni superiori di autorealizzazione, cioè i “metabisogni” di Maslow, il “bisogno ricco” di Marx, gli “imperativi integrativi” di Malinowski. 3 “La concezione dell’altro come strumento, per esempio, è strettamente legata ad un modo di produzione nel quale il lavoro è una merce come un’altra, o nel quale le esigenze dei singoli sono strutturalmente subordinate a quelle dello sviluppo del sistema produttivo. [Invece nelle giovani generazioni stava nascendo] il bisogno di un diverso tipo di socialità, su cui questo modello di sfruttamento come prospettiva sull’alterità direttamente contrasta” (Tullio-Altan, 1974, 20). 4 “I valori postborghesi della ricerca Inglehart stanno sullo stesso piano dei nuovi valori cui si riferiscono i rilievi condotti con gli strumenti usati dalla ricerca ISVET: l’aspirazione ad una socialità più autentica, l’accettazione positiva dell’alterità e la carenza di quelle caratteristiche della personalità tradizionale che hanno come base un ordine garantito da una concezione dogmatica e autoritaria della vita, cui si associa un’etica del lavoro e del guadagno che è quella del capitalismo in fase di affermazione” (TullioAltan, 1974, 58). 5 Secondo queste teorie appariva che tali bisogni si disponevano in una posizione gerarchia, per cui dalla soddisfazione dei primi veniva resa possibile la manifestazione dei successivi. Un aspetto in cui Tullio-Altan si discostò nettamente dalle posizioni di Inglehart fu il ruolo riservato agli intellettuali per la realizzazione di tale rivoluzione. Consapevole degli innumerevoli ostacoli che sarebbe sorti di fronte alla pretesa rivoluzionaria dei giovani, egli riteneva che gli intellettuali, conforme alla lezione gramsciana, avessero il compito di immaginare e delineare il futuro della società. Una società in cui doveva esserci spazio per una socialità più autentica e personalizzata, con un’accettazione positiva dell’alterità; società i cui tratti non si conoscevano ancora e la cui cultura doveva essere immaginata in maniera originale. 1.3. La transizione culturale Già da anni Grasso stava conducendo delle ricerche e delle riflessioni sulla “transizione culturale” in atto tra i giovani. Egli impiegò questo termine per descrivere e spiegare le novità, stavano emergendo tra i giovani italiani.. Quelli che erano i compiti che lo struttural-funzionalismo assegnava allo status giovanile, cioè, il “passaggio dall’ambito familiare (solidaristico, ascrittivi, particolaristico) al contesto sociale generale (individualistico, acquisitivo, universalistico)” (Grasso, 1974, 20), l’autore lo generalizzò per tutta l’Italia. Un paese che, in seguito alla rapida industrializzazione del dopoguerra, si era trovato rapidamente inserito nella società moderna senza averne i requisiti culturali. In Italia, infatti, risultavano profondamente radicati i valori tradizionali e la cultura rurale: una cultura sostanzialmente “familistico-comunitaria”, che “privilegia l’assorbimento dell’individuo nel gruppo familiare e la sua chiusura in un orizzonte di rapporti primari” (Grasso, 1974, 27). Cultura in cui prevaleva un modello di rapporto “egocentricoparticolaristico”. Cultura inadatta ad un paese moderno, che esige un modello di rapporti di tipo “allocentrico-universalistico”. Pertanto, secondo il nostro autore, i giovani avrebbero costituito un osservatorio privilegiato delle trasformazioni culturali proprie di una società moderna: una società in cui, ai valori acquisitivi tipici del primo capitalismo, si andavano sostituendo esigenze di tipo solidaristico, tipiche di una società avanzata. Ma le esigenze manifestate dai giovani erano in conflitto con la struttura tradizionale della società italiana. Questa era, a giudizio dell’autore, il motivo contestazione giovanile: l’espressione del profondo malessere presente nel paese, che i giovani avrebbero percepito in maniera più distinta, proprio perché il loro sistema di valori stava cambiando5. 1.3.1. Valori e istituzioni La ricerca che prendiamo in esame (Gioventù e innovazione, 1974) fu applicata all’intero universo degli studenti superiori medi italiani nell’anno scolastico 1970-71. In essa si registrò l’ascesa di nuovi valori, tra cui emergevano quelli di tipo “sociale”, “con tendenza al superamento delle lealtà particolaristiche (primarie) e apertura ai valori ‘politici’, di solidarietà tendenzialmente universalistiche” (Grasso, 1974, 144). Netta appariva l’aspirazione ad una società più giusta, libera, progressista. Pertanto veniva confermata l’adesione ai valori “progressisti”, mentre erano in declino quelli tradizionali. Infatti, emergeva una concezione della sessualità più libera e disinibita rispetto al passato, senza condizionare l’esercizio della sessualità al vincolo matrimoniale. La famiglia non rappresentava più l’orizzonte entro cui 5 “La condizione giovanile rappresenterebbe […] una dimensione della crisi della società di massa e dell’incapacità di gestione realmente democratica dello sviluppo economico-sociale. Nell’assenza sostanziale di un disegno politico, la condizione giovanile esprime con diverse modalità, e anche con esplosioni improvvise e movimenti di timbro collettivo, le più significative contraddizioni della struttura sociale italiana” (Grasso, 1974, 23). 6 confinare la vita: si dichiaravano più leali verso la società e lo Stato che verso la famiglia. Attribuivano molta fiducia alla scienza, erano favorevoli alla politicizzazione della scuola. Si sentivano democratici, respingendo tentazioni dittatoriali o estremiste. I diritti ritenuti fondamentali erano quelli inerenti l’autorealizzazione della persona. Sul piano morale si manifestavano nuove dimensioni valoriali, soprattutto la convinzione che non fosse più necessaria una fede per un autentico sviluppo morale della persona. La Chiesa non godeva più della loro fiducia incondizionata. 1.3.2. Disagio per i sistemi culturali in conflitto Il contributo più originale di questa ricerca fu la scoperta del motivo della resistenza al cambiamento, sia a livello sociale, nelle istituzioni e nelle strutture sociali, sia a livello individuale, nella tensione tra sistemi culturali all’interno della persona stessa. I giovani, infatti, da una parte erano affascinati dai valori “moderni” e, dall’altra, avvertivano la resistenza interna dovuta ad un sistema di valori ben strutturato già in tenera età. Ciò portò l’autore a sostenere la mancanza “di una struttura psicologica unitaria o di un tratto globale che integri con qualche coerenza i diversi atteggiamenti” (Grasso, 1974, 176). Cosicché anche i valori espressi e/o i diritti difesi non sembravano emanare da una concezione unitaria della persona, bensì dalla loro appetibilità e fruibilità privata o dalla desiderabilità sociale. Ne conseguiva la coesistenza psicologica di due sistemi di valori sovrapposti senza integrazione. La maggior difficoltà d’integrazione si percepiva particolarmente nei soggetti di bassa condizione sociale e culturale, appartenenti alle aree più arretrate del paese (Sud, comuni di piccola grandezza, aree rurali), mentre gli appartenenti alle classi sociali più elevate e culturalmente preparate, e alle aree sociali più avanzate, dimostravano un atteggiamento più critico verso il passato ed una miglior predisposizione ai valori moderni6. Ciò non voleva dire che gli studenti di estrazione inferiore non perseguissero obiettivi progressisti, solo presentavano delle caratteristiche di “immaturità” in parecchie loro reazioni7. Ne conseguiva un aumento di disagio, che colpiva in maniera particolare i soggetti a più alto tasso d’innovazione (aree metropolitane, Nord, allievi di scuole umanistiche), oltre ai soggetti più esposti alla tensione del cambio culturale (femmine, più anziani). Ciò non fu imputato a cause psicologiche “evolutive”, bensì ad elementi ansiogeni provocati dalla mancata integrazione tra sistemi, sia a livello sociale che personale. Infatti, “la rottura del conformismo sociale e la crisi dei rapporti di solidarietà con le istituzioni più socialmente rassicuranti, comporta senso d’insicurezza e di sconcerto psichico. Che dipendesse da tali fattori i disagio venne dimostrato anche dalla correlazione positiva tra livello di innovazione e stato d’ansia. A ciò si aggiungeva la 6 “Dal confronto sistematico tra originari di classi superiori e originari di classi inferiori sembra potersi dedurre che le differenze culturali si rivelino connesse con la situazione socio-economica del gruppo sociale di appartenenza, nel senso che a tale situazione corrispondono diverse condizioni di sviluppo della personalità, direttamente o indirettamente influenti sull’assunzione di un dato sistema di atteggiamenti. Così, l’inferiorità socio-economica tende a tradursi in inferiorità «mentale» e, quindi, culturale (qui intesa come resistenza all’innovazione). Gli originari delle classi inferiori si rivelano meno «maturi», globalmente, dei loro compagni socialmente privilegiati: in questi ultimi appare, ad esempio, più avanzato il processo mentale di differenziazione e di integrazione degli elementi della realtà sociale, con più diffusa capacità di percepire «universalisticamente» il dato di esperienza e di recepire più criticamente le influenze ambientali” (Grasso, 1974, 362s.). 7 “Si può ritenere confermato anche dalla presente ricerca il carattere immaturativo di parecchie reazioni a significato culturale dei giovani di classe inferiore. Un segno di tale «immaturità» è dato dalla «difensività» che caratterizza maggiormente le risposte di quei soggetti: essi tendono ad utilizzare intensivamente meccanismi inconsci di difesa psichica, piuttosto che procedimenti a carattere razionale e «obiettivo». Si potrebbe vederne una prova nella tendenza impunitiva dei nostri soggetti di estrazione popolare nel giudicare la loro famiglia: piú condizionati all’in-gruppo familiare e alla sua cultura tradizionale, questi soggetti risentono maggiormente del contrasto con le figure parentali censuranti le loro «deviazioni» innovative e i loro tentativi di azione contestativa: di qui la loro tendenza a liberarsi difensivamente del conseguente senso di colpa con razionalizzazioni che minimizzano le responsabilità dei familiari e imputano il contrasto a cause «impersonali», così da non compromettere il clima affettivo familiare da cui dipendono - in modo piú «condizionato» - per la loro tranquillità psichica” (Grasso, 1974, 363s.) 7 consapevolezza di marginalità sociale della propria situazione (culturale e strutturale), con sensazione d’isolamento ed estraneità. Ciò poteva spiegare anche il “riflusso” dall’ondata constestativa. Egli lo leggeva nei termini di un “dramma psicoculturale”: “gran parte dei giovani non ha ‘sopportato’ la difficile situazione psicologica di insicurezza e di isolamento conseguente alla rottura di quelle solidarietà e il senso di colpa provocato dalla rinuncia alla conformità con la tradizione culturale (rinuncia percepita più o meno consciamente come ‘tradimento del padre’ e ‘abbandono della protezione affettiva della madre’) […] Molti dei giovani contestatori (la maggioranza della popolazione studentesca) si sono sentiti ‘persi’ e hanno preferito, in definitiva, tornare alla ‘casa del padre’ e alla sicurezza del ‘grembo materno’” (Grasso, 1974, 364-365). C’era quindi un bisogno d’integrazione, accanto a quello di una socialità più autentica. Il Grasso riteneva che fosse necessaria l’istituzionalizzazione dei nuovi valori, per far acquisire da parte della società l’istanza innovativa proveniente dai giovani. 2. Seconda metà degli anni ’70: cambiamento nei valori e nei bisogni dei giovani italiani Le ricerche appena illustrate risentivano del clima particolare creatosi nella società ed in specie tra i giovani alla fine degli anni ’60 e nella prima metà degli anni ’70. Ma nella seconda metà degli anni ‘70 si determinò un profondo mutamento del costume e della condizione giovanili in Italia. All’epoca dell’impegno politico e della militanza attiva per una trasformazione del sistema si andò sostituendo un atteggiamento meno idealista e più pragmatico, in concomitanza con una situazione socialmente più instabile. Il sistema politico tradizionale ed i ceti conservatori si irrigidirono, respingendo ogni domanda di innovazione. Divenne evidente la sua incapacità di gestire le richieste di cambiamento della società civile (Leccardi, 1987, 5). Il movimento del ’68, che aveva puntato tutte le sue carte sulla politica, rimase orfano di punti di riferimento: le organizzazioni della sinistra extra-parlamentare entrarono pesantemente in crisi. L'ottimismo che aveva caratterizzato il clima giovanile all'inizio degli anni Settanta cedette il passo a sempre più inquietanti simboli di morte (Borgna, 1984, 131). Il dissenso prese due strade opposte, o si radicalizzò, trasformandosi in una lotta armata sistematica, o, nella maggior parte dei casi, divenne indifferenza verso la politica ed i progetti di riforma. La prima strada portò al sequestro dell’on. Aldo Moro da parte delle “Brigate rosse” nella primavera del 1978 e alla sua successiva uccisione; la seconda al riflusso, come fu denominato dai media il ritiro dei giovani dall’ondata partecipativa e conflittuale. La crisi economica, iniziata attorno al '72, non si risolse, anzi da congiunturale divenne strutturale. Iniziò in questi anni una serie di ristrutturazioni nel campo industriale che sembrava obbedire alla "spontanea mobilitazione del capitale finalizzata al recupero dei profitti" (Graziani, cit. da Leccardi, 1987, 5) più che a scelte programmatiche. A risentirne fu soprattutto l'occupazione giovanile. Se questo problema accomunava quasi tutti i paesi dell'Occidente industrializzato, in Italia esso assunse proporzioni enormi8. Particolarmente penalizzato fu il lavoro intellettuale, per la mancanza di grosse industrie in grado di assorbire la forza lavoro qualificata9. Il sistema scolastico italiano appariva sostanzialmente immobile. Alla forte espansione di cui era stato fatto oggetto si accompagnava il suo elevato grado di “de-professionalizzazione”, vale 8 “Nel periodo compreso tra il 1974 ed il 1977, il numero di giovani disoccupati triplica. Nel luglio 1979 il numero di giovani in cerca di prima occupazione sono 1.375.000, vale a dire il 73% di coloro che cercano lavoro. In questo periodo il tasso di disoccupazione è pari al 33% dei giovanissimi dai 14 ai 19 anni e del 21.4% per i giovani dai 20 ai 24 anni. Il fenomeno coinvolge soprattutto le ragazze e i giovani dell'Italia meridionale ed insulare” (Leccardi, 1987, 5). 9 “Tra i giovani in possesso di un diploma tra i 20 e i 24 anni, il tasso di disoccupazione si aggira introno al 36%” (Frey, cit. da Leccardi, 1987, 5). 8 a dire, scarsa o nulla capacità di formare quadri intermedi. Il sistema d’istruzione medio-superiore si era andato trasformando in un sistema di scorrimento verso gli studi universitari, perdendo progressivamente le proprie capacità professionalizzanti. La formazione scolastica, priva di sbocchi professionali, perdeva senso e finalità: la figura delle studente finiva per evocare anticipatamente quella del disoccupato (Leccardi, 1987, 5-6). 2.1.1. La ricerca d’identità La sempre più difficile transizione scuola/lavoro e l'assenza di prospettive di mutamento condizionarono pesantemente il tipo di rapporto del giovane con il mondo istituzionale. Sancita la fine del tempo dell'utopia e dei progetti totalizzanti, il futuro divenne incerto, e fu abbandonata l'idea che di poterlo mutare con un'azione collettiva. Di fronte all'insensibilità e alla fondamentale immutabilità del sistema politico ed al prevalere in economia delle leggi del mercato sui diritti e bisogni dell'uomo, prese il sopravvento un senso d’impotenza e di rassegnazione (Leccardi, 1987, 6). I bisogni che emersero con maggior evidenza in tale situazione furono quelli di sicurezza e d’identità. Cambiando lo scenario sociale la ricerca dell’identità diventò il tema cruciale di quegli anni10. Emarginati dalle aree produttive e decisionali del paese, i giovani degli anni ‘70 furono costretti a cercare nuove strade per definirla. Gli adolescenti di quegli anni dimostrarono “una funzione attiva nella determinazione del proprio destino” (Polmonari, 1979, 379). In una situazione di complessità e disorientamento culturale la ricerca dell’identità imboccò percorsi molto diversificati, rispondenti a criteri più soggettivi. La tensione dell’adolescente a definire la propria identità si specificò sia nel tentativo di riconoscere se stesso in rapporto agli altri, sia come chiarificazione a sè delle proprie mete (sé ideale) e dei mezzi necessari per raggiungerle (Polmonari, 1979, 379). Emerse così un tratto caratteristico della gioventù di quegli anni: la ricerca d’identità, invece di concentrarsi su un ruolo, su un modello unico, su un’ideologia ben definita, imparò ad approfittare di tutte le opportunità che la società offriva, senza preclusioni ideologiche. L’identità perdeva “un centro per acquistarne molti” (Leccardi, 1987, 8). L’identità si fece più aperta e componenziale e, nello stesso tempo, più suscettibile di crisi. Infatti, a fronte di questa liberalizzazione dei percorsi dell’identità, si profilava la precarietà e debolezza delle soluzioni. Così si cominciò a parlare di “identità imperfette”. 2.1.2. Nuovi bisogni giovanili Il venir meno delle certezze sociali, economiche, politiche e culturali tradizionali, costrinse i giovani a ripiegarsi su nuovi bisogni. Le risposte organizzate dei gruppi giovanili in questo periodo imboccarono una doppia strada: pratica della violenza come necessità individuale e collettiva da una parte, negazione dello spirito competitivo o esaltazione di componenti ludico-erotiche dall’altra (Rositi, 1978, 125). Di questa sensibilità si fece interprete sopratutto il “movimento del ’77”, denominato anche degli “indiani metropolitani”11. Per una parte di essi l’affermazione dell’alterità 10 “La ricerca di un’identità socialmente plausibile, e in parallelo, la crisi dei percorsi tradizionali della sua definizione caratterizza lo scenario sociale della seconda metà degli anni ‘70. Questa ricerca è direttamente legata al problema del senso globale da assegnare alla propria esistenza: un problema, specie per chi è studente, di non facile soluzione” (Leccardi, 1987, 6). 11 Gli “indiani metropolitani” furono un movimento composto prevalentemente da studenti universitari non frequentanti, di Bologna e d’altre città italiane. Essi fecero dell’esperienza dell’emarginazione un punto “forte”, quasi una nuova identità della condizione giovanile. L’esclusione dal lavoro, dalla scuola, dal flusso delle decisioni politiche furono da essi rielaborate in chiave d’autoidentificazione. “Il movimento del ‘77 è un tipico esempio dell’innesto di nuove domande giovanili legate all’identità, sui problemi prodotti dalla crisi economica, dagli squilibri tra scuola e mercato del lavoro, dall’aumento della disoccupazione giovanile e 9 dei propri bisogni, rispetto ai fini delle istituzioni, si tradusse nella rivendicazione di un’identità “altra”, per mezzo della quale esprimere, in modo trasgressivo ed ironico, i “bisogni radicali”. La vita privata, l’affettività, le scelte esistenziali, anche minute, acquistarono statuto politico. Ci si definiva in base a ciò che si rivendicava (Leccardi, 1987, 7). Terminata quest’ondata collettiva, rimase solo l’aspetto privato del problema, che comportò un maggior risalto ai bisogni individuali. La ricerca della felicità, di esperienze gratificanti (sia individuali che di piccolo gruppo), il principio del piacere, la rinuncia all’impegno furono il denominatore comune che contraddistinse la generazione “fine decennio”. Dopo anni di turbolenze i giovani abbracciarono un individualismo non conflittuale e difensivo (Borgna 1979, 407). Di qui il rilievo dato al tempo libero, al divertimento, alla libera espressione dei propri bisogni ed ad una ricerca della propria autorealizzazione intesa come autoespressione. I nuovi interessi giovanili furono “l’amore, la sessualità, la nuova coppia, il corpo, la poesia ed ogni espressione creativoartistica” (Leccardi, 1987, 7). Presero corpo fenomeni nuovi come: a) L’aggregazione, fondata prevalentemente sul calore del gruppo, sulla dimensione affettiva e relazionale, con preferenza per la comunicazione gestuale su quella verbale. b) La musica, con l’esplosione della “febbre del sabato sera”, l’invasione di balere e discoteche12, favorita anche dalla nascita e diffusione di miriadi di radio (circa 4.000 nel ‘79) e TV private (600 circa). c) Il “ritorno del sacro”, con manifestazioni quali il “culto dell’Oriente”, la diffusione di sette e movimenti religiosi, la ripresa della pratica religiosa. Tuttavia il ritorno al sacro solo in pochi casi coincise con un ritorno alla religione di Chiesa, sovente si tradusse in una ricerca di significato, con l’esplorazione personale di percorsi di senso al di fuori delle istituzioni tradizionali (Borgna, 1984, 137-141). Rispetto, invece, agli atteggiamenti politici e culturali, Ricolfi e Sciolla (1980), scoprirono che esisteva ancora una notevole quota di giovani impegnati (soprattutto nelle associazioni) per i quali i valori della contestazione erano ancora vivi13. Piuttosto, era mutata l’intensità della partecipazione, “l’aggressività ideologica” dei “sessantottini” (quelli più politicizzati). I giovani del ‘78 apparivano più “disincantati”, credevano meno negli strumenti politici per realizzare i valori di cui si sentivano portatori. Il nucleo centrale del cambiamento risiedeva nella ripresa di attenzione per l'individuo e per le sue problematiche. Ma non mostravano i caratteri dell’individualismo classico, “legato all’etica della prestazione, ad uno spirito competitivo che attribuiva massima importanza al successo personale, alla carriera e al prestigio professionale” (Ricolfi – Sciolla, 1980, 242). Così, in merito all’orientamento intimista, essi sottolineavano il carattere politico del “personale”, che acquistava valore di storia. Per quanto riguarda i modi attraverso i quali questi orientamenti culturali si formavano, gli autori sottolinearono l’importanza delle dimensioni cosiddette “orizzontali” del processo di socializzazione. Alla famiglia come centro si era andata progressivamente sostituendo una struttura policentrica, in cui il gruppo dei pari e le altre reti relazionali autonomamente definite, l’associazionismo, la scuola e le esperienze lavorative andavano acquistando una crescente centralità. intellettuale e dal ruolo di parcheggio assunto dall’università. Il movimento è diviso tra la ricerca della creatività personale e la coscienza della marginalità sociale degli studenti, privi di sbocchi professionali” (Melucci, 1982, 113). “Nel breve periodo della sua esistenza il movimento si incarica di sancire la fine del tempo dell’utopia e dei progetti totalizzati” (Leccardi, 1987, 7). 12 “Ogni fine settimana 3 milioni e mezzo di italiani […] invadono 3.500 balere, 500 delle quali aperte di recente proprio per assorbire l’aumento della domanda. Nel ‘78 le sale da ballo sono oltre 5.000, e, secondo stime della SIAE, le presenze del pubblico sono aumentate del 40-50% rispetto al ‘77” (Borgna, 1984, 147). 13 Sono simili alla generazione precedente “in quanto i loro orientamenti rappresentano in molti casi una generalizzazione di tematiche tipiche del movimento studentesco: dalla critica dell'autorità, al riconoscimento della non-neutralità dei ruoli sociali, alla critica dell'etica della prestazione. Anche su un piano più immediatamente politico […] il consenso all'insieme delle forze politiche della sinistra è cresciuto […]. Ma l'aspetto forse più rilevante è che questa estensione ha coinvolto, la componente femminile della popolazione studentesca” (Ricolfi – Sciolla, 1980, 10). 10 3. I giovani di fronte alla complessità della società negli anni ’80 Gli anni ‘80 rappresentarono la normalizzazione della condizione giovanile rispetto alla “mobilitazione” degli anni ‘70, secondo linee già emerse alla fine degli anni ’70. Tale mutamento di strategia dipese da un processo interattivo tra giovani e società. Si ebbe, infatti, sul piano sociale un’evoluzione della società che diventava sempre più post-industriale, complessa e, nello stesso tempo, maggiormente flessibile. I giovani dovettero imparare a convivere con tale realtà: visto che il tentativo della generazione precedente di contrapporsi alla società era fallito, non rimase loro che adeguarsi. L’adattamento divenne la principale strategia giovanile in quegli anni. Infatti, la ricerca che segnò una svolta nell’interpretazione della gioventù in quegli anni fu quella di Garelli (1984), in cui l’adattamento fu assunto come criterio interpretativo fondamentale ed il quotidiano come luogo dove i giovani cercavano la propria autorealizzazione. Si era venuta a delineare una situazione di questo tipo: cadute le grandi mete collettive che avevano caratterizzato i decenni precedenti, persa la speranza di influire sull’orientamento ideologico ed organizzativo della società, complicatasi la transizione scuola/lavoro, sfumata l’attesa di mobilità sociale ed inserimento lavorativo attraverso la scuola non rimase che lo spazio del tempo libero e dei rapporti informali come luogo di autorealizzazione. Esso si presentava come ambito in cui non solo sviluppare dei rapporti, giocare dei ruoli al di fuori del controllo degli adulti e delle istituzioni, ma anche come spazio dove elaborare una cultura alternativa al modello prevalente, dove sperimentare dei comportamenti, degli stili di vita in grado di fornire un sostegno alla ricerca di una soluzione alla crisi d’identità tipica dell’età e particolarmente acuta in momenti di trapasso culturale e di travaglio sociale. 3.1. I mutamenti di scenario nella società degli anni ‘80 Le strategie di adattamento dei giovani rappresentavano, però, solo una faccia della medaglia, l’altra faccia era rappresentata dalle imponenti trasformazioni a livello economico, politico e sociale che caratterizzarono quegli anni. Pertanto l’analisi dei bisogni e valori giovanili non può prescindere dai mutamenti strutturali e culturali che stavano avvenendo nell’intera società. Furono essi a condizionare pesantemente la risposta giovanile: il mutamento dei bisogni manifestati dai giovani era frutto dell’interazione con un ambiente profondamente mutato. 3.1.1. Mutamenti a livello economico Negli anni ’80 l’economia riprese il sopravvento sulla politica, che negli anni ’70 aveva avuto un ruolo egemone. L’economia risolse le sue crisi cambiando radicalmente il modo di produzione e di distribuzione delle merci, e le stesse concezioni che l’avevano guidata per tutta la fase dell’espansione industriale. Per questo motivo questo periodo fu denominato “post-industriale”. A livello industriale la tendenza prevalente fu la “deverticalizzazione” dei grandi stabilimenti, con l’attribuzione all’esterno (piccole imprese) di parte del ciclo produttivo. Iniziò in quegli anni la rivoluzione microelettronica ed informatica. Il modello produttivo che s’impose fu quello della “Toyota”, che rese obsoleta l’organizzazione “fordista” o “taylorista” del lavoro. I termini emergenti furono “flessibilità”, “creatività”, “qualità”, “piccolo è bello”, superando le logiche disumanizzanti della catena di montaggio. La nuova industrializzazione comportò la dislocazione degli stabilimenti in aree più convenienti per il costo della manodopera. Nacquero i fenomeni della “delocalizzazione” delle industrie e della “globalizzazione” dei mercati. 11 La terziarizzazione dell’economia si estese sempre più. L’intreccio tra terziario e cultura comportò una razionalizzazione dei comportamenti ed una ristrutturazione dei processi decisionali, un allargamento delle capacità conoscitive. Crebbe la domanda di qualità nella produzione. La scienza e la tecnologia ebbero un ruolo sempre più rilevante nei processi produttivi. Vennero incrementati i consumi. Per poter reggere all’aumento di produzione necessitavano nuovi bisogni che potevano essere soddisfatti solo da prodotti sempre più sofisticati. La spinta ai consumi fu sostenuta dalla pubblicità e dall’opera suadente dei mass-media. La nascita di tante radio e TV private si reggeva su questo presupposto. Il modello di vita occidentale e consumista venne diffuso capillarmente in tutti i continenti, creando un’omogeneizzazione della cultura e dei consumi, funzionale alla grande distribuzione, ma con effetti distruttivi sulle culture locali e disgregativi sul tessuto sociale. Un altro effetto di questa rivoluzione fu il problema occupazionale. La rivoluzione microelettronica e informatica, la “deverticalizzazione” e la “delocalizzazione” consentirono di ridurre notevolmente la manodopera o di avvalersi di manodopera a basso costo. La nuova fase espansiva creò lavoro in attività interstiziali, con proliferazione di tante piccole attività produttive precarie, si diffuse il lavoro occasionale, part-time, ecc. Tutto ciò permetteva di sfuggire più facilmente al controllo dei sindacati e degli ispettori del lavoro, con aumento del lavoro nero, sottopagato, senza protezione sociale. Questo tipo di produzione comportò, infatti, oltre all’espansione industriale, un aumento significativo di incidenti e i morti sul lavoro. La crisi occupazionale segnò significativamente la condizione giovanile di quegli anni. Se gli anni di transizione (1979-80) furono di ripresa economica, ciò non durò, perché legato a fattori effimeri (lavoro nero, economia sommersa, dilatazione spesa pubblica). Il resto dei primi anni ‘80 registrò un aggravamento del problema. Da una parte c’era l’urgenza di reinserire nel lavoro i disoccupati, prevalentemente adulti; dall’altra di accogliere i giovani alla ricerca del primo posto. Le misure legislative adottate per risolvere i problemi occupazionali dei giovani, pur lodevoli nelle intenzioni, non riuscirono a determinare una vera inversione di tendenza a causa della consistenza quantitativa del fenomeno. Così il tasso di disoccupazione continuò a crescere nella prima parte del decennio, con allungamento dei tempi di ricerca della prima occupazione. Ciò favorì anche, tra i giovani, l'interesse per il lavoro indipendente, benché, l'occupazione dipendente conservasse una forte attrazione. Insieme ne venne una notevole flessibilità e mobilità, la disponibilità a "provare" professioni diverse, a "crearne" di nuove, a passare dal ruolo di studenti a quello di lavoratori a quello di inoccupati con notevole disinvoltura. In genere prevaleva un atteggiamento pragmatico, dove convivevano esigenze espressive accanto a quelle strumentali. Le difficoltà occupazionali, insieme all’allungamento del tempo di formazione e la procrastinazione del momento d’entrata nella vita adulta fece parlare della condizione giovanile come di un periodo di obiettiva “emarginazione”. Nel rilevare tale situazione Cavalli parlò di una trasformazione della fase giovanile da “processo” a “condizione”, con effetto macroscopico di allungamento della fase di socializzazione, ma anche di mutamento nei modi di vivere la giovinezza e nell’evoluzione verso la maturazione personale e sociale. 3.1.2. I mutamenti a livello politico La riscossa dell’economia segnò anche le vicende politiche. In vari paesi, a cominciare da Gran Bretagna e USA, salirono al potere partiti con programmi neo-liberisti. Ciò diede il via alla deregulation, che comportò riduzione di limiti, dei controlli e delle tasse all’iniziativa privata, privatizzazioni degli enti statali, ampie dismissioni e ristrutturazioni degli apparati produttivi. Ciò ebbe forti ripercussioni anche in Italia. Negli anni ‘80 la politica risentì di una certa stanchezza, frutto sia del lungo impegno dei partiti italiani nel combattere il terrorismo e confrontarsi con l’estremismo politico, ma anche della percezione dell’inadeguatezza nelle strategie 12 politiche rispetto ai mutamenti sociali, economici e culturali. Mentre all’estero si facevano esperimenti neo-liberisti, in Italia prevalevano tentativi di riformare i partiti tradizionali adeguandoli alle mutate esigenze sociali. Ciò fece assumere alla politica italiana un orientamento molto pragmatico, nel tentativo di rispondere direttamente alle esigenze della società. Ciò consenti all’Italia di ottenere alcune progressi, “verso una libertà politica reale, sulla strada dell’uguaglianza e nella partecipazione alla vita sociale” (Malizia, 1991, 21). Accanto a questi progressi non mancarono le ombre. La politica, ispirata a questi criteri, si presentava vivace e dinamica, ma anche spregiudicata. In quegli anni, accanto alla soluzione di alcuni annosi problemi, all’impulso per nuove opere pubbliche e ad un trend migliore dell’economia, aumentò anche il debito pubblico e la corruzione nei partiti. Questi problemi si innestavano nella cronica lentezza della macchina burocratica italiana e nell’incapacità di fronteggiare realmente le emergenze di una società in rapida evoluzione. Emblematico, a questo proposito, fu il tentativo di risponder alla crisi del welfare state: adottando gli stessi principi dell’economia liberale: riduzione dell’intervento statale e promozione dell’iniziativa privata. Questa situazione generale non poteva non avere analoghi riscontri sul costume sociale. Anche in Italia si andavano diffondendo “i valori cosiddetti neo-borghesi come la competitività, la personalizzazione e la privatizzazione dei bisogni sociali, il rifiuto della mediocrità, la rivalutazione della professionalità e della responsabilità e la voglia di imprenditorialità” (Malizia – Frisanco, 1991, 22). Con essi, si estendevano individualismi esasperati, competitività rampante, prassi egoistiche e corporative. Si notava aumento di conformismo determinato dalla pubblicità, livellamento verso il basso, assemblearismo improduttivo, emergenza di un individualismo egoistico e corporativo. Anche molti giovani finirono per assumere questo tipo di valori. Da una parte infatti si assisté ad un progressivo disinteresse e allontanamento dalla politica e dalla militanza politica attiva; dall’altra, un certo nucleo di giovani fece propri i valori della competitività e li portò alla esasperazione, dando luogo a fenomeni sociali come lo “yuppismo”. 3.1.3. Il paradigma della complessità Negli anni ‘80 divenne sempre più frequente da parte dei sociologi applicare all’analisi della società la categoria della complessità14. Con tale termine si volle sottolineare la forte differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la moltiplicazione delle relazioni tra loro15. Pertanto la complessità non era una caratteristica delle cose o delle persone, piuttosto una modalità di descrizione di situazioni o problemi caratterizzati da numerose interdipendenze relazionali. Di questa configurazione della società c'era chi sottolineava di più la moltiplicazione di possibilità, la crescita di opportunità, di organizzazione, ma non 14 "Nella tradizione sociologica (da Durkheim a Simmel a Parsons) quando si parla di complessità del sistema sociale in riferimento alle moderne società industriali si istituiscono fondamentalmente due tipi di correlazioni. La prima riguarda il numero e la varietà degli elementi del sistema, la seconda il numero delle relazioni di interdipendenza tra questi stessi elementi. [...] E' quest'ultima - la densità dinamica e morale della società - la caratteristica saliente in senso sociologico che si sviluppa solo con la differenziazione e con l'affermarsi della logica della divisione del lavoro" (Sciolla, 1983, 45). Bisogna però riconoscere che sovente tale situazione viene percepita per le difficoltà che comporta. in effetti, il concetto di "società complessa" ha cominciato a diffondersi con la crisi socio-economica degli inizi degli anni '80, nel momento in cui "l'attenzione non va più alla dinamica di sviluppo delle nostre società, ma all'arresto di questa dinamica, agli imprevisti effetti disgregatori: ingovernabilità, instabilità, differenziazione e disarticolazione dei processi produttivi, dilatazione dei settori distributivi e dell'amministrazione, espansione dell'interventismo statale, disgregazione e moltiplicazione dei gruppi sociali, circolarità tra aspettative e frustrazioni collettive" (Montesperelli, 1984, 25). 15 Secondo Donati (1985) quattro sarebbero le accezioni relative al termine "complessità" applicato alla società: 1) Complicazione, cioè "crescita quanto-qualitativa di elementi, relazioni e interazioni in un sistema sociale dato" (p. 6). 2) Moltiplicazione di codici incommensurabili, "derivante dall'operare di più e diverse logiche fra loro incompatibili, o, incommensurabili" (p. 6). 3) Variety pool, cioè "una situazione che consente di mantenere sempre aperte un numero sempre maggiore di possibilità alternative (più di quante possano essere effettivamente realizzate in un dato momento)" (p. 7). 4) Entropia, "ordine (sociale) probabilistico (casuale), anziché normato, fondato sulla variabilità (differenza)" (p. 7). 13 mancarono alcuni che fecero notare la progressiva ingovernabilità dei sistemi, la mancanza di un centro organizzatore, la crescita di entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili16. In quegli anni si registrò un’accelerazione nella pluralizzazione dei centri di potere e dei sistemi di riferimento e di significato, con effetti di frammentazione e disgregazione della realtà sociale. Questo comportava per gli individui un aumento di opportunità ed una diminuzione del controllo sociale. Mentre ciò accresceva le possibilità per il singolo, aumentava anche il carico di responsabilità personale e la probabilità di non riuscire a far fronte alle richieste della società17. Perciò tale assetto della società poneva notevoli problemi di integrazione, di adattamento e di identità18. Queste problematiche investirono soprattutto i giovani, alle prese con problemi ad inserirsi ed integrarsi nella società. L’adattamento divenne la strategia vincente in tale contesto, che, se permetteva di far fronte ai problemi immediati, diventava problematico rispetto all’assunzione di un’identità matura. Infatti l’adattamento si presentava come “una strategia di basso profilo, sommersa, senza differimenti di bisogni ed aspettative, portata avanti da una soggetto debole che in ultima istanza costruisce la sua identità quasi per differenza” (Cipolla, 1989, 19). La capacità di adeguarsi di fronte alle molteplici richieste della società e la rinuncia alla difesa di principi precostituiti rese questa generazione molto più flessibile e adattata alla realtà, ma ebbe come prezzo l’incoerenza, che stava diventando, insieme alla soggettivizzazione dell’etica, uno degli aspetti più caratteristici della cultura giovanile. Il mondo giovanile si frantumò in innumerevoli rivoli e la ricerca di autorealizzazione assunse l’aspetto della ricerca di percorsi individuali di maturazione. Era la complessità ad esigere frantumazione e comportamenti “incoerenti” 19. Essa poi, interiorizzata, divenne condizione esistenziale: segno della flessibilità e dell’adattabilità ai mutamenti richiesti dal contesto, ma anche di debolezza ed insicurezza personale. 3.1.4. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale Accanto alla differenziazione funzionale, che sarebbe alla base della complessificazione della vita, l’affermazione della modernità si è avuto attraverso la sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale, che permette l’incremento della comunicazione di notizie e la possibilità di interagire tra vari soggetti, indipendentemente dal potere politico costituito (Ungaro, 2001, 10-12). Negli anni ’80 si ebbe una accelerazione di tale sviluppo, con la nascita di nuovi mezzi di comunicazione e con la proliferazione degli stessi o di altri, fino ad allora riservati a pochi privilegiati. In quegli anni si ebbe la diffusione delle radio e televisioni private, l’introduzione dei videogiochi e dei primi computer, la comparsa dei primi CD e la diffusione di sistemi digitali e miniaturizzati di lettura/diffusione musicale (CD, cuffiette, lettori compressi) o video. La diffusione di tali mezzi contribuì all’evoluzione di un nuovo tipo di uomo, molto più digitale, dove la realtà virtuale si confondeva e a volte superava quella reale. Al linguaggio 16 "Col termine di società complessa si intende descrivere una realtà composta da tendenze ambivalenti, che risultano tra loro incompatibili e irriducibili; una realtà in cui uno stato di integrazione precaria orienta, ma meglio sarebbe dire costringe a scelte parziali e di medio termine, caratterizzate da scarsa capacità previsiva, e il cui esito sociale appare nel segno della non risolubilità" (Garelli, 1991, 540). 17 - "A livello dei soggetti la complessità assume il carattere di differenziazione sociale. Nel tempo presente gli individui e i gruppi sociali hanno a disposizione possibilità, occasioni, opportunità di scelta e di orientamento, di un livello e di una quantità inimmaginabili nel recente passato" (Garelli, 1991, 540). 18 - "Il principio di differenziazione e di complessificazione dei rapporti sociali così inteso definisce anche il quadro sociale entro cui si opera una radicale trasformazione del rapporto individuo/società. Il principio di individuazione, la possibilità stessa da parte dell'individuo di costruirsi un'immagine di sé ricca di contenuto e fortemente individualizzata, di non essere più assorbito dal gruppo, identificato in esso, sorge solo in un contesto sociale in cui molte e diversificate siano le forze in gioco" (Sciolla 1983, 45). 19 "La contingenza stessa, che per Luhmann è una proprietà dell'ordine temporale degli eventi esterni, diventa, per così dire una proprietà della percezione interna degli eventi, la matrice psicologica di quella sindrome complessa - destrutturazione, sperimentazione, paradigma della reversibilità - che tante ricerche sulla condizione giovanile hanno messo in luce” (Ricolfi Scamuzzi – Sciolla, 1988, 111). 14 concettuale, logico, geometrico del passato (concentrato sulla parte sinistra dell’emisfero cerebrale) si sostituisce, per effetto del rapporto privilegiato con i “media” il linguaggio analogico, simbolico, emotivo, intuitivo, creativo della parte destra. Di conseguenza, anche il tipo di cultura della società, soprattutto delle giovani generazioni, divenne più “visivo”. Si privilegiò un approccio emotivo e concreto alla realtà a scapito di quello analitico, ma freddo e distaccato, della logica scientifica, libresca. Il linguaggio giovanile si modificò, uniformandosi alla logica degli “spot” e dei “flash”. Le parole vennero usate come slogan, atte a colpire più per la loro capacità evocativa, che per il contenuto verbale. La grammatica ed il vocabolario si impoverirono, con preferenza per una comunicazione sintatticamente scorretta, ma efficace sul piano emotivo. Il linguaggio giovanile, in seguito a questi mutamenti, stava discostandosi notevolmente dalla tradizione. L’uso di tali mezzi contribuì ulteriormente al distacco dai valori tradizionali, alla superficialità, al sensazionalismo, al presentismo, alla prevalenza del principio del piacere su quello della realtà. Rispetto alla storia e alla complessità sociale essi hanno operato in termini di “semplificazione, manicheizzazione, attualizzazione” (Cavalli 1985). Da ciò seguì tutta una serie di atteggiamenti e di comportamenti nuovi, primo fra tutti l’enorme importanza attribuita al look (Battellini, 1986, 86). La moda c’era sempre stata, il nuovo era costituito dalla velocità del cambiamento. Il fast-food può costituire il simbolo di quella generazione20. Consumare i fretta, essere sempre sulla cresta dell’onda, essere “in” divennero gli imperativi di quel tempo. Ciò poteva dipendere dai ritmi di una società che andava sempre più di corsa, dai rapporti umani sempre più frettolosi: da qui l’esigenza di comunicare al primo impatto, il proprio modo d’essere, o per lo meno, di voler sembrare, anche la cura dell’estetica in generale, del viso, del corpo, fatta per rispondere a questa logica che privilegiava ciò che si vede (Battellini, 1986, 86-87). Vivere alla ricerca indiscriminata del look, della «politica dello stile», all'inseguimento di un'identità fittizia da reinventare continuamente portava alla frammentazione in diversi stili di vita. Tale uomo poteva considerare il mondo un dato labile, manipolabile. Il suo imperativo era l'autorealizzazione personale, ma il suo cammino si prospettava instabile, fondato come è su scelte pragmatiche, edonistiche e relative. Di qui L'evoluzione dall'etica protestante a stili di vita più tipicamente edonistici, che Bell ha analizzato [Bell 1976], implica quindi una svolta verso valori espressivi, meno legati al dato utilitaristico e più centrati sui bisogni di autorealizzazione. L'avanzata delle classi medie, la terziarizzazione della popolazione attiva, l'aumento del potere d'acquisto e la maggiore dispersione dei redditi nelle categorie socio-professionali (che le rende delle variabili esplicative poco rilevanti) comportano un'evoluzione sociale verso una società in cui sono gli stili di vita a contare sempre più. Il continuo susseguirsi di mode e di stili di consumo favoriva in loro il consolidarsi di una cultura dell’immediatezza. 3.1.5. La scuola La scuola non rappresentò più, negli anni ottanta, un banco di prova e di scontro sociale, come nel decennio precedente. Nonostante alcune manifestazioni di protesta, rigorosamente “apolitiche”, nel complesso la maggior parte degli studenti (4/5) sembrò soddisfatta dell'istruzione ricevuta. La percentuale variava a seconda della percorso scolastico e lavorativo (Cavalli - de Lillo, 1988, 25). Si profilava ormai sempre più la convinzione che la scuola, anche se non obbligatoria oltre i 14 anni, lo fosse nella pratica. Chi la evitava sapeva di precludersi molte opportunità d’inserimento 20 “Il ritmo di vita [é] sempre più frenetico sia in senso materiale che non: la frenesia la si riscontra anche a livello della modalità di consumo, inteso in senso globale del termine: oggetti, mode, culture, soggetti a rapida obsolescenza, connessa a questa logica da fast-food, causata a sua volta dalla sovrabbondanza e quindi inflazione di stimoli e possibilità, diventano meteore in un universo regolato essenzialmente dal principio dell’autogratificazione, del piacere” (Battellini, 1986, 88). 15 sociale e professionale. La condizione di studente divenne un passaggio obbligato dell’essere giovane, un referente ordinario dell’identità giovanile21. Ciò non voleva dire però che la scuola fosse amata: la pretesa di trasmettere il sapere a senso unico, lo sforzo che richiedeva, l'obsolescenza dei metodi didattici, l'incapacità di preparare effettivamente ad affrontare la vita, la professione la rendevano poco attraente. Però il giovane anni ‘80, molto realisticamente, aveva capito che, se la scuola non pagava più, non essere istruiti era oggettivamente un fattore di penalizzazione (Franchi, 1988, 11). Per cui era indispensabile rimanere nella condizione di studente, per approfittare delle opportunità offerte dal sistema scolastico, insieme a quelle offerte dall’extra-scolastico. In effetti in quegli anni ci si trovò di fronte ad un duplice andamento della domanda formativa: da un lato la crescita del numero di coloro che passavano dalla scuola media inferiore alla superiore, dall’altro il calo di chi proseguiva gli studi con l’università22. Apparivano privilegiati gli studi “brevi” finalizzati all’inserimento immediato nel mercato del lavoro (Bobba – Nicoli, 1988, 51). Va però riconosciuto che la scuola si trovava di fronte a problemi enormi, che superavano la sua portata: un mercato del lavoro sostanzialmente bloccato, la mancanza di strumenti adeguati per un effettivo coordinamento tra esperienze scolastiche e sistema occupazionale, compiti impropri di parcheggio della forza-lavoro. Tutto ciò rendeva difficile il rapporto scuola - società. Ecco allora il duplice sentimento di amore-odio che essa suscitava: si avrebbe voluto farne a meno, ma non se poteva. Scomparsa la conflittualità delle generazioni precedenti, c’era stato un ritorno all'impegno scolastico, pur in senso strumentale. “Visto che comunque a scuola bisogna andarci è meglio starci bene” – poteva essere il ragionamento di molti. Infatti la scuola era apprezzata per le possibilità di stabilire buoni rapporti con i compagni; anche con i professori si cercava, per quanto possibile, di stabilire relazioni accettabili (Cavalli - de Lillo, 1988, 26). Accanto a questo modello di adattamento positivo, si registravano quote minori di giovani che vivevano un rapporto conflittuale o fallimentare con la scuola. Erano i cosiddetti "drop-out", che avevano interrotto il loro rapporto con la scuola. Il fenomeno delle uscite dal sistema scolastico si intensificò tra i 15 ed i 18 anni, “in parte da attribuirsi al ritardato completamento del ciclo dell'obbligo o alla frequenza di cicli brevi post-obbligo, in parte a veri e propri abbandoni delle scuole medie superiori” (Cavalli - de Lillo, 1988, 20). A questi andavano aggiunti coloro che avevano subito gli effetti negativi della selezione scolastica. A fronte di un 54% che non aveva subito interruzioni nel ciclo di studi, un 30% aveva avuto percorsi “irregolari” ed un 16% “molto irregolari”. Questi dati risultavano correlati con condizioni sociali e culturali svantaggiate. 3.1.6. L’importanza strategica del tempo libero Lo sviluppo del tempo libero23, ottenuto sia con la riduzione o modifica dei tempi di lavoro, sia con la scolarizzazione prolungata, stava diventando una realtà molto importante negli anni ‘80, tale da far credere imminente il compimento del vaticinio marcusiano di una società senza lavoro. Il tempo libero divenne un tempo strategico, su cui si concentrarono conflitti decisivi per il controllo del potere24, soprattutto attraverso i “media” e l’industria del tempo libero. “Essere giovani e essere studenti sta diventando (e certamente lo diventerà) un sinonimo” (Franchi 1988, 12). Da uno studio del Censis sui flussi di passaggio nei cicli e tra i cicli e di abbandono relativamente all'anno 1987-88, si ricava che “su 100 giovani che partono in prima media, 6 si perdono prima di arrivare alla licenza media, 18 escono con la licenza e 76 si iscrivono alla scuola secondaria. Qui avviene una nuova massiccia selezione, e solo 45 arrivano al diploma. 16 giovani si fermano a questo punto, mentre 29 si iscrivono all'università. Tuttavia, di questi, 19 abbandonano e solamente 10 arrivano alla sospirata meta finale” (Malizia, 1991, ). 23 Non vogliamo in questa sede entrare nel merito della definizione di tempo libero, che è ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi, e che le stesse ricerche IARD non chiariscono. Ricordiamo solo che esso può essere inteso come il tempo non occupato dai tempi sociali, oppure come tempo lasciato libero dal lavoro, o da altri impegni. Ma lo si può anche intendere come il contenitore delle attività, o delle attese, o degli atteggiamenti che si assumono in tale tempo. 24 Secondo Lalive d'Epinay sarebbero stati trasferiti nel tempo libero i rapporti di forza che prima erano agiti nel mondo del lavoro. I conflitti che caratterizzano la società sarebbero giocati “nella pratica delle attività di tempo libero, concepite come pratiche 21 22 16 Le ricerche IARD rilevarono una forte esposizione dei giovani ai mass-media: era l’attività che occupava la maggior parte del loro tempo libero. La parte del leone spettava alla televisione e alla musica, ma il cinema, pur meno frequentato, contava tra i giovani il pubblico migliore. La televisione assumeva sovente una funzione di “intrattenimento”, cioè di passatempo divertente e leggero, contribuendo ad alimentare forme di consumo passivo. Invece la lettura di libri e di quotidiani o riviste divenne prerogativa di pochi (Cavalli - de Lillo, 1988, 130). I giovani di quegli anni cercavano nel tempo libero quella via di autorealizzazione che la scuola ed il lavoro rendevano sempre più precaria e incerta. In una ricerca sul “tempo dei giovani” (Cavalli, 1985) si constatò che quote consistenti di giovani vivevano il tempo libero come momento autentico di autorealizzazione ed autoespressione. Per alcuni il tempo libero era una risorsa da utilizzare per la costruzione di un progetto di cui ci si sentivano artefici e per cui si tentava di utilizzare tutte le opportunità offerte dalla società. Già la ricerca IARD dell’83 aveva rilevato l’importanza di questo settore nelle scelte dei giovani, che veniva subito dopo valori come la famiglia, il lavoro, gli affetti. Erano circa il 90% i giovani per i quali il tempo libero risultava “molto” o “abbastanza importante”, anche se solo il 70% ne era soddisfatto: segno di una certa discrepanza tra aspettative e realtà. Coloro che risultavano più soddisfatti erano quelli che avevano maggiori potenzialità materiali e culturali, che consentivano loro una miglior organizzazione dei propri bisogni. Dove queste potenzialità mancavano, o erano scarse, prevalevano atteggiamenti passivi nei riguardi del tempo libero. Infatti, risultò che, per altri, l’abbondanza di tempo produceva noia, indifferenza, apatia, abulia. Se il tempo fortemente strutturato, con richieste troppo elevate, creava facilmente ansia, il tempo lasciato ampiamente a disposizione dell’individuo rischiava di dare origine alla noia, per lo stress che veniva dal sottoutilizzo delle risorse. Si profilava così la “sindrome di destrutturazione temporale”, “caratterizzata da una forte frammentazione e labilità della memoria storica; da una contrazione dell’orizzonte temporale dei progetti; dall’assenza di criteri stabili di allocazione del tempo quotidiano” (Leccardi, 1987, 10; cfr. anche Cavalli, 1984, 39-40). La conseguenze furono frammentazione del tempo psichico, segmentazione del vissuto individuale, disturbi alla percezione temporale, difficoltà per la soluzione della crisi d’identità. Infatti, l’identità non passava più necessariamente per il lavoro, il successo professionale, ma piuttosto attraverso il tempo libero, che veniva sempre più investito da attese di autorealizzazione. 3.2. Materialismo e postmaterialismo negli anni ‘80 Le tendenze sociali, economiche e politiche emerse a livello nazionale ed internazionale suonarono come una smentita delle previsioni di Inglehart e misero in questione il suo modello interpretativo. In effetti, in quegli anni, accanto ad una crescita della tendenza postmaterialista, si registrarono significativi ritorni, anche nei giovani, a posizioni e valori di tipo materialista, effetto delle precarie condizioni, soprattutto a livello economico. Ma furono soprattutto i successi elettorali delle destre a mettere più profondamente in questione il modello di Inglehart. 3.2.1. L’accentuazione della variabile “cultura” nel modello di Inglehart Inglehart, di fronte alle critiche rivolte al suo modello, non si limitò a registrare le provocazioni, ma rispose con vari articoli che raccolse in un libro: Culture Shift in Advanced Industrial Society (1990). In tale libro egli affermava che il carattere postmaterialista non andava misurato con le fortune politiche del momento, bensì con i valori ed i comportamenti della gente. di consumo culturale” (Lalive d'Epinay, 1980, 87). 17 Osservando i dati delle cross-national surveys25, egli sostenne essere in atto una progressiva, anche se lenta, affermazione del carattere postmaterialista nelle popolazioni dei paesi più evoluti. A conferma di ciò, citava il maggior favore che godeva tra i giovani la permissività sessuale, il controllo delle nascite, l’aumento dei casi di divorzio e la denatalità in tutto l’Occidente. In questo senso andava letta anche la maggior tolleranza e accettazione a livello pubblico dell’omosessualità. Certamente il processo si presentava lungo: bisognava aspettare che la socializzazione compiuta in epoche di prosperità e sicurezza producesse i suoi effetti. Una socializzazione lenta e progressiva, che subiva i contraccolpi delle varie situazioni ambientali. Momenti di crisi economica o politica producevano un aumento del carattere materialista, mentre periodi di tranquillità o sviluppo economico e sociale più facilmente davano luogo a caratteri postmaterialisti. Inoltre, bisognava considerare la possibilità di ridefinizione da parte dei partiti politici, che potevano fare o non fare proprio il programma postmaterialista. Così poteva esserci una nuova destra che favoriva più iniziativa e libertà nelle persone: e ciò si accordava con il carattere postmaterialista. Mentre poteva anche darsi una sinistra che si attardava a difendere l’intervento statale nella produzione ed il controllo sugli individui (come avveniva in quegli anni nell’URSS di Breznev). Succedeva allora che in alcuni paesi, “comunismo” fosse sinonimo di conservatorismo, e “destra” di progresso. Inoltre potevano verificarsi fenomeni di reazione di fronte all’affermazione dei valori postmaterialisti o ad altri fenomeni sociali che minacciavano una comunità. Per esempio, l’aumento di movimenti xenofobici contro gli immigrati rappresentava la reazione di fronte a ciò che sembrava minacciare l’identità nazionale, cioè i valori e le norme introiettati nel periodo della socializzazione. Nell’opera ribadiva ciò che aveva già avanzato come ipotesi nel ’71, che due sono gli elementi fondamentali che permettevano l’affermarsi del carattere postmaterialista: l’abbondanza e sicurezza sociale, la socializzazione. In quest’opera preferì soffermarsi sull’importanza della cultura nella strutturazione della personalità, soprattutto nel periodo “pre-razionale”. Le norme, interiorizzate a quell’età, affermava, risentevano del sistema culturale in cui si era cresciuti. Certe norme tradizionali rispondevano alle esigenze sociali dei tempi e ai bisogni in cui erano state formulate. Tempi in cui si cercava di controllare gli istinti perché non potevano essere soddisfatti altrimenti i bisogni elementari. “Non uccidere”, “non rubare” costituivano norme presenti in quasi tutte le culture e rispondono al bisogno di disciplinare socialmente bisogni di sicurezza e sopravvivenza generalizzati, creando un carattere cooperativo invece che competitivo. Queste norme venivano interiorizzate e funzionavano come un “poliziotto interiore”, più efficace del controllo armato. Ogni nazione aveva elaborato la sua cultura, le sue norme ed i suoi valori, a cui socializzare i suoi membri. Questo aveva determinato il “carattere nazionale”: elemento di assoluta importanza nella valutazione dei mutamenti a lungo termine. A questo punto introdusse una correzione importante alla teoria della “rational choice”, originariamente era basata esclusivamente su variabili economiche. Tale teoria, affermava, non teneva conto dei fattori culturali, i quali si rivelavano importanti nel lungo termine più che quelli economici, utili invece nelle spiegazioni dei mutamenti a breve termine. Ricorrendo alla teoria weberiana dell’importanza della cultura, svolse un’ampia dissertazione dimostrando come il carattere nazionale, rappresentato dalla religione, spiegasse molti fenomeni della modernizzazione e della rivoluzione industriale. Sottolineò come la rivoluzione industriale avvenne prima nei paesi di cultura protestante, poi cattolica e poi di altre religioni (soprattutto confuciana). Tale consequenzialità rimaneva una costante nel tempo (tolta qualche eccezione). Le nazioni a cultura protestante raggiunsero per prime un buon livello di sviluppo economico-capitalista (come già Weber aveva dimostrato): una volta raggiunto un buon livello, il tasso di crescita economica, rallentò, mentre aumentava molto in altri paesi di cultura cattolica (Francia, Italia, Irlanda, ecc.) e confuciana (Giappone, Cina, Corea), che ebbero un tasso di sviluppo notevole negli anni successivi. Ma il livello di partecipazione democratica, di soddisfazione per la vita, di sviluppo dei valori postmaterialisti rimaneva ancora appannaggio dei paesi a tradizione protestante. 25 All’epoca dell’uscita del libro (1990) erano già 40 i paesi che avevano applicato il questionario Inglehart. 18 Da questi dati Inglehart non trasse però la conclusione, come Weber, che fosse la cultura a determinare il tipo di sviluppo economico, bensì che le due cose erano interconnesse e interdipendenti. Anzi, non solo la cultura ma anche la politica. Perciò, cultura, politica ed economia erano, a suo giudizio, interdipendenti. Chiedersi quale fosse la più importante e venisse per prima era come chiedersi se fosse “nato prima l’uovo o la gallina”: non aveva senso, perché tutti e tre i fattori intervenivano nel delineare i tratti di una nazione. Un certo tipo di economia non era possibile se non c’era una cultura ed una politica che ne permettesse e favorisse lo sviluppo, e viceversa. Sviluppo economico, democrazia e carattere postmaterialista erano, per lui, tre aspetti tra loro collegati che si sostenevano a vicenda. Qualora se ne togliesse uno, anche gli altri sarebbero entrati in difficoltà. Se non ci fosse sviluppo economico non si darebbe carattere post-materialista (perché la gente sarebbe ancora preoccupata dei bisogni fondamentali), ma non si darebbe democrazia stabile nemmeno se non ci fosse una cultura adeguata che la sostenesse (ed il postmaterialismo favorirebbe la democrazia). Così pure non si darebbe sviluppo economico se non ci fosse un regime democratico, e così via. Quindi esisterebbe, a suo giudizio, una perfetta interdipendenza tra i tre sistemi. Inglehart concluse facendo notare la continua tendenza verso un’economia postindustriale, una maggior democrazia ed una cultura postmaterialista. Questo sembrava, a suo parere, essere il futuro del mondo, nonostante resistenze, involuzioni, contraddizioni. Queste tendenze andavano colte nel lungo periodo, osservando una grande mole di dati. Sul breve periodo agivano meglio previsioni che tenevano conto delle variabili economiche, che sovente davano origine a preoccupazioni o a senso di sfiducia, che a loro volta influenzavano le scelte elettorali e i valori di riferimento. Questo poteva spiegare, a suo giudizio, il momentaneo successo delle destre o le reazioni xenofobiche o fondamentaliste. 3.2.2. Indicazioni dalle ricerche europee Gli spostamenti valoriali furono colti da varie inchieste del tempo. Tra le più significative vanno annoverate le ricerche al livello europeo26. La ricerca EVSSG dell’81 evidenziò che, in Europa, alcune certezze morali si stavano dissolvendo: solo un quarto degli Europei dimostrava dei principi sicuri che consentivano di distinguere sempre il bene dal male. Molte credenze religiose si erano indebolite, quasi cancellate. Non solo la chiesa, ma anche altre istituzioni pubbliche venivano messe in discussione: i sindacati e la stampa, i parlamenti e le pubbliche amministrazioni, la politica. Reggeva solo la famiglia e il lavoro. Se da una parte alcuni valori tradizionali conservavano la loro importanza, era evidente uno spostamento verso posizioni “postmaterialiste”. Le giovani generazioni non davano più la stessa importanza alle virtù tradizionali che sostituivano con nuove virtù, come l’immaginazione e lo spirito d’indipendenza. Tuttavia le loro posizioni non coincidevano nemmeno con quelle degli “estremisti di sinistra”, che potevano, per certi versi, essere assimilati ai “postmaterialisti” di Inglehart. Solo metà dei giovani approvava una completa libertà sessuale e la convivenza senza essere spostati riguardava una debole minoranza. Certamente l’arrivare vergini al matrimonio era 26 Oltre alle ricerche promosse dalla CEE (Eurobarometro), vanno sottolineate quelle che ebbero luogo per iniziativa della Fondazione “European Value Systems Study Group” (EVSSG), costituita ad Amsterdam nella seconda metà degli anni ’70 con lo scopo di monitorare l’evoluzione del sistema di valori in Europa. Questa fondazione condusse delle inchieste ad intervalli regolari a livello europeo. La prima inchiesta fu condotta nel 1981 in 9 paesi della CEE (+ Irlanda del Nord) ed affidata per la cura del rapporto al prof. Jean Stoetzel. Un approfondimento per l’Italia fu affidato a persone del CENSIS e venne pubblicato a cura di C. Calvaruso e S. Abbruzzese. La seconda inchiesta fu condotta nel 1990 e seguita, per l’Italia, dall’Università di Trento (R. Gubert) che divenne il punto di riferimento per l’EVSSG in Italia. Fu poi ripetuta nel 1999. Un analogo progetto venne studiato al livello mondiale dando origine al World Value Surveys (WVS), coordinato da Inglehart, che coinvolge ormai 70 paesi. In analogia, l’EVSSG divenne più semplicemente EVS (European Value Study). 19 considerato sempre meno importante, tuttavia i tre quarti degli Europei rifiutavano di considerare il matrimonio un’istituzione superata: la fedeltà tra i coniugi era considerata importante ed augurabile. Un’eventualità spesso rifiutata era lo smembramento della famiglia. I dati emersi da questa ricerca indicavano una situazione fluttuante, non omogenea: il sistema di valori che aveva retto l’Europa fino a qualche anno prima sembrava non tener più, ma non appariva ancora all’orizzonte un nuovo sistema di valori, che potesse rimpiazzarlo. Le persone sembravano aderire in parte a valori tradizionali e in parte essere alla ricerca di nuovi. Ciò provocava una frantumazione nelle adesioni valoriali e nei mondi simbolici che poteva dare l’impressione di una crisi dei valori. Pertanto, il bisogno di senso o di significato divenne uno dei valori più avvertiti in questo tempo, anche se non più espresso attraverso l’adesione ad una religione di chiesa, bensì come ricerca individuale e personalissima di un senso e significato alla vita. 3.2.3. I valori dei giovani italiani La sezione italiana della ricerca EVSSG rilevò molte convergenze tra il campione italiano e quello europeo. Le differenze più notevoli riguardavano: lo scarso livello di scolarizzazione; la percentuale di giovani, tra i 18 ed i 24 anni, conviventi con i loro genitori (80%, contro una media europea del 64%); la bassa percentuale di aderenti ad organizzazioni di qualsiasi tipo. Le scelte dei giovani non apparivano molto diverse da quelle del campione adulto, al massimo si segnalavano per un’accentuazione delle tendenze in corso. In particolare, nella sfera religiosa, essi dimostravano maggior relativismo morale, scarsa fiducia nella chiesta cattolica, una minor pratica religiosa. Non ritenevano che il comportamento sessuale dovesse essere sottomesso a delle regole morali indipendenti dalle scelte degli individui. Alla caduta di attenzione nei confronti dell’insegnamento morale della chiesa e alla messa in discussione della sua validità non corrispondeva però un’analoga flessione nella sfera del sacro. Analoghi riscontri erano riscontrabili nella sfera della famiglia. Il 72% era d’accordo sul fatto di amare e rispettare i propri genitori. Se per la maggioranza il matrimonio non era un’istituzione sorpassata, alla riuscita contribuivano la fedeltà, la stima ed il rispetto reciproci, la comprensione e la tolleranza ed, infine, l’accordo sessuale. Assieme al riconoscimento dei valori radicati nell’etica collettiva emergevano i tratti di una nuova moralità: il 78% dei giovani individuava nella fine dell’amore di uno dei coniugi verso l’altro, uno dei motivi sufficienti per chiedere il divorzio. Anche i partiti politici stavano perdendo consenso: il 46% dichiarava di non sentirsi vicino ad alcun partito politico. Ma il 69% affermava che “bisogna migliorare a poco a poco la società con la riforma”. Le istituzioni non godevano in genere di molta fiducia. Quella che ne godeva di più era la polizia (56%), seguita dall’università (52%), e poi dalla chiesa (48%). Poca ne godevano le istituzioni politico-sindacali (28%). Il futuro si preannunciava incerto, ciò produceva contrazione dell’orizzonte temporale, per cui il 64% preferiva “vivere alla giornata”. Nel lavoro era importante la sicurezza del posto e una buona paga, ma molto più importante “svolgere un lavoro interessante”, che servisse a qualcosa e fosse utile alla società, piuttosto che un lavoro “rispettato dalla gente”, “non pesante” o “con lunghe vacanze”. Più in generale il 60% non era d’accordo nel dare, in futuro, meno importanza al lavoro. Per i grandi interrogativi esistenziali, il 41% dei giovani intervistati ammetteva di pensare spesso al senso ed allo scopo della vita, il 41 % dei giovani dichiarava di avere pensato non di rado che la vita non avesse alcun senso. Nonostante tali elementi di incertezza, solitudine e crisi di significato, ben 1’82% si dichiarava “molto” o “abbastanza felice”. Appariva evidente che la famiglia e la professione continuavano ad essere sede di valori sociali e non si riducevano a semplici strumenti di gratificazione personale. In esse si rielaboravano 20 valori nuovi come l’onestà, le buone maniere, il senso di responsabilità e la lealtà, la tolleranza e rispetto per gli altri. Nessuna delle qualità indicate era individualistica, ma tutte rinviavano al sistema sociale nel quale il singolo era inserito. In altri termini, erano tutte qualità relazionali, che trovavano la loro estrinsecazione nel momento in cui l’individuo entrava in rapporto con gli altri (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 172-173). Riemergeva anche in questa ricerca quella dimensione civica della vita associata, già riscontrata qualche anno prima da Ricolfi e Sciolla (1981). Pertanto gli autori registrarono “una profonda ed estesa vocazione civile, che, scavalcando spesso le singole istituzioni, ricoglie la radice di valori collettivi di fondo” (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 176). Insieme a questa riscoperta notarono che non appariva “né una progettualità specifica di mutamento dell’esistente, né un riconoscimento gratuito alle singole istituzioni” (Calvaruso Abbruzzese, 1985, 176). Se la rivolta generazionale, la critica radicale sembravano scomparsi, al loro posto emergeva un rispetto profondo per le idee altrui ed una vocazione sociale, ciò non significava una delega in bianco per nessuna istituzione, la quale, in ogni caso, doveva riconquistarsi la propria legittimità (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 177). 3.2.4. Bisogni materialisti e postmaterialisti nelle indagini IARD La ricerca IARD dell’87 inserì una domanda specifica sui valori materialisti/postmaterialisti impiegando l’indice corto di Inglehart27. Le risposte rivelarono l’influenza dei fattori politico-economici e sociali sui giovani italiani, con un ritorno a valori e bisogni di sicurezza che sembravano superati nel decennio precedente. I ricercatori, infatti, rilevarono “un forte bisogno di ordine e sicurezza economica” (Cavalli - de Lillo, 1988, 83), non controbilanciato da altrettanta attenzione ai valori postmaterialisti. Incrociando ed elaborando le risposte i ricercatori ottennero delle indicazioni importanti, espresse nella seguente tipologia: a) materialisti-autoritari (lotta all’inflazione o alla disoccupazione e mantenimento dell’ordine): 35.2%; b) liberal-materialisti (libertà di parola e lotta all’inflazione o alla disoccupazione): 26.6%; c) materialisti (lotta all’inflazione e alla disoccupazione): 20.8%; d) democratico-materialisti (maggior potere alla gente e lotta all’inflazione o alla disoccupazione): 14.2%; e) postmaterialisti (libertà di parola e maggior potere alla gente): 2.7% (Cavalli - de Lillo, 1988, 83). Da questa analisi appare evidente, oltre alla prevalenza dei valori materialisti ed del bisogno di sicurezza sociale ed economica, la mescolanza di valori post-materialisti con preoccupazioni materialiste, mentre i postmaterialisti “puri” non arrivavano al 3%! Anche un approfondimento su questi dati mediante analisi fattoriale, condotto per proprio conto da Ricolfi, rivelò che “gli items materialisti hanno un impatto sul livello generale di soddisfazione per la vita in generale di oltre cinque volte superiore rispetto a quello degli items postmaterialisti” (Ricolfi, 1990, 501). Proseguendo nella sua analisi, fece osservare come il quadro si presentasse frastagliato e di non facile lettura. Apparivano posizioni contraddittorie all'interno dell’universo culturale giovanile. I giovani italiani risultavano “materialisti sul piano dei valori e dei modelli culturali e postmaterialisti sul piano delle preferenze” (Ricolfi, 1990, 522). Tuttavia, a parziale conferma delle ipotesi di Inglehart, si può far osservare che i valori postmaterialisti erano più presenti tra i ceti più progrediti e in grado di gestire meglio la propria vita (impegno politico e sociale, visione più chiara del futuro), mentre “le componenti materialistiche ed 27 Per un incidente tecnico in quest’edizione della ricerca fu inserito un item in più (“combattere la disoccupazione”) che ottenne un’adesione plebiscitaria (57,6% per il primo posto, 28,8% per il secondo), rendendo difficile la comparazione sia con i dati delle ricerche di Inglehart sia con le altre ricerche IARD. 21 autoritarie si rafforzano in combinazione con quei tratti culturali e di personalità che tendono al fatalismo e al senso di impotenza nel governare il proprio futuro” (Cavalli - de Lillo, 1988, 84). Ciò confermerebbe l’ipotesi che si accede ai valori postmaterialisti solo quando siano stati soddisfatti i bisogni di tipo materiale e che questo si correli con il tipo di cultura interiorizzata nel periodo formativo. 3.3. Emergenza di nuovi bisogni nelle scelte valoriali dei giovani Dai dati analizzati appare una certa contraddittorietà nelle interpretazioni del verso di marcia dei giovani e della società. In particolare il carattere postmaterialista per alcuni sembrava in aumento e per altri in regressione. Forse erano vere entrambe la proposizioni: si sa infatti che una certa ambivalenza è insita nei fatti sociali, soprattutto in tempi di complessità. Nel tentativo di comprendere l’andamento della gioventù in tema di bisogni e valori, possiamo tentare una lettura più accurata di alcuni dati. Dalle ricerche, sia IARD che di altra fonte, emerse la seguente gerarchia valoriale dei giovani negli anni ‘80: a) preminenza dei valori affettivi, relazionali, espressivi; dei sentimenti, del privato (famiglia, amicizia, amore) b) persistenza della tensione autorealizzativa (lavoro, salute, viaggiare, tempo libero, divertimento) c) sempre minor importanza, ma non scomparsa, di alcuni dei valori acquisitivi (carriera, successo, affermazione, stima sociale),. d) poco impegno sociale, politico, religioso; scarsa risonanza di temi quali l'uguaglianza, la giustizia, la solidarietà sociale. Ciò che colpisce è la scarsa rilevanza dell'impegno socio-politico e la preminenza dei valori espressivo-affettivi, soprattutto se posti a confronto con quelli della generazione precedente. Molte delle scelte valoriali degli anni ‘80 non si ponevano però in senso antinomico, bensì palesavano una buona capacità di composizione, frutto del pragmatismo tipico dell’epoca. Ciò permetteva di combinare insieme valori e bisogni in sé molto diversi e ritenuti, in altri tempi, incompatibili. Questa situazione di frammentazione dei comportamenti e dei sistemi di valore all'interno del mondo giovanile rendeva difficile una lettura unitaria e mettevano in crisi i tradizionali modelli di spiegazione causale lineare. Non appariva più un unico fattore capace di spiegare i mutamenti né una cultura giovanile dominante o un carattere prevalente, cui rifarsi. L'identità giovanile si mostrava sostanzialmente frammentata, dispersa: più un miscuglio di culture che una cultura a sé. Anche i comportamenti individuali rivelavano una vocazione all'eclettismo e all'indifferenza. Soprattutto non appariva più un tipo "puro" che aderisse totalmente ad un’area di valore. Si assisteva in quegli anni alla compresenza in uno stesso individuo o gruppo sociale di elementi di espressività e di acquisività, di competitività e di solidarietà, di tradizionalità e di ultramodernità. Così anche i bisogni non apparivano più disposti in forma organica e gerarchica, come Maslow ed Inglehart avevano ipotizzato. Ciò non consentiva però di affermare che essi non apparissero, solo che la combinazione di scale di valore diverse manifestava una diversa coscienza del bisogno. Non erano cambiati i bisogni, era bensì venuta meno la percezione di una priorità nella soddisfazione. Il giovane di quegli, se impossibilitato a soddisfare un bisogno, preferiva cercare un altro modo per placarlo, ed eventualmente cambiava l’ordine d’importanza da attribuire ad un singolo bisogno. I modelli interpretativi prevalenti del momento erano orientati a leggere tali comportamenti come risposte adattive alla complessità emergente e alla sostanziale ingovernabilità dei sistemi. In questo modo, agire strumentale e agire comunicativo non si escludevano, ma si integravano a vicenda. Lo stesso concetto di autorealizzazione, come quello di identità, non scomparvero, ma si 22 adattarono, cercando delle vie di soddisfazione accessibili ai propri mezzi. Ma era soprattutto la ricerca di un “senso” che caratterizzò quell’epoca, come riconobbe un autore: “autorealizzazione è, infatti, la consapevolezza di non volere rinunciare ai propri interessi personali; autorealizzazione è anche l'attribuzione di senso ai rapporti con gli altri e con il mondo quotidiano; autorealizzazione è infine il coinvolgimento verso nuovi obiettivi sociali e civili” (Buzzi, 1986, 74). D’altra parte, come riconosceva un altro, “la ricerca di senso è un comportamento tipico di tutti gli uomini quando attraversano momenti particolarmente densi di difficoltà” (Milanesi, 1982, 4). 3.3.1. La caduta della solidarietà sociale Il distacco dei giovani dalla politica, intesa come militanza o come “dimensione pervasiva che informa di sé tutte le attività e le relazioni umane” (Cavalli - de Lillo, 1984, 85), nel corso degli anni ’80 si fece sempre più evidente. Ciò poteva indicare che le ideologie e la militanza politica non costituivano più una fonte di identificazione e non erano più capaci di mobilitare le masse giovanili. In compenso cresceva l’adesione a temi, come la pace, il disarmo, la scuola, l’ambiente. Su tali temi si registravano improvvise, quanto discontinue ed episodiche, mobilitazioni giovanili, soprattutto studentesche. Ciò poteva indicare il venir meno di un concetto classico di partecipazione politica, intesa come “una forma di agire dotata di un minimo di organizzazione e di continuità” (Cavalli - de Lillo, 1988, 92). La tendenza a mobilitarsi su temi “issue oriented”, poteva invece dare ragione alle ipotesi di Inglehart, che la interpretava come una “democratizzazione” della politica; ma poteva anche confermare l’ipotesi della “strategia dell’evitamento, descritta da Offe a proposito dei Verdi tedeschi” (Ferrarotti, 1986, 15). Lo stesso aumento di partecipazione a forme di volontariato, all’associazionismo e all’aggregazione di base, o ad iniziative localistiche indicava la rottura di solidarietà socialmente consolidate ed il ripiegamento su solidarietà “corte”, immediatamente controllabili, fungibili, e fonti di gratificazione immediata. Il venir meno di un mondo di realtà condivise spezzava le solidarietà faticosamente costruite nel corso delle lotte operaie dell’800 e della prima metà del ‘900. Tutto ciò veniva ricondotto, dalla lettura di alcuni autori, alle logiche della società complessa, che frammentava gli universi simbolici e scomponeva le appartenenze, per cui tutto diventava relativo. Mancando delle "strutture di plausibilità", che rendessero comprensibile il proprio mondo ed evidenti i motivi per cui impegnarsi in esso, ne nascevano movimenti tendenti a supplire a tale mancanza. Ecco allora la frantumazione delle esperienze e dei sistemi di significato. Di qui la "sindrome privatistica" (Ardigò, 1980, 74): mancando un progetto collettivo ci si ritirava nella sfera individuale, privata. Si pensava solo a salvare se stessi, avendo perso ogni prospettiva e speranza di salvare gli altri. Non percependo le mete della società come proprie, si preferiva ripiegarsi su se stessi, sulla sfera privata, rinchiusa nell'orizzonte della quotidianità. Ciò portava a forme di “narcisismo” e di “solipsismo sociale”, che non era autarchia o segregazione, ma “apertura al contesto per singole dosi, senza precedenze sociali, […] morte dello spazio pubblico, […] disincanto e disimpegno” (Cipolla, 1989, 10). “La solidarietà o è posta al servizio di un ideale esterno che la eleva e la purifica, per così dire, o rimane un fatto in fondo narcisistico, di pura gratificazione personale, particolaristico” (Cipolla, 1989, 8). 3.3.2. La crescita dei rapporti interpersonali come domanda di senso La realizzazione di sè, pur non escludendo il riferimento alle grandi mete ideali, era ricercata invece nel confronto e nella comunicazione interpersonale da vivere in piena aderenza alle esigenze 23 offerte dal "quotidiano". Venendo meno le evidenze comuni e condivise, si cercavano sistemi di significato che aiutassero a superare il senso di vuoto, che dessero senso al proprio agire contingente, senza pretese di validità universale. Queste evidenze venivano cercate nel mondo vitale, "regno di evidenze originarie". Ma tra esso ed il sistema sociale non c’era più connessione (Ardigò, 1980, 23). Di conseguenza veniva meno il consenso verso le istituzioni e diventava assai più difficile l'integrazione sociale. Il mondo vitale diventava l'unico produttore di senso ed in esso ci si rifugiava di fronte alla complessità della vita ed alla sua incomprensibilità. Così si cercava "un nuovo senso comune attraverso la festa, la poesia, la musica, anche attraverso aggregazioni informi di masse di spettatori, soggettività ormai emarginate o autoemarginate" (Ardigò, 1980, 57). La strategia adottata dalla maggior parte dei giovani fu quella di valorizzare i rapporti del “mondo vicino”, luogo di evidenze originarie e nei rapporti faccia a faccia, per ricostruire un senso, un rapporto sociale. D’altra parte queste esperienze si rivelavano anche funzionali a ricostruire un’identità altrimenti scomparsa a livello sociale. L’esperienza del gruppo, per esempio, risultava funzionale alla crescita dell’autonomia sociale dell’adolescente. Esso acquisì un ruolo fondamentale nel processo di formazione dell’identità: “luogo di elaborazione di senso” e “mondo vitale”. Esso inoltre soddisfaceva i bisogni di amicizia e amore. L’esperienza di coppia servì alla ragazza anche per negoziare maggior autonomia dalla famiglia e per partecipare più attivamente alla vista sociale esterna. Il fatto, poi, che la famiglia fosse riuscita a adattarsi alle esigenze dei suoi membri (Cavalli - de Lillo, 1988, 110), rendeva possibile sviluppare la propria autonomia senza produrre rotture insanabili e fuoriuscite precoci dalla famiglia. In tal modo si delineavano le tappe della socialità e dei rapporti primari: dalla famiglia al gruppo per concludersi nel rapporto di coppia: “la famiglia sarebbe il luogo della strumentalità materna e dell’espressività paterna, mentre il gruppo assumerebbe la funzione di ambito privilegiato di comunicazione celata agli adulti, libera e capace di superare nella sua concretezza l’astrazione impersonale, concepita come valorizzazione della soggettività, ed infine, la operazione autarchica di coppia porterebbe ad un amore più romantico nella ragazza e più pragmatico nel ragazzo” (Cipolla, 1989, 59). 3.3.3. Ruolo del tempo libero e dei consumi nella definizione dell’identità Diventando sempre più incerte e precarie le possibilità di inserimento professionale, agli adolescenti non rimase che il ruolo di consumatori per sentirsi protagonisti nella società. Il consumo divenne il nuovo mezzo per produrre identità personale e solidarietà sociale, in quanto inaugurava delle distinzioni non più basate sugli status sociali, ma sugli stili di vita. Divenne importante giocare con dei segni, delle immagini, dei significanti culturali, rappresentati sempre più dalle merci. I prodotti vengono semantizzati, per permettere al nuovo consumatore di marcare delle differenze simboliche che costruiscono l'io. La segmentazione dei mercati, la crescente personalizzazione di servizi e prodotti, allargarono il mercato dell'identità, permettendo ad ognuno di costruirsi un'immagine (Dall’Aquila, 2003, 1). Il consumo stava così acquistando un ruolo sociale “ben diverso da quello storico di mera sussistenza, di pura soddisfazione dei bisogni primari o di necessario complemento alla produzione” (Cipolla, 1989, 35). Esso divenne un’espressione di “opzione di valore, di senso, cioè indicatore forte e non occasionale di identità personale” (Cipolla, 1989, 36). In esso “il giovane tenderebbe ad esprimere fino in fondo le proprie vocazioni, a manifestare la propria carica ideale, a mostrare la direzione delle proprie fedi, a suggerire strategie o tattiche di innovazione sociale” (Cipolla, 1989, 57). Ciò spiega il forte investimento economico-culturale sui consumi. Questa sostituzione del tempo di lavoro e delle capacità professionali con il tempo libero e le possibilità di consumo "come sede della identificazione individuale e sociale dell'individuo" 24 (Ancona, 1988, 18), produsse, come esito, un’identità sempre più passiva e dipendente dal consumo: i valori della produzione furono rimpiazzati da quelli del consumo. Tale tipo di identità non poteva farsi progetto, perché “non rinvia al domani, né al ieri, ma all’oggi; [… ] non è dunque tradizione né innovazione, non è bisogno primario, ma neppure post-materialismo […]. È comunicazione visiva, […] è esteticità, attenzione a se stessi, preminenza delle proprie idee e dei propri desideri. Esporsi, vedere, essere visti, aprirsi al mondo attraverso la musica […]. Essi ci indicano una forma della coscienza giovanile sempre più forma” (Cipolla, 1989, 58). Dagli incroci delle inchieste IARD appariva però evidente la diversità nell’approccio ai consumi in relazione al livello culturale: più la famiglia era colta ed il figlio preparato, più questi risultava capace di scegliere consumi culturali o associare attività consumistiche ad attività colte e quindi di cogliere meglio le opportunità a disposizione nel tempo libero. Chi invece non aveva adeguati supporti culturali era più indifeso di fronte al potere persuasivo dei media e delle strutture di consumo (Cavalli - de Lillo, 1988, 124-132). 3.3.4. La domanda di senso come “bisogno religioso”? Di fronte al riemergere della domanda di senso qualcuno si chiese se ciò poteva essere interpretato come segnale di un “bisogno religioso”? L’inchiesta “Oggi credono così” (Milanesi, 1981), distinguendo tra bisogno (o domanda) e risposta, rilevò che: a) Esisteva una domanda esplicita di religione, anche se non maggioritaria. Il “ritorno al sacro” era più sul piano qualitativo che su quello quantitativo. b) Questa domanda religiosa rischiava molto quando cercava i canali entro cui esprimersi: parte di essa si vanificava in una privatizzazione che era funzionale solo ai bisogni di sicurezza e di equilibrio psicologico, mentre soltanto una piccola parte cercava un costante equilibrio tra fede e prassi, tra identità settaria ed integrazione ecclesiale, rischiando anche forme di ghettizzazione, forme di integrismo, o forme di secolarismo (Milanesi, 1981, 361-368). In pratica si riconobbe che la religiosità dei giovani di quella generazione era sottoposta ad una forte spinta verso la soggettivazione e la privatizzazione, da intendersi sia come "psicologizzazione" della religione, cioè come utilizzazione della religione a strumento di soluzione e risposta ai propri problemi psicologici, sia come tendenza al consumo passivo ed individualistico della religione. Il carattere soggettivo era presente però anche in termini di domanda di protagonismo dei giovani nei riguardi della religione. Essa era riconoscibile come una spiccata disponibilità alla riappropriazione del fatto religioso in chiave personale, accompagnata da un certo distanziamento dal modello istituzionale e da una esplicita richiesta di fare esperienza religiosa in aggregazioni vivaci (Mion, 1986, 514). Pertanto il bisogno di senso poteva anche incontrare la risposta religiosa, ma sempre in una prospettiva che riguardava “l’autorealizzazione, l’autoassicurazione (e cioè la capacità di darsi autonomia e sicurezza da soli), l’identità individuale, le proprie esperienze strettamente personali, emotive ed affettive, i rapporti interpersonali immediati” (Milanesi, 1982, 6). La domanda di senso nasceva là dove i bisogni della sfera del privato risultavano minacciati dalle incongruenze del pubblico e perciò come prevalente domanda di liberazione personale, più che collettiva. 3.4. Conclusione: ricerca di senso e di identità in un contesto complesso ed incerto Sintetizzando, si potrebbe dire che la “filosofia” sottesa agli atteggiamenti emersi dalle ricerche sui giovani degli anni ‘80 manifestava: 25 a) una tendenza alla cultura del privato, nel senso della personalizzazione autorealizzatrice del sistema bisogni/interessi/ideali/valori ed una propensione verso la soddisfazione privata di tale sistema; b) una tendenza ad una certa segmentazione del vissuto individuale che si manifestava come frammentazione del tempo psichico (incapacità di riconciliare insieme passato, presente, futuro} e frammentazione del vivere quotidiano, (incapacità di comprendere in modo unitario le diverse esperienze di vita attorno a dei valori fondanti); ciò faceva supporre una difficile integrazione interna dei sistemi di significato che si manifestava come gap tra «bisogni» e «progetti», tra «percezione valoriale» e «condotta operativa», tra «vissuto intenzionale» e «vissuto esperienziale»; c) una tendenza ad un modesto livello di fiducia nella possibilità di realizzare grandi ideali ed una propensione pragmatica, invece, verso progetti di concreto profilo direttamente controllabili dai giovani; ciò non significava assenza di ideali quanto il bisogno e l'esigenza di verificarli nel quotidiano, senza abbandonarsi a grandi e globali progetti di rinnovamento (Bucciarelli, 1988, 164-165). Tali tendenze erano il frutto delle strategie di adattamento ad un società sempre più complessa, “veloce”, indecifrabile. Le tecniche di adattamento indicavano una notevole soggettivizzazione dei processi e degli obiettivi. In tutto questo si manifestava “il passaggio tra un modello antropologico ed etico oggettivo e naturale, giocato sulla assimilazione dei progetti che investono la persona dall'esterno e un modello che tende a fondarsi sulla personale autonomia, legato alla coscienza di sé, la cui forza normativa è espressa dal consenso soggettivo” (Bucciarelli, 1988, 165). Era visibile in tutto ciò un diffuso bisogno di riscattare la propria soggettività, con tendenze pragmatiche e povere di mediazioni (tendenza alla deistituzionalizzazione e alla deideologizzazione). Di qui il contrasto tra una marginalità oggettiva e il tentativo di recupero di una centralità soggettiva attraverso una riduzione intenzionale della complessità. La domanda verso i nuovi valori veniva perciò espressa in termini di realismo: ideali, valori, progetti, aspirazioni, attese di senso risultavano “eventi” segnati da una visione a corto respiro; vi era nei giovani una certa tensione etica, mai disgiunta dalla propria soggettività o dal proprio progetto di “piccolo e concreto profilo”, ma tale tensione era più nutrita di “buon senso” e di un pragmatico narcisismo esistenziale che di scelte ideali o di progettazioni alternative. Si trattava di giovani realisti e disincantati, risucchiati nel quotidiano; con un’esistenza senza chiaroscuri violenti e senza progetti omnicomprensivi. Essendo tutto consegnato alla soggettività ed ad un pragmatismo immanente, era difficile decifrare in tali manovre una precisa linea di manifestazione dei bisogni. Se questa c’era, essa rispondeva più a dinamiche personali, che a strategie comuni e oggettive. Tuttavia nei vari metodi di adattamento molti autori riconobbero il perseguimento di due bisogni essenziali: definire l’identità e dare un senso all’esistenza. Solo che questi bisogni si manifestavano in maniera diversa rispetto al passato. 3.4.1. L’emergenza di un’identità fragile L’identità appariva di gran lunga il bisogno più urgente nel nuovo contesto sociale. Ma era un’identità cercata e definita su indicatori e con processi ben diversi dal passato. Nel passato, infatti, la definizione dell'identità era affidata prevalentemente alle istituzioni, responsabili della socializzazione e dell’educazione. Negli anni della contestazione essa era stata assolta dalle ideologie e dalla mobilitazione politica, che tentava di rendere operativo il progetto sociale. Dalla fine degli anni ‘70 la costruzione dell'identità risentì profondamente del nuovo contesto, caratterizzato da forte complessità culturale e strutturale e segnato da un intenso pluralismo 26 ideologico; era inoltre tramontata la possibilità di governare il processo attraverso agenzie di riferimento e di controllo. I giovani degli anni ’80 considerarono la propria identità come “provvisoria” e continuamente da ricomporre perché esposta ai flussi complessivi dell'esperienza sociale, per questo tendevano a prediligere nei rapporti personali una comunicazione più diretta e privatizzante, il piacere immediato e momentaneo, la sensazione maggiormente espressiva, la crescente coincidenza tra fini collettivi e bisogno individuale di scambio emotivo, la soddisfazione dei desideri che spesso scambiavano per bisogni reali, l'assunzione del relativismo valoriale. Al modello tradizionale d’identità, definito come “forte”, contrapposero un’identità “fragile”: il soggetto perdeva la forza di un’identità innestata su fondamenti sicuri. L'identità “fragile” risultava così più ricca di interrogativi che di punti esclamativi. Tuttavia, chi la viveva, non la percepiva pero come una situazione patologica, che producesse sofferenza; essa era ciò che gli serviva in quel momento e ciò gli bastava. Non era un'identità in crisi, ma un'identità per un tempo di crisi; non un'identità debole nell’accezione dell'incertezza, ma della parzialità e della frammentarietà; non un'identità debole perché disattenta di sé, ma una fragilità dovuta al fatto che la realtà giovanile si presentava spesso come un arcipelago di isole autarchiche, non eccessivamente interessate a giocarsi a fondo nella comunicazione (Bucciarelli, 1988, 166). 3.4.2. Un modo nuovo di ricercare il «senso» della realtà personale e collettiva Anche il bisogno di senso, già fin dalla ricerca europea EVSSG, apparve come uno dei bisogni perseguiti con più insistenza dai giovani anni ’80. Ma anche la domanda e la ricerca di senso risentiva della situazione sociale appena descritta. Dalle ricerche sui giovani intervistati, apparivano prevalenti valori/interessi più di natura autocentrica che allocentrica, con progetti centrati su obiettivi immediati, realistici, quotidiani, particolaristici, familistici con scarso respiro solidarista. Pertanto il senso e significato era cercato più dentro di sé, o nel proprio “mondo vicino”, che nell’“ulteriore”, società o trascendente che fosse. Giovani così realisticamente assennati e pragmatici dal punto di vista esistenziale da diventare individualisti da un punto di vista sociale. La ricerca del “senso” della vita e delle cose, depurata da ogni riferimento ideologico o metafisico, non era più un qualcosa da comprendere, ma da sperimentare e da vivere; l'attenzione si spostava dalla sfera cognitiva alla dimensione esperienziale. Il “senso” non era un dato da scoprire e da accogliere, ma da produrre, momento per momento, nel frammento di vita concesso. Ciò indicava “il passaggio dal tradizionale confronto con i valori, intesi come indicatori del senso oggettivo del reale, alla ricerca di valorizzazioni, come espressioni soggettive di quello che una persona valuta importante per sé” (Bucciarelli, 1988, 167). Tutto ciò poneva problemi sul “peso” che poteva avere un “senso”, i cui riferimenti non andavano oltre il contingente e l’esperienza immediata. Parecchi autori ritenevano che questo bisogno si manifestasse piu con i caratteri dell’assenza che della presenza; che nei giovani di quell’epoca ci fosse una certa vergogna o pudore a rivelare aspirazioni “più alte”. Ciò poteva essere letto come una manifestazione di “vuoto”, un appello indiretto a qualcosa d’altro che non si voleva nemmeno nominare, per non evocare traguardi impossibili. Poteva essere indice sia della lezione appresa dalla disillusione della generazione precedente, sia dell’accentuato pragmatismo di fronte all’insensibilità e immodificabilità del sistema sociale. Ma poteva anche essere visto, dal punto di vista dei bisogni, come segno di una «generazione appagata», “non più «figlia di un benessere desiderato», ma di un «benessere goduto», […] tentata di adagiarsi sui risultati ottenuti (beni strumentali ed espressivi), mortificando il gusto di scoprire e soddisfare nuovi bisogni e valori o cedendo, sulle ali dell’immaginario simbolico, ad una qualità del vivere quotidiano il cui senso è più nella linea dell’artificio effimero che dell’autenticità umana” (Bucciarelli, 1988, 167). 27 4. Gli anni ’90: i giovani in una cultura postmoderna Nel quadro relativamente tranquillo e scontato degli anni ottanta, si inserirono avvenimenti di portata internazionale che sconvolsero gli assetti tradizionali e rimisero in discussione il quadro politico consolidato. Questi hanno preso l’avvio con il sovvertimento politico avvenuto nel blocco sovietico alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90. L’avvenimento più rilevante fu, simbolicamente, la caduta del muro di Berlino (1989), con l’implosione dell’impero sovietico, la sua dissoluzione in tante repubbliche nazionali e, di conseguenza, la frantumazione dell’Est europeo. Tali vicende sconvolsero la storia e cambiarono la geografia politica del pianeta. L’effetto più rilevante, a livello mondiale, fu la caduta del principale baluardo dell’ideologia comunista, la conseguente crisi delle visioni del mondo ispirate a forme di egualitarismo sociale o socialiste, e l’egemonia indiscussa del modello liberista. Anche i partiti legati a quel particolare tipo di pensiero entrarono in crisi, dissolvendosi o rinnovandosi profondamente. 4.1. La politica italiana dopo l’89 Con la caduta del muro di Berlino e gli avvenimenti dell’Est europeo risultò non più così essenziale il baluardo della democrazia eretto dalla DC e dagli altri partiti che dal dopoguerra avevano, con formule diverse, governato l’Italia e assicurato la sua permanenza nell’area occidentale. Così si ritenne che fosse giunto il momento di cambiare. La corruzione che aveva caratterizzato in maniera più marcata l’ultimo decennio divenne l’occasione per dare una spallata al sistema. Attraverso una serie di processi ad amministratori dei partiti di governo, avviata da un pool di giudici di Milano, si diede inizio alla stagione di “Tangentopoli” che raccolse e condensò la voglia di pulizia morale e di onestà dei cittadini, insieme alla volontà di riscossa dei partiti rimasti da sempre all’opposizione. Ciò portò alla progressiva dissoluzione o cambiamento dei vecchi partiti che avevano per cinquant’anni governato l’Italia: DC, PSI, PSDI, PRI, PLI. Nello stesso tempo nuove istanze politiche e nuovi partiti nascevano dalla frantumazione del vecchio quadro politico. Già prima dell’89 in Italia erano emerse forti spinte particolaristiche, con manifestazioni di xenofobia ed esaltazione delle tradizioni locali. La nascita del movimento politico della “Lega Nord”, fornì una base ideologica ed un’organizzazione politica a queste istanze, provenienti soprattutto da ambienti dell’artigianato, proprietà terriera, media e piccola industria delle aree pedemontane e rurali del Nord Italia. Anche l’esperimento politico di “Forza Italia”, promosso da un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, fu in qualche modo una conseguenza del caduta del muro di Berlino. Esso, con alcuni principi del neoliberismo economico, ma soprattutto con un elevato senso di pragmatismo, raccolse parte delle istanze dell’elettorato moderato, rimasto orfano di punti di riferimento dopo la dissoluzione della DC e del PSI. Anche i giovani seguirono, in qualche modo, tali andamenti politici. Secondo lo IARD, nel 1996 si ebbe un’ulteriore polarizzazione delle posizioni giovanili verso gli estremi, e, nelle preferenze elettorali, un consistente spostamento verso destra con propensione per i partiti di nuova fondazione (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 108-109). Soprattutto la Lega Nord, all’inizio, registrò una notevole crescita di consensi tra l’elettorato giovanile. Tuttavia, dagli approfondimenti condotti dallo IARD, non risultò che ciò significasse un aumento del pericolo separatista contro le tendenze universalistiche, tradizionalmente retaggio dei giovani. Anzi apparve chiaro che i giovani italiani, pur interessati alle vicende politiche, reagivano di fronte alla minaccia separatista recuperando il valore della patria, fino ad allora poco considerato. Conseguenza di ciò fu la rivalutazione dell’istanza localista senza perdere il senso di un’appartenenza più vasta. La cosa apparve così 28 chiara che l’estensore, che pur aveva intitolato il capitolo “l’Italia: un puzzle di piccole patrie” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 145), concludeva definendo i giovani “localisti, italiani e cosmopoliti, senza contraddizioni” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 168). 4.2. L’economia Gli avvenimenti a livello nazionale e internazionale ebbero notevoli ripercussioni a livello economico. La caduta del regime sovietico comportò l’oblio delle teorie interventiste dello stato e l’adozione a raggio universale dell’economia di mercato. L’indirizzo neo-liberista dalla Gran Bretagna e dagli Stati si estese a tutta l’Europa, occidentale prima e poi orientale, con non indifferenti problemi a livello sociale. Ma, nonostante l’entusiasmo suscitato da questi avvenimenti e la fiducia incondizionata nelle regole del mercato e nel capitalismo, dopo qualche anno la situazione economica non fu così brillante come ci si era illusi. “L’Occidente, finita la grande contrapposizione [con l’impero sovietico], ha conosciuto una lunga congiuntura negativa, con alti tassi di disoccupazione” (Detragiache, 1996, 107). ). Tutto questo ebbe notevoli ripercussioni anche in Italia. In un primo momento (fine degli anni ’80, inizio anni ’90) la situazione economica sembrò migliorare, ma dopo il ’93 essa cominciò a deteriorarsi e a peggiorare notevolmente. Al grande sforzo per una nuova fase di espansione e sviluppo degli anni ’80, succedette una certa stanchezza, anche per effetto della depressione internazionale. Si notò con preoccupazione che era “entrata in crisi la tensione ad innovare e a fare qualità”; in particolare che si erano “appannate fantasia e creatività” (Malizia, 1997, 10). Anche lo stato non era più in grado di sostenere e pilotare l’espansione economica. Ciò influì sull’andamento dei tassi di disoccupazione. La ricerca IARD del ‘92 aveva registrato, infatti, una bassissima percentuale di giovani in cerca di prima occupazione (3.7%) e il numero più basso da quando erano cominciate le ricerche IARD di giovani in cerca di lavoro (26% sotto i 25 anni, 28.8% sotto i 30). Ma qualche anno dopo (’93) la situazione precipitò nuovamente e le condizioni lavorative peggiorano di molto. La ricerca IARD del ‘96 registrò un debole aumento della ricerca di prima occupazione (5.4%) e uno più marcato di lavoro in genere (33.3% sotto i 25 anni, 36.8% sotto i 30), con un aumento complessivo di 6-7 punti percentuali di giovani con problemi occupazionali. A questo si aggiunse l’aumento delle disuguaglianze territoriali (favorito il Nord-Est, sfavorito il Sud e le Isole), dando luogo a differenti opportunità d’impiego per i giovani, disparità nella qualità del lavoro e nella retribuzione, maggiori discriminazioni per sesso e cultura. Una leggera inversione di rotta si registrò alla fine degli anni ’90 non per effetto del miglioramento del quadro economico, ma per la maggior flessibilità del mercato e la capacità dei giovani di adattarsi alle nuove situazioni. Queste alternanze economiche ebbero effetti anche sulla percezione dei bisogni da parte giovanile. Fino al ‘92, gli andamenti furono in sintonia con le previsioni di Inglehart: diminuiva l’importanza del lavoro nella gerarchia dei valori (cedendo il posto agli affetti), crescevano le attese di autorealizzazione e autonomizzazione, con notevole disponibilità alla flessibilità. Ma dopo il ‘92 le attese rispetto al lavoro si invertirono: aumentavano le domande in merito allo stipendio e al reddito, mentre diminuivano rispetto all’ambiente, ai rapporti, all’autoespressione. Le diverse situazioni sociali e culturali influirono a loro volta nella tipologia delle risposte. I giovani più scolarizzati tendevano ad essere relativamente più soddisfatti del lavoro, lo concepivano più in termini autorealizzativi, ma anche di carriera, mentre i meno scolarizzati mostravano maggior apprezzamento per la dimensione relazionale ma anche per quella retributiva. Pertanto elementi espressivi (o postmaterialisti) si intrecciavano con quelli strumentali (o materialisti) in entrambi i casi, rendendo difficile una lettura lineare dell’evoluzione dei bisogni e dei valori giovanili in merito al lavoro. 29 4.3. La scuola La scuola italiana negli anni novanta registrò da una parte l’accentuazione di fenomeni già emersi negli anni precedenti; dall’altra la comparsa di fenomeni nuovi, alcuni di segno positivo altri negativo. Sul versante positivo si registrò in quegli anni: a) Una sostenuta domanda di formazione e qualificazione: dagli anni Ottanta, infatti si notò “un costante incremento dei tassi di scolarizzazione a livello di scuola secondaria superiore e di immatricolazione all'università” (Besozzi, 1998, 21). Crebbe il tasso di passaggio dalla SSS all'università e aumentarono gli iscritti in valore assoluto. Ad incrementare in qualche misura la domanda di qualificazione contribuì anche la formazione professionale regionale con una prevalenza del settore di attività commerciale e la formazione in azienda. Questo indicava una diffusa e sostenuta domanda di istruzione che, tuttavia, si perdeva lungo il percorso (Besozzi, 1998, 21). b) La domanda di formazione continua: i Rapporti CENSIS e ISFOL registrarono negli ultimi anni del decennio la crescita di un fenomeno nuovo, in decisa controtendenza rispetto alla situazione precedente: lo “sviluppo della domanda di formazione continua e di consumi culturali, indice dello sviluppo di un orientamento verso la formazione per tutta la vita” (Besozzi, 1996, 22). Questa domanda trovò accoglienza soprattutto negli accordi sul lavoro e nelle circolari del ministero del Lavoro, che gettarono le basi per lo sviluppo di strategie in ordine alla rimotivazione, riqualificazione, riconversione degli adulti e all'attivazione delle imprese nella forma di reti interaziendali per la predisposizione di iniziative formative (ISFOL, 1997, 445-446). c) L’asse legislativo e l’impegno di soggetti istituzionali e non. Nella seconda metà degli anni ‘90 furono avviati o conclusi iter legislativi fondamentali per il riordino complessivo del sistema della formazione e per il governo delle varie modalità di transizione tra formazione e mondo del lavoro. La più importante fu senza dubbio la “legge quadro sul riordino dei cicli dell'istruzione” presentata dal ministro Berlinguer nel 1997. In essa si sottolineava la centralità del soggetto in formazione delle differenze interindividuali, valorizzando la personalizzazione dei percorsi, ma in stretto legame con la crescita della società. All'art. 2 (sistema di istruzione e formazione), si faceva riferimento ad un sistema che andasse oltre quello scolastico, includendo anche la formazione professionale e la formazione continua. Il diritto alla formazione si realizzava “attraverso la progressiva espansione dell'offerta di formazione professionale e dell'integrazione tra questa e l'istruzione”. Ne conseguiva la necessità di flessibilità dei percorsi, di un rapporto stretto tra le diverse agenzie formative e non e l'importanza della formazione continua lungo tutto l’arco della vita, all'interno della quale diventavano importanti i crediti formativi acquisiti nel corso di esperienze scolastiche o nell'ambito della formazione professionale, crediti che consentivano di riprendere un percorso formativo interrotto facendoli valere nell'ambito nel quale si intendeva proseguire. La legge sul riordino dei cicli dell'istruzione faceva quindi riferimento ad un sistema formativo allargato (policentrico) ma anche integrato e regolato. Ad un asse legislativo che si rinnovava corrispondeva una mobilitazione di vari soggetti istituzionali e anche non istituzionali, per concorrere a predisporre il cosiddetto "patto formativo" che richiedeva il decentramento istituzionale e l'autonomia decisionale ed amministrativa (Besozzi, 1998, 20-21). d) Il sostegno economico e culturale dell'Europa. L'Europa rappresentò una risorsa fondamentale per la messa a punto e la realizzazione di una riforma globale del sistema della formazione nel nostro paese. Una risorsa prima di tutto culturale, quale interfaccia 30 e ambito globale delle tendenze in atto nei diversi paesi europei e nel contesto internazionale. Ma la Comunità Europea rappresentò anche una risorsa dal punto di vista economico, attraverso l'erogazione di contributi a sostegno delle diverse iniziative e dei progetti che hanno rilevanza per la formazione e istruzione dei giovani, soprattutto a livello regionale (Besozzi, 1998, 21). Gli elementi problematici erano, invece: e) Il ritardo rispetto all'Europa. Malgrado il progressivo aumento della domanda di istruzione e l'innalzamento del numero di licenziati, diplomati e laureati, il nostro paese presentava nel corso degli anni ‘90 gravi ritardi rispetto all’Europa e ai paesi industrializzati per quanto riguarda il livello complessivo di istruzione raggiunto dalla popolazione adulta. Anche sugli altri livelli di scolarità si evidenziava una distanza considerevole. Il confronto con i tassi di formazione e scolarizzazione con le altre nazioni europeee evidenziavano un "deficit" formativo non indifferente, anche se in progressiva riduzione (Besozzi, 1998, 22-23). f) Il basso grado di efficienza ed efficacia del sistema scolastico. Ancora negli anni Novanta, i dati su ripetenze e abbandoni nella scuola media inferiore e superiore e i tassi di abbandono universitario mostravano che l’efficacia e l’efficienza del sistema scolastico italiano non erano obiettivi realizzati. Il quadro della dispersione scolastica si presentava in termini molto problematici, a partire dalla scuola media inferiore dove, ancora negli anni Novanta, su 1.000 ragazzi che iniziavano la prima media, 47 lasciano senza conseguire il titolo di licenza media inferiore (ISFOL, 1997, 266). Ma anche la dispersione nella scuola secondaria superiore e all'università evidenziava le contraddizioni presenti nel sistema: infatti, a fronte di tassi elevati di passaggio dalla scuola media alla scuola secondaria superiore e dalla secondaria superiore all'università si verificava un tasso di caduta elevato che portava a diplomarsi solo circa il 70% degli iscritti 5 anni prima e a laurearsi solo uno studente su tre. Questo faceva sì che ancora negli anni Novanta, l’Italia nel confronto europeo figurasse fra i paesi con il più basso tasso di diplomati. L’anomalia più evidente era evidenziata dalla mancata corrispondenza tra la propensione a prolungare e quindi permanere nel sistema d'istruzione e il corrispondente conseguimento del titolo finale. Un altro fenomeno importante era mostrato dai percorsi discontinui, irregolari e dai rientri in formazione (Besozzi, 1998, 23-24). g) Le disparità territoriali, di genere, di classe sociale. In Italia permanevano all'interno del sistema di istruzione forti disparità in relazione alla classe sociale d'origine, al genere, alla zona geografica. Si trattava di disparità che mostravano una diversa fruizione della formazione e quindi l’esistenza di profonde disuguaglianze che il sistema non era ancora riuscito a fronteggiare. Una specie di "segregazione formativa" in ordine alla forza di attrazione che il sistema esercitava verso canali o indirizzi più deboli o di minor prestigio o consistenza: era il caso per esempio delle femmine che frequentavano quasi solo certi indirizzi di scuola secondaria superiore o della fruizione da parte delle classi sociali basse soprattutto di canali formativi professionalizzanti. La frequenza ai licei e di certe facoltà più prestigiose era ancora appannaggio delle classi sociali medie e alte. Evidente anche la disparità di fruizione e di esiti al Sud e nelle Isole (Besozzi, 1998, 24). h) La domanda di personale qualificato. In Italia si continuò a registrare una forte disparità di situazioni, per cui per esempio era solo la grande industria a richiedere personale altamente istruito. Le piccole imprese tendevano ancora ad assumere personale con basse qualifiche e quindi ad esprimere una domanda di forza-lavoro istruita molto contenuta. Le medie e grandi imprese richiedevano invece personale 31 istruito, ma la loro capacità di assorbimento di giovani con elevata scolarità era limitata sia dagli oneri fiscali sia dalla regolazione istituzionale del mercato del lavoro (Schizzerotto, 1997, 357-8) L'analisi del rapporto tra domanda e offerta di lavoro mostrava pertanto come il mercato del lavoro in Italia investisse in maniera insufficiente nelle risorse umane. 4.4. La cultura post-moderna Le trasformazioni a livello strutturale ebbero notevoli ripercussioni a livello culturale con andamento circolare e interattivo: la cultura risente delle trasformazioni sociali e si adegua; ma è anche vero l’incontrario: la società sceglie il tipo di cultura che le fornisce gli strumenti migliori per interpretare la situazione e adattarsi. Ovviamente, con effetti di feed-back continui, per cui è difficile decidere “cosa influenzi chi”. Ciò risultò particolarmente vero in quegli anni. Le accelerazioni che aveva assunto negli ultimi anni la modernità, assunsero un ritmo così rapido e vorticoso da far pensare di trovarsi in un altro tipo di civiltà, affatto diversa da quella che l’aveva preceduta. Tale mutamento fu etichettato come “postmoderno”. Con tale termine, inventato dall’architettura ma preso a prestito anche dalla filosofia e sociologia, si volle dare un nome alle caratteristiche che andava assumendo la modernità. Anche se il conio del termine risale agli anni ’70, la sua applicazione sociologica su larga scala avvenne proprio in quegli anni, come si può evincere da varie pubblicazioni dell’epoca: segno che solo allora si cominciò prendere coscienza di trovarsi non solo di fronte ad un diverso modo di produrre (postindustriale), o di organizzarsi della società (più complesso), ma anche ad una vera svolta epocale. In realtà è questione dibattuta tra i teorici se si tratti di un mutamento radicale, oppure semplicemente un’accelerazione della modernità. C’è chi pensa che la modernità sia un periodo non ancora concluso, per cui la interpreta come un progetto incompiuto (Habermas), una modernità radicale (Giddens e Luhmann), una modernità esplosa (Touraine)28. Altri invece intendono con il termine “postmodernità” una rottura radicale rispetto al passato. Gli elementi assolutamente nuovi sarebbero: “l’assenza di una descrizione unitaria del mondo, di una razionalità valida per tutti, di un concetto di giustizia condiviso, ma anche la riscoperta dei limiti delle azioni umane, la tolleranza della diversità, il rifiuto di basarsi esclusivamente su valori materialistici” (Ungaro, 2001, 20). Alla forza delle ideologie o delle “grandi narrazioni” che avevano caratterizzato la “modernità”, succederebbe un atteggiamento più rinunciatario e insicuro. E’ di quei tempi “la scoperta che nulla è dato conoscere con certezza, dal momento che tutti i precedenti fondamenti dell’epistemologia si sono rivelati inattendibili; il fatto che la storia è priva di ogni teleologia e che di conseguenza non si può difendere plausibilmente alcuna versione di progresso; e infine la nascita di un nuovo programma sociale e politico in cui assumono crescente importanza le preoccupazione ecologiche e forse i nuovi movimenti sociali in genere” (Giddens, 1994, 53). Prendeva così corpo una forma mentale che metteva radicalmente in dubbio la stessa possibilità di un fondamento non illusorio per le convinzioni che fino ad allora avevano guidato la cultura moderna. Entrò così in dubbio la validità del ragionamento umano29, i valori e le convenzioni sociali e soprattutto l'idea stessa di uomo e di società30. 28 Con tali termini si indica che il progetto illuministico non è stato portato adeguatamente a termine, oppure che è stato talmente estremizzato da comportare più conseguenze dannose del previsto: “libertà che diventa licenza, scienza che si diventa anti-umana, ecc.” (Ungaro, 2001, 16). 29 Il pensiero postmoderno, comprende tutte quelle filosofie e posizioni teoriche che, fin dalla fine del secolo scorso, hanno espresso una forte critica alla ragione, intesa come "capacità progettuale di una soggettività che si dispiega verso un orizzonte di fini di cui ritiene di possedere la chiave" (Villani, 1985, 5-6). Esso reagisce ad un'impostazione classica della razionalità, non riconoscendole più la validità di cui aveva goduto fino ad allora, ponendo con ciò in crisi i fondamenti stessi su cui poggiava, particolarmente quello epistemologico e quello ontologico. Nello stesso tempo rinuncia, per principio, a cercare un proprio fondamento, in quanto ritiene che la ragione umana non sia, di per sé in grado di raggiungere la verità e di trovare un fondamento ad 32 Il tipo di pensiero a cui ci si faceva riferimento era piuttosto quello di Nietszche o di Heidegger, di Gadamer, di Derida, di Lyotard. Sul versante scientifico il “principio di indeterminazione” di Eisenberg diventò la pietra di confronto per tutte le teorie. 4.4.1. I riflessi sociali del pensiero postmoderno La relativizzazione del pensiero classico occidentale e lo scetticismo sui suoi atteggiamenti mentali aveva comportato degli innegabili vantaggi: una maggior flessibilità e differenziazione nella società; il declino delle ideologie totalizzanti; la diminuzione di individui dalla personalità autoritaria e l'accresciuta tolleranza ed accettazione delle "diversità" etniche, sociali e religiose; la tendenza alla parità tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro; l'accresciuta sensibilità verso i diritti di tutti i cittadini, e in particolare delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di handicap); l'indebolimento del formalismo sociale e della deferenza verso l'autorità politica e sociale (Vaccarini, 1990, 121). Però esso rappresentò anche la distruzione di tutto ciò che era collegato al passato più che la effettiva costruzione di una nuova razionalità. Ciò ha voluto dire crisi delle agenzie di socializzazione tradizionali31; egemonia ideologica dell’ "individualismo radicale" e svuotamento di valore del lavoro, dell'amore e del matrimonio, della comunità democratica32. Crisi dei valori e delle concezioni base su cui aveva costruito finora il consenso e le motivazioni all’azione. Insieme ne era venuta la "cultura del narcisismo", ispirata alla rigida dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica; perdita di potere e di funzione sociale dell'intellettuale; perdita di credibilità intellettuale della nozione stessa di soggetto umano, e quindi della possibilità di definire una identità qualsiasi. Crisi di senso e di orientamento generale. La condizione dell’uomo moderno appariva sempre più simile a quella descritta da Berger: un “homeless mind”, una “mente senza fissa dimora”; uno sradicato in patria, errabondo, inquieto, senza un punto fisso, un punto di riferimento sicuro. Questa cultura fu il segno della profonda crisi che stava attraversando la società. una forma di pensiero che non sia ideologica. 30 "L'idea forza della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione ai valori ultimi, fondati sulla capacità dell'uomo di esercitare la ragione per un'opera di chiarificazione, di illuminazione (di qui il nome di illuminismo come tratto qualificante la modernità) nei confronti del mondo e di se stesso. Ora - come hanno puntualizzato, sia pur da angolazioni contrapposte, J. F. Lyotard e J. Habermas -, ciò che definisce l'essenza della condizione postmoderna è proprio la negazione della capacità umana di chiarificazione: questa condizione si impernia sul disconoscimento dei valori ultimi, in grado appunto di chiarire, cioè di fondare, giustificare, legittimare un qualsiasi ordinamento della società (fosse anche rivoluzionario o riformatore), di motivare e orientare comportamenti, di conferire un senso unitario e quindi un'effettiva intelligibilità alla vita umana e alla società" (Vaccarini, 1990, 128-129). 31 "Famiglia e scuola hanno perduto la capacità di trasmettere immagini del mondo, modelli di azione e un senso profondo del legame con gli altri, fattori questi che danno significato, intensità ed autenticità all'esistenza" (Vaccarini, 1990, 121). 32 "R. Bellah chiarisce che la modernità è stata promossa da una concezione, rispettivamente, del lavoro, dell'amore e del matrimonio e della comunità democratica, che è contrassegnata dall'interdipendenza e dalla sintesi tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività. [...] Il risultato di questa integrazione tra sfera privata e sfera sociale è la prospettiva di formare delle personalità dotate di carattere e di capacità autonome e responsabili delle proprie azioni. Ora, l'«io» ribalta la suddetta concezione propria della modernità postulando la dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività, e valorizzando in modo esclusivo la sfera individuale e privata a scapito della sfera sociale e pubblica. Secondo questa ideologia individualistica l'«io» è completamente libero da vincoli, e peculiarmente da vincoli dettati da un fine morale e stabile. La base teorica di questa libertà è l'assunto che non esiste alcun criterio oggettivo di discernimento del vero dal falso, del bene dal male; pertanto sono soltanto i nostri sentimenti a poter fungere da guida morale delle nostre azioni. L'«io» si trova dunque atomizzato, e indotto a scavarsi una nicchia in cui cercare l'auto-espressione e adottare un proprio stile di vita. All'interno di questa nicchia l'«io» è illimitatamente libero; per contro, tutto ciò che è all'esterno di questa nicchia gli è fondamentalmente indifferente. Ma, a ben vedere, l'indifferenza permea l'«io» anche nella sua nicchia privata: infatti la nozione di un «io» assolutamente libero conduce all'esperienza di un «io» assolutamente vuoto. Cioè ad una identità destrutturata e frammentata" (Vaccarini, 1990, 122-123). 33 4.4.2. Postmaterialismo e postmodernità I valori postmaterialisti vennero da vari autori e dallo stesso Inglehart, associati alla nuova cultura. Fu lo stesso autore a trattare la cosa in maniera sistematica nel suo libro: “Modernization and postmodernization. Cultural, economic and political change in 43 societies” (1996), uscito in Italia col titolo “La società postmoderna” (1998). In essa affrontò il rapporto tra “posmaterialismo” e “postmodernizzazione”, affermando che il postmaterialismo è un processo che contribuisce in maniera cospicua alla “postmodernizzazione” e ne definisce contenuti e prospettive. Per dimostrarlo indicò le convergenze tra le sue ricerche sul postmaterialismo e i tratti della società postmoderna. 4.4.2.1. Correlazione tra sviluppo economico e culturale I risultati delle ricerche condotte in 43 paesi, da quelli più avanzati a quelli più arretrati, gli avevano fornito conferme convincenti all’ipotesi materialismo/postmaterialismo. Oltre a registrare una costante aumento del postmaterialismo tra le società avanzate dell’Occidente, in particolare tra i giovani ed i settori più benestanti e colti della popolazione, egli andava scoprendo che i paesi più poveri si trovavano ancora alle prese con i bisogni materiali di sopravvivenza, mentre nei paesi più ricchi il processo di “postmaterializzazione” si andava affermando sempre più, pur con alterne vicende. Il lavoro più interessante fu di accostare i tassi di sviluppo al tipo di cultura. Apparve evidente che, a seconda del livello economico raggiunto, ogni società riproduceva un pattern culturale preciso. Le società che vivevano in un’economia di sussistenza, riproducevano anche una cultura in cui la tradizione aveva un ruolo molto importante, e le norme erano ancorate ad un’autorità trascendente. Mentre le società in via di modernizzazione tendevano ad attribuire molta importanza alla scienza-teconologia, al successo, ad avere un’autorità di tipo razional-secolare, e quindi ad interessarsi di più della politica e a darsi norme che derivavano dal consenso sociale. Infine, le società che avevano superato il livello di sopravvivenza e vivevano nell’abbondanza, tendevano a mutare i loro criteri in base ai nuovi bisogni che la loro condizione evidenziava: meno importanza alla scienza-tecnologia, preferenza per i temi ecologici e per la qualità della vita, depotenziamento dello stato e della burocrazia, più libertà, più fantasia ed autoespressione33. Ma nello stesso tempo continuava il processo di secolarizzazione messo in atto dalla modernizzazione: la riduzione dell’importanza della famiglia, la maggior tolleranza verso il diverso, la parità di diritti tra uomo e donna, ecc. Cioè, il carattere postmaterialista sembrava correlarsi più probabilmente con le tendenze postmoderne che con quelle tipiche della modernità (secondo il modello weberiano). Pertanto, concludeva, “il postmaterialismo costituisce una componente centrale dei valori postmoderni” (Inglehart 1998, 126). 33 “L’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia era stato l’elemento centrale della modernità. Ma le popolazioni di paesi con alte percentuali di postmaterialisti (alla fine del continuum postmoderno) tendono ad avere poca fiducia che i progressi scientifici aiuteranno piuttosto che ledere l’umanità […]; analogamente tendono a mettere in dubbio che assegnare una maggiore importanza alla «tecnologia» sarebbe una buona cosa. Al contrario, le stesse società hanno alti livelli di consenso nei confronti dei movimenti per l’«ecologia». Il fatto che le società informate alla sicurezza tendano a rifiutare la scienza e la tecnologia è il punto principale di allontanamento dalla fiducia fondamentale della modernizzazione - un’altra ragione del perché questa dimensione riflette un cambiamento nella direzione postmoderna” (Inglehart, 1998, 124). “Oltre all’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia, un’altra caratteristica chiave della modernizzazione è stata la tendenza a burocratizzare tutti gli aspetti della vita. Ma i valori postmoderni sono connessi con il declino del consenso per un governo grande: credere che lo Stato (piuttosto che l’individuo) possa assumersi più responsabilità per assicurare che ciascuno «provveda a» («responsabilità dello Stato»), è legato ai valori di sopravvivenza, e non ai valori di benessere; lo stesso accade per la «gestione pubblica/dei dipendenti» piuttosto che per la gestione privata. Il consenso per un governo grande era la componente principale per la modernizzazione. Il fatto che non sia connesso con i valori postmoderni è un’altra indicazione che la postmodernizzazíone rappresenta un fondamentale mutamento di direzione” (Inglehart, 1998, 126). 34 4.4.2.2. Correlazione tra postmaterialismo e postmodernizzazione Sulla postmodernizzazione Inglehart aveva avanzato alcune osservazioni, distinguendo tra aspetti che erano, a suo avviso, accettabili ed altri che non condivideva. a) Riconosceva, con i tanti autori postmoderni, che fosse in atto una “deenfatizzazione” della: i. efficienza economica; ii. autorità burocratica; iii. razionalità strumentale, scientifica. b) Condivideva la richiesta di una società più umana, in cui ci fosse: i. più spazio per l’autonomia personale, per la cultura; ii. maggior tolleranza per la diversità, contro l’uniformità e la gerarchizzazione precedente; iii. maggior spazio per l’autoespressione e l’autoaffermazione; iv. più spazio all’estetica; v. recupero selettivo del passato; vi. ricerca della qualità della vita. c) Condivideva anche una certa critica alle “metanarrazioni” (ideologiche, politiche, religiose), ma rifiutava posizioni estreme come quelle di Lyotard e Braudillard che tendevano ad assolutizzare il ruolo della cultura. Per lui postmodernità voleva dire aumento dell’influenza della cultura sulla vita sociale, ma non riduzione alla sola cultura. La realtà rimaneva con la sua componente oggettiva, non riducibile a solo pensiero. Natura e cultura erano egualmente presenti e solo dal loro rapporto è possibile la vita dell’uomo e della società. Come già aveva sostenuto in un’opera precedente (1990) egli concepiva la società come un’interazione continua tra fattori economici, politici e culturali. Ciò che caratterizzava la società postmoderna era l’importanza che stava acquisendo la dimensione culturale rispetto a quella economica e politica. d) Respingeva anche il radicalismo estremo che negava ogni fondamento sul quale fondare criteri morali universali. Egli invece condivideva con Habermas la convinzione che fosse possibile “una base razionale per la vita collettiva […] quando le relazioni sociali sono organizzate in modo tale che la validità di ogni norma dipende al consenso raggiunto in una comunicazione libera dal dominio” (Inglehart, 1998, 45). e) Come pure rifiutava il pregiudizio anti-occidentale di Derida. Egli sosteneva che, se è vero che la società industriale e moderna è nata in occidente, essa non è solo occidentale. Gli elementi fondamentali della “modernizzazione” sono stati l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la secolarizzazione, la burocratizzazione e una cultura basata sulla burocrazia: “una cultura che richiedeva il passaggio da una status ascritto ad uno status acquisito, da forme diffuse a forme specifiche di autorità, da obbligazioni personalistiche a ruoli impersonali e da leggi particolaristiche a leggi universali” (Inglehart, 1998, 50). Tali aspetti non sono esclusivi della società occidentale. Se hanno preso l’avvio in occidente fu per merito dell’etica protestante che cambiò il sistema di valori: l’accumulazione economica non più osteggiata o tollerata, ma incoraggiata. Tale mutamento culturale aprì la strada al capitalismo e all’industrializzazione. Ma laddove si danno gli stessi mutamenti culturali, come per esempio in Estremo Oriente dove prevale la cultura confuciana, avviene lo stesso processo. E l’industrializzazione è perseguita come una meta desiderabile da tutte le nazioni, indipendentemente dalla loro posizione geografica o culturale. 35 4.4.2.3. Cambio epocale Ciononostante, egli sosteneva di trovarsi di fronte ad un cambiamento culturale senza precedenti. Il cambiamento dalla società moderna a quella postmoderna veniva fatto risalire ai limiti raggiunti dalla società moderna, che egli spiegava con la tesi dell’“utilità marginale decrescente dei profitti economici”. Questa motiverebbe il fatto che, una volta raggiunti certi livelli di vita, non interessa più accumulare ricchezza, ma invece accedere ad una maggior qualità di vita. Quindi, anche per lui, come per Habermas, la società postmoderna si presentava come un “progetto incompiuto”, che richiede di essere rivisto, ma non ripudiato. La postmodernizzazione doveva rappresentare il completamento del processo di modernizzazione, non la sua negazione. Tuttavia i benefici della modernizzazione non andavano dimenticati o sottovalutati, anche se era ormai giunto il momento di cambiare corso, perché essa aveva imposto costi non più necessari: i sacrifici per il successo e l’eccessiva diffusione dell’organizzazione burocratica34. Così ecco emergere nuovi valori e stili di vita, più funzionali alla situazione determinatasi in seguito al raggiungimento di una notevole sicurezza materiale. Ma il “postmaterialismo” implicava il superamento del “materialismo”, ma non il suo rinnegamento: “i postmaterialisti non sono non materialisti, e neppure antimaterialisti. Il termine «postmaterialista» indica un set di fini che sono ritenuti importanti dopo che le persone hanno ottenuto la sicurezza materiale e proprio perché l’hanno ottenuta. […] L’emergere del postmaterialismo non riflette un capovolgimento delle preferenze, ma un mutamento delle priorità: i postmaterialisti non attribuiscono un valore negativo alla sicurezza economica e fisica – la valutano positiva come tutti – ma, diversamente dai materialisti, danno priorità all’autoespressione e alla qualità della vita” (Inglehart 1998, 57). La società postmoderna attribuisce molta più importanza ai problemi della qualità della vita ed esige livelli molto più alti di prestazioni sociali. Le attese sono per un lavoro sicuro, un aumento degli standard di vita, guide illuminate, un governo generoso, un’assistenza sanitaria d’alta qualità, l’armonia razziale, un ambiente pulito, città sane, un lavoro soddisfacente e soddisfazione personale. Questi elementi costituiscono per la società moderna «entitlements», “titoli” o diritti espressi con una convinzione nuova, una maggiore sensibilità che definisce gli atteggiamenti degli occidentali nei confronti delle condizioni sociali, delle istituzioni nazionali e anche del mondo. Sempre più si crede che certe cose sono (o dovrebbero essere) garantite. Non è che la gente non si preoccupi, ma si preoccupa di cose diverse. Questi atteggiamenti sarebbero destinati, sempre a giudizio dell’autore, a diffondersi progressivamente e a diventare patrimonio comune di quote sempre maggiori di popolazione, non solo nelle nazioni occidentali, ma in tutti quegli stati che intendono intraprendere la strada verso la modernizzazione. Perciò il pattern culturale postmoderno e/o postmaterialista starebbe per affermarsi come un modello culturale universale verso cui tutto il mondo sarebbe incamminato. Ovviamente se perduravano le condizioni economiche e politiche. 4.4.3. L’Italia fra tradizione e postmodernità Il problema se ci si trovasse di fronte ad un cambio epocale o solo ad un mutamento di valori venne affrontato anche dalla versione italiana della ricerca europea EVSSG (Gubert, 1992). Si trattava di capire dove stesse andando la società, se verso un riequilibrio dei valori, come sosteneva il coordinatore italiano della ricerca, dopo le accelerazione dei decenni precedenti, oppure verso una nuovo civiltà, dai contorni ancora poco definiti. L’analisi dei valori divenne allora la cartina di tornasole per verificare l’ipotesi più probabile. 34 La loro obsolescenza era decretata da due motivi: “primo, hanno raggiunto i limiti della loro efficienza funzionale; secondo, stanno raggiungendo i limiti della loro accettabilità di massa” (Inglehart, 1998, 48) 36 4.4.3.1. I valori degli italiani Per quanto riguarda i valori della famiglia, della sessualità e della coppia negli anni ’90, si rilevarono comportamenti e valori contraddittori: si era assistito ad un calo di accordo tra le coppie, era aumentata la disponibilità alla libertà nei comportamenti sessuali; ma nel contempo era aumento il consenso al matrimonio come istituzione (auto-fondata sulla relazione), l’amore incondizionato dei figli per i genitori, la soddisfazione per la vita di famiglia. Per i valori del lavoro: era aumento il peso, già elevato, delle motivazioni strumentali, come il guadagno, ma anche le motivazioni di tipo espressivo-comunicativo, specie tra i giovani. Era ulteriormente calata la partecipazione ad associazioni, specie in quelle religiose, sindacali, politiche, di volontariato sociale, ma per alcuni tipi (associazioni culturali, associazioni che si occupano del “Terzo Mondo”) essa era cresciuta. Si voleva che la società assegnasse meno peso al denaro, al lavoro, all’acquisizione di beni materiali a favore, invece, di una maggiore attenzione alla crescita della persona, alla vita di famiglia, alla qualità all’ambiente, ma a livello concreto si dava più importanza a mete di natura economica, anche se cresceva pure la preoccupazione per garantire i diritti di libertà di parola e di partecipazione sociale e politica. Era calata la fiducia nello Stato, nelle sue istituzioni, l’impegno nei partiti e nei sindacati, ma era cresciuto l’interesse e la partecipazione politica. C’era stata una perdita delle posizioni politicamente conservatrici, ma era aumentato di molto il favore per l’autonomia dell’imprenditore e la fiducia nel grande padronato. Era cresciuta la convinzione che dovessero esserci dei criteri validi in ogni circostanza per decidere ciò che è bene e ciò che è male, ma nel contempo era aumentano il permissivismo e l’incertezza di giudizio etico su azioni un tempo ritenute sicuramente immorali. Era aumentata la riflessione sul senso della vita e della morte, l’importanza del riferimento religioso per sé e nell’educazione dei bambini, la pratica religiosa, ma era diminuita l’affiliazione alla chiesa e la credenza nelle “verità”, specie di tipo escatologico, che tradizionalmente avevano fatto da supporto all’esperienza religiosa e che costituivano parte importante del patrimonio di fede cristiano. Era aumentato il senso di soddisfazione per la vita che si conduceva, ci si sentiva meno annoiati e meno soli, meno tesi ed insoddisfatti, era aumentato il senso di fiducia nella gente, ma si era rilevato più desiderio di star lontani da categorie o gruppi che potevano portare disturbo, più desiderio di cambiare la società. 4.4.3.2. Postmaterialismo o riequilibrio? Modernità e tradizione nel caso italiano Di fronte a questi dati Gubert propose alcune riflessioni conclusive. Ponendosi il problema se questi fossero indicatori di progresso o di ritorno al passato, di postmaterialismo o di materialismo, di postmoderno o di pre-moderno, egli suggerì un’altra ipotesi, quella del riequilibrio. Con tale termine intedeva dire che, di fronte all’incertezza se cultura post-materialistica stesse crescendo o si se stessero recuperando i valori tradizionali, si stava delineando un duplice andamento: “aspetti trascurati della tradizione riemergerebbero, ristabilendo così un equilibrio più accettabile tra soddisfacimento di bisogni di tipo prevalentemente materiale ed altri di tipo prevalentemente spirituale, tra una socialità da ‘soci in affari’, come la chiamava F. Toennies, ed una socialità più comunitaria ed attenta alla solidarietà (a cominciare dalla famiglia per arrivare allo Stato ed alle organizzazioni internazionali), tra lo sviluppo della razionalità strumentale e l’attenzione, anche razionale, ai valori, alla dimensione del ‘senso’ della vita e dell’universo” (Gubert, 1992, 571). Egli concludeva, sottolineando come “per alcuni aspetti l'ipotesi del riequilibrio può senz'altro sostituire quella evolutiva, ma a patto che essa non interpreti il riequilibrio come riproposizione tali e quali di 37 elementi della tradizione. E proprio le apparenti contraddizioni mettono in evidenza le diversità rispetto al passato” (Gubert, 1992, 572). Tra le principali contraddizioni rilevò quella della famiglia, dove il recupero era fondato solo (per la gran parte delle persone) “sulla gratificazione derivante dalle relazioni tra i suoi membri” (Gubert, 1992, 572); del lavoro, con la compresenza di motivazioni strumentali e autorealizzative; del modello di sviluppo, con richieste di attenzione alle dimensioni umanistica ed ambientale, ma con modi di intervento diversi dall’azione politica classica: l’individuo “vuole mantenere senza deleghe il controllo della sua quota di potere politico” (Gubert, 1992, 573). Ma era soprattutto nel recupero dei criteri per stabilire ciò che è bene e ciò che è male che appariva un cambiamento di rotta in relazione al passato: l’atteggiamento morale sembrava meno intransigente per i valori materiali e le convenzioni sociali, mentre era assai più esigente quando entravano in gioco le persone, il rispetto per esse (Gubert, 1992, 573). A questo punto egli avanzò ipotesi che, per quanto attiene l’etica, la “transizione postmoderna rappresenti solo un ulteriore sviluppo della modernità” (Gubert, 1992, 574). E che i cambiamenti in atto segnassero, per molti aspetti, un recupero di dimensioni che agli inizi degli anni Ottanta sembravano meno rilevanti (Dio e famiglia). Arrivò così a suggerire di utilizzare il termine “postmaterialista” piuttosto che “postmoderno” per interpretare il momento storico-culturale35, in quanto la tendenza prevalente sembrava indicare un aumento di individualismo e di edonismo, “secondo una dinamica dei bisogni ben illustrata da Maslow” (Gubert, 1992, 575). L’Italia, poi, nel contesto europeo, sembrava caratterizzarsi per una maggior tendenza postmaterialista: maggior peso alla famiglia, alla religione, e valori socio-politici più aperti alla dimensione umanistica. Ma anche per un minor permissivismo etico, per una più forte appartenenza alla Chiesa ed una maggiore fiducia in essa, per una più elevata condivisione di valori di giustizia sociale. Questi, egli notava, erano elementi propri della tradizione, che si mescolavano con elementi nuovi. Per questo avanzava l’ipotesi “che la caratterizzazione dell’Italia rispetto alla media europea derivi dal congiungersi di due fenomeni, il permanere più forte di valori tradizionali e l’emergere di valori secondo una prospettiva post-materialista” (Gubert, 1992, 576). 4.5. Valori e bisogni dei giovani europei Gli elementi riscontrati a livello generale, sia mondiale che italiano, trovano parziale conferma anche nelle analisi giovanili, pur con elementi tipici dell’età, che andranno messi in evidenza. Diamo il via con l’analisi del giovane europeo. L’identikit del giovane europeo “medio” che emerse dalle inchieste dei primi anni ‘9036 dava l’immagine di una generazione tendenzialmente appagata sia sotto il profilo delle relazioni so35 “In un certo senso […] il termine post-moderno sembrerebbe meno adatto del termine post-materialista: questo sottolinea il passaggio dall’accentuazione posta su oggetti e valori di tipo materiale ad altri, ma potrebbe lasciare impregiudicati sia il grado di individualismo, sia quello di edonismo, sia quello di secolarizzazione, in base ai quali si misurerebbe, secondo Thomas e Znaniecki, la modernità in termini socio-culturali. Ed in effetti risulta aumentare l’individualismo, ma neppure l’edonismo sembra conoscere battute d’arresto. […] E’ quindi rischioso ritenere suffragata dai dati l’ipotesi del cambio epocale o dell’esaurimento della spinta culturale della modernità; si è piuttosto di fronte ad un suo sviluppo secondo una dinamica dei bisogni ben illustrata da Maslow, ma nei termini essenziali già nota a psicologi, sociologi ed economisti: la disponibilità di un “bene” in dosi crescenti ne diminuisce l’utilità marginale, diminuisce la desiderabilità di quote aggiuntive e quindi le preferenze si orientano verso “beni” relativamente trascurati. Se a ciò si aggiunge l’altra dinamica, del resto assai simile, per cui allo stesso bisogno si tende a dare risposte con “varianti” sempre più ricche e pregiate, si comprende almeno in parte la crescente attenzione verso la “qualità” relazionale della vita, verso la “qualità” del lavoro, verso la “qualità” dell’ambiente; si comprende come le mete per le quali valga la pena “combattere”, mettendo a rischio la propria integrità ed il proprio benessere, siano sempre meno (o siano inesistenti) e come tali scelte siano riservate esclusivamente al proprio personale convincimento” (Gubert, 1992, 575-576). 36 Nel 1990 la Comunità Economica Europea realizzò un significativo sondaggio sui giovani dai 15 ai 25 anni (Young Europeans in 1990). I dati di questo sondaggio sono stati analizzati da Maurizio Sorcioni (1992), un ricercatore del Censis, e riportati nella rivista “Tuttogiovani Notizie”. Essi sono stati posti a confronto con i dati di qualche anno prima (Young Europeans: 1987) e con le ipotesi di Inglehart. Un’altra significativa ricerca è stata quella EVSSG del ’90, affidata, per la parte italiana, al commento di docenti dell’Università di Trento. 38 ciali (il 75% viveva in famiglia ben oltre i 25 anni) sia per quel che riguarda le condizioni economico-finanziarie. Infatti più dell’80% si dichiarava molto o abbastanza soddisfatto della propria condizione finanziaria e 9 giovani su 10 vivevano una realtà relazionale (amicale e parentale) altrettanto soddisfacente. Confrontandoli con i dati di rilevazioni precedenti appariva sensibile il miglioramento dei livelli di soddisfazione rispetto alle condizioni “materiali” e, soprattutto, una minore variabilità tra gli Stati membri. Tuttavia la realtà era meno idilliaca di quanto appariva a prima vista. Gli inoccupati tra i1525 anni era pari al 7%; 19 giovani europei su 100 vivevano condizioni di difficoltà economicofinanziarie. Il disagio maggiore sembrava però stesse spostandosi verso la sfera valoriale. Si parlava sempre più di un “disagio derivante dall’esperienza della complessità, inteso come profonda sensazione di smarrimento di fronte alla crescente complessità valoriale e sociale delle democrazie europee” (Sorcioni, 1992, 7). In questo senso venivano letti i fenomeni di xenofobia e di radicalismo nazionalista esplosi in Germania, Francia e Italia, che avevano visto giovani come protagonisti37. Quindi il disagio sembrava investire sempre più la sfera immateriale dei valori, dell’identità, della capacità di dare senso alla vita38. D’altro canto la dimensione immateriale del disagio giovanile tendeva a generare nuovi bisogni di sussistenza spostando verso l’alto la soglia minima di soddisfazione materiale attraverso la selezione dei consumi e delle aspettative. Ciò comportava un aumento di domanda di beni di consumo di status, dove i bisogni materiali non erano più causa delle nuove istanze valoriali ma piuttosto l’effetto. 4.5.1. Una cultura postmaterialista ma soprattutto ricombinatoria Il miglioramento delle condizioni materiali rendeva sempre più evidente l’avanzata di più bisogni di tipo postmaterialistico. Il confronto con l’“indice di Inglehart” confermava la tendenza in atto. Prevalevano tra i giovani europei, rispetto alle generazioni precedenti, priorità e bisogni valoriali di tipo post-materialistico e misto. I tassi di scolarizzazione, cresciuti costantemente negli ultimi 15 anni in tutti gli Stati membri, risultavano sistematicamente più elevati tra i giovani che non tra gli adulti. Di conseguenza si manifestava maggiore sensibilità verso istanze e riferimenti valoriali di tipo post-materialistico. Ma quello che colpì in questi anni fu “l’incidenza di bisogni misti39”, che risultò trasversale alle varie classi di età, interessando oltre metà della popolazione comunitaria (cfr. Tab. 1). Tab. 1 - Polarizzazione valoriale nel corpo sociale europeo. Indice Inglehart per classi d’età. Confronto 19871990. Tipologia della priorità valoriali Materialisti Misti Giovani (15-24) ’87 ’90 16 10 60 62 Adulti (+25) ’87 ’90 35 34 52 53 37 “Si tratta di tensioni che esprimono in modo esplicito […] un disagio latente, legato proprio alla difficoltà di vivere dentro quel conflitto sociale della modernità (Darhendorf, 1988) tipico delle società aperte ed in particolare delle democrazie europee. Scriveva Simone Weil, in un articolo comparso su Le Monde all’indomani dell’esito del referendum francese sul trattato di Maastricht, che la perdita di identità evoca l’immagine del precipizio e che spesso dal terrore del vuoto può nascere la rabbia. Ed è verosimile ritenere che proprio la crisi di identità valoriale e sociale costituisca il filo rosso che caratterizza le molteplici forme del radicalismo giovanile” (Sorcioni, 1992, 7). 38 “Ciò che appare ormai chiaro, in buona sostanza, è che i livelli di disagio presenti nel variegato universo giovanile europeo non possano più essere valutati a partire dal grado di soddisfacimento soltanto dei bisogni materiali ma vadano piuttosto riconsiderati a partire dal più vasto universo dei bisogni valoriali: dalle esigenze di autoespressione e qualità della vita fino ai bisogni crescenti di identità” (Sorcioni, 1992, 7). 39 “Rientrano in quest’ultima categoria istanze sociali, esigenze e valori materiali ed immateriali anche opposti tra loro, la cui possibile coesistenza anche in uno stesso individuo tende inevitabilmente a generare gerarchie valoriali instabili, potenzialmente antinomiche e per loro natura in continua trasformazione” (Sorcioni, 1992, 9). 39 Postmaterialisti Totali 24 100 28 100 13 100 13 100 Fonte: Elaborazione su dati C.E., Young Europeans, 1987 e 1990 (Sorcioni 1992, 8). Confluivano nella categoria dei bisogni misti esigenze di autoespressione, individualità e partecipazione insieme ad istanze materiali, quali la difesa della propria posizione socio-economica (occupazione e reddito) o dell’identità territoriale. Coesistevano simultaneamente spinte verso modelli di società aperta e chiusure verso l’esterno (rifiuto dell’immigrazione). “Un crogiuolo di esigenze ed aspettative, tipico dei processi di transizione, entro il quale possono manifestarsi pulsioni integrative e spinte disintegrative, e dove i problemi d’identità possono esprimersi in una logica tanto complessa quanto socialmente dolorosa” (Sorcioni, 1992, 9). Il bisogno di individualità si manifestava come opposizione alla cultura di massa, scomposizione dei principali riferimenti ideologici, rifiuto delle tradizionali forme della partecipazione politica. Superate le logiche di verticalizzazione del conflitto intergenerazionale degli anni ‘70, il rapporto giovani-adulti si era andato orizzontalizzando, con perdita delle gerarchie valoriali. Il che faceva intravedere il vuoto lasciato dalla scomparsa dei vecchi meccanismi di trasmissione dei valori. Di qui le difficoltà delle generazioni adulte e più in generale delle agenzie educative (prima fra tutte la famiglia) ad assumere un ruolo non più autoritario ma autorevole nei confronti delle giovani generazioni 40. Ne conseguiva il carattere misto delle gerarchie valoriali, caratterizzato dalla combinazione di bisogni, comportamenti ed aspettative anche contraddittorie nello stesso individuo. Di conseguenza anche la cultura giovanile appariva tendenzialmente ricombinatoria. Tutti i linguaggi espressivi che interessavano l’arcipelago giovanile si caratterizzavano per un alto tasso di contaminazione (influenze etniche, artistiche, tecniche e comunicazionali). Musica, cinema, tecnologie informatiche e in generale ogni forma espressiva consumata o direttamente prodotta dai giovani europei, assumeva carattere combinatorio e ricombinatorio. 4.5.2. Forme di partecipazione e bisogno d’identità Uno degli scopi dell’indagine riguardava il processo d’integrazione europea tra i giovani. I giovani non manifestavano una esplicita ostilità al processo di unificazione europea (solo 2 giovani su 100 erano negativi) piuttosto non lo consideravano in grado di rispondere alle domande valoriali e di identità che la complessità della società aperta comportava. Questa freddezza al tema dell’integrazione europea contrastava con la forte disponibilità dei giovani verso la lotta al razzismo e gli aiuti al Terzo Mondo. Insieme all’interesse verso le realtà del Terzo Mondo, si notava un’accentuata attenzione alle culture di altri paesi e l’interesse verso la cultura locale. Il tema ambientalista si confermava come uno dei principali argomenti su cui si coagulava l’attenzione dell’universo giovanile. Come pure alta appariva la sensibilità verso i problemi sociali mentre diminuiva l’interesse verso lo sport, lo spettacolo e i movimenti per la pace. Basso appariva l’interesse verso la politica internazionale e nazionale (ed in parte anche verso i tradizionali “movimenti”), bassa l’adesione a partiti politici ed organizzazioni sindacali, oltre alla conferma della scarsa attrattiva per le tradizionali forme di partecipazione politica. Appariva così evidente la frantumazione dei riferimenti politico-valoriali, l’incapacità delle forme tradizionali di fornire risposte alle domande giovanili ed il fallimento dei tradizionali meccanismi di generazione delle identità politiche. 40 “La difficoltà […] di generare nuovi processi di trasmissione valoriale partecipativi (e non solo anti-autoritari) ha finito per produrre una riduzione dell’entropia generazionale. E se la crescita di bisogni ed istanze valoriali di tipo misto all’interno del corpo sociale europeo appare la risultante di una progressiva attrazione della sensibilità collettiva verso quelle esigenze immateriali, di qualità di cui appare portatrice la cultura giovanile, essa è anche il sintomo dell’assenza di quei valori riordinanti di cui invece dovrebbe farsi portatrice la società adulta” (Sorcioni, 1992, 9). 40 In compenso si rivelavano tra i giovani forme di adesione a realtà e valori in antinomia tra loro, dando ragione del sostanziale carattere combinatorio della cultura giovanile. Ciò portava ad escludere forme di radicalismo. Ma era “al centro” che si manifestavano le più forti contraddizioni e tensioni valoriali generate da quella combinazione di esigenze materiali ed immateriali, denominata “dei bisogni misti”. 4.6. Materialismo e postmaterialismo tra i giovani italiani Oltre che dalle ricerche europee, anche da quelle specificamente italiane, giunsero significative indicazioni sull’evoluzione di bisogni e della realtà giovanile. Queste confermarono orientamenti messi in evidenza nella ricerca precedente, dimostrando la sostanziale omogeneità della condizione giovanile tra Italia e resto dell’Europa. Confermarono anche tendenze già emerse nel decennio precedente, portando ad una maggior diffusione e penetrazione di fenomeni già segnalati. Si confermò la propensione a dare la preminenza ai valori-bisogni di ordine affettivo (famiglia, amici, amore), in secondo luogo a quelli di tipo strumentale (lavoro, successo), infine a quelli di tipo ludico-espressivo (gioco, divertimento, sport, tempo libero), e poi di tipo formativoculturale (studio). Mentre valori che riguardavano prevalentemente la sfera sociale e l’impegno per gli altri (impegno sociale, religioso, politico, patria) erano costantemente al fondo della scala delle preferenze: tali valori erano percepiti nella loro importanza solo da un’esigua minoranza. Pertanto, fu l’emergenza dei valori affettivi che caratterizzò quest’epoca a livello giovanile. Quanto ai “valori-realizzazione”, cioè quelli ritenuti importanti per sentirsi realizzati nella vita, i giovani sembravano convenire principalmente su quattro: vivere con onestà; essere colto, sapere molte cose; essere aggiornato su ciò che accade nella società e nella propria città; svolgere una professione di prestigio. Il primo posto in assoluto era occupato dall'onestà della vita, un valore etico, di un'etica segnata da un’adesione a contenuti valoriali laici piuttosto che religiosi, come mostrava anche la rilevanza piuttosto modesta attribuita al testimoniare la propria fede religiosa; si trattava inoltre di un'etica individualista in quanto la partecipazione alla vita sociale otteneva una valutazione media (Malizia, 1997, 13). Un'indagine affermò che “gli anni '90 (...) potrebbero essere caratterizzati dal progressivo deterioramento dei contenuti dei valori, in nome di un criterio d’uso strumentale dei significati, con processi quindi di mercificazione e di consumismo dei valori che li svuotano dei contenuti. In altri termini questa ipotesi ritiene che non vi sia più lo spazio per non condividere i valori generali, ma cresca invece la capacità di adattarli a sé: le conseguenze sono facilmente immaginabili, perché le vie degli egocentrismi si lastricano di buone intenzioni e di apparenti solidarismi” (Scanagatta, 1992, 8). In particolare lo stesso autore fece notare che tra gli anni '80 e '90 il significato del volontariato si era allargato ad attività di tipo edonistico e che nelle motivazioni dell'adesione erano venute in primo piano le ragioni egoisticamente soggettive rispetto a quelle più altruistiche. 4.6.1. Le ricerche IARD Anche le indagini IARD continuarono, negli anni ’9041, a monitorare l’andamento dei valori 41 Le ricerche IARD degli anni ‘90 si segnalarono per l’ampliamento dell’età del campione (fino ai 29 anni) e per l’approfondimento di alcuni ambiti, come le scelte politiche e associative, diventate particolarmente significative dopo i mutamenti della società e della politica italiana in quegli anni. Quella del ‘92 (febbraio-marzo) si svolse su un campione di 2.500 soggetti, scelti con gli stessi criteri delle precedenti. L’innalzamento dell’età fu motivata dall’allungamento della fase giovanile, che tendeva a spostarsi sempre più in alto, anche per effetto delle difficoltà lavorative. Ma la scelta procedeva pure dalla possibilità di seguire le stesse coorti d’età nella loro maturazione. Quella del ‘96 (primavera), il cui campione era stato scelto con gli stessi criteri della precedente, analizzò con particolare attenzione la propensione al rischio tra i giovani, il tempo libero, i consumi e i nuovi orientamenti culturali. 41 in senso materialista/postmaterialista. Come in Europa, anche in Italia prevaleva la tendenza al rimescolamento. Se da una parte l’esigenza di sicurezza economica sembrava saturata, per cui la domanda di combattere l’aumento dei prezzi ottenne un bassissimo consenso, dall’altra la forte domanda di ordine e sicurezza sociale indicava che tale bisogno non era ancora adeguatamente soddisfatto. Nel compenso i due item postmaterialisti mostravano andamenti divergenti: in calo la richiesta di “dare maggior potere alla gente nelle decisioni politiche”, mentre era in netta ascesa la domanda di libertà di parola, che divenne nel ‘96 la risposta più frequente. Per quanto difficile, sembra che sia possibile ricavare dai dati le seguenti indicazioni: a) I valori postmaterialisti si stavano affermando anche tra i giovani italiani, pur con lentezza, incertezze ed involuzioni. b) Permanevano domande diffuse di sicurezza economica e sociale, conseguenza probabilmente della situazione economica e politica del paese. Soprattutto il problema della sicurezza sociale sembrava molto avvertito, senza escludere quello della sicurezza economica (occupazione). c) Dei bisogni postmaterialisti emergeva con molta evidenza quello di libertà, mentre era decisamente in ribasso quello di partecipazione politica. Segno della prevalenza dei bisogni di tipo individualistico, a scapito di quelli solidaristici e collettivi. d) Non era possibile stabilire, dalle risposte fornite dai giovani italiani nel decennio ’90, se si stesse nettamente affermando una cultura postmaterialista. Invece apparivano emergenti domande che riflettevano l’attenzione a bisogni diversi, che potevano essere indistintamente sia di tipo materialista che postmaterialista, a seconda delle esigenze del momento. 4.6.2. I bisogni formativi nelle ricerche sociologiche dell’Università salesiana Negli anni ’90 fu condotta dal gruppo di ricerca dell’Istituto di Sociologia dell’Università salesiana di Roma una serie di ricerche sui “bisogni formativi dei giovani” in varie realtà territoriali, di cui la più importante, per estensione, fu il Veneto, ma non irrilevanti furono quelle in Abruzzo, Sardegna, Lazio, ecc42. Queste ricerche confermarono sostanzialmente dati già emersi nelle altre ricerche, ma con una loro peculiarità. L’obiettivo di tali ricerche era indagare sui “bisogni formativi” in aree deprivate del paese, per “evidenziare il rapporto esistente tra rappresentazione dei bisogni in generale, e formativi in particolare, e specifiche esperienze di vita” (Malizia, 1991, 61). I campi in cui le indagini indagarono furono quelli della vita di relazione (sia tra pari che associativa), del tempo libero, del rapporto con i genitori, della scuola e/o lavoro, dei valori, bisogni e comportamenti, dell’esperienza religiosa e di quella trasgressiva. Infatti, tali ricerche mutuavano un’accezione ampia del concetto di “bisogno formativo”, non circoscrivibile al solo intervento delle agenzie formative e educative, ma aperto ai contributi socializzanti dell’intera società, che costituivano un’occasione di autoformazione per l’adolescente. 4.6.2.1. L’evoluzione verso bisogni sempre più immateriali e misti Anche le ricerche UPS confermarono la tendenza ad una sempre maggiore domanda di attenzione per i bisogni immateriali, accanto ad un rimescolamento della loro struttura. In particolare i giovani veneti dimostravano di aver bisogno soprattutto di: a) relazioni familiari soddisfacenti (domanda di relazioni di tipo affettivo ed emotivo e di libertà e autonomia); 42 Nel Veneto le ricerche furono condotte a varie riprese, ma sempre con lo stesso impianto di fondo: una nelle aree costiere delle province di Venezia, Rovigo e nella Bassa Padovana nel 1991 (Malizia, 1991), un’altra a varie riprese tra il 1992 e il 1995 nel Bellunese (Malizia, 1993), infine una terza a Schio nel 1996 (Malizia, 1997). In Abruzzo rilevante fu quella condotta ad Ortona da Caliman e Pieroni (1998). 42 b) relazioni amicali (aggregazioni spontanee, richieste di amicizia, di scambiare opinioni su argomenti di interesse comune, di fare attività sportive e spontanee); c) di tempo libero e di consumi (sulla strada, in piazza, ai giardini, nei bar, birrerie, pizzerie, discoteche; in letture sbrigative, davanti alla TV o con hobbies e passatempi non impegnativi); d) di istruzione (nella scuola e FP in ordine ad acquisire una maggior professionalità, meno come interesse per la cultura); e) di occupazione e di autorealizzazione (conciliando pragmaticamente aspetti espressivi con quelli strumentali); f) di valori e di significati (gli affetti, il successo nella scuola e lavoro, la grinta per affrontare la vita); g) meno avvertiti quelli di tipo impegno solidale e di trascendenza (Malizia – Frisanco – Pieroni, 1997, 17-23). Questi bisogni risultarono più meno presenti in tutte le realtà territoriali in cui le ricerche si applicarono, pur con delle diverse accentuazioni. Per esempio l’attenzione ai bisogni postmaterialisti emerse soprattutto in aree economicamente più sviluppate (Medio e Basso Veneto), cioè lì dove la domanda di tipo materiale era stata abbondantemente saturata. Invece in aree più arretrate (es. il Bellunese) apparivano più consistenti le richieste di attenzione ai bisogni primari, ma anche significative attenzioni alla cultura e alle trazioni locali. Confermando con ciò, anche nel campione giovanile intercettato, un dato omogeneo con quello delle inchieste EVSSG (Gubert, 1992, 576). Questa lista evidenziò che i bisogni dei giovani di una regione italiana non erano molto diversi, nel complesso, da quelli nazionali e nemmeno da quelli europei, dando ragione di una certa omogeneizzazione dei bisogni e della cultura giovanile, in rapporto al raggiungimento di un certo livello di benessere economico. Inoltre essa indicò che non era più possibile una lettura di tipo gerarchico dei bisogni. Se, infatti, da una parte la tesi di Inglehart appariva sostanzialmente confermata, rivelando l’emergenza di bisogni postmaterialisti, proprio lì dove sono stati meglio saturati quelli materiali, dall’altra appariva evidente che la scala gerarchica di Maslow non aveva valore assoluto. Infatti, si manifestavano significativi ritorni a valori e bisogni di tipo materiale (consumi) o di tipo acquisitivo (sicurezza lavorativa e sociale), o di tipo tradizionale (famiglia, tradizioni locali). Era chiaro il carattere misto di questi bisogni e la cultura combinatoria che vi presiedeva. 4.6.2.2. Contraddizioni e ambivalenze nel concetto di autorealizzazione La contraddizione presente nella struttura valoriale e dei bisogni apparve chiara quando si approfondì il concetto di autorealizzazione sottostante le aspirazioni degli intervistati. Analizzando le risposte del campione più “maturo”, risultò che le loro attese erano in contrasto con i valori che dichiaravano e che le aspettative erano tra loro contraddittorie e irrealizzabili. Essi, infatti, proiettavano sul lavoro gran parte delle attese psicologiche di realizzazione personale: esso comprendeva attese di una buona retribuzione, di possibilità di carriera e di mobilità. “Una professione non qualunque ma ricca di responsabilità e di prestigio, in cui il lavoro, anch'esso vario, non rivesta l'aspetto predominante, ma permetta di partecipare sia alla vita sociale come pure a forme di relax anche dispendiose” (Mion, 1992, 1284). Di conseguenza appariva “una forte domanda di cultura, di incontri sempre nuovi, di esperienze sempre diverse e molteplici, di informazioni-controllo sul proprio territorio” (Mion, 1992, 1284). Già di per sé tali risposte evidenziavano un’immagine di sé idealistica e irrealistica, condizionata probabilmente dai modelli diffusi dai mass-media e dagli stili di vita dominanti. Inoltre, le esigenze ed i valori espressi apparivano nettamente in contrasto tra loro, divisi tra un 43 modello autorealizzativo segnatamente individualista e acquisitivo, e valori solidaristici di chi affermava di credere ancora nonostante le difficoltà, di chi si spendeva nell'impegno sociale per migliorare sé e gli altri, “in contrapposizione ad altri stili emergenti come quelli del «disincanto», dell’apatia, del «rampismo» e del carrierismo” (Mion, 1992, 1284). Ciò non poteva che dar luogo ad una serie di atteggiamenti ambivalenti e forse contraddittori, che conducevano inevitabilmente ad una situazione di disagio. Disagio che si manifestava nel disorientamento percepito, per esempio, rispetto al mondo del lavoro e alle possibilità di impiego. Oppure, che poteva dar luogo a fenomeni disadattanti come la rinuncia ad ogni progettualità e l’indifferenza valoriale, col rischio del “cinismo”. 4.7. Le cause sociali della destrutturazione dei bisogni Il duplice andamento dei bisogni, verso aspettative sempre più alte e verso una sempre maggiore destrutturazione/conflitto tra loro, venne, dai ricercatori, messo in relazione con alcune situazioni determinatesi all’interno della società e che erano riconducibili alla sua evoluzione economico, culturale e organizzativa e alla sua complessificazione. 4.7.1. Una società evoluta, complessa e a-centrica In particolare si sottolineavano gli elementi problematici della società complessa, come l’aumento di componenti sociali e delle loro interconnessioni, l’a-centricità, con effetti di disgregazione sociale e di difficoltà da parte del singolo di conoscenza, scelta e controllo. L’eccedenza di opportunità poteva costituire un ostacolo nei soggetti, incapaci di impiegarle “in modo non acritico ma progettuale in un percorso di crescita” (Malizia, 1991, 31). Dal punto di vista culturale lo sviluppo della complessità rendeva inevitabile la caduta di consenso nei confronti di modelli che rappresentavano un carattere universale e immutabile. La cultura cessava di essere un tutto organico e si trasformava in una “serie di tessere accostate l'una all'altra senza grande coerenza e ordine e secondo modelli tra loro non congruenti, se non contraddittori, soggetti alle mode del momento” (Malizia, 1997, 9). Si creava una “moltiplicazione delle opportunità di informazione e di formazione e parcellizzazione” (Malizia, 1997, 9) che ostacolava ogni tentativo di sintesi. Si instaurava una cultura del frammento, che, se serviva a combattere il dogmatismo del passato, poneva gravi problemi al sistema formativo, privandolo della possibilità di fornire una visione organica per l’elaborazione di un progetto di vita. Anche una “pluralizzazione dei centri” comportava sul “micro” la difficoltà “a trovare un quadro di riferimento unitario, organico, coerente e ordinato nel quale situare la propria vita” (Malizia, 1997, 9). In tale contesto l'autorealizzazione diventava “l'obiettivo prioritario di ogni persona, il valore guida su cui puntare tutto” (Malizia, 1997, 9). L'attuazione delle attese e dei progetti personali appariva come il centro di tutti gli sforzi, mentre il perseguimento delle finalità comuni veniva ricercato “condizionatamente al raggiungimento degli obiettivi individuali” (Malizia, 1997, 9). Si affermavano così, sia a livello individuale che collettivo, l’individualismo, la “caduta della solidarietà collettiva e riflusso nella privatizzazione radicale o nella esasperata ricerca del successo ed autorealizzazione personale” (Malizia, 1991, ). Dall’altra, la provvisorietà e la reversibilità delle scelte, “una legalità ‘appropriativa’ apparentemente pulita, l'appiattimento sul presente e la frammentazione delle concezioni morali” (Malizia, 1997, 10). Le caratteristiche della società complessa e flessibile, che rendeva sempre più precarie e reversibili le scelte, senza un centro organizzatore, sembravano favorire in molti soggetti il disorientamento nella costruzione dell’identità, “mentre la assenza di progettualità e di contenuti 44 tendeva ad essere surrogata dal consumismo” (Malizia, 1991, 30). A rendere inquieto questo quadro, e più plausibile l’ipotesi, si aggingeva la crisi delle istituzioni educative e l’allentamento della loro funzione. Per dei soggetti deboli ciò può equivalere ad una maggior probabilità di disagio e di percorsi a rischio. 4.7.2. Aumento di opportunità come causa del conflitto Il miglioramento delle condizioni generali di vita comportava, da una parte un’evoluzione dei bisogni (e quindi della cultura), con l’evidenziazione di “una struttura dei bisogni sempre più ‘esigente’ e omogenea tra i giovani che chiedono più cose, più opportunità materiali e strutturali ma anche più comunicazione, più partecipazione/appartenenza/identificazione” (Malizia, 1991, 32). Dall’altra, per effetto dell’innalzamento della soglia di bisogni e la moltiplicazione delle opportunità si ipotizzava “un costante conflitto tra valori-bisogni di tipo acquisitivo-realizzativo (la competitività, il successo, il guadagno, la capacità di consumo, la possibilità di status e di potere) e quelli di tipo espressivo-post-materialistico (la spontaneità, la fraternità, l'autenticità dei rapporti interpersonali, la libertà personale, la qualità della vita)” (Malizia, 1991, 31-32). Questo rivelava, a sua volta, un conflitto interno “tra una promessa di opportunità senza limiti (autonomia, autorealizzazione) e la presenza di vincoli molto precisi (sistema scolastico-formativo, mondo del lavoro, struttura delle professioni, processo di omologazione/massificazione dei comportamenti, partecipazione sociale, ecc.)” (Malizia, 1991, 31). Ciò non poteva non rinviare alle antinomie presenti a livello sociale, che si riproducevano all’interno dei singoli. 4.7.3. Perdita dell’orizzonte di senso Uno degli effetti possibili della società complessa e flessibile poteva consistere nella perdita di significato delle scelte fatte: “nella società flessibile esiste il rischio che le scelte manchino di senso perché spesso vengono effettuate nel vuoto sociale, in assenza di punti di riferimento generalmente condivisi che rendano possibile un vera decisione libera” (Maliza, 1991, ). In effetti, La frammentazione strutturale e culturale comportava “la progressiva scomparsa di un quadro omogeneo e generalmente condiviso di significati e valori in grado di rappresentare unitariamente il corpo sociale e quindi la tendenziale ‘soggettivizzazione individualistica’ del comportamento” (Malizia, 1991, ). In accordo con tale assunto, la mancanza di una struttura gerarchica nella scala valoriale e dei bisogni, le contraddizioni nelle attese, l’assenza di progettualità, fu anche letta dai ricercatori, come un indicatore di un bisogno di senso non soddisfatto. Bisogno che appariva particolarmente evidente quando questo veniva negato. La frustrazione di tale bisogno portava a sperimentare il “vuoto esistenziale”, che costituirebbe una patologia tipica della società postmoderna e complessa. Esso si manifesterebbe soprattutto in occasione di condotte a rischio, che evidenzierebbero un disagio non altrimenti spiegabile: le crisi adolescenziali, gli stadi depressivi, le condotte suicidarie. La percezione del disagio per mancanza di senso, se non accolto e soddisfatto, porterebbe a risposte “illogiche” che si manifesterebbero nella ricerca di compensazioni, di felicità nei mezzi anziché nei fini. Queste, sostanzialmente, tenderebbero a manifestarsi “nel potenziamento dei mezzi (il denaro, l'altro, la moda, l'apparenza, il corpo) come fini per il raggiungimento della felicità, e in casi più intensi con l'autodistruzione (il suicidio), ma anche nel desiderio di evasione che si manifesta nella ricerca della droga, dell'alcol, della vita allo sballo, della velocità” (Caliman – Peroni, 1998, 10). Se invece, a giudizio degli autori, riuscisse a lasciarsi guidare dal bisogno di significato come motivazione ultima il soggetto riuscirebbe a dare senso ad altri valori che, messi in una gerarchia 45 costituirebbero il riferimento in base al quale orientare le proprie decisioni. Quando venissero meno questi riferimenti di valore, altri motivi, generati dalla situazione presente, o dai bisogni più urgenti, orientebbero il processo decisionale del soggetto. Ciò indurrebbe a “prese di posizioni, atteggiamenti e scelte guidate dalla sfera degli impulsi, che tendono a motivare le soluzioni indirizzate al momento, e ad appagare i bisogni in base a criteri senza riferimenti più precisi” (Caliman – Pieroni, 1998, 10). 4.7.4. Una visione orizzontale, pragmatica, a forte soggettività Le tendenze alla destrutturazione gerarchica dei bisogni erano individuate anche in una tendenza tipica della gioventù del tempo, definita “orizzontale, pragmatica, a forte soggettività” (Malizia, 1997, 15). La tendenza all’orizzontalità, non era certo una peculiarità esclusiva delle ricerche dell’UPS. Essa era stata rilevata da vari autori già negli anni ’80 e rimarcata dal Censis come caratteristica specifica degli anni ’90, conseguenza, in qualche modo, dell’evoluzione della società ad una sempre maggior complessificazione. Tuttavia poteva essere anche un indicatore della conseguenza dell’evoluzione dei bisogni che comportava una sempre maggior autonomia del giovane rispetto ad istituzioni, passato e mondo adulto, come aveva già fatto rilevare Inglehart fin dagli anni ‘70. Il mondo giovanile sembrava manifestare in quegli anni un sempre maggior distacco dal passato, con perdita di riferimenti verticalizzanti, da quelli ideologici e politici, a quelli “soggettuali, propri della crescita di una frammentazione di comportamenti di consumo, di valori, di stili di vita che ormai non distingue più, bensì accomuna trasversalmente gli individui e i gruppi, secondo logiche labili e provvisorie” (Censis, 1992, 6). Se ciò permetteva di registrare la riduzione/estinzione del conflitto tra generazioni ed una certa omogeneità dei riferimenti valoriali tra mondo giovanile e mondo adulto, poteva dare luogo anche a “patologie”, riconducibili sostanzialmente alla contrazione dell’orizzonte temporale. Ciò portava alla soggettivizzazione del bisogno e al tentativo di rispondere con micro-adattamenti che risultavano funzionali alle esigenze del momento ma non ala costruzione della personalità e a far fronte alle esigenze future. Questo poteva spiegare lo “spostamento verso bisogni e priorità valoriali essenzialmente postmaterialistici, verso cioè esigenze di autoespressione, di qualità e di individualità” (Censis, 1992, 8). Ma metteva seriamente in crisi i processi di costruzione dell’identità, non più “fattore collettivo” di una classe o generazione, bensì “elemento privato”, da conseguirsi con micro-aggiustamenti nel proprio privato o nel mondo vicino. Ma, se l’identità ha bisogno del conflitto, perché essa si gioca contemporaneamente su due piani, su quello della “contrapposizione e su quello dell’identificazione” (Censis, 1992, 7), la mancanza di conflitto, indicava una pericolosa deriva, portatrice di patologia o disagio. La scelta dell’evitamento del conflitto o di ridurlo entro un ambito ristretto non fungeva da fattore di prevenzione del disagio, bensì da detonatore. Il Censis individuò proprio nell’ambito delle relazioni intersoggettive, delle interazioni quotidiane e di familiarità il probabile ambito produttore di parte del disagio. Se infatti queste rappresentavano “il recinto entro il quale i giovani ritrovano stabilità ed identità, in cui le loro azioni e la loro comunicazione acquista immediata riconoscibilità, viene da chiedersi quale effetto produca quando dentro tale recinto siano presenti anche fattori patogeni” (Censis, 1992, 9). Esso individuava i fattori patogeni in alcuni comportamenti molto diffusi tra i giovani italiani: a) la rilevante tendenza da esasperare le relazioni amicali anche nella sfera del “loisir”; b) una forte resistenza a pensare il futuro; c) l’abbandono del conflitto intergenerazionale nel contesto familiare, che si traduce nella ricerca di accordi piuttosto che nel confronto sui valori; d) presenza di tendenze xenofobe; 46 e) marginale incidenza di patologie devianti (Censis, 1992, 10). 4.8. Elementi caratteristici della gioventù degli anni ‘90 Le indicazioni emerse nelle ricerche sui bisogni giovanili vengono confortate anche dai dati forniti dalle varie ricerche sulla condizione giovanile, nel corso del decennio funzionano da conferma di tale diagnosi ed indicatore di bisogni traditi e di situazione potenzialmente devianti. 4.8.1.1. La famiglia “negoziale” Come già annunziato, la famiglia negli anni ’90 non fu più caratterizzata da una conflittualità aperta come anni prima. Il clima familiare appariva abbastanza aperto, dialogico, sereno e costruttivo (Cavalli - de Lillo, 1993, 211-214). Non che mancassero prescrizioni da parte dei genitori nei confronti dei figli, ma erano relativamente poche e non particolarmente gravose. Le richieste-bisogno dei figli nei confronti dei genitori si orientavano non tanto verso la domanda di autonomia e libertà, quanto nella direzione dell’instaurazione di relazioni amichevoli e affettuose in un clima di dialogo e di comprensione. In questo clima la trasmissione dei valori da parte dei genitori si orientava sempre più al ribasso; pare che, pur di conservare un clima sereno, i genitori rinunciassero a stimolare i loro figli verso una cultura etica più impegnativa della responsabilità solidale e della legalità (Malizia, 1996, 11). Questo clima a-conflittuale e amichevole favorì la permanenza dei giovani in famiglia, dando luogo ad un fenomeno tutto italiano: “il prolungamento della fase giovanile”. Se, da una parte, esso poteva essere attribuito alle difficoltà lavorative e abitative, al prolungamento della scolarità e alle incertezze per il futuro, dall’altra indicava evidenti ritardi nell’assunzione di responsabilità e di maturazione della personalità, di definizione dell’identità. Nella ricerca IARD del ‘92 lo si attribuiva, infatti, alla “sindrome di Peter Pan” (rifiuto di crescere, di assumersi responsabilità adulte e di distaccarsi dalla comodità e dai vantaggi d’essere adolescenti). Un’altra motivazione è stata rintracciata anche nelle caratteristiche culturali del nostro popolo: il “mammismo” o il “familismo”. Certamente, di fronte alle incognite di una società che non forniva certezze, la famiglia restava il “luogo degli affetti e delle relazioni primarie, rifugio e fonte di sicurezza” (Buzzi - Cavalli – de Lillo, 1997, 344). 4.8.1.2. Preminenza dei valori affettivi L’indagine IARD registrò nel ‘92 lo scavalcamento del valore amore-amicizia su quello del lavoro: indice dell’importanza sempre più strategica che stavano assumendo valori affettivi nella vita dei giovani. Nel contempo calava l’interesse e la disponibilità per l’impegno pubblico, necessario per garantire quei diritti e quelle condizioni sempre più esigiti come “titoli” dalla persona moderna. Da ciò emergeva “un quadro complessivo dei modi con i quali le nuove generazioni paiono costruire la propria vita decisamente orientato verso il sé ed il privato. Si cerca anzitutto la soddisfazione sul piano delle relazioni, siano essi parentali, amicali o d’amore e si chiede tutela dei propri diritti di cittadino e di lavoratore. Solo dopo sembra si possa cominciare a dedicarsi alla dimensione collettiva (solidarietà ed eguaglianza) ed infine al soddisfacimento dei vari interessi relativi a tempo libero e alla cultura” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 348). 47 4.8.1.3. Espansione del tempo libero e di consumi Negli anni ‘90 aumentò ancora l’importanza al tempo libero, con crescita della componente ludica (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 357), dimostrando così di essere l’ambito privilegiato della socializzazione, identificazione e autorealizzazione giovanile. Erano proprio i “luoghi neutri” i posti di ritrovo preferiti per il consumo del tempo libero. Luoghi dove non c’erano pretese di insegnare niente a nessuno, dove l’approccio alla cultura si attuava con le stesse modalità degli altri beni: tutto a disposizione senza nessuna pretesa gerarchica o prescrittiva. D’altra parte però, accanto all’ambizione di democratizzare tutti i rapporti e la stessa trasmissione della cultura, apparvero evidenti contraddizioni: la differenziazione fu praticata prevalentemente all’interno di un terreno che si pretendeva “neutro” e che in realtà divenne il spazio privilegiato di scontro e di affermazione di sé, secondo quanto già vaticinato da Lalive d’Epinay. Infatti il tempo libero divenne l’ambito dove maggiormente sancire la differenza, attraverso la disomogeneità nell’accesso ai consumi, che rendevano conto “dell’origine sociale, del grado d’istruzione, della differenza di genere, del tipo di offerta culturale presente nelle diverse aree regionali e nei comuni a seconda della loro ampiezza” (Buzzi – Cavalli – de Lillo, 1997, 357). Così l’affermazione di sé non si giocava più sulle competenze, sul livello culturale, sulla professione, bensì sull’accessibilità ai consumi. Con ciò scatenando la corsa ad essere sempre più “in” e la paura di rimanere “out”, di non essere socialmente accettati e considerati. Si ingeneravano pericolose spirali che portavano facilmente alla lotta con ogni mezzo per evitare l’esclusione, per essere sempre più visibili ed affermati. Così le manifestazioni dell’ “eccessivo” divennero gli indicatori di visibilità sociale e fattori d’identità. Esse però costituivano anche sintomi del profondo disagio che pervadeva quest’epoca e fattori di rischio. Infatti, essendo destituito di valore ogni riferimento etico ed essendo giocato tutto sulla visibilità sociale, qualsiasi azione poteva essere legittimata dal bisogno di “apparire”. Chi non aveva con mezzi per farlo, era legittimato ad usare quelli illeciti: quello che contava era il risultato. Dando così il via a pericolose forme di devianza. Tali forme si coagularono, a detta degli esperti, in alcune “arene” dove avveniva prevalentemente la rappresentazione di sé da parte dei giovani e dove esplodevano più facilmente i conflitti: lo stadio e la discoteca. Tali “arene” avevano il pregio di costituire dei luoghi circoscritti in cui praticare una trasgressione controllata, nello spazio e nel tempo, attraverso soprattutto l’assunzione occasionale di droghe o le manifestazioni di violenza, soprattutto di tipo xenofobico (Censis, 1992, 40). Tali manifestazioni potevano sembrare “strategie di comprensione e di adattamento volte a favorire il proprio percorso di integrazione sociale e di autoaffermazione” (Censis, 1992, 39), ma anche significative scorciatoie per la riduzione e semplificazione della complessità. Palcoscenici per esibire se stessi, ma anche per esprimere le proprie pulsioni emotive inespresse. Luoghi di elaborazione di senso e d’identità collettive, ma anche segnali di una coscienza sociale indebolita: “La propensione all’eccesso appare incoraggiata […] da un rilassamento della coscienza morale – orientata ad una definizione marcatamente soggettiva, delle stesse categorie del lecito e dell’illecito – e da una elasticità di atteggiamento nei confronti della trasgressione che porta a confinare facilmente dalla tolleranza all’indulgenza, fino alla complicità” (Censis, 1992, 40-41). 4.8.1.4. Perdita d’incidenza formativa della scuola Mentre cresceva il ruolo dei mass-media e dei rapporti informali nella socializzazione giovanile, diminuiva in pari misura quello della scuola, la quale non riusciva più ad influire sulle scelte e sulla struttura valoriale degli allievi (o, forse, non si poneva nemmeno più il problema). Di fatto, si accentuarono, negli anni ‘90 caratteristiche già emerse negli anni ’80. Se l’esperienza scolastica conservava un ruolo centrale nella vita dei giovani, era più per le sue caratteristiche socializzanti che educative. Infatti erano le possibilità di rapporto tra i pari e d’acquisizione di una 48 cultura generica, che venivano più apprezzate dagli allievi, mentre l'apprendimento di capacità professionali era considerato insufficiente. Meno del 10% dimostrava molta fiducia negli insegnanti, e la percentuale di coloro che ne avevano poca non superava il 30%. I dati erano anche significativi sul livello di dispersione scolastica, in particolare nel biennio e nell’istruzione tecnico-professionale: segnali del malessere diffuso e dell'inefficienza sul piano qualitativo dei processi e dei contenuti dell'offerta di istruzione (Censis, 1995). 4.8.1.5. Il riferimento religioso Anche la religiosità sembrava obbedire alle dinamiche di orizzontalizzazione, con una tendenza alla soggettivizzazione dell'esperienza religiosa, privatizzazione della fede, perdita di relazione con le gerarchie. Ciò appariva sia dai comportamenti, soprattutto in materia sessuale ed elettorale, distanti dagli appelli dell’autorità religiosa, ma anche con significative prese di distanza dal punto di vista dottrinale su punti qualificanti la religione ufficiale43 . Emergevano certamente elementi positivi, come l’esigenza di una religiosità più autentica, che andasse alla ricerca delle motivazioni personali per credere e che si esprimeva con una preghiera più personale o di piccolo gruppo (Mion 1991). Oppure con la riscoperta del carisma, la ricerca di una religione dell'esperienza a forte accentuazione emotiva e comunitaria, la tensione nei confronti di un'integrità spirituale da salvaguardare. Tali forme religiose sembra rispondessero a bisogni di sicurezza di fronte alle molteplici precarietà e incertezze della vita moderna. Senza che ciò comportasse un ricompattamento nella Chiesa, anche se c’era maggior simpatia verso di essa (e verso il Papa), soprattutto quando sembrava perdente. Ma l’etica si stava autonomizzando in rapporto alla religione. D'altra parte, chi aderiva al Cristianesimo, sia nel senso di una forte riaffermazione di identità, sia nel senso di un rinnovato impegno missionario e di adattamento alle prospettive della nuova modernità, dimostrava una capacità di scelta molto più alta che nel passato e trovava sovente in esso delle risposte ai suoi bisogni (Mion, 1995, 46). 4.9. Conclusioni Negli anni ’90 apparve radicalizzarsi il processo già emerso negli anni ’80, cioè, da un parte della crescita dei bisogni e dei valori verso sfere sempre più immateriali, dando sostanzialmente ragione alle tesi di Inglehart, dall’altra al tendenza all’abbandono di tale gerarchia, rivelando la sua debolezza strutturale. Infatti vennero confermate le tendenza alla contingenza e la precarietà giovanile nelle scelte e negli orientamenti di valori, in correlazione con i mutamenti delle situazioni generali della società. Per cui i comportamenti giovanili apparivano sempre più come un tentativo di adattamento ad una società sostanzialmente incomprensibile e imprevedibile, certamente complessa. Ciò spiegherebbe la continua alternanza nelle preferenze valoriale e nelle indicazioni dei bisogni e la presenza del fenomeno dei “bisogni misti”: la nascita di un carattere postmaterialista veniva da Inglehart messo in relazione con un tipo di sviluppo economico, sociale e politico sostanzialmente lineare. Il venir meno delle caratteristiche fondamentali del sistema sociale introduceva elementi di contingenza, generando incertezza collettiva e incentivando il ricorso a strategie individuali di adattamento alla realtà in trasformazione. In sostanza la “cultura 43 Ciò si esprimeva attraverso una “relativizzazione delle credenze, crescita di autonomia, privatizzazione della pratica religiosa, sviluppo del ruolo dei laici di fronte alla scarsità dei sacerdoti, valorizzazione dell'impegno «terreno e sociale» a danno di un'attenzione al Trascendente e alla Storia della Salvezza, affievolimento del senso di colpa e della necessità di una salvezza, nonché della perdita di coscienza circa la gravità del peccato (crisi della pratica della confessione e dei Novissimi) (Mion 1995, 42-43). 49 combinatoria” dei giovani appariva come la trascrizione sul piano dei comportamenti culturali della loro capacità di adattamento. Di qui anche l’accentuazione della perdita di prospettiva temporale, la crisi dei processi di formazione dell’identità e la sostanziale perdita di ogni orizzonte di senso. Esse appaiono logiche conseguenze di un quadro sociale fortemente instabile, che se forniva agli individui molte risposte sul piano materiale, contribuiva ad alimentare il senso di insicurezza. A tale insicurezza contribuiva non solo la “logica del sociale”, ma anche quella del “culturale”. La crisi epocale stava in quegli anni giungendo all’apice, favorendo processi di disorientamento e disadattamento. Non solo venivano meno i processi di trasmissione culturale alle nuove generazioni, ma anche i contenuti. Non sapendo più dove andare, per che cosa impegnarsi, studiare, lavorare si condannavano le nuove generazioni a riporre le loro attese di realizzazione sul contingente, sull’apparenza, sul provvisorio. Ma un senso di vuoto aleggiava impercettibilmente su di loro. 5. I giovani al passaggio del millennio: la globalizzazione dell’insicurezza L’insicurezza ed il senso di disorientamento e di vuoto che era serpeggiata nell’ultimo decennio, divenne palpabile ed evidente al passaggio del millennio. Di per sé il nuovo millennio aveva suscitato molte attese e speranze, confermato dalle feste e dagli eventi che ne caratterizzarono il passaggio, sia a livello civile che religioso. Ma insieme era presente un sottile senso di trepidazione, alimentato dalle solite “profezie millenariste”, che trovavano terreno fertile nell’incertezza diffusa di una popolazione sostanzialmente scettica, che si dichiara “laica”, ma che in realtà esorcizza l’angoscia con il ricorso a riti scaramantici. Tuttavia se le celebrazioni del millennio passarono illese la prova dell’apocalisse, tranquillizzando sulle nefaste conseguenze che il passaggio del millennio avrebbe comportato, le peggiori previsioni cominciarono ad avverarsi nell’anno successivo. L’attentato alle Torri Gemelle di New York (11 settembre 2001), ad opera di un gruppo di terroristi membri del gruppo Al-Qaeda guidati dal principe saudita e petroliere Ben Laden, rese tutti più consapevoli della propria fragilità. Dopo di allora il mondo divenne più insicuro, i viaggi, soprattutto in aereo, e le vacanze precipitarono al minimo storico, facendo fallire varie compagnie aeree e rendendo difficile la vita a tutte le altre. Tutta l’economia mondiale ne risentì pesantemente, con diminuzione dei consumi, limiti alle esportazioni-importazioni, fallimenti clamorosi di società economiche, alcuni dei quali coinvolsero i colossi dell’economia americana, con pesanti cadute dei valori in borsa e perdita della fiducia. Tale situazione si ripercosse sull’andamento dell’economia e politica italiana che registrò nell’anno 2002 una crescita prossima allo zero, rendendo così, di fatto, impraticabili molte delle proposte liberiste del programma di governo. A questo si aggiunga il clima di guerra con alcuni paesi arabi e contro il terrorismo. La riscossa contro il terrorismo era iniziata con l’Afghanistan che ospitava i terroristi di Al Qaeda. Fu proseguita con un pesante intervento militare in Iraq, per deporne il dittatore, Saddam Hussein ed avviare un processo di democratizzazione del paese. Ma la mancata cattura dei principali responsabili del terrorismo, sia in Afghanistan che in Iraq, i ripetuti attacchi terroristici in Medio Oriente e la pesante risposta militare di Israele, le minacce del Presidente americano Bush verso altri paesi “canaglia” come l’Iran, non contribuiscono certo alla tranquillità del quadro internazionale. Anzi, dopo un iniziale arresto dell’attività terroristica, conseguenza delle brillanti avanzate americane sul territorio dei suoi nemici, si registra una ripresa ed un intensificarsi dell’attività terroristica, che coinvolge sia i territori occupati che il livello internazionale, rendendo evidente la sostanziale vulnerabilità dell’occidente. A questo punto non è solo il modello ad essere in crisi, ma la sua stessa esistenza, almeno nei modi e termini con cui si era andato delineando negli ultimi cinquant’anni. Questa situazione non favorisce certo la ripresa economica e la fiducia. 50 5.1. Valori e bisogni europei al passaggio del millennio Attorno al passaggio del millennio sono state condotte altre ricerche sugli europei, utili per cogliere i mutamenti che stanno avvenendo44. I due valori fondamentali, la libertà e l’uguaglianza, vengono affermati in misura assai disuguale nei diversi Paesi. Nell’insieme dell’Europa la libertà (con il 53%) supera l’uguaglianza (con il 41%). Solo in alcuni paesi, tra cui l’Italia, l’uguaglianza viene prima della libertà. Dappertutto la famiglia viene considerata come l’elemento di gran lunga più importante. È seguita dal lavoro, le amicizie, il tempo libero, la religione e la politica. Presso i giovani vi è la tendenza a sottolineare sempre più l’amicizia, che supera a volte la famiglia. Presso i giovani dell’Europa occidentale il tempo libero acquista, di anno in anno, una crescente importanza. Per quanto riguarda la religione, la diversificazione è grande. Una minoranza la considera importante nei Paesi nordici (eccettuata l’Islanda). Nell’Europa del Sud (Italia, Portogallo, Grecia e Malta) essa ottiene la maggioranza dei consensi, ma in Spagna si verifica il contrario. Il 72% dichiara di appartenere ad una denominazione religiosa, con due estremi: Malta (99%) e la Repubblica Ceca (33%). Di questo gruppo, il 58% si considerano cattolici, il 18% protestanti e il 17% ortodossi. Il 28% della popolazione, tra cui molti cristiani, dichiarano di non essere religiosi e il 5% affermano di essere «atei convinti». Tuttavia, i tre quarti della popolazione continuano a volere una cerimonia religiosa in occasione di una nascita, di un matrimonio e, più dell’80%, per un funerale. Non mancano le credenze più o meno alternative. Quasi la metà degli Europei dice di credere alla telepatia. Un quarto ammette la reincarnazione. Colpisce il fatto che molti che credono nella risurrezione credono anche nella reincarnazione. L’atteggiamento verso la Chiesa appare problematico. Se, complessivamente, il 54% degli Europei dichiara di avere fiducia in essa, in quasi tutti i Paesi tale fiducia è diminuita nel corso dei due ultimi decenni, soprattutto tra i giovani. In generale, meno della metà degli Europei si aspetta un aiuto da parte della Chiesa per i propri problemi personali, familiari e sociali, ma i tre quarti dicono di aspettarsi da essa una risposta ai loro bisogni spirituali. L’ambito etico si è molto secolarizzato e non si vogliono intrusione delle Chiese nelle questioni politiche. 5.1.1. L’individualismo Si constata un’accentuazione progressiva dell’individualismo. Questo si manifesta particolarmente in tutto ciò che si riferisce all’etica personale (divorzio, aborto, eutanasia, omosessualità), dove soprattutto le classi d’età nate dopo la seconda guerra mondiale mostrano una netta propensione a scelte personali. Dappertutto prevale l’etica della situazione. In compenso, per le questioni di carattere pubblico, come la frode fiscale e il furto, la grande maggioranza rifiuta il relativismo etico. Mentre si esprime molta fiducia in alcune istituzioni (scuola, esercito, Chiesa, polizia), del resto con forti differenze da Paese a Paese, solo una minoranza dichiara di fidarsi delle istituzioni che si riferiscono direttamente alla politica (Parlamento, ordinamento giudiziario, pubblica amministrazione, Unione Europea, Nazioni Unite). I due terzi diffidano della stampa e dei sindacati. In generale, i giovani sono più diffidenti delle classi di età più anziane. 44 Nel 1999-2000 la Fondazione European Values Study (EVS, già European Systems Study Group - EVSSG) ha compiuto la sue terza indagine sui valori degli europei. Questa volta essa ha coperto tutti i Paesi europei, anche la Russia e l’Ucraina, con l’eccezione di Albania e Repubblica Federale Iugoslava. Per la prima volta è stata inclusa la Turchia. Tale inchiesta ha toccato circa 800 milioni di persone. Per l’Italia, l’Università di Trento ha già prodotto un primo commento dal titolo “La via italiana alla postmodernità”, curata dal prof. Renzo Gubert (2000). Per analizzare le risposte degli Europei ci avvarremo di un commento sintetico di Jan Kerkhofs (2002). 51 L’individualismo tocca anche la famiglia: almeno un quarto della popolazione considera il matrimonio un’istituzione superata (in Francia il 36%). Questa percentuale si eleva molto presso le giovani generazioni. Dappertutto il divorzio è divenuto sempre più accettabile. Quasi dappertutto si considera che il numero ideale di figli per famiglia sia 2.5, ma in nessuna nazione il tasso di natalità raggiunge tale cifra. Dei fattori di riuscita di un matrimonio, tre vengono in testa al lungo elenco proposto agli intervistati: il mutuo rispetto, la fedeltà e la tolleranza, seguiti da buoni rapporti sessuali e dai figli. Sebbene la grande maggioranza sia dell’opinione che a un bambino, per crescere in una atmosfera felice, occorrono un padre e una madre, il 43% riconosce alla donna non sposata il diritto ad avere un figlio suo. Quantunque l’atteggiamento verso i figli sia generalmente positivo, il fatto di non averne non preoccupa più tanto la gente. Molti rinviano il matrimonio, molte donne aspettano a lungo prima di avere il primo bambino e i figli rappresentano sempre meno un ostacolo a un eventuale divorzio. Nonostante questi segnali di individualismo, ce ne sono altri si segno inverso: a grande maggioranza esprime una reale preoccupazione per le persone anziane e per i portatori di handicap, e considera un dovere morale l’aiuto a questi soggetti. Inoltre, gli Europei sono ben consapevoli dei problemi dell’ambiente: il 60% concorda sul fatto che una parte dei loro redditi sia destinata alla prevenzione dell’inquinamento. Sono i Paesi nordici ad essere più sensibili alla questione dell’ambiente e, a livello di categorie, i giovani e le persone con una formazione migliore. La politica viene all’ultimo posto nella lista dei settori per i quali si doveva esprimere il grado d’importanza loro attribuito. Ciò non significa affatto che la gente si disinteressi totalmente della politica. La metà degli Europei afferma di seguire la politica sui mezzi di comunicazione di massa ogni giorno e 1’80% almeno una volta alla settimana. Gli Europei sono un po’ più inclini verso la sinistra che verso la destra. Ma in pari tempo una maggioranza relativa del 45% considera il mantenimento dell’ordine più importante che una maggiore partecipazione nelle grandi decisioni governative (26%) e la tutela della libertà di espressione (10%). Due terzi ritengono si debba attribuire una minore importanza al denaro e ai beni materiali (soprattutto nei paesi più benestanti). 5.1.2. La ricerca di qualità di vita Dopo la famiglia, viene considerato come molto importante il lavoro. Ma le opinioni sono diversificate. Nell’Europa dell’Est i genitori vogliono insegnare ai figli in famiglia a lavorare duramente. Il salario occupa ancora il primo posto. Mentre nell’Europa occidentale questo fattore è superato dalla qualità delle relazioni sociali all’interno delle imprese. Si sottolinea inoltre sempre più la possibilità di prendere iniziative, di avere un’occupazione interessante in cui si possa dar prova delle proprie capacità. Parallelamente si esprime in misura maggiore la propria insoddisfazione. La tendenza ad organizzare proteste, scioperi e azioni di boicottaggio è continuamente cresciuta. I Paesi dell’Europa occidentale si pongono sempre maggiori interrogativi sull’evoluzione della tecnologia. Dappertutto si aspira a uno stile di vita meno complicato e più naturale. Le donne, molto più degli uomini, dichiarano di saper combinare vita di famiglia e lavoro, e considerano il lavoro come un mezzo per emanciparsi. La tolleranza è un valore sempre più in rialzo tra gli europei. Essa viene considerata dai genitori come una delle qualità più importanti da trasmettere ai figli in famiglia. Viene sottolineata soprattutto dai giovani e da coloro che hanno ricevuto una formazione migliore. Solo una minoranza (inferiore al 20%) dichiara di non volere come vicini degli immigrati e dei lavoratori stranieri (15%), persone di altre razze (12%), musulmani (19%). Gli Europei sono molto più diffidenti verso gli estremisti di sinistra (31%) e di destra (36%), e soprattutto verso gli alcolizzati (60%) e i drogati (68%). Sebbene il 35% non voglia omosessuali come vicini, l’atteggiamento negativo nei loro confronti è quasi esclusivamente caratteristico dell’Europa dell’Est. Tuttavia quasi 52 il 70% degli Europei afferma che non si può essere mai abbastanza prudenti verso di loro; solo nei Paesi nordici la maggioranza dichiara che si può avere fiducia negli altri. In campo politico quasi tutti preferiscono un sistema democratico perché la democrazia garantisce la tolleranza e la libertà. Ma la maggioranza si lamenta delle carenze della democrazia. In generale, le persone sono assai poco soddisfatte del sistema di giustizia praticato nei loro Paesi. Più della metà si lamenta delle carenze della giustizia, soprattutto nell’Europa dell’Est. Anche se nell’ultimo decennio gli Europei hanno sempre più sollevato questioni a riguardo dell’Unione Europea,), tuttavia l’integrazione europea non è in questione. L’euro è stato in genere bene accolto, l’Unione Europea (con il 43%) e soprattutto le Nazioni Unite (con il 51%) riscuotono maggiore fiducia di quella ottenuta dai Governi nazionali (35%). La maggioranza è del parere che l’integrazione europea non minaccia la cultura dei diversi Paesi. Come sempre, sostengono maggiormente l’Europa i giovani e le persone dotate di una migliore formazione. Tuttavia la metà degli Europei (49%) considera sempre il proprio villaggio o la propria città come il luogo per eccellenza del radicamento territoriale. Per il 27% tale luogo è il Paese, per il 13% la regione. La grande maggioranza degli Europei (79%) dichiara di essere felice. Ma anche qui vi sono differenze regionali: i Paesi nordici si sentono molto più felici di quelli del Sud e soprattutto di quelli dell’Est (ortodossi e poveri). Si considera infelice la maggioranza in Romania, Bulgaria, Ucraina e Russia. I più felici risultano gli abitanti delle due isole alla periferia dell’Europa, l’Islanda e l’Irlanda. 5.1.3. Un nuovo impulso per la gioventù europea In uno studio promosso dalla Commissione Europea 45 i giovani non sono ritenuti un problema, ma una risorsa; sono attori sociali da ascoltare e da valorizzare per le idee che li animano e li guidano. «Investire nella gioventù, si legge nel Libro Bianco, significa inve stire nella ricchezza delle nostre società di oggi e di domani». Per questo motivo si intende andare oltre quanto da tempo si sta realizzando con il «Programma Gioventù» per rispondere alle nuove sfide. Viene dato atto che le nuove caratteristiche dei giovani sono dovute alle «modifiche del contesto sociale, dei comportamenti individuali e collettivi, delle relazioni familiari e delle condizioni del mercato del lavoro». Questi cambiamenti, insieme alle nuove realtà demografiche, hanno prodotto nei giovani nuove caratteristiche a livello sociale, culturale ed economico. In particolare, sono tre le constatazioni fatte circa la nuova realtà dei giovani: 1. La prima riguarda “il prolungamento della gioventù”: “I demografi osservano che, sotto l'influsso di fattori economici (occupabilità, disoccupazione, ecc.) e di fattori socioculturali i giovani sono, mediamente, più avanti con gli anni allorché superano le diverse tappe della vita: fine degli studi, accesso al lavoro, creazione di una famiglia, ecc.” 2. La seconda evidenzia “percorsi di vita non lineari”: “Si assiste oggi a `un accavallamento delle sequenze della vita': si può essere contemporaneamente studente, avere responsabilità familiari, essere lavoratore o alla ricerca di un lavoro, vivere presso i genitori; e il pas saggio dentro e fuori da tali condizioni è sempre più frequente. I percorsi individuali sono meno lineari proprio per il fatto che le nostre società non offrono più le stesse garanzie di un tempo (si curezza del posto di lavoro, prestazioni sociali, ecc.)». 3. La terza sottolinea la non pertinenza dei modelli collettivi tradizionali perché le traiettorie personali sono sempre più individualizzate. Non più quindi percorsi standard, e questo richiede anche politiche nuove da parte delle autorità pubbliche. 45 Alla fine del 1999, la Commissione Europea ha proposto di varare un Libro Bianco per una nuova cooperazione europea in materia di gioventù. L'adesione unanime ha fatto avviare un'ampia consultazione, dal maggio 2000 al marzo 2001, «che ha interessato i giovani di qualsiasi origine, le organizzazioni della gioventù, la comunità scientifica, i responsabili politici e le loro amministrazioni». Il Libro Bianco è stato pubblicato nel novembre 2001. 53 Un altro elemento significativo emerso dalle consultazioni è la disponibilità dei giovani europei ad essere promotori e attori della democrazia. La difficoltà viene dalla diffusa diffidenza nei confronti delle strutture istituzionali. Da questo, tuttavia, non si può dire che i giovani siano disinteressati alla vita politica. Il problema è piuttosto come trovare nuove vie per farli partecipare colmando “il fossato che separa o la volontà di espressione dei giovani e le modalità e strutture offerte a tal fine dalle nostre società”. In questo modo si potrà impedire “il deficit di cittadinanza” e non “incoraggiare la contestazione”. La sfida per tutti è quella di riuscire a “creare le condizioni per far sì che i giovani europei siano cittadini solidali, responsabili, attivi e tolleranti in società pluralistiche”. Occorre, pertanto, far emergere nel mondo giovanile una cittadinanza attiva attraverso un loro maggiore coinvolgi mento “nella vita della collettività locale, nazionale ed europea”. Le prospettive di attenzione alla realtà giovanile e al suo inserimento attivo nella nuova Europa sono senza dubbio uno stimolo efficace perché si possa individuare il da farsi anche a livelli territoriali diversi. Il Libro bianco prevede anche una migliore presa in considerazione dei bisogni specifici dei giovani nelle politi che comunitarie e nelle politiche nazionali, nella consapevolezza che una migliore cooperazione su scala europea rafforzerebbe l'impatto e la coerenza delle politiche nazionali. “Da qui deriva la principale ambizione del Libro bianco: dotare l'Unione Europea di un nuovo quadro di cooperazione nel campo della gioventù ambizioso, all'altezza delle aspettative dei giovani, e realista, che stabilisca priorità tra le numerosissime questioni evocate in occasione della consultazione, e che rispetti i diversi livelli di competenze interessati. Questa cooperazione deve partire dallo zoccolo di attività esistenti, essere compatibile e complementare con le altre iniziative in corso, in particolare nei campi dell'occupazione, dell'istruzione e dell'integrazione sociale, ove ciò risulti necessario, e assicurare una migliore sinergia tra i diversi livelli di potere e gli attori del settore della gioventù”. 5.2. L’indagine EVS 1999 nel contesto italiano Come già per la ricerca precedente (1990) anche per la terza rilevazione EVS, l’Università di Trento ha rappresentato l’Italia, come nodo di rete, nell’indagine europea. Il campione di 2000 soggetti sembra abbastanza rappresentativo dell’Universo statistico, soprattutto tenuto conto dell’accuratezza del metodo di campionamento, che ha impiegato un metodo stratificato (per regione, dimensione demografica del comune, sesso, età) all’interno del quale sono stati sorteggiati prima i comuni e poi i soggetti. I dati del campione italiano sono stati commentati in un tempo assai ristretto dal solito gruppo dell’Università di Trento, coordinati dal prof. Renzo Gubert che ha curato anche la pubblicazione del rapporto (2000). Come nelle passate edizione non ci sono i dati dei minorenni ed il campione giovanile non è stato analizzato a parte. 5.2.1.1.1. Tradizione e modernità nei valori degli italiani Come nell’edizione precedente, i ricercatori italiani avevano una questione prioritaria da affrontare, essa “concerneva il permanere o meno di orientamenti di valore che, nonostante la secolarizzazione che rende sempre più autonome le diverse sfere culturali da quella religiosa, possono essere considerati eredità del patrimonio tradizionale comune alla cultura europea, fortemente impregnato di cristianesimo” (Gubert 2000, 475). Dall’indagine emergono conferme e nuove indicazioni. Per quanto riguarda la famiglia, si può dire che i sintomi di recupero di valori tradizionali (cristiani) evidenziato dal confronto tra i dati del 1981 e del 1990 non risultano confermare negli anni Novanta l’inversione di tendenza. Se per valori tradizionali si intende la desiderabilità di una vita di famiglia fondata sul matrimonio, con forti, stabili e incondizionati rapporti di solidarietà interna tra genitori e tra genitori e figli, compresi quelli concepiti ma non ancora nati, che trova nel suo fondamento 54 religioso una delle ragioni forti di tale solidarietà, si deve dire che negli anni Novanta si registra un loro arretramento, anche se talora non è tale da riportare alla situazione del 1981. Aumenta la quota di coloro che giudicano il matrimonio un’istituzione sorpassata (pur senza raggiungere quella del 1981), diminuisce il valore attribuito al generare figli per essere felici, diminuisce l’incondizionatezza della solidarietà tra genitori e figli, aumenta la legittimazione dell’aborto quale mezzo di controllo delle nascite, diminuisce l’importanza di trasmettere ai bambini non solo l’obbedienza, ma anche l’altruismo e la fede religiosa (sia pure senza raggiungere i bassi livelli del 1981), aumenta l’accettabilità dell’omosessualità. Se a questo si aggiungono dati del solo 1999 quali il prevalere dell’opinione che debbano essere equiparate ai fini delle politiche sociali coppie sposate e coppie conviventi non sposate, si comprende come negli anni Novanta sia ripreso l’allontanamento dai valori tradizionali della famiglia. Non mancano, tuttavia, fatti che non sono coerenti con tale tendenza di mutamento. In linea generale è diminuita la giustificazione sia dell’adulterio, sia del divorzio che dell’aborto. Con riguardo a quest’ultimo è diminuita la sua giustificazione per i motivi ritenuti più diffusamente sufficienti, quale il pericolo per la salute della madre e la malformazione del nascituro, mentre è aumentata quella per i motivi ritenuti meno diffusamente sufficienti (controllo delle nascite per coniugi che hanno già figli o l’essere la madre non sposata), ma in generale, complessivamente, è diminuita. È altresì diminuita l’approvazione del fatto che una donna non sposata possa avere figli, se li desidera. Ancora, sono i laureati ad essere meno favorevoli ad una produzione in eccesso di embrioni ai fini della fecondazione artificiale. Riguardo al giudizio etico, negli anni Ottanta si era assistito ad un aumento generale della permissività (o meglio dell’incertezza etica), pur con una diminuzione di sostegno a posizioni di relativismo etico totale. Negli anni Novanta il relativismo etico totale non è ulteriormente diminuito (come lo era negli anni Ottanta), ed è aumentato il rifiuto di una posizione di assoluta certezza etica su che cosa sia bene e che cosa sia male in ogni circostanza. Di conseguenza è incrementata la quota di coloro che rifiutano le due posizioni estreme, specie da parte dei più istruiti. Per contro, oltre a registrare un prevalente giudizio di inammissibilità per tutti i ventidue comportamenti considerati, per alcuni di essi la tollerabilità è aumentata, proseguendo un andamento ventennale (omosessualità, eutanasia, assunzione di droghe leggere, non pagare il biglietto sui mezzi di trasporto, suicidio. prendersi un’auto non propria per divertimento), mentre per altri è diminuita, e non solo per azioni contro i doveri verso lo Stato (accettare bustarelle, cercare di ottenere benefici cui non si ha diritto, evadere le imposte), ma anche per azioni relative a relazioni interpersonali (aborto, adulterio, prostituzione, dire il falso). Una terza area valoriale è quello della religiosità. I risultati dell’indagine del 1999 confermano e rafforzano i segnali di inversione di tendenza debolmente presenti nel 1990, rispetto all’81. Il dato più pesantemente in controtendenza riguarda l’appartenenza ecclesiale, che diminuisce. Gli altri, invece, testimoniano tutti una ripresa di interesse religioso, e non solo nelle forme generiche e varie legate al sentimento religioso, ma anche in quelle istituzionalizzate. Aumentano la percezione di importanza della religione nella vita, l’attenzione al problema del senso della vita, la definizione di sè come persona religiosa, l’importanza percepita di Dio nella vita, la frequenza della preghiera personale, la credenza in Dio e nelle verità cristiane, la pratica religiosa, l’impegno in associazioni religiose, la soddisfazione per l’azione della Chiesa, la fiducia nella Chiesa, che tra le istituzioni considerate è quella che riscuote il maggior grado di fiducia. Meno chiari sono orientamenti in riferimento alla patria, ossia l’appartenenze e la lealtà tra i diversi livelli di organizzazione politica della società. Per quanto riguarda l’area delle appartenenze socio-territoriali, i risultati della ricerca confermano che i sentimenti di appartenenza si distribuiscono in modo composito e non esclusivo, con tendenza a combinare livelli locali con livelli sovranazionali. Rispetto al 1990, emerge nel 1999, con una frequenza limitata ma significativa, il modello di appartenenza definibile come “glocalista”, mentre, rispetto alle attese generate dalla globalizzazione, negli anni Novanta si rafforzano le appartenenze regionali a scapito di quelle sovranazionali cosmopolite. 55 Negli anni Novanta diminuisce l’importanza attribuita ad aspetti del lavoro quali il reddito, la sicurezza del posto, l’utilità sociale del lavoro stesso, mentre cresce quella attribuita al riconoscimento e al prestigio sociale, al poter esprimere una propria personale responsabilità, al poter disporre di più tempo libero, al non essere troppo “sotto pressione”. Risulta evidente il progredire della sensibilità verso dimensioni non materialistiche del lavoro, testimonianza, secondo talune ipotesi, dell’emergere di una cultura post-moderna del lavoro. Non si può, tuttavia, trascurare il fatto che, per es., le dimensioni “materialistiche” del guadagno e della sicurezza trovano più attenzione nelle grandi città, che pur dovrebbero essere luogo privilegiato dello sviluppo postmoderno. Né si può trascurare il fatto che l’obiettivo del l’autorealizzazione nel lavoro non è solo più condiviso dai ceti più istruiti, che dovrebbero essere più sensibili alla post-modernità, ma anche dai più anziani e dai residenti nel Sud, i quali, viceversa, custodiscono maggiormente i valori della tradizione. 5.2.1.1.2. La via italiana alla postmodernità L’autore nella conclusione discute ampiamente, riprendendo i vari ambiti nell’indagine per verificare se le ambiguità presenti nei valori degli italiani siano segno di modernità (nella sua versione più recente, detta postmodernizzazione), oppure si sia in presenza di un recupero del passato (tradizione). Già nel paragrafo precedente sono state avanzate varie riserve sulla tesi del ritorno alla tradizione. Come si vede, almeno nel caso italiano, dove pure la tradizione ha un peso così forte, i nuovi assetti valoriali e sociali non sono tali da prefigurare un ritorno al passato. Piuttosto siamo in presenza di contaminazione della modernità con elementi del passato, frutto di attività combinatoria. Tuttavia, anche rispetto alle ipotesi postmoderne, l’Italia si differenzia nei riguardi di quei paesi dove il processo di modernizzazione è avvenuto in tutta la sua profondità. Pertanto alcuni segnali rimangono sostanzialmente equivoci e difficili da interpretare. L’autore ne fa qualche esempio: Se il post-moderno nell’etica significa un’accentuazione del relativismo assoluto, un’accentuazione del soggettivismo, si è già visto come gli andamenti siano tutt’altro che univoci; si fa anzi strada un’opzione che rifiuta sia le certezze assolute e incondizionate, sia la dichiarata impossibilità per principio di distinguere il bene dal male. Per alcuni ambiti cresce l’incertezza etica, ma per altri diminuisce e nel complesso prevale la capacità di un giudizio negativo su tutta la serie di azioni “devianti” poste a valutazione. Se il post-moderno nella religione significa la totale soggettivizzazione dell’esperienza religiosa, un suo prescindere dagli aspetti istituzionali sia nell’organizzare la credenza che le azioni religiose (Dobbelaere, 1995), non si può escludere che presso taluni tale fenomeno non si verifichi, ma nell’insieme la ripresa della religiosità, al di là della possibile riduzione del significato della celebrazione religiosa dei principali momenti di passaggio nella vita (nascita, matrimonio, morte) […] sembra configurare un’inversione di tendenza rispetto all’allontanamento dalla religiosità tradizionale, della quale una componente rilevante è anche quella istituzionale. Ciò ovviamente non significa che la maggioranza degli italiani sia osservante delle prescrizioni ecclesiastiche (Gubert 2000, 480). Nell’area dei valori politici, due sono i gruppi di indicatori più direttamente rilevanti in merito allo sviluppo di una sensibilità post-moderna: il tipo di mutamento desiderato nei modi di vita e la priorità assegnata ad alcune mete politiche. Per quanto concerne il primo gruppo, […] non è facile distinguere quelli tipicamente postmoderni da quelli tradizionali pre-moderni. Dare più spazio alla vita di famiglia, dare più importanza alla maturazione delle persone, preferire modi di vita più semplici e naturali non è solo sintomo di post-modernità; tali desideri non sono estranei all’orizzonte valoriale tradizionale. Considerando il modello di differenziazione sociale relativo al desiderio di modi di vita più semplici e naturali, emerge, anzi, come esso si avvicini assai a quello 56 proprio di valori tradizionali. Per quanto concerne il secondo gruppo di indicatori, relativo alle mete politiche, si può ricordare come aumentino di importanza negli anni Novanta quelli che Ronald Inglehart ritiene indicatori di orientamento post-materialistico (partecipazione alle decisioni politiche e salvaguardia della libertà di parola), ma aumenti di importanza anche una di natura diversa, il mantenimento dell’ordine, a scapito della lotta all’inflazione. Si può ricordare anche come diminuisca negli anni Novanta la disponibilità a sacrificare denaro proprio per migliorare la qualità dell’ambiente. Pure in questo caso, quindi, la tendenza non è univoca, anche se in prevalenza va forse nella direzione della post-modernità. La concretezza dei problemi della collettività politica (negli anni Ottanta l’inflazione e negli anni Novanta l’ordine pubblico) risulta interferire e modificare orientamenti che nelle attese dovrebbero rivolgersi verso bisogni di livello superiore a quello della sicurezza. Quanto, poi, la priorità assegnata alla salvaguardia della libertà di parola oppure alla partecipazione politica sia coerente con la modernità o la post-modernità non è del tutto chiaro, se si pensa ai valori proposti dalla rivoluzione francese, uno dei quali è la libertà (Gubert 2000, 481). Egli rileva l’insufficienza degli schemi concettuali per comprendere la situazione italiana, che rivela delle peculiarità specifiche. Più che rendere evidente un trapasso da una sensibilità moderna ad una post-moderna, l’esame dei valori socio-politici merita segnalazione per l’evidenziazione di situazioni che non si inquadrano in alcuno degli schemi. Basti segnalare il calo di importanza delle appartenenze sovranazionali cosmopolite, nonostante che esse risultino incentivate da più elevata istruzione, la prevalenza di atteggiamenti di attribuzione di funzioni forti di filtro ai confini nazionali nei confronti dell’immigrazione, accentuata nei giovani e al Nord, la diminuzione di riconoscimento di responsabilità sociale nel causare la povertà, con i ceti più disponibili alla modernità maggiormente a favore di una spiegazione della povertà sostanzialmente fatalista (sia pure imputando il progresso e non la sfortuna), la minore sensibilità al valore della giustizia distributiva da parte dei medesimi ceti, l’esistere di riserve sulla bontà del sistema democratico più sviluppate tra i giovani e al Nord, l’ampia percezione che i diritti umani in Italia siano poco o punto rispettati, l’ampia sfiducia verso le istituzioni pubbliche, il calo di interesse dei giovani per la politica. Si tratta di fatti che testimoniano una crisi del rapporto tra istituzioni politiche e società, il cui rilievo risulta certamente maggiore di eventuali spostamenti dei valori socio-politici in direzione non materialista, anche se non si deve trascurare che tale crisi può proprio trarre alimento anche da mutamenti nelle aspirazioni e nelle attese, il cui fondamento è rintracciabile nella dinamica dei bisogni, sulla quale si basa anche l’ipotesi dell’evoluzione post-materialista e post-moderna (Gubert 2000, 481-482). Non si può negare che vi siano tendenze di mutamento in direzione post-moderna, ma si tratta tutt’altro che di tendenze chiare ed uniformi. Non sono chiare per la difficoltà di capire il confine, in taluni casi, tra moderno e post-moderno e in altri tra tradizionale e post-moderno. Non sono uniformi perché alcuni valori, ritenuti non post-moderni, nella famiglia, nel lavoro, nella valutazione etica, nell’area religiosa e nella politica trovano negli anni Novanta rafforzamenti. Considerando congiuntamente quanto emerso da una rilettura rapida dei risultati con riferimento alle due principali ipotesi che motivano la ricerca, pur con le limitazioni di una prima analisi dei dati, si può dire che nella realtà italiana, come già anticipato con riferimento ai valori politici, paiono muoversi contemporaneamente tre correnti culturali, quella modernizzatrice, quella post-moderna e quella legata alla tradizione. […] La società italiana si è ampiamente modernizzata, le solidarietà comunitarie di sangue e di luogo, per dirla con Toennies, si sono largamente sfaldate; i valori della solidarietà si sono indeboliti specialmente tra i ceti più evidentemente portatori della modernità, il senso del 57 dovere si fa più tenue in ragione della forza del principio di piacere, la questione del senso ultimo della vita poco può dire sul come una persona o l’intera società debbono agire nella vita quotidiana o nei grandi momenti della storia. L’indebolimento della incondizionatezza della solidarietà familiare, la sottovalutazione delle conseguenze sociali di comportamenti individuali quali suicidio, eutanasia, assunzione di droga, aborto, omosessualità, ecc. un’interpretazione prevalentemente forte della laicità, la prevalenza di una posizione etica relativista, le quote minoritarie di praticanti religiosi regolari, una concezione autoritaria della legge, per non ricordare il quasi ossessivo richiamo di leader della politica e dell’economia alla necessità di “modernizzare” il paese, sono tutte conseguenze evidenti dell’operare di tale corrente culturale (Gubert, 2000, 482). Sembra che la società italiana sia riuscita, da una parte a perseguire una strada della modernizzazione e dall’altra di evitare, grazie alla sua attenzione alla tradizione, certi estremismi tipici di processi troppo azzardati. È proprio la riconsiderazione di alcune unilateralità e di alcune esasperazioni della modernità da parte della componente più intellettuale delle forze sociali modernizzatrici, è proprio l’affermarsi non generale, ma in alcuni ambiti e per alcuni elementi, della corrente culturale post-moderna che consente la vitalità di una terza corrente culturale, quella più legata alla tradizione, negli ultimi decenni considerata addirittura scomparsa. […] In Italia, vuoi per la sua articolatissima morfologia territoriale, vuoi per il ritardo dei processi di industrializzazione specie in alcune aree, vuoi per una presenza istituzionale più forte della Chiesa Cattolica o per altre ragioni ancora, la dialettica modernitàpostmodernità è iniziata quando ancora la tradizione trova aree e ceti nei quali essa ha una sua vitalità. Il Sud, i numerosissimi piccoli centri rurali, gli anziani, le persone meno scolarizzate, le donne specie se casalinghe, gli agricoltori sono altrettante aree sociali che hanno conservato tratti della cultura tradizionale ancora vitali quando già inizia qua e là la crisi della modernità. Già negli anni Ottanta, ma ancor più per taluni aspetti negli anni Novanta, come s’è visto, elementi della cultura tradizionale hanno riconquistato spazi (Gubert 2000, 483). In base a questa analisi l’autore conclude con una previsione a breve, che vede proseguire il processo combinatorio delle tre culture presenti in Italia (tradizionale, moderna e postmoderna). Il futuro prossimo dei valori degli italiani non è la modernità, non è la post-modernità, non è la tradizione: è una mescolanza di tutto ciò che trova tendenziali parziali consonanze tra post-modernità e tradizione e fra modernità e post-modernità. Risulta sconfitta la pretesa della modernità di rappresentare il futuro evolutivo, progressivo e progressista, ma essa rimane tuttora in campo, specie laddove il confine tra essa e la post-modernità non è chiaro, laddove la post-modernità rappresenta la continuazione della modernità, nella valorizzazione della soggettività individuale che indebolisce legami istituzionali e certezze etiche e gnoseologiche, nel premio all’orientamento edonistico rispetto a quello al sacrificio per il compimento del proprio dovere, nella tendenziale separazione tra risposta religiosa al problema del senso ultimo della vita e altri ambiti della vita. Risulta peraltro altrettanto sconfitta la pretesa della post-modernità di rappresentare l’unico esito della crisi della modernità, proprio perché tale crisi ed alcune sottolineature valoriali che essa provoca ridanno spazio e prospettiva anche a mutamenti che si pongano come direttamente continuatori, con adattamenti, della tradizione, specie laddove questa dà risposte al problema del senso ultimo della vita, limita l’assolutezza individualistica ed edonista sia in campo etico e gnoseologico, sia nel campo delle relazioni umane, riscoprendo la distinzione tra bene e male, vero e falso e rivalorizzando solidarietà interpersonali ed appartenenze non solo episodiche o occasionali o strumentali nella famiglia e negli abiti di vita sociale comunitaria (Gubert 2000, 485) . 58 5.3. La condizione giovanile nelle successive a cavallo del millennio L’indagine IARD46 del 2000 ha posto ancora una volta la la domanda sugli obiettivi politici, utilizzando l’indice corto di Inglehart. Le risposte ottenute sono raggruppabili e confrontabili per anno di rilevazione. Ecco le tabelle con i risultati: Tabella.1 – Indicazione dell’importanza relativa di alcune misure politico-sociali nei rapporti IARD 46. Se dovesse scegliere tra i seguenti obiettivi politici, quale Le sembra personalmente il più importante, quale metterebbe al secondo posto e quale al terzo? % di risposta all’item “primo posto” Mantenere l’ordine nella nazione Dare alla gente maggior potere nelle decisioni politiche Combattere l’aumento dei prezzi Proteggere la libertà di parola 1992 1996 2000 15-24 a. 15-29 a. 15-24 a. 15-29 a. 15-24 a. 15-29 a. 35.8 31.6 35.6 32.2 26.5 27.0 26.2 26.9 27.6 21.9 27.4 23.2 8.2 24.5 8.8 23.4 14.8 31.7 16.4 30.4 12.4 35.5 12.8 35.1 Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 631). Figura 1 – Grafico dell’andamento delle scelte materialiste/postmaterialiste dei giovani (15-24 anni) negli ultimi 3 rapporti IARD 40 35 Mantenere l’ordine nella nazione 30 20 Dare alla gente maggior potere nelle decisioni politiche 15 Combattere l’aumento dei prezzi 25 10 Proteggere la libertà di parola 5 0 1992 1996 2000 Fonte: Elaborazione propria su dati IARD (cfr. Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 631). Come si evince anche dal grafico, le tendenze postmaterialiste ci sono, ma non sono molto nette. 46 L’indagine IARD del 2000, registra una notevole variazione rispetto alla precedenti, sia per l’estensione ulteriore dell’età (15-34 anni), sia per i nuovi campi di osservazione, per cui si passa dalle 100 domande del questionario originario alle 150 dell’attuale. Perciò il questionario è stato diviso in 2 versioni, quella corrispondente al vecchio questionario e quella più recente con risposte più personali e riservate. Il questionario è stato somministrato a 3.000 soggetti scelti con i soliti criteri. Il motivo dell’ulteriore estensione del campione corrisponde alle stesse logiche per cui negli anni novanta era stato innalzato a 29 anni. Solo che questa volta arriviamo a 35 anni: età in cui si dovrebbe essere ormai adulti. In realtà questo non si dà per tutti, ed i risultati sembrano avvallare le scelte fatte dai ricercatori. Già da questo emerge che il tema principale della ricerca è la dilatazione della condizione giovanile, con ritardo nell’assunzione di ruoli adulti e di entrata nella vita attiva. Tema già al centro delle precedenti indagini, che qui assume però un’evidenza ancora maggiore, perché il processo sembra ulteriormente in espansione. Insieme a questo tema, hanno nella ricerca notevole rilievo temi connessi all’immagine di sé, ai valori e agli orientamenti culturali. Il tutto indagato con il contributo di nuovi specialisti, che ampliano in campo di osservazione e ne rendono più variegate e complesse le interpretazioni. 59 Prevale la tendenza al rimescolamento. Se da una parte l’esigenza di sicurezza economica sembra saturata, per cui la domanda di combattere l’aumento dei prezzi ottiene un bassissimo consenso, tuttavia la forte domanda di ordine e sicurezza sociale indica che questo bisogno non è ancora adeguatamente soddisfatto: calato nel ‘96, risulta leggermente in ripresa nel 2000. Nel compenso i due item postmaterialisti mostrano andamenti divergenti: è in calo la richiesta di “dare maggior potere alla gente nelle decisioni politiche” (perde quasi 10 punti percentuali in meno di 10 anni), mentre è in netta ascesa la domanda di libertà di parola (recupera più di 10 punti percentuali), che è diventata dal ‘96 la domanda più frequente. Per quanto sia difficile trarre delle conclusioni su un periodo di solo 8 anni per un movimento così ampio, sembra che sia possibile ricavare dai dati queste indicazioni: 1. I valori postmaterialisti si stanno affermando anche tra i giovani italiani, pur con lentezza, incertezze ed involuzioni. 2. Permangono domande diffuse di sicurezza economica e sociale, dipendenti probabilmente dalle situazioni economiche e politiche del nostro paese. Soprattutto il problema della sicurezza sociale sembra molto avvertito (ma probabilmente anche economica, se teniamo conto della domanda di occupazione). 3. Dei bisogni postmaterialisti emerge con molta evidenza quello di libertà, mentre è decisamente in ribasso quello di partecipazione politica. Segno che i bisogni più avvertiti sono quelli di tipo individualistico, mentre bisogni più ampi e collettivi stentano a tradursi in progetti politici. 4. In ogni caso l’avvertenza di un bisogno e la nascita di valori ad esso connessi sembra obbedire ad una logica di tipo contingente: a seconda delle carenze del momento emerge l’avvertenza di un bisogno con una domanda corrispondente. Non sembra sottostare alle risposte fornite dai giovani italiani nel decennio ‘90 una cultura nettamente postmaterialista, bensì domande che riflettono la necessità di saturare bisogni diversi, che possono essere indistintamente sia materialisti che postmaterialisti, a seconda di quello sul momento più avvertito. Tabella.2 – Variazioni dei valori giovanili nelle cinque indagini IARD (1983-2000) 2. La prego di dirmi se Lei considera importanti per la Sua vita le cose in questo elenco % di risposte all’item «Molto importante» (Risposte multiple) Non so, non posso prevedere Famiglia Lavoro Amicizia Attività politica Impegno religioso Impegno sociale Studio e interessi culturali Svago nel tempo libero Attività sportive Successo e carriera personale Eguaglianza sociale Solidarietà Amore Autorealizzazione Libertà e democrazia Vita confortevole e agiata Patria Divertirsi, godersi la vita Base 1983 1987 1992 1996 2000 15-24 a. 15-24 a. 15-24 a. 15-29 a. 15-24 a. 15-249 a. 15-24 a. 15-29 a. 16.5 81.9 67.7 58.4 4.0 12.2 21.9 34.1 43.6 32.1 4.000 18.3 82.9 66.6 60.9 2.8 12.4 17.9 32.2 44.2 31.9 2.000 18.3 85.6 60.2 70.6 3.7 13.2 23.5 36.4 54.4 36.1 1.718 17.2 86.2 61.7 67.8 4.0 13.3 23.0 35.2 50.9 33.2 2.500 25.8 85.5 62.5 73.1 4.7 13.6 22.2 39.5 53.6 34.3 45.8 56.0 58.5 78.5 62.5 67.9 38.5 1.686 23.3 86.7 63.8 72.4 4.6 13.6 22.3 37.4 50.6 32.7 42.2 56.0 59.8 79.5 62.9 69.5 38.5 2.500 35.8 85.3 60.5 74.7 2.7 10.7 17.5 33.4 52.1 32.7 38.3 48.6 47.4 77.9 63.2 62.5 35.5 16.6 54.8 1.429 33.7 85.3 62.7 72.2 2.7 10.1 16.9 33.7 49.7 29.7 35.7 47.7 47.7 77.4 62.0 63.0 34.5 15.7 51.0 2.297 Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 598). 60 5.3.1. Valori “politici” La natura fondamentale delle ipotesi di Inglehart è di sociologia politica: attraverso l’individuazione degli orientamenti di valori egli ha tentato di cogliere l’andamento della società e quindi sapere come meglio governarla. È ovvio che i suoi principali pronunciamenti riguardino il campo politico. Egli su questo fa una specie di “profezia”: all’emergere di valori postmaterialisti tra i giovani avrebbe corrisposto uno spostamento delle preferenze elettorali verso sinistra, sovvertendo i tradizionali riferimenti di classe; la sinistra, percepita come progressista e universalista, avrebbe attratto le classi più benestanti e colte, mentre i ceti meno abbienti, “proletari”, si sarebbero orientati su posizioni più conservatrici, per la necessità di tutelarsi nei bisogni di base. Nel contempo una coscienza più tollerante, aperta e universalista avrebbe connotato sempre di più le nuove generazione costituendo la domanda politica prevalente nel futuro. Da quando erano state formulate queste previsioni sono passati molti anni e molte cose sono cambiate da allora. Molti di questi cambiamenti sono stati recepiti dallo stesso Inglehart nelle sue opere successive, di cui abbiamo dato conto. Nonostante questi cambiamenti egli riesce a scorgere l’avveramento progressivo della sua “profezia”. Ovviamente si parla di grandi mutazioni a livello politico, economico, sociale e culturale la cui portata ed i cui esiti sono difficili da cogliere in tutta la loro complessità e quindi anche da decifrare. Soprattutto è difficile dare un giudizio complessivo quando si osservano i fenomeni a livello planetario. Per quanto riguarda i giovani italiani, e per il ventennio osservato dalle ricerche IARD, le sue previsioni non sembrano realizzate, tuttavia non si può nemmeno sostenere che siano completamente smentite, solo non hanno avuto un’evoluzione così lineare e precisa come previsto. Cerchiamo di cogliere di seguito l’andamento degli orientamenti politici dei giovani, visti nel quadro dei grandi mutamenti socio-politici che hanno contraddistinto gli anni in questione. 5.3.1.1. Gli orientamenti politici dei giovani italiani Se escludiamo la parentesi ‘92-’96, la tendenza dei giovani italiani è stata sempre più verso destra, verso l’estremismo, verso la delegittimazione della politica e verso il ritiro di consenso e partecipazione sia alla politica diretta sia ai movimenti di opinione (scuola, lavoro, ambiente, pace, diritti della donna, ecc.). Ciò fa scalpore soprattutto se si tiene conto dell’alto livello di partecipazione realizzatosi nel ‘68 e negli anni ‘70. Anche i tentativi di movimento che hanno dato un qualche sussulto non hanno avuto né la risonanza né l’ampiezza dei precedenti. “I ragazzi dell’85”, come tutti gli altri movimenti di protesta studentesca, che da allora, con cadenza quasi regolare, hanno caratterizzato la vita scolastica italiana, appaiono finalizzati più ad ottenere un miglior funzionamento della scuola che una riforma della società. In ogni caso sono movimenti che si segnalano per una precisa astensione da ogni forma di impegno diretto nella politica e per mancanza di strategie di ampio respiro. Una certa mobilitazione l’ha ottenuto il movimento antiglobalizzazione, iniziato a Seattle alla fine del Millennio e poi riprodottosi in vari incontri internazionali, di cui in Italia ha fatto scalpore, più per la violenza delle manifestazioni che per le sue ragioni, quello mobilitatosi in occasione del G8 di Genova nel luglio 2001. Il Social forum di Firenze (novembre 2002) ha stupito tutti per la mancanza di fatti violenti e forse così è riuscito a far sentire all’opinione pubblica qualcuna delle sue ragioni. In ogni caso, nonostante l’attenzione che i media vi riservano, sembra che sia un fenomeno di minoranze elitarie riconducibili ai centri sociali, ai gruppi terzomondismi o pacifisti, ai militanti di sinistra o a cattolici impegnati sul sociale. Questo movimento ha il pregio di sottoporre all’opinione temi altrimenti disattesi dall’agenda dei mass media e dei politici. Di certo interpella la coscienza di molti cittadini progressisti e dei giovani in particolare, ma non sembra per ora riuscire a produrre una mobilitazione nemmeno lontanamente confrontabile con quella del ’68. Tutte queste 61 mobilitazioni o movimenti si prestano a letture contraddittorie. O sono fenomeni isolati, sia per frequenza che per durata, oppure riflettono più le paure e le ansie dell’attuale generazione che un’autentica vocazione alla solidarietà. In ogni caso è difficile documentarne la consistenza e prevederne lo sviluppo con le normali procedure delle indagini demoscopiche (cfr. Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 520). Il passaggio dalla stagione pubblico-partecipativa a quella di ritiro nel privato viene da alcuni attribuita ad un fenomeno fisiologico, una specie di pendolo che oscilla tra la partecipazione pubblico-politica e la ricerca di felicità privata (Hirshman 1983). Sarà anche vera questa alternanza di fasi storiche, tuttavia sono state messe in luce carenze notevoli nei processi di transizione tra la protesta giovanile ed il momento politico-istituzionale. Se da una parte si può far colpa al movimento giovanile di non essere riuscito a tradurre l'Utopia in proposte politiche praticabili e di aver rifiutato la mediazione delle forme partitiche tradizionali, è anche vero che il sistema politico italiano si è chiuso a riccio di fronte alla carica innovativa del '68, rifiutando sostanzialmente il contributo giovanile, limitandosi solamente a gestire la contestazione finché essa esaurisse la sua spinta (Leccardi 1987). Cosicché, abbiamo già visto, il movimento si vide costretto a scegliere o la lotta armata ad oltranza o l'abbandono dell'idea, perché senza sbocchi positivi e quindi frustrante. Pensiamo che tale esperienza pesi gravemente sulla coscienza collettiva di questa generazione e sia alla base del suo attuale rifiuto della politica. Essa ha probabilmente interiorizzato la lezione e rinuncia in partenza ad impegnarsi su un'impresa che ritiene impraticabile. Ciò viene verificato dalla permanenza del desiderio di cambio, di mutare l'attuale situazione politico-sociale e dalla contemporanea denuncia dell'impossibilità di attuarlo. Più che fermarsi a sondare eventuali segnali di rinascita dei movimenti, sembra più produttivo approfondire le correlazioni tra istanze valoriali e orientamenti di voto per cogliere le domande e i bisogni inespressi dei giovani. Figura.2 – Grafico delle variazioni nei principali valori giovanili sempre presenti in tutte le cinque indagini IARD (1983-2000) per l’età 15-24 anni 90 80 Non so, non posso prevedere Famiglia 70 60 Lavoro 50 Amicizia 40 Attività politica 30 Impegno religioso 20 10 Impegno sociale 0 Studio e interessi culturali 1983 1987 1992 1996 2000 Svago nel tempo Fonte: elaborazione propria su dati IARD Ciò che più impressiona dell’ultimo rapporto (2002) è il numero libero elevato di giovani che manifestano disgusto per la politica (26% vs. 12% dell’83). Questo dato,Attività unito alla constatazione sportive dell’alto numero di coloro che non vogliono collocarsi nell’asse destra-sinistra, o non sanno cosa 62 votare, o voterebbero un partito extra-sistema (i Radicali), otteniamo l’indicazione che circa un giovane su due (43%) resta in disparte rispetto alla politica. Prescindendo da motivi diffusi, come la tendenza generale di aumento di astensione dal voto e di sfiducia verso la politica, caratteristiche delle democrazie più avanzate, di cui Putnam ha di recente tracciato un’impietosa analisi, leggendole come una malattia della democrazia, cerchiamo,cerchiamo di individuare le cause specifiche del comportamento elettorale dei giovani italiani. Esse sembrano riconducibili, secondo l’estensore del rapporto, a motivi etici. Analizzando in maniera approfondita alcune risposte sull’ammissibilità/non ammissibilità di certi comportamenti, risulta che esse spiegano i comportamenti elettorali più di ogni altra precedente spiegazione (classe sociale, cultura familiare, reddito, confessione religiosa). Pertanto criteri etici sembrano essere la spiegazione più attendibile del comportamento elettorale47. Ne risulterebbe che chi vota a destra è più disposto ad accettare l’inganno verso l’altro (stato, partner, altro generico), mentre chi vota a sinistra è più favorevole al rischio e alla trasgressione. Queste preferenze manifesterebbero in quelli di destra tratti fortemente autoaffermativi, “una sorta di espansione dell’io a danno degli altri, al limite della prevaricazione” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 276); mentre in quelli di sinistra “una specie di sindrome nichilista o autodistruttiva, una sorta di dispersione dell’io, o indifferenza all’integrità del corpo” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 277). Rimane da interpretare il comportamento di coloro che non votano o non si pronunciano. Anche questo comportamento può essere spiegato con criteri etici. Incrociando, per esempio, l’ammissibilità dell’omosessualità con quella dell’evasione fiscale e correlandone gli esiti con le preferenze elettorali (compresi i “non voto” e i “non so”), emerge una tipologia in cui appare che quelli di sinistra (i “civici”) sono per l’accettazione dell’omosessualità e il rifiuto dell’evasione fiscale, quelli di destra (gli “integristi”) vogliono esattamente l’incontrario. Rimangono fuori i “rigoristi” (né omosessualità, né evasione fiscale) che corrispondono al “non so” e i “permissivi” (favorevoli sia all’omosessualità che all’evasione fiscale) i quali non votano o votano radicale. Ciò darebbe ragione del forte disimpegno politico di tanti giovani italiani: nessuna delle proposte politiche in questo momento interpreterebbe adeguatamente le loro istanze etiche. Troppo permissivi o compromessi gli attuali partiti per i “rigoristi”, troppo poco liberali per i “permissivi”. Tutto ciò indica una forte domanda etica da parte dei giovani italiani, ma anche una forte diversificazione valoriale ed un probabile aumento di intolleranza politica. Se si analizzano bene i risultati ci si accorge che ognuna delle posizioni espresse è incompatibile con l’altra. Da alcuni autori viene paventato il pericolo di una specie di “razzismo etico”, imperniato sull’idea di superiorità etica nei confronti dell’avversario, relegato a livello di essere inferiore, che può essere anche soppresso. Se queste analisi hanno un certo fondamento, il quadro politico che si prospetta non è dei più rosei. Una certa intransigenza nei giovani è fisiologica, ma se la situazione non si evolve c’è il rischio di andare incontro ad una stagione di conflitti insanabili, basati proprio su questioni di principio. Questioni più radicali di quelle politiche, perché non si tratta solo di decidere quale via perseguire per raggiungere il bene comune, ma addirittura qual è il bene comune. Almeno da una parte della gioventù italiana viene messo in questione un punto fondamentale dell’orientamento progressista: la sempre maggior tolleranza verso i comportamenti trasgressivi. Ora tale orientamento sembra minoritario tra i giovani italiani e la sua assenza può annunciare conflitti di tipo fondamentalista. 5.3.1.2. La partecipazione associativa Un altro elemento che può indicare una coscienza “politica” è la partecipazione a forme associative o di volontariato. Secondo Inglehart (1990), è la nuova via della democrazia, che 47 Questa sembra essere una costante del comportamento elettorale degli italiani. Già anni fa Inglehart aveva osservato che “nei Paesi Bassi e in Italia le priorità dei valori di un individuo paiono costituire un’influenza molto importante sulla scelta di partito di sinistra o di destra” (Inglehart 1983, 287). 63 diventa meno rappresentativa e più diretta attraverso l’impegno personale e la partecipazione a movimenti di opinione, a cortei, manifestazioni (“partecipazione politica non convenzionale”). La partecipazione associativa volontaria dei giovani italiani ha visto una crescita notevole negli anni ’80, per poi consolidarsi negli anni ’90 vicino alla media dei giovani europei. “L’ultima rilevazione IARD, pur registrando una leggera inversione di tendenza, conferma la presenza di una consistente partecipazione associativa giovanile nel nostro paese” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 439). Si calcola che l'associazionismo organizzato investa circa 1/3 degli italiani. Solo il 18,2% dei giovani non ha mai partecipato ad alcuna forma associativa organizzata In una società complessa ed in un tempo di sfiducia generalizzata verso la politica e le istituzioni, essa diventa sovente l'unico strumento di mediazione tra gli interessi privati e quelli più generali, svolgendo quell'opera di coscientizzazione che altrimenti difficilmente sarebbe raggiunta dal giovane lasciato a se stesso. Naturalmente l'osservazione vale per quelle forme di associazionismo che contengono, chiaramente espressi, motivi e modelli formativi. Prescindiamo quindi dall'aggregazione informale, i cui scopi si riducono principalmente alla soddisfazione del bisogno di stare assieme senza progettualità. Rispetto a questi ultimi, infatti, la partecipazione associata rappresenta un valida alternativa per la formazione alla “solidarietà lunga”: “Rappresentano anche l’antidoto a una chiusura nel piccolo gruppo (familiare o amicale), in un momento storico in cui la politica, intesa come luogo che dovrebbe produrre solidarietà lunghe, non riesce a raccogliere i frutti del protagonismo giovanile” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 440) Le forme di associazionismo che fanno più presa sull'elemento giovanile sono quelle (in ordine decrescente) sportive, religiose e di volontariato. Le attività associazionistiche più diffuse, secondo l’ultimo rapporto IARD, sono quelle di fruizione (29.2% di tutto il campione), di impegno verso gli altri (20.9%) e, molto più in basso, quelle di impegno religioso (11%). L'associazionismo si presenta con le seguenti caratteristiche: - Le due forme prevalenti (sportivo, religioso) tendono a ridursi con l’avanzare dell’età, mentre recupera con gli anni l'associazionismo d’impegno; L'associazionismo resta un'esperienza prevalentemente maschile. La partecipazione ad associazioni è correlata positivamente con la condizione di studente, con un miglior livello socioculturale della famiglia e con la residenza (prevale al Nord). Negli anni ’80 si era sviluppata una forte partecipazione giovanile ad azioni dimostrative per la pace, la scuola, l'ambiente, le donne, i problemi del quartiere, ecc. In quegli anni si poteva notare la crescita della coscienza ecologica e del pluralismo sociale e culturale; l’impegno per la pace; l’incremento di forme di volontariato. Queste forme di partecipazione, che già allora avevano suscitato qualche perplessità nei sociologi più attenti48, sono letteralmente precipitate a fine secolo, fata eccezione per quelle sui problemi locali. A parte una spiegazione legata al momento storico (la sinistra al governo) ed una certa ripresa, di questi ultimi anni dei movimenti di piazza (no-global, scuola, lavoratori, girotondi, ecc.) sembra però che la partecipazione stia effettivamente scendendo sempre di più. Forse in questo Inglehart ha 48 - G. Milanesi così concludeva l’inchiesta da lui diretta sui giovani europei e la pace: “Resta incombente l’impietosa ipotesi di A. Heller secondo cui l’interesse dei giovani (e in particolare quelli legati a certi movimenti per la pace) per le tematiche della guerra, della violenza, della pace e della non violenza non rivela che la paura dell’espropriazione dei privilegi e delle opportunità fin qui raggiunte e, viceversa, non nasconde altro che un vitalismo senza progetto, che è più rivolto alla conservazione dello status quo che all’invenzione di una diversa qualità della vita. [...] La cultura della pace è per ora più chiacchierata che interiorizzata, più pensata che vissuta, più auspicata che prodotta (Istituto di Sociologia - FSE/UPS- Roma 1988, 162-163). Ed è sintomatico anche il commento di Ferrarotti su questi movimenti: “ La fiammata pacifista ed ecologista è del tutto riconducibile alla strategia dell’evitamento descritta da Offe a proposito dei Verdi tedeschi. E’ riappropriazione di una razionalità difensiva, quasi istinto di conservazione nutrita di inclinazioni al fondamentalismo che non può trovare saldatura se non contingente con le stesse organizzazioni della sinistra e la loro memoria storica” (Ferrarotti et alii 1986, 15) 64 previsto le cose come una continuazione degli anni ’70. Probabilmente c’è una coscienza civica ancora da attivare, ma anche degli strumenti interpretativi da aggiornare. C’è un atteggiamento sempre più di delega nella società e nei giovani; chi vuole impegnarsi lo fa in ambiti ristretti al di fuori del clamore dei mass-media e della politica. 5.3.1.3. Il senso di appartenenza territoriale Secondo l’ultima indagine, risulta che, pur percependo in qualche modo la minaccia dello sradicamento territoriale, frutto della società postmoderna, complessa e multiculturale, i giovani hanno reagito coagulandosi attorno al recupero delle tradizioni locali (52%), senza rinunciare ad essere contemporaneamente cittadini di qualcosa di più vasto, sia esso l’Italia (28%), l’Europa (4%) o il mondo (15%). Sembra, secondo l’estensore del rapporto, che “nonostante siano cambiate le condizioni politiche e sociali dello scenario, non sia cambiato molto, negli ultimi anni, il senso di appartenenza territoriale dei giovani. […] Di conseguenza, essi appaiono, anzitutto, attaccati alla loro città, ma anche alla nazione. Si dichiarano orgogliosi di essere italiani, ma senza esprimere identità esclusive. Essi, cioè, non appaiono né localisti né nazionalisti. Piuttosto, in questi anni hanno allargato il loro sguardo oltre i confini nazionali. Si presentano, quindi, più cosmopoliti e più europei. Con una battuta: hanno molte patrie, molti orizzonti territoriali; e, dunque, nessun riferimento esclusivo” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 338). Pertanto, nonostante tante minacce e provocazioni, i giovani non sembrano tradire la propensione postmaterialista: anche se meno universalisti degli utopisti degli anni ‘70, essi non rinunciano ad essere anche cittadini di un contesto più ampio. La loro appartenenza territoriale non contraddice il cosmopolitismo, ma lo presuppone. È un’appartenenza che si fa più concreta senza rinunciare ai grandi ideali, così come d’altra parte risulta dagli orientamenti tipici del postmodernismo (cfr. Inglehart 1998). Pertanto, il bisogno d’appartenenza sembra venga saturato dai giovani Italiani percorrendo due vie: da una parte col sentirsi appartenenti ad una comunità locale, dall’altra coltivando gli ideali universalistici di una cultura, che moltiplica le occasioni di conoscenza e contatto con tutto il mondo. Ciò che può stupire è, al massimo, la scarsa attrattiva esercitata dall’Unione Europea. Non che la rifiutino, ma non la sentono come patria. Al massimo chiedono ad essa di diventare più forte e meglio organizzata. 5.3.1.4. Materialisti, postmaterialisti o semplicemente pragmatici? L’orientamento manifestato da molti giovani verso destra sembrerebbe indicare un ritorno a valori e bisogni di tipo materiale, segnatamente di sicurezza sociale, ma è questa la giusta interpretazione da dare al comportamento elettorale dei giovani italiani? Gli avvenimenti succeduti a livello nazionale e internazionale, le acclerazioni della società sia nel campo delle scoperte che dell’economia sono tali da rimettere in discussione le classiche definizioni “politiche” e, dall’altra, introducono nuovi elementi di valutazione con cui misurarsi. Possono le ipotesi di Inglehart tenere in questo nuovo contesto? Una risposta l’ha tentata lui steso. Già nella prima opera egli dedicò un capitolo per capire “come distinguere la sinistra dalla destra”, riconoscendo che “il loro significato può variare da un paese all’altro e […] nel tempo all’interno di uno stesso paese” (Inglehart 1983, 218). In particolare riconosceva che “l’Italia è un paese nel quale la dicotomia sistema/antisistema si presenta con forza particolare”, per cui il voto risultava bloccato ed era difficile stabilire “dove finisce la sinistra e dove inizia la destra” (ibid., 225). In un’opera successiva (1990) egli prese atto del mutamento in corso, in seguito al quali alcune istanze postmaterialiste potevano essere fatte proprie da partiti di destra, mentre partiti di sinistra si rischiavano di attardarsi nella difesa di posizioni superate: per cui 65 attribuire alla destra e alla sinistra un ruolo conservatore o progressista diventava difficile. Questo rimescolamento di posizioni si rende particolarmente evidente nel caso italiano, dove alcune istanze progressiste sono state assunte dalla destra mentre altre lo sono state dalla sinistra. Questo a dispetto di una certa chiarificazione delle posizioni avvenuta nel corso degli anni ‘90. Infatti in quegli anni la situazione italiana si è sbloccata, rimettendo il gioco forze che fino ad allora non potevano andare al governo perché parte dell’antisistema (comunisti, fascisti). Questa “rivoluzione” politica ha consentito di creare due schieramenti alternativi, corrispondenti alla classica divisione “destra-sinistra”: da allora è diventato più facile riconoscersi in polarità comuni alla maggior parte dei paesi occidentali. Ma cosa significa oggi essere di destra o di sinistra? E, soprattutto, che significato ha in ordine alla polarità materialismo/postmaterialismo e alle previsioni fatte da Inglehart negli anni ‘70? Il nostro autore, avvalendosi degli studi di Janda (1970), assunse, già fin all’inizio, il seguente schema come punto di riferimento: “i partiti della sinistra tendono ad essere relativamente favorevoli alla proprietà del governo dei mezzi di produzione; un ruolo più importante del governo nella programmazione economica; la ridistribuzione della ricchezza; ampi programmi di assistenza sociale a spese dello stato; l’allineamento con il blocco orientale, piuttosto che con quello occidentale; la laicizzazione della società; maggiori stanziamenti per l’esercito; l’indipendenza dal controllo straniero; l’integrazione internazionale; l’integrazione nazionale; l’estensione del diritto di voto e la protezione dei diritti civili” (Inglehart 1983, 219). Già al momento della verifica empirica questo schema apparve approssimativo, infatti, la correlazione tra partiti della sinistra e spese militari o diritti civili non corrispondeva all’immagine diffusa tra gente. Perciò questi due item furono espunti dallo schema. A queste correzioni, fatte in corso d’opera, se ne sono aggiunte altre in seguito ai mutamenti di questi ultimi anni. Il crollo del blocco sovietico ha reso inutile la distinzione tra favorevoli al blocco occidentale od orientale. Tra l’altro il PCI aveva già affrontato questo tema negli anni ‘70, affermando la propria fedeltà alla NATO, anche se bisogna riconoscere che il sentimento anti-americano è più diffuso tra gli elettori di sinistra. La crisi del “Welfare” ha costretto anche i partiti della sinistra ad approntare programmi di governo che prevedono una riduzione della spesa previdenziale ed una progressiva privatizzazione delle aziende pubbliche. Su questo, però, la destra si muove con maggior determinazione e disinvoltura, anche se la presenza di AN nella coalizione di governo ne attenua la vocazione antistatalista. Ciò in cui la destra italiana sembra emergere è la maggior propensione a favorire l’iniziativa privata nella produzione e a preoccuparsi di meno dei temi previdenziali; di conseguenza a porre meno vincoli sugli investimenti e sulla mobilità dei capitali o della manodopera, a difendere con maggior impegno l’identità nazionale (e regionale) a scapito della dimensione internazionale e solidaristica, a razionalizzare la burocrazia, a diminuire i vincoli e i controlli statali e a aderire più prontamente alle iniziative internazionali della politica americana, stanziando più capitali per gli armamenti e le forze armate. Da queste analisi sommarie è difficile dire quale orientamento politico sia più progressista in senso postmaterialista. Rispetto ai bisogni materiali, le due formazioni sembrano spartirsi a metà la posta: la sinistra più attenta ai bisogni di sicurezza economica (posto di lavoro garantito, previdenza sociale), la destra ai bisogni di sicurezza sociale (ordine pubblico, difesa). Rispetto ai valori postmaterialisti appare avvantaggiata la sinistra (maggior libertà e partecipazione dei cittadini, universalismo ed ecologia), però la destra sembra molto attenta a garantire le libertà individuali, che sembrano costituire la domanda politica attualmente più forte. Perciò stabilire se la destra sia materialista e la sinistra postmaterialista sembra azzardato. Anche perché certe scelte sono inderogabili, data la partecipazione dell’Italia a sistemi sovranazionali, come l’Unione Europea, la Nato e, comunque, al sistema socio-politico ed economico occidentale. Per cui lo scarto tra destra e sinistra in merito ai grandi obiettivi politici ed economici risulta minimo; ciò che le differenzia è il grado di sensibilità ai valori sottostanti e le strategie che questi dettano nel perseguimento dei 66 grandi obiettivi. Perciò, definirsi di destra o di sinistra può non essere così decisivo in ordine ai valori postmaterialisti. L’indice di materialismo/postmaterialismo non sembra più passare attraverso un’opzione politica. Probabilmente i dati vanno letti in termini più ampi: il voto di destra può nascondere una domanda di maggior libertà, con un’istanza individualistica, come d’altra parte la tendenza al disimpegno potrebbe confermare. D’altra parte non manca chi fa notare il valore innovativo e quindi profondamente politico di certi atteggiamenti giovanili tendenti al disimpegno e al disinvestimento affettivo dalla politica. “La crisi delle grandi narrazione (Lyotard), delle spiegazioni e dei modelli globali, restituisce al reale la sua vera configurazione di molteplicità contraddittoria che non può essere compresa per intero. [...] Anche la politica, come sintesi superiore e globale, cede il passo ad un suo ridimensionamento in senso più pragmatico. [...] La fine delle grandi prospettive non genera però disinteresse ed apatia; anzi l’attenzione si fa più puntuale ma anche più concreta, si rivolge al presente, a ciò che è realizzabile qui e ora. In tal senso si possono interpretare la rivalutazione della quotidianità e dei rapporti interpersonali” (Bianchi 1986, 35). Possono essere compresi in quest’ottica anche la crescita del volontariato e dell’associazionismo ed il rifiuto dell’“egemonia” di partiti ed ideologie da parte dei movimenti giovanili. “Si alla partecipazione, no al consenso” potrebbe essere lo slogan che sintetizza parte degli atteggiamenti politici dei giovani di questi anni. Rispetto al significato del lavoro, abbiamo due grandi trend nelle risposte dei giovani italiani. Fino al ‘92, gli andamenti sono stati in sintonia con le previsioni di Inglehart: diminuisce l’importanza del lavoro nella gerarchia dei valori (cede il posto agli affetti), in compenso crescono le attese di autorealizzazione e autonomizzazione, con notevole disponibilità alla flessibilità. Ma dopo il ‘92 le attese rispetto al lavoro si invertono: aumentano le domande in merito allo stipendio e al reddito, mentre diminuiscono rispetto all’ambiente, ai rapporti, all’autoespressione, come si può evincere dalla seguente tabella riassuntiva. Tabella.3 – Elenco delle aspettative rispetto al lavoro di giovani italiani nelle ricerche IARD 23. Qual è l’aspetto più importante del lavoro tra le cose di questo elenco? E quale metterebbe al secondo 1992 posto? E quale invece considera meno importante e metterebbe al penultimo e ultimo posto? % di risposta all’item “1° posto” 15-24 a. 15-29 a. Lo stipendio, il reddito Le condizioni di lavoro (ambiente di lavoro, tempi di trasporto…) Buoni rapporti con i compagni di lavoro Buoni rapporti con i superiori, i capi La possibilità di migliorare (reddito e tipo di lavoro) La possibilità di imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità L’orario di lavoro La possibilità di viaggiare molto La sicurezza del posto di lavoro Non indica 1996 2000 15-24 a. 15-29 a. 15-24 a. 15-29 a. 18.6 13.6 19.0 13.4 32.8 14.9 32.0 13.7 29.8 11.4 29.9 10.4 9.8 3.5 15.4 9.2 3.2 15.6 9.4 3.5 12.5 9.6 3.5 13.3 6.1 3.4 9.5 6.0 3.3 10.9 31.1 30.8 22.8 23.4 14.6 16.0 1.5 3.1 1.8 3.0 1.1 1.3 1.4 2.3 3.4 4.0 0.7 0.8 0.8 2.8 13.6 7.9 1.4 2.2 12.9 7.1 Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 614) Se confrontiamo gli item tipicamente postmaterialisti (buoni rapporti; possibilità di migliorare reddito e tipo di lavoro, di imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità, di viaggiare molto; condizioni e orario di lavoro), li vediamo tutti in flessione. Impressionante è la netta caduta di 67 interesse per l’item più postmaterialista (imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità) che passa dal 31.1% del ‘92 al 14.6% del 2000, cui fa da controparte la netta ascesa della domanda di stipendio e reddito (dal 18.6% al 29.8%). Lo spartiacque sembra essere rappresentato dai dati della ricerca del ‘96, infatti in tale rapporto viene evidenziato il “deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 55), conseguenza della sfavorevole congiuntura economica verificatasi a metà degli anni ‘90. Mentre la ricerca del ‘92 aveva registrato una bassissima percentuale di giovani in cerca di prima occupazione (3.7%) e il numero più basso da quando erano cominciate le ricerche IARD di giovani in cerca di lavoro (26% sotto i 25 anni, 28.8% sotto i 30), quella del ‘96 registra un debole aumento della ricerca di prima occupazione (5.4%) e più marcato di lavoro in genere (33.3% sotto i 25 anni, 36.8% sotto i 30), con un aumento complessivo di 6-7 punti percentuali di giovani con problemi occupazionali. È indicativo che la domanda cresca più per il lavoro in genere che per la prima occupazione, segno del deterioramento complessivo delle condizioni di lavoro e dell’aumento dei rischi d’espulsione dal mondo del lavoro. Altra caratteristica di questi anni è l’aumento delle disuguaglianze territoriali (favorito il Nord-Est, sfavorito il Sud e le Isole), che comportano differenti opportunità d’impiego per i giovani, disparità nella qualità del lavoro e nella retribuzione, maggiori discriminazioni per sesso e cultura. Questi fattori di tipo strutturale possono dare ragione dei mutamenti registrati nelle valutazioni del lavoro e sono perfettamente in linea con le ipotesi di Inglehart. Infatti, affermano i curatori del rapporto del ‘97 che “l’aumento consistente di importanza attribuita alla retribuzione, cui corrisponde una perdita di attenzione verso la dimensione formativa e realizzativa del lavoro” sia da attribuire “alla crisi economica, al mutato clima del mercato del lavoro e alla maggior difficoltà di trovare un posto, rispetto gli inizi degli anni Novanta” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 81). Le diverse situazioni sociali e culturali influiscono a loro volta nella tipologia delle risposte. I giovani più scolarizzati tendono ad essere relativamente più soddisfatti del lavoro, lo concepiscono più in termini autorealizzativi, ma anche di carriera, mentre i meno scolarizzati mostrano maggior apprezzamento per la dimensione relazionale ma anche per quella retributiva. Pertanto elementi espressivi (o postmaterialisti) si intrecciano con quelli strumentali (o materialisti) in entrambi i casi, rendendo difficile una lettura lineare dell’evoluzione dei bisogni e dei valori giovanili in merito al lavoro. Ciò che appare evidente è che il bisogno immediato è quello che determina la risposta in termini di preferenze e di valori. Anche un altro elemento considerato da Inglehart, la soddisfazione, non sembra dare indicazioni indiscutibili: a dispetto del deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro, aumenta il numero di giovani che attribuiscono molta importanza al lavoro e di giovani occupati che esprimono soddisfazione per il lavoro. Ciò, a detta degli estensori del rapporto, non va attribuito ad “improbabili tendenze culturali emergenti”, ma, più verosimilmente, al “mutato clima del mercato del lavoro”: i giovani occupati, “considerandosi in qualche modo dei privilegiati, esprimono più alti livelli di soddisfazione del lavoro” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 79). Analoghe considerazioni vanno fatte per la ricerca 2000. Pur essendo in atto ampie trasformazione in campo produttivo, che i giovani colgono molto rapidamente adeguandosi con notevole flessibilità, non cambiano sostanzialmente i giudizi e le attese sul lavoro. Le trasformazioni più rilevanti riguardano l’aumentata disponibilità del mondo produttivo verso i giovani, connessa con il declino dell’organizzazione fordista del lavoro. Conseguenza di ciò è l’aumento di giovani occupati e, soprattutto, che hanno fatto esperienze, anche brevi, di lavoro. La quota di giovani che non studia e non lavora diminuisce notevolmente (13.8% nel 2000 contro il 19.2% del ‘96), i giovani occupati sono il 52.9% e, degli studenti a tempo pieno, la metà ha avuto almeno un’esperienza di lavoro retribuito, per cui a 22 anni l’80% della popolazione giovanile ha avuto un’esperienza lavorativa, anche se solo dopo i trent’anni tale esperienza si traduce in occupazione stabile nella medesima proporzione. Complessivamente “i giovani disoccupati o in cerca di un primo lavoro sono il 10.6% del totale, in sensibile diminuzione rispetto alla precedente edizione dell’indagine (14.0%)” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 135). Queste variazioni dipendono 68 da due fattori concomitanti e interagenti: la maggior flessibilità del mercato del lavoro e l’aumentata disponibilità dei giovani a adattarsi alle nuove situazioni occupazionali, superando concezioni troppo rigide e tradizionali e sfruttando tutte le opportunità che si offrono loro. Ma ciò non significa un netto miglioramento della condizioni lavorative. Sono molti che stanno cercando un lavoro migliore, più adatto e sicuro: il 46% degli occupati a termine, il 21.5% degli occupati stabili e il 15.2% dei lavoratori indipendenti… “I giovani entrano più facilmente nel mondo del lavoro, ma si devono spesso accontentare di occupazioni marginali e meno sicure di una volta” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 150). Questa situazione può spiegare la permanenza degli stessi trend, nelle attese verso il lavoro, dell’edizione precedente. Se è vero che gli item strumentali perdono alcuni punti percentuali, lo stesso capita anche agli item espressivi, il tutto a vantaggio di nuovo item inserito solo in quest’ultima edizione: “sicurezza del posto di lavoro” (13.6%), che non rappresenta certo un valore postmaterialista. Complessivamente le maggiori preferenze vanno agli item strumentali, e l’opzione “stipendio, reddito” ne ottiene il doppio rispetto alla prima delle scelte espressive: “possibilità di imparare ed esprimere le proprie capacità”. Solo in un particolare le concezioni di Inglehart possono trovar conferma in questi dati: nella dipendenza delle risposte dalla dinamica dei bisogni. Lì dove si danno condizioni sociali, economiche e culturali migliori emergono con maggior evidenza i valori espressivi, quando invece queste condizioni sono di bassa qualità (Mezzogiorno, poco colti, di ceto basso) le scelte tendono a privilegiare gli aspetti strumentali del lavoro. Sostanzialmente non vengono smentite le ipotesi di Inglehart: infatti le sue previsioni erano subordinate alla stabilità del quadro economico, sociale e politico. In caso di variazioni di tali parametri le sue stesse ipotesi prevedevano regressioni a valori materialisti, in difesa dei bisogni minacciati. Questo è ciò che si è verificato negli anni ‘90. Però bisogna riconoscere pure che, se il trend verso una cultura postmaterialista non è cessato, tuttavia il suo corso non appare così lineare e sicuro come previsto da Inglehart, e ciò non solo per il deterioramento delle condizioni economiche, ma anche per altri mutamenti sociali, politici e culturali intervenuti nel frattempo. Infatti già nel ‘92, quando la congiuntura economica era favorevole, i ricercatori registravano che “gli ideali di realizzazione e autonomia lasciano spazio anche ad atteggiamenti moderatamente opportunistici […] e anche gli interessi sono perseguiti con una logica prevalentemente individuale” (Cavalli, de Lillo, 1993, 69-70). Questa tendenza all’opportunismo e all’individualismo viene colta soprattutto dalla forte flessione nella partecipazione sindacale, ma anche da una serie di altri atteggiamenti di adattamento pragmatico emersi già nel decennio precedente, che negli anni ‘90 diventano ancora più evidenti. 5.3.2. Il rapporto giovani - istituzioni Una delle spiegazioni utilizzate per spiegare il rifiuto della politica da parte dei giovani è stata la constatazione della distanza-incomprensibilità della società organizzata (istituzioni) dal mondo giovanile. D’altra parte Inglehart pronosticava un sempre maggior distacco delle nuove generazioni dalel istituzioni tradizionali, come forma di conquista dell’autonomia personale. In questo sembra che sia stato buon profeta. Le ricerche ci rimandano una situazione di progressiva sfiducia/distacco dei giovani dalle istituzioni. Però è anche vero che esistono delle diversità di atteggiamento verso istituzione ed istituzione. La ricerche Iard hanno costantemente monitorato tale cambiamento nel tempo. Dall’ultima indagine appare che la fiducia nei riguardi delle istituzioni, fatta qualche rara eccezione, è andata costantemente calando dalla prima indagine all’ultima. Solo verso un gruppo, gli scienziati, i giovani mostrano generalmente (85.2%) “fiducia”, all’estremo opposto della scala si collocano i politici, che godono di una sfiducia generalizzata. A livelli intermedi si collocano altre categorie. 69 Godono di fiducia diffusa (60% ca.) le principali istituzioni internazionali (ONU, Unione Europea, NATO), gli apparati pubblici di controllo (polizia, carabinieri, magistratura), gli insegnanti e la scuola. Appartengono invece all’area della fiducia solo relativamente diffusa (meno del 50%) sacerdoti, industriali e banche, giovanali e TV. Sette gruppi/istituzioni godono scarsa fiducia (militari di carriera/esercito, amministratori communali e funzionari pubblici/burocrazia, governo, sindacalisti, partiti e uomini politici). Alcuni di questi gruppi hanno avuto, negli anni, momenti di crescita e altri di caduta della fiducia. Per esempio, i sacerdoti avevano avuto un buon recupero attorno agli anni ’90 (51%), per poi precipitare nell’ultima alle posizioni di partenza (46.6%), lo stesso andamento hanno registrato gli industriali (50% nel ‘96). Deboli segnali di recupero, rispetto alla precedente, lo mostrano le banche, i funzionari dello stato e il governo. Ma questo non significa fiducia nella politica Globalmente si può osservare che i giovani ripongono fiducia nelle istituzioni dell'ordine sociale, mentre hanno poca fiducia nelle istituzioni di tipo politico. Le istituzioni economiche godono anch'esse di una fiducia abbastanza diffusa. Questa fiducia poi subisce delle variazioni in relazione al sesso, all'età e l'estrazione sociale e geografica. Le ragazze hanno più fiducia nella Chiesa, nell'esercito e nei militari, mentre i ragazzi ne hanno di più verso la magistratura e nella burocrazia. Il tasso di fiducia nelle istituzioni decresce con l'età, eccetto che per la magistratura. Decresce anche passando dalle regioni settentrionali a quelle meridionali, ma subisce delle varianti rispecchianti le culture locali. I giovani di classe inferiore danno più preferenza per esercito, carabinieri. Quelli di classe superiore preferiscono la magistratura, banche, insegnanti, sacerdoti, burocrati, governo. I sindacalisti ottengono un certo riconoscimento solo nella classe medio-bassa, non in quella bassa. Questo atteggiamento di caduta della fiducia nelle istituzioni che più rappresentano lo stato e l’organizzazione politica, è una costante della coscienza giovanile italiana, ma non solo. E’ un problema registrato in diversi paesi dell’occidente. Il fenomeno negli USA si è manifestato fin dagli anni ’60. All’interno del contesto europeo l’Italia si è sempre dimostrata tra le nazioni dove è più alto il livello di sfiducia, talmente che Inglehart ne fece uno dei termini di paragone della sua ricerca. Ciò che appare nuovo nella situazione giovanile italiana nell’ultima ricerca è. - l’approfondimento di questa tendenza - la sua estensione: “se sino ad alcuni anni fa fra i giovani italiani la crisi di fiducia aveva riguardato soprattutto la situazione della politica, oggi si aggrava e si allarga ad altre aree del sociale, coinvolgendo in particolare il mondo dell’informazione e gli apparati di controllosicurezza” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 284-285). 5.3.3. Valori pertinenti la sfera immateriale I valori che appaiono invece in netta ascesa sono quelli riferiti alla sfera individuale e dei rapporti interpersonali. Gli estensore dell’ultimo rapporto fanno notare “l’evolvere del sistema di valori verso al sfera della socialità ristretta e della vita privata, a scapito soprattutto dell’impegno collettivo” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 43). Come si evince dai dati il valore che è sempre rimasto in testa nelle preferenze giovanili è quello della famiglia (± 85%). Al secondo posto negli anni ‘80 c’era il lavoro, che ha ceduto la piazza d’onore negli anni ‘90 all’amicizia e all’amore. Questo non tanto per una sua grave perdita d’importanza, quanto per una maggior crescita dei valori affettivi (dal 58% al 74% l’amicizia, fino 70 al 78% l’amore)49. L’emergenza di valori affettivi è ciò che caratterizza dunque le attese giovanili di questi anni manifestando un bisogno in tal senso. Un altro valore in costante ascesa in tutti questi anni è quello legato all’espressività nel tempo libero e ad atteggiamenti ludici e edonistici. Di tutti questi, che sembrano i valori emergenti tra i giovani, ci occuperemo in questa ultima parte del paragrafo, che tratta appunto i valori collegati con la sfera più immateriale. 5.3.3.1. I valori familiari La ricerca del 2000 aggiunge un altro tassello importante alla comprensione del fenomeno. Oltre indicare la mancanza di politiche di riduzione della precarietà del lavoro, utilizza soprattutto i modelli culturali per la comprensione del fatto. In base ad analisi più approfondite risulta che la maggior parte di giovani italiani usufruisce di alti margini di libertà senza fornire in cambio adeguata partecipazione alla conduzione familiare. Su questo scambio si basa l’accordo tra genitori e figli. Risulta così che il “modello italiano” ha beneficiato di una congiuntura favorevole, costituita dalla combinazione del “nuovo” diffuso benessere sociale con la “tradizionale” struttura familiare. Ciò ha permesso alla generazione attuale di approfittare di un modello “innovativo” di relazioni genitori-figli, non più centrato su rapporti gerarchici e autoritari, ma sul dialogo e la comprensione, senza perdere dall’altro i vantaggi del modello “solidaristico” tradizionale, che contemplava un elevato grado di accudimento ed una corrispondente “disponibilità ad offrire ai figli tutta una serie di opportunità, sia in termini di qualità della vita, sia in termini di possibilità per il futuro” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 184). “Il risultato di questa ‘felice’ congiuntura è che se l’abitare in famiglia costituisce per molti ragazzi una ‘necessità’ collegata alla incertezza lavorativa o alla scarsissima presenza di politiche pubbliche di sostengo dell’autonomia, per molti, o almeno per quanti sono ormai in un’età adulta e lavorano, si tratta invece di una scelta, sulla quale giocano sì considerazioni di carattere affettivo, e in particolare il complesso del ‘gradimento’ del ‘clima familiare’, ma anche le caratteristiche del modello sopradelineato, che da un punto di vista strettamente ‘razionale’, rendono decisamente vantaggiosa la permanenza nella famiglia di origine” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 184). Non è detto però che, di fronte ai cambiamenti in atto nelle famiglie italiane (sempre più monogenitoriali o con madri professionalmente attive), esso si confermi: da tendenze in atto, soprattutto nei ceti più elevati, sembra che stia avanzando un modello più simile a quello nordeuropeo. Pertanto attorno all’alto valore attribuito alla famiglia, si concentrano bisogni e valori diversi, a volte contrastanti tra loro. Da una parte esigenze di tipo materiale, come quella di trovare casa di fronte alla crisi degli alloggi e alle difficoltà e precarietà occupazionali, ma anche quella di risparmiare sul vitto e alloggio e di non doversi prendere cura della casa, dall’altra però avanzano valori che sono perfettamente in linea con quelli delle società più avanzate: procrastinare e ridurre nuzialità e natalità, instabilità coniugale, nuovi tipi di relazione tra i generi e mutazione del tipo di rapporti tra generazioni. Se da una parte perciò sembrano smentite le previsioni di Inglehart sulla famiglia (cosa avvenuta anche a livello internazionale), dall’altra non paiono essere messe in crisi le logiche che portavano a quelle previsioni e l’andamento globale dei valori. Infatti il successo del “modello italiano” di “famiglia lunga” sembra riposare su logiche del tipo “scelta razionale”, che sono le stesse impiegate da Inglehart per spiegare l’andamento dei valori e comportamenti previsti. Perciò, se in Italia si è sottolineato maggiormente il valore della famiglia, in parte può essere ricondotto ad una tipica tendenza culturale, dall’altra esso appare frutto di comportamenti collettivi che corrispondono a adattamenti alla situazione secondo logiche opportunistiche o di “rational choice”. 49 Fino all’indagine del ‘92 costituivano un unico item: “Ragazzo/a e amici/che” (cfr. Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 598). 71 Per il resto, le tendenze ed i valori dei giovani italiani non sembrano essere molto difformi da quelli dei loro coetanei europei e rispondo ai bisogni di autorealizzazione e libertà già individuati da Inglehart negli anni ‘70: “Maggiori rispetto al passato sono, inoltre, i bisogni di libertà individuale e di autonomia, più pressante è la spinta all’autorealizzazione, più forte è il desiderio di avere tempo per sé soprattutto da parte dei giovani adulti. Tutte queste tendenze portano all’abbassamento del tasso di nuzialità e all’aumento dell’età al momento del matrimonio (sempre più lungo diventa il periodo di fidanzamento) che, assieme all’incremento del numero dei single e delle convivenze more uxorio, provocano un sempre più ritardato concepimento della prole” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 188). Perciò da questo dato emergono, oltre a quelli affettivi e di sicurezza economica, evidenti bisogni di libertà, autonomia e autorealizzazione, che comportano una riduzione degli impegni in famiglia, sia in quella di origine, sia in quella di destinazione: ciò spiegherebbe sia il ritardo o la diminuzione della nuzialità, la riduzione di natalità, come anche la convivenza di genitori e figli adulti sotto lo stesso tetto. Non viene intaccato il principio di autonomia ma esso ha trovato nelle famiglie italiane un indubbio vantaggio nel comporlo con il bisogno di sicurezza economica. Per il resto i valori non sono difformi da quelli degli altri giovani europei… Resta ancora da spiegare il forte bisogno d’affettività. 5.3.3.2. I valori affettivi Il campo dove i valori hanno dimostrato di essere continuamente in ascesa in questi ultimi 20 anni è quello dei rapporti affettivi, siano essi di coppia che di gruppo, mono o eterosessuali. A prescindere dalle dinamiche evolutive dell’età, la crescita costante di questo valore va adeguatamente analizzata perché è un indicatore di un bisogno sempre impellente. Il bisogno cui fa riferimento questo valore è certamente quello classificato da Maslow come “appartenenza”, collocato al terzo livello nella sua scala gerarchica, subito dopo i bisogni di tipo materiale. D’altra parte, l’appartenenza è un concetto fondamentale in sociologia, anche se non sempre bene precisato50. Il fatto che stiano cambiando i modi attraverso cui si struttura e si definisce l’appartenenza, costringe a spostare l’ottica sui processi di socializzazione. Ancora più preciso appare questo quadro nell’indagine del 2000, dove emerge un nucleo forte di valori (famiglia, amore, amicizia, autorealizzazione e lavoro) che rappresentano il punto focale di attenzione di giovani. “Raggiunta la sicurezza su questo nucleo centrale ci si può dedicare al mondo dell’esteriorità (lo sport, il successo e la carriera, la vita agiata, il divertimento) o al mondo dell’impegno che arricchisce la nostra vita interiore (religione, impegno sociale, studio e cultura)” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 47). Anche valori appartenenti alla vita collettiva come uguaglianza, solidarietà, libertà e democrazia sono percepiti dai giovani assai vicini alla sfera individuale. Ciò porta gli autori a trarre la conclusione che “tali temi non vengano tanto visti come esercizio di virtù civiche o riconoscimento di diritti generalizzati quanto piuttosto come elementi costitutivi della propria identità personale. In altre parole la libertà e la democrazia sono intese più come diritti personali da far valere, che come conquiste collettive” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 47-48). 50 - “Il concetto di appartenenza non ha ricevuto, nel pur ampio uso che se ne fa nelle scienze umane e sociali, una definizione esplicita e rigorosamente univoca. [...]. Il concetto tende peraltro ad essere generalmente assunto nel suo significato intuitivo, elementare, quasi non richiedesse né chiarificazione teorica, né una precisazione in termini operativi. Con esso ci si riferisce alla condizione di inclusione di una entità semplice (normalmente un individuo) in una entità complessa (normalmente un gruppo) considerata come unità (non come mero aggregato), entro una gamma di situazioni che variano con il grado di volontarietà dell’inclusione e con la reversibilità della stessa” (Struffi “Appartenenza” in Demarchi, Ellena, Cattarinussi 1987, 155) 72 Rimane la constatazione di una certa caduta di solidarietà sociale, come documentato da una ricerca alla fine degli anni ‘8051. “Essa sembra associarsi ad una concezione della vita di tipo narcisistico” (Cipolla 1989, 9), tendente all’autocompiacimento, a tattiche autoreferenziali, al ritiro in se stessi, nelle proprie micro-realizzazioni, nella propria immagine, nel proprio solipsismo sociale. “Ma tutto ciò non significa individualismo esasperato o retro-datato, né isolazionismo o separatezza. Rappresenta piuttosto un pragmatismo circostanziato e contingente che ha paura di concludere e che tende a superare il senso del vuoto nell’apertura al gruppo dei pari o nel rifugio in problemi universali” (Cipolla 1989, 9-10). 5.3.3.2.1.1 Ritorno della capacità progettuale e di fiducia nel futuro al passaggio del millennio La quinta indagine IARD offre interessanti spunti sia in riferimento al superamento delle tappe di passaggio, che in relazione alla previsione di raggiungerle nei prossimi anni. Dall’indagine, a prima vista, emerge una certa consapevolezza del proprio futuro personale; ad esempio il 59% del campione è convinto di avere le idee piuttosto chiare sui propri destini, con una punta minima 48% - tra i più giovani e una punta massima - 67 % - tra i meno giovani. Tuttavia i ricercatori avanzano il sospetto che tali risposte non siano del tutto attendibili sugli atteggiamenti giovanili verso il futuro. Essi affermano: In realtà la relatività di tale convinzione è dimostrata dal fatto che ben oltre la metà dei giovani italiani (58%, senza grosse distinzioni per coorti di età) si dice altrettanto convinta che fare delle esperienze interessanti nel presente sia più importante che pianificare il futuro. Pur non sminuendo la rilevanza delle cose che potranno accadere, la maggioranza dei giovani italiani esprime una chiara ed evidente tensione verso la dimensione presentistica dell’esistenza e una certa difficoltà a prefigurare i propri percorsi futuri. Ciò lo si nota soprattutto osservando l’indeterminatezza delle scelte fino ai 24 anni, che probabilmente prospetta il prevalere di un orientamento pragmatico al proprio futuro (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 34). E poi, riportando alcuni dati, risulta che: “un giovane ogni dieci si dice incerto oppure esclude di terminare gli studi, un giovane ogni sette esprime le stesse perplessità relativamente alla possibilità di entrare nel mondo del lavoro, un giovane ogni quattro tra i 25-29enni e uno ogni sei tra i 30-34enni pensa sia irrealistico prevedere di uscire definitivamente dalla casa dei genitori, rispettivamente il 39% e il 24% esclude di potersi sposare o di formare una nuova famiglia, il 55 % e il 30% di mettere al mondo un figlio. Poiché le previsioni coprono l’arco temporale del quinquennio successivo al momento dell’intervista, nella percezione di questi giovani gli eventi ora elencati hanno scarsa probabilità di verificarsi neppure, nel caso dell’ultima fascia di età considerata, entro i 35-40 anni. Se a queste percentuali si aggiunge la quota di coloro (per le ultime tre tappe, intorno al 20% per i 25-29enni e oscillante tra il 9% e il 17% per i 30-35enni) che sostengono probabile ma non certo, il verificarsi dei suddetti eventi, si ha un quadro sufficientemente articolato della difficoltà con la quale molti giovani italiani si accingono a diventare adulti (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 35-36). La conclusione che ne traggono è la seguente: “In una società caratterizzata da ritmi di trasformazione rapidissimi l’idea di prefigurare il proprio futuro, e con essa la capacità di costruire dei propri percorsi di crescita, diventa 51 Costantino Cipolla distingue tre tipi di solidarietà: 1) di mondo vitale “vincolo oggettivo costituito, all’interno di un piccolo gruppo, da una rete di relazioni (piene di senso) di tipo quotidiano, nell’ambito del quale prevalgono rapporti d’amicizia, di affetto, di simpatia, di mete comuni, di interessi convergenti”. Questo tipo di solidarietà interna rimane un fatto molto particolaristico, narcisistico, di pura gratificazione personale; 2) Universale orientata “su una presenza normativa che privilegia ciò che è comune [...], ciò che al fondo conta veramente e che rimanda alla morte, alla malattia, alla violenza, alla natura”. Questa solidarietà rischia l’astrattezza; 3) Sociale che “si orienta all’esterno del proprio mondo vitale quotidiano [...], ma resta dentro le diversità fra gli uomini. [...] Tende a ridurre le disuguaglianze di classe e di ceto, [...] si prefigge compiti assistenziali e previdenziali” (Cipolla 1989, 8-9). 73 enormemente più complicata ed incerta. Alcune tendenze evolutive che informano le motivazioni e gli orientamenti giovanili ben si adattano a queste difficoltà e costituiscono il sostrato culturale col quale le nuove generazioni tentano di spiegare rallentamenti ed indecisioni. Accanto a consistenti minoranze che esprimono un vero e proprio timore verso ciò che potrà accadere («vedo il mio futuro pieno di rischi ed incognite»: 29,8%) o addirittura una esplicita rinuncia a farsi carico del proprio destino («è inutile fare tanti progetti perché succede sempre qualcosa che ti impedisce di realizzarli»: 16,7%), troviamo cospicue maggioranze che sostengono la rischiosità di anticipare scelte rigide e precise («nella vita è meglio tenersi sempre aperte molte possibilità e molte strade»: 70,4%) quando non il principio della reversibilità di ogni scelta («anche le scelte più importanti della vita non sono mai per sempre, possono essere riviste»: 56,8%). Sotto questa luce si comprende come per molti giovani i passi decisivi di uscire dall’ala protettiva della propria famiglia e di accollarsi le responsabilità di una convivenza di coppia, di una nuova famiglia, della nascita di un figlio vengano visti come una limitazione delle proprie possibilità di scelta e retroazione (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 36-37). 74 5.4. Indicatori strutturali e culturali della condizione giovanile in Europa Come abbiamo visto, dagli anni ’70 in Europa sono in atto processi notevoli di modernizzazione, postmodernizzazione e globalizzazione, con progressiva complessificazione della vita e della società. Ciò ha delle notevoli ripercussioni anche sui giovani, le cui condizioni possono essere considerate per un certo verso un prodotto. È perciò difficile distinguere nella condizione dei giovani europei quali sono i processi di cui sono soggetti attivi da quelli di cui sono invece solo oggetto passivo: si può dire che tra i giovani e la società, come per qualsiasi altra categoria sociale, c’è una continua interazione, per cui ogni situazione è, contemporaneamente, frutto e causa di altre situazioni. Le condizioni dei giovani sono quindi poste in un rapporto circolare di causa ed effetto, di cui è difficile rintracciare l’origine. A) I fenomeni strutturali che maggiormente investono i giovani europei, si possono sinteticamente riassumere in questi punti: 1. il numero dei giovani europei è costantemente in calo. Il tasso di diminuzione media della consistenza delle classi d’età giovanile è di circa il 3%; 1. la modernizzazione richiede sempre più formazione e qualificazione, oltre a flessibilità, disponibilità alla mobilità, individualizzazione della condotta; 2. 2. la transizione scuola-lavoro diventa sempre più difficile. “La disoccupazione rischia di diventa un’ «esperienza sociale normale»“ (Bendit, 1998, 135); 3. di conseguenza anche la transizione alla vita adulta si sta allungando; la gioventù non è più un fase di passaggio, ma una condizione a sé (o un insieme di tante condizioni), e i suoi confini stanno diventando sempre più indefiniti; 4. allungandosi il periodo di formazione e non avendo indipendenza economica, sono costretti a dipendere più a lungo dalla famiglia; il fenomeno è particolarmente palese in Italia; 5. ritardano il momento della creazione di una famiglia propria; 6. viene ritardato di conseguenza anche il momento della nascita del primo figlio, con conseguente diminuzione dei tassi di natalità; 7. la condizione della donna sta progressivamente avvicinandosi a quella dell’uomo, anche se permangono differenze: la sua realizzazione professionale comporta un’ulteriore posticipazione del matrimonio e aumento di denatalità; 8. in ogni caso sulle ragazze incombe in genere un doppio progetto di vita, orientato sia al lavoro che alla famiglia: ciò comporta per loro maggiori conflitti e difficoltà; 9. a lungo esclusi dal ciclo produttivo e decisionale della società, i giovani sono ne invece inclusi dal punto di vista dei consumi, del tempo libero, dei mass-media e genericamente come immagine vincente (“giovanilismo”); 10. i giovani si segnalano per una forte propensione ed abilità nell’uso dei nuovi linguaggi e degli strumenti di comunicazione, dal telefonino ad Internet, dalla musica ai videoclip; 11. la conoscenza dei linguaggi, l’uso si tecnologie nuove, la conoscenza delle lingue consente una maggior comunicazione e la formazione di una cultura, o almeno degli stili culturali, comune a tutti i giovani, europei e occidentali ma, potenzialmente, di tutto il mondo; 12. la conoscenza delle nuove tecnologie e delle lingue produce differenze sull’accesso alle opportunità occupazionali, ad una istruzione più qualificata, a scambi e conoscenze internazionali, tra cui quelle promosse e finanziate dall’Unione Europea. 75 B) Dal punto di vista culturale dagli anni ‘70 si stanno registrando dei mutamenti nella struttura valoriale dei giovani e nei loro stili di vita, che si possono schematicamente riassumere nei seguenti passi: 13. perdita di deferenza per l’autorità (religiosa, politica, familiare). La fonte di legittimazione delle norme non sta più nel passato; 14. caduta della fiducia nelle istituzioni; 15. ritiro dalla partecipazione alla politica, sfiducia nei partiti tradizionali e nei sindacati; 16. tendenza a partecipare attraverso movimenti di opinione, appoggio ai “movimenti delle donne”, ai movimenti ecologista, pacifista, no-global, dei diritti dell’uomo; 17. diminuzione della fiducia nello Stato, nel Welfare, nell’intervento statale nell’economia, nella burocrazia, preferenza per l’iniziativa privata; 18. tendenza all’universalismo, ma anche rivalutazione della cultura locale e del passato; 19. accettazione e adattamento alla complessità sociale, al pluralismo; 20. diminuzione della centralità e importanza del lavoro, dei valori del sacrificio, della rinuncia, della fatica, della disciplina; 21. diminuzione dell’importanza del successo economico, della determinazione, della parsimonia, del risparmio; 22. centralità del tempo libero, importanza dello svago, del divertimento, del consumo; 23. prevalenza del presentismo (vivere alla giornata), valori della quotidianità, mancanza di progettualità; 24. diminuzione dell’importanza della religione, della credenza e appartenenza religiosa (secolarismo); 25. ricerca di un significato e senso della vita, di interiorità e spiritualità, sganciato da Chiese, istituzioni, momenti formali; 26. relativismo etico: mancanza di una chiara distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male, certezze morali tradizionali in costante declino; 27. soggettivismo etico: il soggetto arbitro del bene e del male; 28. morale della situazione: le norme morali valgono in base alla situazione contingente; 29. aumenta il permissivismo morale; 30. maggior tolleranza e accettazione per il “diverso”; 31. principio-guida: la ricerca del benessere soggettivo (edonismo); 32. incoerenza nel sistema di valori; 33. aumento di importanza degli aspetti affettivi e relazionali, ricerca di equilibrio affettivo; 34. mutamento dell’immagine e dei compiti della famiglia, ruoli non più determinati per sesso, posizione generazionale, ecc.; 35. scissione tra morale sessuale e famiglia; 36. aumento dell’importanza della fantasia e dell’autoespressione; 37. ricerca della propria libertà, indipendenza, autorealizzazione; 38. ricerca della qualità della vita; 39. ricerca di una vita ricca, stimolante, movimentata, intensa, piena di attività e di eccitazione; 5.4.1.1. Autonomia e nuove dipendenze Desiderio d’autonomia e nuove dipendenze sono due elementi in contraddizione nell’esperienza giovanile attuale. Con l’avanzare dell’età cresce sempre più il desiderio di autonomia e indipendenza affettiva ed economica dei giovani, ma è anche sconcertante il dato che evidenzia il numero dei giovani che restano ancora nella famiglia di origine intorno ai 30 anni: il 41.1%. E’ il dato che pone ai primi posti l’Italia nel fenomeno della cosiddetta “famiglia lunga”. Il motivo immediato può essere la mancanza di lavoro, la difficoltà di trovare una casa, ecc. Ma non è solo questo, perché il fenomeno non è dovuto unicamente alla necessità. Si tratta molte volte di 76 scelte di vita, forse anche calcolate, che fanno prolungare la permanenza sulla soglia dell’età adulta, perché diventare adulti significa assumere responsabilità, rinunciare ai comodi della casa paterna, accollarsi impegni e farsi carico di altri, ecc. Prevale l’individualismo, si è ripiegati sul privato, centrati sulla propria soggettività che trova spazio di realizzazione nel lavoro e negli affetti, ma che imprigiona e impedisce di compiere il salto generazionale, di assumere ruolo e responsabilità di adulti52. La situazione attuale dei giovani, pertanto, è certamente condizionata dalla realtà socioculturale e da un insieme di limiti, d’incertezze per il futuro, di sfiducia nelle istituzioni e nella società in generale. Tutto questo però, invece di provocare tensioni al cambiamento, proteste e intraprendenza anche in ambito sociale, spinge a trovare soluzioni individuali, a ripiegarsi su se stessi e trovare rifugio nel “nido domestico”. Tanto più che l’ambiente familiare si caratterizza sempre più per la sua tolleranza, la libertà di manovra, una sufficiente autonomia, un complice atteggiamento dei genitori che non vogliono rischiare di perdere qualcosa che sentono ancora come propria. L’insieme di questi atteggiamenti ha fatto dire a qualcuno che siamo di fronte ad una generazione che non vuole crescere, che indugia sui campi della giovinezza, forse perché ha paura ad entrare nella cosiddetta vita e ama sostare davanti ad una soglia che forse non si aprirà mai. Tutto questo viene collegato all’incertezza sulla propria identità: si chiedono sempre quale sia il loro io e non lo identificano in un carattere stabilito, ma in un complesso quasi inesauribile di possibilità53. In una prospettiva più di tipo psicosociale, qualcuno ha interpretato la famiglia lunga come una perdita delle contrapposizioni interiori da parte del giovane che cresce. Il sentirsi grande gli fa vivere una maggiore democrazia interiore che lo porta anche ad accrescere la sua partecipazione, senza rimuovere gli stadi precedenti: «La normalità dello sviluppo non procede più attraverso rimozioni, ma attraverso integrazioni; si rimane sempre un po’ adolescenti, sempre un po’ giovani, sempre un po’ bambini, il livello inferiore viene cooptato in quello superiore; e a livello sociale quest’evoluzione sembra accettata, non ci sono più iniziative che condannano a morte il bambino per far venire fuori il giovane guerriero, si può rimanere bambini e guerrieri senza che occorra sancire col sangue questa trasformazione»54. Tutto questo è facilitato anche dal fatto che, a livello sociale, non vi sono più riti di passaggio che segnano la morte dello stadio precedente. Una situazione in cui gli stessi giovani stanno piuttosto comodi, a cui hanno imparato a adattarsi senza rinunciare alle opportunità che si presentano. Situazione in cui però accumulano incertezza perché non è facile capire dove si sta andando e s’incontrano troppe situazioni in cui non è facile scegliere. Un’incertezza, quindi, che viene dalla pluralità delle opzioni potenzialmente disponibili e dalla difficoltà di valorizzare propensioni e capacità personali. Anche l’immagine che gli stessi adolescenti hanno di sé spesso appare contraddittoria. Vivono accarezzando sogni, ma riescono a farli diventare progetti più nel mondo virtuale che in quello reale. Per gran parte degli adolescenti, tuttavia, la situazione si presenta in modo diverso sia in riferimento alla consapevolezza della propria identità che alla relazione con i genitori. Appare diffusa la difficoltà di assumere la responsabilità della propria crescita, ma questa cambia a seconda delle condizioni di vita e delle relazioni familiari. I processi di formazione della propria identità possono essere sollecitati da situazioni familiari in cui viene richiesta una maggiore corresponsabilità e in cui le relazioni tra genitori e figli non siano troppo cameratesche. L’inquinamento dei rapporti può indebolire la proposta educativa e l’eccessiva tolleranza senza un minimo di fermezza riduce l’intraprendenza. È proprio vero che «dare sempre ragione a uno può significare fargli torto»; come pure, 52 Letteratura, cinema, canzone, da qualche tempo si occupano della “sindrome di Peter Pan” per designare proprio questo atteggiamento dei trentenni ed ultra. Il film di Gabriele Muccino L’ultimo bacio e il più famoso Hook - Capitan Uncino di Steven Spielberg, la canzone L’isola che non c’è di Edoardo Bennato, una ricerca svolta da Paolo Bianchi, Avere 30 anni e vivere con la mamma, Milano, Bietti 1997, offrono spunti molto significativi su questo’aspetto della vita dei giovani. 53 Il 2 agosto 1999 apparve su “La Repubblica” (p. 17), un articolo di Pietro Citati, Questa generazione che non vuol crescere mai. In esso si presentava con una dovizia di riferimenti e con linguaggio provocante notevoli interrogativi sulla realtà giovanile, tanto da suscitare altri interventi. 54 Un’Agorà familiarizzata. La ricerca di partecipazione nelle nuove generazioni, intervista a G. Pietropolli Charmet, (a cura di) Roberto Camarlinghi, in Giovani e Periferie. Un possibile protagonismo, in “Quaderni di animazione e formazione”, Torino 1999, Edizioni Gruppo Abele, 27. 77 «accettare il punto di vista altrui senza farlo passare al vaglio del nostro, è come riconsegnare una lettera al mittente prima ancora d’averla letta». Questo significa, in effetti, che offrire punti fermi nel processo di crescita è sempre una cosa efficace per gli orientamenti degli adolescenti. 5.4.1.2. Fast-generation e società dell’immagine La rapidità dei mutamenti e l’attenzione all’immagine sembrano i due caratteri che contraddistinguono il costume giovanile. L’attuale disponibilità di media, in particolare della televisione ha cresciuto una società di videodipendenti. La diffusione dei computer, dei videogiochi, di telefonini, dei giochi elettronici ha contribuito ad evolvere una nuovo tipo di uomo, molto più digitale, dove la realtà virtuale si confonde e a volte supera quella reale. Al linguaggio concettuale, logico, geometrico del passato (concentrato sulla parte sinistra dell’emisfero cerebrale) si sostituisce, per effetto del rapporto privilegiato con i “media” il linguaggo analogico, simbolico, emotivo, intuitivo, creativo della parte destra. Di conseguenza, anche il tipo di cultura della società attuale, e in modo particolare delle giovani generazioni cresciute dopo l’avvento della tv e dell’elettronica, è essenzialmente visivo. Si preferisce un approccio emotivo e concreto alla realtà a scapito di quello analitico, un po’ freddo e distaccato, che vorrebbe la logica scientifica, libresca. Lo esprimono le forme espressive e il linguaggio dei giovani di oggi. Il loro linguaggio e fatto a spot e flash. Parole usate come slogan, che colpiscono più per la loro capacità evocativa, che per il contenuto verbale. La grammatica ed il vocabolario si impoveriscono, prevale la logica degli SMS e delle “e-mail”, con comunicazione sintatticamente incomprensibili, ma molto efficaci sul piano evocativo. Anzi, los tesso linguaggio si sta evolvendo, come ricerche stanno documentando. I mezzi comunicativi diventano sempre meno quelli scritti e sempre più quelli simbolici. Per esempio, il corpo e la musica, continuano, dal ’77, ad avere un ruolo decisivo per intercettare i bisogni giovanili. “Uno degli spazi espressivi preferiti dei giovani è il corpo. Il corpo come territorio personale, strumento di linguaggio, laboratorio di speri-mentazione, interfaccia per la socializzazione. Basti pensare a fenomeni come piercing, tatuaggi, trucco, vestito, acconciature, ecc. La musica, è molto di più di un semplice consumo. È stata definita anche come una delle nuove forme religiose dei giovani. Contrariamente ad un luogo comune che tende a ridurre i giovani e la musica ad un fenomeno omogeneo, la musica è un fattore altamente discriminante che divide i giovani in tante fedi e in tante religioni quanti sono i generi musicali. Metallari, punk, dancer, multietnici, techno, ecc., non sono solo generi musicali, ma sono modi di pensarsi e di percepirsi con visioni di stili di vita spesso diametralmente opposti gli uni dagli altri” (Pasqualetti 2001, 10). Legata alla musica e al corpo vi è anche la danza ricca di gesti, riti, significati, finalità. Un’attenzione particolare merita la notte, cercata anche in contrapposizione al giorno spazio del mondo adulto. La notte nel vissuto giovanile appare come “spazio del mistero, dell’avventura, del non definito, del possibile, del trasgressivo, del ‘poter osare’, del limite da oltrepassare… anche a costo della vita” (ibid.). Da ciò discende tutta una serie di atteggiamenti e di comportamenti, primo fra tutti l’enorme importanza attribuita al look (Battellini 1986, 86). La moda c’è sempre stata, quello che colpisce oggi è la velocità con cui oggi essa cambia. Il fast-food può essere il simbolo di questa generazione. Consumare i fretta, le mode cambiano rapidamente, bisogna essere sempre sulla cresta dell’onda. Si può dire che esso dipenda “dai ritmi di una società che va sempre più di corsa, dai rapporti umani sempre più frettolosi: da qui l’esigenza di comunicare al primo impatto, il proprio modo d’essere, o per lo meno, di voler sembrare. [...] anche la cura dell’estetica in generale, del viso, del 78 corpo, è fatta per rispondere a questa logica che privilegia ciò che si vede. La spettacolarità corrisponde ad un desiderio di uscire dall’anonimato, di emergere, logica conseguenza di una società tutt’altro che arcaica, com’è l’attuale” (Battellini 1986, 86-87). “Il ritmo di vita [é] sempre più frenetico sia in senso materiale che non: la frenesia la si riscontra anche a livello della modalità di consumo, inteso in senso globale del termine: oggetti, mode, culture, soggetti a rapida obsolescenza, connessa a questa logica da fastfood, causata a sua volta dalla sovrabbondanza e quindi inflazione di stimoli e possibilità, diventano meteore in un universo regolato essenzialmente dal principio dell’autogratificazione, del piacere” (Battellini 1986, 88). “I nuovi giovani stanno crescendo con il mito della velocità [...] L’informatica cha velocizzato la nostra produttività, la video-musica velocizza le nostre capacità di immagazzinamento di informazioni visive, i fast-food ci offrono l’opportunità di mangiare più in fretta, un look efficace ci permette di presentarsi all’istante... alle parole i giovani preferiscono sempre più un linguaggio gestuale, più superficiale ma anche più diretto, immediato. Perfino dal punto di vista biologico si cresce più in fretta. [...] E se la ricerca di felicità continua ad essere per tutti l’obiettivo primario dell’esistenza è altrettanto vero che stanno cambiando i traguardi simbolici e ideali di questa ricerca, e le strategie per raggiungerli” (Coriasco 1988, 184). Il continuo susseguirsi di mode e di stili di consumo favorisce in loro il consolidarsi di una cultura dell’immediatezza. Ne consegue che l’unico tempo significativo è solo il presente. D’altra parte, la relativa incidenza della scuola sul vissuto giovanile, le precarie prospettive occupazionali orienta molte delle loro attese di realizzazione e di soluzione dei compiti di sviluppo sulle attività di tempo libero. 5.5. Alcuni rilievi sulla struttura valoriale dei giovani Se confrontiamo i valori espressi dai giovani negli anni ’80 con quella che viene considerata la “morale tradizionale”, ci si rende conto di quanto i valori postmaterialisti siano penetrati nella cultura giovanile. La morale tradizionale (o moderna) dava rilievo alla carriera, alla posizione sociale, al denaro, al successo, ad un atteggiamento di lealtà e di identificazione verso le istituzioni. Su questi criteri di realizzazione “esterna”, istituzionale, su un modello di vita basato sulla fissità dei ruoli e delle scelte, su un orientamento basato sulla stabilità sociale i giovani non si riconoscono più. L'impegno nel campo lavorativo per il valore del lavoro o per la posizione sociale, l'interiorizzazione di un atteggiamento di un dovere di fedeltà nei rapporti di coppia per il valore della fedeltà, la valorizzazione della coppia soltanto in relazione ai figli, alla procreazione o alle esigenze di stabilità e sicurezza affettiva, l'assunzione di un atteggiamento di lealtà istituzionale in rapporto alla posizione sociale acquisita e alle possibilità di successo e di carriera... tutti questi orientamenti di valore e criteri di scelta sembrano assai lontani dal modello di vita e di realizzazione delle nuove generazioni. In luogo di ciò i giovani sembrano caratterizzati da una coscienza morale che dà ampio spazio ai valori espressivi, alla ricerca della felicità, al raggiungimento di obiettivi di realizzazione in grado di avviare a soluzione i problemi immediati, alla pratica di rapporti interpersonali soddisfacenti, all'aumento del tasso di consapevolezza e di riflessività circa le proprie condizioni di vita. J. Stoetzel (1984), che curò il primo rapporto europeo EVSSG (1981), vedeva nei nuovi orientamenti di valore una minaccia o un rischio. Minaccia verso i valori tradizionali, non solo perché tradizionali, ma perché vengono messi in dubbio alcuni dei principi fondamentali su cui si reggeva tutta la cultura europea e moderna: la coscienza, l’identità, ed in definitiva il concetto 79 stesso di persona. Quando Stoetzel poneva il problema di valori collegati a concetti base come quello di persona, poneva un problema sostanziale e non solo una questione formale. Comportamenti, atteggiamenti, fattori, sono legati tra loro […]. Le scelte politiche, religiose, morali, professionali, familiari, formano degli intrecci complessi, con legami reciproci e con certe caratteristiche individuali (Stoetzel 1984, 10). I valori che stavano cambiando come quelli del lavoro, della famiglia, della politica, delle credenze, non sono solo aggiustamenti intersistemici, ma un sistema che si sfalda. 5.5.1. L’approccio sistemico: il ruolo della complessità Una prima risposta a questo tipo di preoccupazione la diedero gli autori del rapporto italiano della ricerca EVSSG dell’81 (Calvaruso – Abbruzzese, 1985). Essi rintracciarono nella complessità sociale il motivo fondamentale della crisi dei valori e quindi della situazione problematica a livello sociale e personale. Essi riconoscevano che l’evoluzione della società metteva in crisi molte certezze consolidate. Ma questo non dipendeva da scelte rinunciatarie da parte degli individui, bensì dalla necessità di adattarsi ad una nuova realtà sociale. Infatti con termine “complessità” si intendeva sottolinea la forte differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la moltiplicazione delle relazioni tra loro 55. La frammentazione della realtà sociale e la pluralizzazione dei centri di potere e dei sistemi di riferimento e di significato, provocava effetti disgregatori sul tessuto sociale e sulla struttura cognitiva dei soggetti. La perdita di un centro unitario, fonte di legittimazione, di controllo e di riferimento, la pluralizzazione dei centri e dei sistemi davano luogo a logiche diverse, che tendevano ad elidersi a vicenda e postulavano la fine di una visione unica del mondo. Ne conseguiva che, al succedersi delle diverse visioni del mondo, si succedevano diverse interpretazioni della realtà e quindi una diversa gerarchia dei valori. 5.5.1.1. La relativizzazione e soggettivizzazione dell'etica Se la complessità diventa l'ambiente sociale e culturale in cui stanno crescendo le nuove generazioni è in questo sistema che vanno cercate le motivazioni del comportamento giovanile. Esso si presenta come una risposta adattiva a tale situazione. Di fronte alla moltiplicazione dei riferimenti, ad una certa rigidità interna delle istituzioni, e alle esigenze dovute alle diverse appartenenze, il soggetto è costretto a comportarsi secondo logiche diverse e a volte tra loro incompatibili. Ne consegue la necessità di ridurre l’intensità di adesione ai valori ed introdurre una certa relatività tra principi assoluti. Non per niente gli autori appena citati suggeriscono di distinguere tra rottura dell’omogenietà e dell’univocità dei valori e il loro declino, come pure di distinguere tra declino dell’intensità ed il variare del campo d’applicazione. Infatti il sistema dei valori sembra risentire delle seguenti dinamiche: - mutamento dei criteri di riferimento che presiedono al comportamento e alle scelte delle 55 “Col termine di società complessa si intende descrivere una realtà composta da tendenze ambivalenti, che risultano tra loro incompatibili e irriducibili; una realtà in cui uno stato di integrazione precaria orienta, ma meglio sarebbe dire costringe a scelte parziali e di medio termine, caratterizzate da scarsa capacità previsiva, e il cui esito sociale appare nel segno della non risolubilità” (Garelli 1991, 540). Secondo Pier Paolo Donati (1985) quattro sarebbero le accezioni relative al termine “complessità” applicato alla società: 1) Complicazione, cioè “crescita quanto-qualitativa di elementi, relazioni e interazioni in un sistema sociale dato” (p. 6). 2) Moltiplicazione di codici incommensurabili, “derivante dall’operare di più e diverse logiche fra loro incompatibili, o, incommensurabili” (p. 6). 3) Variety pool, cioè “una situazione che consente di mantenere sempre aperte un numero sempre maggiore di possibilità alternative (più di quante possano essere effettivamente realizzate in un dato momento)” (p. 7). 4) Entropia, “ordine (sociale) probabilistico (casuale), anziché normato, fondato sulla variabilità (differenza)” (p. 7). 80 istituzioni in quanto tali: l’evoluzione del riferimento pragmatico nei partiti, nelle istituzioni di rappresentanza parlamentare ed in altre realtà sociali, sono quindi il primo elemento scatenante di un processo di progressivo «scolorimento» della gerarchia dei valori; - ambiguità crescente tra riferimento etico e riferimento pragmatico in istituzioni, come la Chiesa e la Famiglia, che sono state, per secoli, il principale centro di elaborazione e diffusione dei principi che regolano la gerarchia dei valori; - una diminuita funzione etica delle istituzioni in quanto tali, sempre più percepite e giudicate in base alla loro operatività concreta e sempre meno « ascoltate » come centri capaci di porre un ordine all’interno del politeismo dei valori, stabilendovi una gerarchia di priorità; - conseguente e progressivo riorientamento dei comportamenti individuali che ricominciano a cercare all’interno di loro stessi, della rete di relazioni informali, della tradizione locale, i criteri di orientamento, dato che nessuna istituzione sembra più fornirli in modo credibile; - progressiva perdita di peso degli insiemi normativi che continuano ad essere diffusi dalle istituzioni stesse, e che tuttavia perdono la loro capacità di affermarsi, in quanto non più sostenuti da un riferimento etico presente nell’istituzione e collettivamente avvertito all’esterno di essa (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 199). Per questo appare in crescita la relativizzazione dell’etica, soprattutto per quanto riguarda la posizione su questioni attinenti la sfera più personale e soggettiva, come quella sessuale, familiare o la gestione della stessa vita. Chi, per cultura, professione o stato sociale si trova più facilmente coinvolto in sfere di appartenenza molteplici e distinte, deve, per necessità adattarsi alle situazioni e relativizzare alcuni principi etici. Tale situazione sta diventando prevalente non solo in Europa ma anche in Italia, e viene percepita come segno di progresso e apertura mentale, mentre l’assolutizzazione dell’etica rimane un tratto tipico delle persone più religiose (credenti e praticanti) e tradizionali. I giovani esprimono in maniera preferenziale il tratto soggettivo dell’etica. In tale contesto sarebbe errato valutare i comportamenti secondo criteri tradizionali. Il giovane, stando alle inchieste esaminate, non ha rinunciato ad essere protagonista dei suoi riferimenti culturali e morali, a governare il proprio campo d'azione e di ridefinizione, a ricercare una risposta al problema del significato e dell'identità personale. Non ci troviamo quindi di fronte "ad un'eclisse della coscienza morale dei giovani" (Garelli, 1984, 6), ad una assenza di valori. Ciò che cambia non è la tensione morale, bensì i contenuti di essa ed i modi di formazione ed espressione. Non sono più possibili quei percorsi di appropriazione dei valori e delle norme che avevano contraddistinto le stagioni precedenti. La situazione di complessità, di pluralismo e relativismo culturale rende impraticabile un percorso unitario, coerente, logico, comune. Non rimane che l'interiorizzazione della frammentarietà sociale. Si rinuncia a cammini precostituiti, ad un'obbedienza a valori consegnati dalla tradizione, ad una norma che si presenti con i caratteri dell'oggettività e dell'assolutezza. E' questo che il giovane non può più accettare. Non che dichiari destituito di valore ciò che prima lo era, ma non ha più quel valore assoluto che vi si attribuiva un tempo. Di fronte ad un mondo che sembra aver smarrito il senso di ciò che fa, il giovane non rinuncia a ricercare un senso "suo", ad elaborare dei criteri personali di orientamento morale. Ma l'unica via è quella della riduzione personale della complessità: individuare alcuni criteri che servano da guida nell'affrontare la quotidianità. Non può chiudersi in un programma valido per sempre, in una fedeltà a vita. Per trovare il senso alle azioni quotidiane sarà necessario restringere gli obiettivi, le prospettive, i modelli di realizzazione a misura delle proprie capacità e possibilità. Di fronte al mercato dei significati della società pluralista d'oggi egli si dota di un atteggiamento selettivo che gli permette di svolgere una funzione di filtro tra le tante proposte e individuare un 81 proprio cammino di realizzazione. Questo non vuol dire rinunciare ad essere protagonisti, a porsi il problema di senso, solo che questo va risolto in modo personalissimo. E' il principio della soggettivizzazione dell'etica, che è il contrario della deresponsabilizzazione, ma è anche il non volere affrontare problemi più grossi di quelli che si possono risolvere. E' un ethos che vuole misurarsi con le sfide della cultura contemporanea e conservare la capacità di decisione e di adattamento in relazione alle condizioni di vita quotidiana. E' cercare la propria via di realizzazione, di ritagliarsi una propria identità peculiare, di non confondersi con le condizioni standard. E' assumersi la responsabilità delle proprie scelte: il che richiede una prolungata riflessione. Per questo si preferisce non scegliere o fare scelte non irreversibili: si vuole conservare intatta la propria autonomia e non delegare a nessuno (movimento, gruppo, chiesa, partito) la determinazione del proprio futuro. Per questo le appartenenze sono "a tempo", gli impegni di corto respiro, i legami provvisori. Recupero dell'etica in chiave personale vuol dire anche riappropriarsi dei propri desideri, persino dei propri istinti, cercare nelle relazioni interpersonali, nella gestione della propria sessualità quella sincerità e verità di rapporto che una morale oggettivata aveva mortificato. 5.5.2. Trasformazione dei criteri di azione, degli orientamenti etici Ciò che un tempo costituiva la continuità tra nuove e vecchie generazioni era la persistenza di principi unitari di riferimento. Ora questi, per effetto delle trasformazioni socio-culturali, stanno radicalmente cambiando. Lo stesso concetto di bene e male non ha più lo stesso significato di un tempo: bene e male non si presentano più per le giovani generazioni come principi assoluti di una morale oggettiva. Essi valgono solo come principi soggettivi, "personali", "contingenti". Valgono qui ed ora, in base alla situazione concreta, personale, valutati in base alla capacità di assicurare benessere, felicità o no. Diventando relativi, essi perdono il carattere di incompatibilità che li distingueva precedentemente. Nello stesso soggetto si può incontrare sia l'uno che l'altro: essi fanno parte inscindibilmente dell'esperienza umana, forze contrapposte ma compresenti nella realtà come nella coscienza. E quindi giudicare buona o cattiva un'azione dipende dalla situazione, dal soggetto, da un'infinità di altre variabili. In mancanza di una autorità effettiva che legittimi le norme non rimane che la propria sensibilità ed esperienza il criterio per giudicare e valutare tra le varie proposte. La soggettivizzazione dell'etica comporta la prevalenza dei criteri interni, soggettivi, estremamente personalizzati. Ciò può essere definito col termine della "normatività dell'esperienza": rifiutato il principio di autorità, venute meno le evidenze oggettive di palusibilità, l'esperienza diviene il criterio di bene autoevidente. Stanno perciò mutando i criteri etici che regolano le scelte degli individui. Oltre a quelli cui abbiamo accennato ora, altri li abbiamo trattati via via nelle pagine precedenti. In sintesi possiamo dire che si sta passando Da: A: Distinzione bene/male Distinzione tra felicità/infelicità, malessere benessere Primato dei principi morali Primato dei bisogni personali, individuali, dell'esperienza Centralità dell'impegno Centralità dei sentimenti Principio della prestazione Principio dell'identità Etica del sacrificio Etica dell'appagamento Attenzione all'appartenenza, problema della devianza Attenzione, apprezzamento della diversità 82 5.5.3. Verso quale morale? Il modello etico che si ricava dall'analisi degli orientamenti valoriali del nostro tempo e delle nuove generazioni è senza dubbio carico di profonde ambivalenze. L'accentramento di attenzione sulla soggettività risponde ad un bisogno di recupero dell'identità divenuto ineludibile, esprime una giustificata reazione nei confronti di una civiltà che per troppo tempo ha mortificato il soggetto reificandolo, attraverso processi di massificazione sociale e di omologazione culturale o sacrificandolo ad ideali talora irraggiungibili. La rivincita delle soggettività assume dunque i caratteri di rivalsa del desiderio represso e di riemergenza dell'inconscio individuale e collettivo. Essa conduce non tanto al rifiuto di ordinamenti etici precostituiti e imposti autoritativamente dall'alto, ma più radicalmente alla messa in questione del modello etico che era il modello del dovere dell'obbligazione, del sacrificio e dell'impegno. La tendenza dominate è quella di andare verso un'etica centrata sull'affettività e sulla soddisfazione dei bisogni e dei desideri, sull'eros e sulla piena esplicazione del principio del piacere. In una parola, è la tendenza a concentrare l'attenzione sul problema della felicità e dell'autorealizzazione. Tuttavia l'assenza quasi totale di riferimento a parametri assoluti e l'insorgenza del modello in chiave più negativa che positiva - di ribellione cioè indiscriminata nei confronti del passato piuttosto che di confronto critico-costruttivo con esso - pone una serie di inquietanti interrogativi circa la possibilità stessa di una rifondazione dell'etica. Il pericolo è, infatti, quello di un totale relativismo culturale e di un adeguamento passivo alle istanze della cultura dominante. Il rifiuto di criteri di giudizio oggettivi, in base ai quali discernere il bene ed il male e valutare concretamente le proprie azioni nei diversi settori nei quali si sviluppa l'esistenza, può condurre all'assunzione acritica di bisogni indotti nel soggeto dalle ideologie del momento o dai meccanismi del sistema economico-sociale e politico. Il prevalere del consumismo, che moltiplica le esigenze dell'uomo in funzione della logica del mercato, e la legittimazione che ad esso viene dalla cultura "radicale", fondata sull'esasperazione del diritto soggettivo e sulla interpretazione secondo il "principio del piacere", fa giustamente sorgere gravi sospetti e motivi di seria preoccupazione nei confronti del processo di totalizzazione della soggettività. Se è vero infatti, da una parte, che i giovani hanno acquisito una notevole capacità di immunizzazione e di resistenza di fronte alle pressioni negative del contesto in cui vivono, grazie all'elevarsi del livello culturale; non è meno vero, dall'altra, che la maggior fragilità psicologica dovuta all'età e la difficoltà a riflettere, dovuto alla rivoluzione massmediologica, li rende più facilmente preda delle suggestioni ambientali (Piana 1985). C'è inoltre da chiedersi quanto sia sufficiente la ricerca di un senso parziale e contingente o se la vita non necessiti di riferimenti globali che la giustifichino al di là delle vicissitudini contingenti. Si tratta di domandarsi di quali quadri di riferimento necessiti il concetto di autorealizzazione. Inoltre, fino a che punto l'incoerenza giovanile è funzionale ad un giusto adattamento, oppure non finsice per essere disgregante la stessa personalità e produrre individui schizzofrenici, e globalmente una cultura debole di fronte alle sollecitazioni del consumismo e di altri poteri politicosociali? Oppure la diversificazione delle scelte non premia una certa disgregazione sociale e favorisce quell'individualismo e solitudine di cui già soffre la nostra società? Di fronte a questi interrogativi, ci sembra che gli esiti possibili siano molteplici: si va dalle forme elevate di libertà fino alle acquiescenze più totali al conformismo imperante, dal senso di responsabilità estremamente personale a forme di anarchia anche interiore in cui la libertà viene confusa con spontaneità56 56 - "La spontaneità non è libertà, è determinismo; essa si oppone sì alla coazione, alla necessità e costrizione esteriore, ma non è altro che una suadente coazione interiore, la spinta irresistibile ad agire in un determinato modo: Quando un valore o settore di valori 83 Le possibilità di una moralità più autentica, autonoma, personale, convinta e responsabile sono maggiori di quelle che avevano le generazioni precedenti. Ma tutto questo per essere adeguatamete utilizzato ha bisogno di una notevole "riflessivita", di un capacità di essere culturalmente molto attenti e critici di fronte alla realtà sociale e culturale. Una buona scelta morale ha bisogno di un filtro selettivo molto attento. La realtà ha bisogno di un continuo processo di "risignificazione personale" per elaborare le risposte più adeguate. Solo un atteggiamento consapevolmente selettivo ed accorto può resistere alle lusinghe del consumismo senza esserne fagocitato. 5.6. Tentativi di interpretazione della devianza e disagio 5.6.1.1.1.1 Devianza, disagio e bisogni disattesi secondo l’approccio tradizionale Secondo questo approccio la devianza è data dalla trasgressione alle norme che reggono la società, siano essi i “comandamenti” o le leggi civili. Ma il venir meno di quei principi morali che caratterizzavano l’uomo moderno: il lavoro, la famiglia, la patria, Dio, la dirittura morale, le questioni di principio, la fedeltà alla parola data, l’impegno professionale, morale, politico, religioso, ecc. comporta una situazione di “anomia”, di disorientamento che favorisce il disordine morale e sociale. L’anarchia etica comprende la mancanza di principi morali sicuri, la dissoluzione dei valori, il relativismo morale, la morale della situazione, l’affermazione dei principi dell’edonismo e dell’individualismo. Di conseguenza le preoccupazioni che emergono di fronte a questi mutamenti riflettono la percezione di bisogni che altrimenti verrebbero disattesi: il bisogno di appartenenza, di solidarietà, di coerenza, di orientamento, di sistematicità e organicità, di un quadro culturale coerente e omogeneo, il bisogno di protezione sociale, il bisogno di sicurezza, il bisogno di finalizzazione, ecc. Questa flessibilità e tolleranza, che contraddistingue sempre di più l’uomo moderno, adottata per necessità, diventanta un tratto culturale tipico della modernità, non è detto che si realizzi senza sofferenza e un senso di lacerazione intima. 5.6.1.1.1.2 Disagio e bisogni in una società complessa La crescita di opportunità, la diminuzione del controllo sociale, comporta molti benefici per i singoli, ma anche nuove difficoltà. Infatti la mancanza di un centro organizzatore, la crescita di entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili per gli individui si traduce in un aumento del carico di responsabilità personale e la probabilità di non riuscire a far fronte alle richieste della società. Inoltre tale assetto della società pone notevoli problemi d’integrazione e quindi di adattamento e di identità. Di fronte alla dissoluzione di un sistema normativo condiviso tendono ad emergere le esigenze singole e gli aspetti soggettivi ed espressivi dell’identità. Questa può assumere l’aspetto di rivendicazione radicale del diritto a definire i propri bisogni e i modi di soddisfarli. Questa rivendicazione ha come oggetto esigenze poco negoziabili (nascita, morte, affetti, relazioni, malattia, sopravvivenza, pace, ecc.); rifiuta il controllo politico (partitico e sindacale) sulla negoziazione del bisogno, riappropriandosi il controllo diretto sulle condizioni di esistenza, indipendentemente dal sistema; tende a coniugare sempre più privato e pubblico, superandone la separatezza; tende ad avvalersi di solidarietà comunitarie (di piccolo gruppo) come supporto ad un conflitto di minoranze capaci di gestire in proprio il confronto. Al centro di questa lotta riappare il “corpo”, luogo della resistenza contro la manipolazione e luogo dell’espressione del desiderio rivoluzionario; allo stesso tempo riappare il “vecchio” concetto occupa tutto lo spazio interiore dell'uomo, vi esercita un influsso deterministico: l'individuo non ha possibilità di scelta nei confronti di quel valore, perchè esso è l'ispirazione delle sue scelte, la radice e la totalizzazione delle sue opzioni" (Ibid., 11-12) 84 di natura che sta a sottolineare il carattere non assoluto della storicità del bisogno; riemerge infine l’individuo come soggetto sociale irriducibile, terreno dei conflitti sociali fondamentali Si crea conflitto attorno a questi oggetti sociali, perché i sistemi tendono ad imporre le identità da loro predisposte (a loro funzionali) indiscriminatamente a tutti i soggetti, che in molti casi reattivamente difendono e rivendicano il proprio diritto all’identità. Questi conflitti si possono riprodurre anche a livello micro, in famiglia, nella scuola, nell’ambienti di lavoro, ecc. perché i sistemi di valore e l’importanza attribuita alle norme cambia a seconda della socializzazione ricevuta. Questi conflitti, che raramente si traducono in rivolte aperte, sovente assumono aspetti striscianti attraverso cui ognuno rivendica il suo spazio d’autonomia operativa e valoriale. Si creano così frizioni, adattamenti forzati, conflitti sopiti ma non sedati, che danno luogo ad un disagio diffuso. Infatti, anche di fronte a comportamenti ritenuti tradizionalmente aberranti, non è più possibile parlare di devianza, perché, essendo moltiplicati i centri, ogni comportamento o norma può essere considerata deviante sotto un certo punto di vista e normale sotto altri. Perciò si comincia a parlare di disagio, in quanto si percepiscono gli effetti sgradevoli di questa situazione, sia a livello individuale che societario. Ma il disagio è generato, più profondamente dalla situazione di incertezza, di disorientamento in seguito alla moltiplicazione dei sistemi e dei codici di riferimento. Ciò è quanto sembra rilevare lo stesso Sorcioni quando afferma che “l’essenza del disagio giovanile sembra piuttosto interessare, in modo crescente, la sfera valoriale, fino a manifestarsi […] come vera e propria crisi di identità. Disagio derivante dall’esperienza della complessità, inteso come profonda sensazione di smarrimento di fronte alla crescente complessità valoriale e sociale” (Sorcioni 1992, 5). 85 Capitolo primo __________________________________________________________________ 1 bisogni e valori giovanili DAGLI ANNI ‘70 AL 2000 ___________________________________ 1 1. Inizio anni ’70: le teorie del cambio culturale _____________________________________ 1 1.1. Dal materialismo al postmaterialismo_________________________________________ 2 1.1.1. Gli indicatori __________________________________________________________ 2 1.1.2. I risultati ______________________________________________________________ 3 1.2. I valori postborghesi _______________________________________________________ 1.2.1. L’ipotesi ______________________________________________________________ 1.2.2. I risultati ______________________________________________________________ 1.2.3. Convergenze e differenze con le teorie di Inglehart ____________________________ 4 4 4 5 1.3. La transizione culturale ____________________________________________________ 6 1.3.1. Valori e istituzioni ______________________________________________________ 6 1.3.2. Disagio per i sistemi culturali in conflitto ____________________________________ 7 2. Seconda metà degli anni ’70: cambiamento nei valori e nei bisogni dei giovani italiani ___ 8 2.1.1. La ricerca d’identità _____________________________________________________ 9 2.1.2. Nuovi bisogni giovanili __________________________________________________ 9 3. I giovani di fronte alla complessità della società negli anni ’80 ______________________ 11 3.1. I mutamenti di scenario nella società degli anni ‘80 ____________________________ 3.1.1. Mutamenti a livello economico ___________________________________________ 3.1.2. I mutamenti a livello politico _____________________________________________ 3.1.3. Il paradigma della complessità ____________________________________________ 3.1.4. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale______________________________ 3.1.5. La scuola ____________________________________________________________ 3.1.6. L’importanza strategica del tempo libero ___________________________________ 11 11 12 13 14 15 16 3.2. Materialismo e postmaterialismo negli anni ‘80 _______________________________ 3.2.1. L’accentuazione della variabile “cultura” nel modello di Inglehart _______________ 3.2.2. Indicazioni dalle ricerche europee _________________________________________ 3.2.3. I valori dei giovani italiani _______________________________________________ 3.2.4. Bisogni materialisti e postmaterialisti nelle indagini IARD _____________________ 17 17 19 20 21 3.3. Emergenza di nuovi bisogni nelle scelte valoriali dei giovani _____________________ 3.3.1. La caduta della solidarietà sociale _________________________________________ 3.3.2. La crescita dei rapporti interpersonali come domanda di senso __________________ 3.3.3. Ruolo del tempo libero e dei consumi nella definizione dell’identità ______________ 3.3.4. La domanda di senso come “bisogno religioso”? _____________________________ 22 23 23 24 25 3.4. Conclusione: ricerca di senso e di identità in un contesto complesso ed incerto ______ 25 3.4.1. L’emergenza di un’identità fragile _________________________________________ 26 3.4.2. Un modo nuovo di ricercare il «senso» della realtà personale e collettiva __________ 27 4. Gli anni ’90: i giovani in una cultura postmoderna _______________________________ 28 4.1. La politica italiana dopo l’89 _______________________________________________ 28 4.2. L’economia _____________________________________________________________ 29 4.3. La scuola _______________________________________________________________ 30 4.4. La cultura post-moderna __________________________________________________ 32 4.4.1. I riflessi sociali del pensiero postmoderno ___________________________________ 33 86 4.4.2. Postmaterialismo e postmodernità _________________________________________ 34 4.4.3. L’Italia fra tradizione e postmodernità______________________________________ 36 4.5. Valori e bisogni dei giovani europei _________________________________________ 38 4.5.1. Una cultura postmaterialista ma soprattutto ricombinatoria _____________________ 39 4.5.2. Forme di partecipazione e bisogno d’identità ________________________________ 40 4.6. Materialismo e postmaterialismo tra i giovani italiani __________________________ 41 4.6.1. Le ricerche IARD ______________________________________________________ 41 4.6.2. I bisogni formativi nelle ricerche sociologiche dell’Università salesiana ___________ 42 4.7. Le cause sociali della destrutturazione dei bisogni _____________________________ 4.7.1. Una società evoluta, complessa e a-centrica _________________________________ 4.7.2. Aumento di opportunità come causa del conflitto _____________________________ 4.7.3. Perdita dell’orizzonte di senso ____________________________________________ 4.7.4. Una visione orizzontale, pragmatica, a forte soggettività _______________________ 44 44 45 45 46 4.8. Elementi caratteristici della gioventù degli anni ‘90 ____________________________ 47 4.9. Conclusioni _____________________________________________________________ 49 5. I giovani al passaggio del millennio: la globalizzazione dell’insicurezza_______________ 50 5.1. Valori e bisogni europei al passaggio del millennio _____________________________ 5.1.1. L’individualismo ______________________________________________________ 5.1.2. La ricerca di qualità di vita ______________________________________________ 5.1.3. Un nuovo impulso per la gioventù europea __________________________________ 51 51 52 53 5.2. L’indagine EVS 1999 nel contesto italiano ____________________________________ 54 5.3. La condizione giovanile nelle successive a cavallo del millennio __________________ 5.3.1. Valori “politici” _______________________________________________________ 5.3.2. Il rapporto giovani - istituzioni ___________________________________________ 5.3.3. Valori pertinenti la sfera immateriale ______________________________________ 59 61 69 70 5.4. Indicatori strutturali e culturali della condizione giovanile in Europa _____________ 75 5.5. Alcuni rilievi sulla struttura valoriale dei giovani ______________________________ 5.5.1. L’approccio sistemico: il ruolo della complessità _____________________________ 5.5.2. Trasformazione dei criteri di azione, degli orientamenti etici ____________________ 5.5.3. Verso quale morale?____________________________________________________ 79 80 82 83 5.6. Tentativi di interpretazione della devianza e disagio ___________________________ 84 87