OPINIONI
EDITORIALE
Fra Perugia e Spello la grande mostra sul Pintoricchio,
artista eccelso della terra
umbra. E per la prima volta
viene esposta una “Madonna col Bambino“, vero e
proprio “Capolavoro ritrovato“ in un’asta a Vienna,
che siamo lieti di presentare sulla copertina di questo
numero di Esperienza (v.
anche alle pagg. 52-53)
di Franco Panzolini
RISCHIO ‘68?
R
avvivare il ricordo di un avvenimento
straordinario per “non dimenticare” è
ormai entrato nella cultura della nostra
società ed è difficile perdere l’occasione per ripresentare all’opinione pubblica la trascorsa esperienza storica nei suoi particolari
perché, se dannosa o negativa (di solito, le positive si
dimenticano facilmente), non abbia a ripetersi. Ce n’è
una che però, ci sembra, viene sottaciuta dai massmedia e che, secondo noi, andrebbe ricordata: è la
contestazione giovanile del 1968.
Allora i fatti iniziarono con le occupazioni delle università da parte degli studenti che protestavano contro
l’aumento delle tasse scolastiche. Nacque allora il Movimento studentesco, alla cui guida si pose Mario Capanna, che non si poneva soltanto obiettivi scolastici,
come l’allargamento del diritto allo studio, ma puntava a rinnovare la politica sociale dello Stato. I contestatori, che all’inizio si limitarono alle assemblee in
aule universitarie e scuole occupate, passarono presto
alla violenza e i cortei si trasformarono in scontri con
la polizia. Nel marzo del ’68 si svolse a Roma tra studenti e polizia la prima “guerriglia urbana”: i giovani
lanciavano contro i poliziotti cubetti di porfido disselciati dalla piazza e ci furono centinaia di feriti, molti
dei quali gravi. Anche in Francia, con il ”maggio francese”, e in Germania, con il movimento capeggiato da
“Rudi il rosso”, scoppiò la rivolta studentesca.
Elemento di riflessione è la tenue, per non dire inesistente, reazione della politica di allora: i fatti furono
trattati al pari di episodi di criminalità giovanile e lo
Stato intervenne solo per ristabilire l’ordine pubblico.
Oggi la contestazione giovanile è diversa dal ’68, ma
solo nella motivazione. Che differenza c’è tra le proteste degli studenti di allora e quelle degli aggressivi
tifosi o no-global o estremisti dei centri sociali di oggi? Come chiamare la violenza di questi ragazzi, che
in poche ore riescono a riunirsi in trenta, cento, trecento per distruggere e colpire, per andare contro la
polizia, perfino contro le caserme, contro tutto e tutti?
Come chiamare questa capacità di raggrupparsi in poco tempo per scatenare una guerriglia? Come in Francia con le sommosse delle banlieues, dei quartieri a
rischio, è venuto alla ribalta un fenomeno giovanile
che gli stessi francesi non sanno come chiamare, an-
che in Italia non sappiamo come definire queste violenti manifestazioni collettive: è poco dire tifo violento o disagio giovanile.
Proviamo a fare un parallelo con gli episodi di quarant’anni fa, forse scopriremo un denominatore comune. Certamente non lo troveremo nel movente: allora era una ideologia a stimolare le rivolte dei giovani, oggi questa non si riesce ad individuare, allora erano tutti studenti, oggi una minoranza lo sono, allora
c’erano dei leader, oggi questi non compaiano. Sono
invece le esternazioni il comune nesso causale: la rabbia per non aver niente di caro o di sacro, il nulla al di
sopra della dimostrazione della forza, offensiva o difensiva, la volontà perversa di rifiutare le istituzioni,
giudicate incapaci di dare certezze.
Sintomi in atto sono l’aumentato ricorso alla droga
(Italia prima in Europa per il consumo di cocaina e
cannabis), il furore dei videogame, il diffondersi di
episodi di bullismo e di vandalismo nelle scuole, il fenomeno dei figli-padrone (che nel ’68 era dei padripadrone), modi questi per nascondere il fallimento di
una vita.
E la politica che fa? E’ la stessa di allora, avvitata su
se stessa, rissosa nei toni e inconcludente, che si barcamena ed è incapace di progetti concreti per dare risposte all’emergenza del disagio e della emarginalizzazione di tanti giovani.
Una soluzione comunque deve essere trovata, come
lo fu per il ’68. I capi dei sessantottini furono calmati trovando loro una sistemazione nella stessa società
che contestavano, alcuni inglobandoli nei partiti, altri
destinandoli a cattedre universitarie, altri ancora con
l’assegnazione di ambiti posti nei Consigli di amministrazione di aziende a partecipazione statale.
Oggi il problema appare di più difficile soluzione.
Occorrerebbe andare alla radice del malcontento e rimuoverne le cause, non limitarsi a trattare il fenomeno al pari della criminalità giovanile. Solo una sana
politica sociale, non limitata all’assistenzialismo degli individui, ma con interventi di sostegno economico e morale alle famiglie in quanto comunità, può risultare efficace.
Il ’68 non ritorna, è un fatto storico del passato, ma il
ricordo della sua lezione serve ancora per “non dimenticare”.
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