Kant in Edgar Morin: le ragioni di un`assenza La constatazione di un

Kant in Edgar Morin: le ragioni di un’assenza1
1. La constatazione di un’assenza.
I filosofi e gli scienziati del Novecento quando hanno cominciato ad avvertire i primi
segnali di crisi dei fondamenti delle scienze e hanno sentito il bisogno di tornare a indagare i
principi filosofici che costituiscono i punti di riferimento più o meno espliciti di esse, hanno
trovato naturale rivolgersi a Kant. La stessa cosa hanno fatto i fondatori dell’epistemologia ,
cioè i teorici della filosofia della scienza nuova. E lo hanno fatto o invitando a tornare in
qualche modo a Kant, in esplicita polemica con i positivisti, gli idealisti e gli spiritualisti; oppure
per contestarne, in maniera più o meno radicale, quella “logica trascendentale” e quel metodo
“sintetico a priori” attraverso cui Kant aveva “ratificato” la definitività della scienza classica.
Questo è accaduto nella prima metà del Novecento e ha condizionato coloro che, come,
per esempio i neopositivisti e Popper, si sono formati in tale periodo. Invece, verso la seconda
metà del secolo si è avuta una netta inversione di tendenza, rappresentata dai cibernetici,
dagli informatici, dai neurofisiologi e, tra gli altri, da Ilya Prigogine; tendenza che si è via, via
rafforzata, e che si è manifestata, per così dire, nella forma di un ideale passaggio di consegne
da Kant a Vico, a Hegel e ad altri filosofi del tempo e della storia, come, per esempio, Bergson
o Whitehead. Mentre le discussioni del primo Novecento sono state determinate dalla teoria
della relatività, la svolta successiva è dovuta, soprattutto, all’incidenza della fisica quantistica e
della Termodinamica.
Questa tendenza, che si è andata affermando con sempre maggiore consapevolezza, in
ambito epistemologico ha trovato il suo massimo rappresentante in Edgar Morin. Egli, infatti,
ha rafforzato la svolta metodologica auspicando esplicitamente una Scienza Nuova, in senso
vichiano, e ignorando, di fatto, in tutta la sua opera, il Kant teoretico. In questo modo ha
concluso un’ideale parabola discendente per la quale dall’iniziale auspicio per un “ritorno a
Kant” si è arrivati a una sua assenza quasi totale dal dibattito epistemologico influenzato dalla
filosofia della complessità. Insomma, nella seconda metà del Novecento è cambiato totalmente
l’orizzonte di senso; è cambiato il significato dei termini fondamentali in ambito filosofico ed
epistemologico.
Alla luce di queste considerazioni, io mi propongo di rendere ragione di quella che
appare, dunque, una vera e propria “assenza programmata”. Lo farò mettendo in evidenza le
differenze fondamentali tra il pensiero di Kant e quello di Morin, negli ambiti relativi
all’ontologia, all’epistemologia e alle fonti storiografiche. In particolare, intendo volgere la mia
argomentazione attraverso l’esame comparativo dei concetti di Natura, di Soggetto, di Spazio,
di Tempo, di Causa, di Logica e, naturalmente, di Ragione.
Dopo questo confronto sui concetti-chiave, concluderò il ragionamento con un breve
riferimento alle “nuove” fonti filosofiche di Morin.
1. Dal Sistema del mondo alla Natura come Storia.
Comincerò con il concetto di Natura, che, come si ricorderà, per Kant, “è l’esistenza
delle cose in quanto determinata da leggi universali”2.
Pubblicato in AA. VV., La presenza di Kant nella filosofia del novecento, a cura di A. Anselmo, Armando
Siciliano, Messina 2004, pp. 211-247.
2 I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, trad. di P.
Carabellese, riv. da R. Assunto e da H. Hohenegger, Laterza, Bari 1996, p. 96.
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Tra queste leggi, egli ha sottolineato quelle che inducono ad affermare “che la sostanza
rimane e perdura; che tutto ciò che avviene è sempre determinato prima da una causa
secondo leggi costanti”3. Inoltre ha commentato tali considerazioni generali ribadendo che
“queste sono realmente leggi universali della natura che sussistono completamente a priori.
V’è dunque nel fatto una scienza pura della natura”4.
Ma perché vi sia una tale scienza, deve esistere prima una Natura oggettivamente e
perfettamente organizzata, un “cosmo” ordinato e perfetto. Acquisita la consapevolezza di tale
necessità, però, per elaborare questa scienza della Natura, di una Natura strutturata secondo
leggi universali, necessarie e definitive, gli uomini hanno faticato molto, almeno fino a quando
non hanno imparato a usare bene la loro ragione: “Ma dopo che, quantunque tardi, venne in
uso la massima di riflettere bene, prima, a tutti i passi che la ragione intende fare, e di non
lasciarla procedere altrimenti che per il sentiero di un metodo prima ben esaminato, allora il
giudizio sull’universo ricevette tutt’altro indirizzo, e, insieme con questo, senza paragone, più
felice”5. Infatti, “la caduta di una pietra, il movimento di una pianta, risolti nei loro elementi e
nelle forze che vi si manifestano, e trattati matematicamente, produssero, infine, quella
cognizione del sistema del mondo chiara e immutabile per tutto l’avvenire, la quale, col
progresso dell’osservazione, può sperare sempre soltanto di estendersi, ma non può mai
temere di dover ritornare indietro”6.
In questi brani c’è, come si vede, l’esaltazione del metodo cartesiano e di quello
galileiano – newtoniano; e vi traspare la ferma convinzione della universalità e definitività
delle leggi che la ragione pura “pone” a una Natura strutturata anch’essa una volta per
sempre. Le “pone”, infatti, perché, come si ricorderà, per Kant “la fisica pertanto è debitrice di
così felice rivoluzione compiutasi nel suo metodo solo a questa idea, che la ragione deve
(senza fantasticare intorno ad essa) cercare nella natura, conformemente a quello che essa
stessa vi pone, ciò che deve apprenderne, e di cui nulla potrebbe da se stessa sapere. Così la
fisica ha potuto per la prima volta esser posta sulla via sicura della scienza, laddove da tanti
secoli essa non era stato altro che un semplice brancolamento” 7.
Insomma, per concludere questo breve pro memoria della concezione kantiana,
“necessità e vera universalità son dunque i segni distintivi sicuri di una conoscenza a priori; e
sono inseparabilmente inerenti l’uno all’altro” 8. Questi segni distintivi connotano: la Natura
come oggetto da conoscere; il Soggetto conoscente; il Metodo che questi usa per conoscere
quella. Per essere più espliciti, per Kant la Natura è eterna, come eterna è la struttura
dell’intelletto umano.
Ebbene, il pensiero di Edgar Morin rappresenta quanto di più lontano ci possa essere
rispetto a tutto questo, e rende testimonianza diretta del fatto che la nuova epistemologia della
complessità si muove in un orizzonte di senso totalmente diverso rispetto a quello kantiano.
Infatti, a partire soprattutto dal primo volume del suo Metodo, Morin ha contrapposto, - alla
via breve e sicura indicata da Cartesio e al relativo metodo presentato in poche pagine -, un
cammino che deve essere tracciato camminando, che è quindi estremamente tortuoso e
imprevedibile e che si distende, finora, attraverso le pagine di cinque grossi volumi. Al
“Soggetto trascendentale”, tutto intelletto strutturato in categorie logiche, ha contrapposto
l’uomo intero, certamente dotato di ragione, ma guidato anche da una fortissima propensione
verso l’immaginario. Alla Natura come “sistema del mondo” statico e immutabile per tutto
l’avvenire, ha contrapposto un Universo in perpetua trasformazione sia nella sua totalità, sia
nelle singole parti con le quali è internamente strutturato. Morin ha elaborato, dunque, una
concezione nella quale, come dicevo, è difficile trovare un posto per la filosofia kantiana. Ha
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Ivi, p. 99.
Ibidem.
I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. di F. Capra, Laterza, Bari 1971, p. 198.
Ibidem.
I. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. lombardo Radice, Laterza, Bari 1969, p. 19.
Ivi, p. 42.
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fatto ciò delineando, innanzitutto, una immagine del mondo che adesso bisogna esaminare in
maniera più specifica, per comprendere appunto il senso della distanza da Kant9.
In proposito Morin ha rilevato, innanzitutto, che gli sviluppi delle scienze nell’Ottocento
e nel Novecento hanno mostrato che il mondo stabile di Kant e di Laplace è, in realtà, un
“evento” storico e complesso che manifesta questa sua intrinseca caratteristica a tutti i livelli e
a tutte le dimensioni.
Cominciando dal Tutto, l’universo di Kant e di Laplace era considerato, da quest’ultimo
in maniera esplicita, come strutturato in modo tale che “dobbiamo dunque considerare lo stato
presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato
futuro”10.
Tuttavia, sottolinea Morin, “dopo aver creduto in un universo perfettamente
deterministico, la fisica ha scoperto in esso furore, violenza, guerra, con esplosioni e implosioni
di astri, scontri di galassie, stelle che si parassitano a vicenda e si divorano come cannibali” 11.
Questa consapevolezza è emersa dopo l’enunciazione, nel 1912, da parte di Sipher e
dopo la conferma, nel 1929, da parte di Hubble, della teoria dell’espansione dell’universo. Da
allora, “la grandiosa programmazione del grande balletto stellare si è trasformata in un fuggi
fuggi generale. Al di là dell’ordine provvisorio della nostra piccola periferica galattica, che
avevamo preso per l’ordine universale ed eterno, si producono diversi fatti inauditi, che
cominciano a presentarsi sulle nostre telescriventi: folgoranti esplosioni stellari, collisioni
d’astri, scontri di galassie. Scopriamo che la stella, lungi dall’essere la sfera perfetta che
emette i segnali dal cielo, è una bomba all’idrogeno al rallentatore, un motore in fiamme; nata
con la catastrofe, presto o tardi scoppierà catastroficamente”12.
Questo continuo passaggio dal disordine all’ordine e viceversa avviene perfino nel
microcosmo, a livello di particelle elementari, che si presentano come microsistemi in continua
trasformazione. Non solo. Ma anche il pianeta Terra, nella sua struttura, è in continuo divenire,
come sappiamo dal 1912, grazie alla teoria della
deriva dei Continenti. Analoga
trasformazione storico-temporale connota tutti i corpi i quali, come è stato dimostrato dal
Secondo principio della termodinamica, si degradano progressivamente. Infine anche le specie
viventi, come aveva già mostrato Darwin, sono soggetti ad evoluzione. Dunque a tutti i livelli
il divenire storico-temporale ha sostituito la staticità, l’essere, la sostanza immodificabile.
Insomma, abbiamo finalmente compreso che la storia permea tutto e che il cosmo in realtà è,
come dice Morin, un “caosmo”13.
2. Dal Soggetto trascendentale al Soggetto come uomo intero.
Assieme al mutamento in senso storico dell’idea di Natura, si è complessificato anche
il concetto di “io trascendentale”.
Cfr. E. Morin, Il Metodo. 1. la natura della natura, trad. di G. Bocchi e A. Serra, Cortina, Milano 2001,
passim. Su ciò cfr. R. Fortin, Comprendre la complexité. Introduction à La Methode d’Edgar Morin,
l’Harmattan, Paris 2000.
10 P. S. de Laplace, Opere, a cura di O. Pesenti Cambursano, UTET, Torino 1967, p. 243, dove prosegue:
“Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la
situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda per
sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi
dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato,
sarebbe presente ai suoi occhi”.
11 E. Morin, Il Metodo. 5. L’identità umana, trad. di S. Lazzari, Cortina, Milano 2002, p. 5.
12 E. Morin, Il Metodo. 1. La natura della natura, cit., p. 42. Cfr. anche G. B. Fages, Comprendre Edgar
Morin, Privat, Toulouse 1980; A. Anselmo, Edgar Morin. Dal riduzionismo alla complessità, Armando
Siciliano, Messina 2000; F. Bianchi, Le fil des idées, Seuil, Paris 2001; S. De Siena, La sfida globale di
Edgar Morin, Besa, Nardò 2002.
13 Su ciò cfr. A. Anselmo, Edgar Morin, in AA. VV., Pensatori contemporanei. II. Epistemologi del
Novecento, a cura di G. Gembillo e G. Giordano, Armando Siciliano, Messina 2004, pp. 345-399.
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Questa trasformazione è avvenuta già nel modo stesso di impostare il problema del
soggetto conoscente. Mentre infatti nella tradizione filosofica moderna, da Cartesio a Kant,
sono state ripetutamente tentate varie analisi dell’intelletto umano, nella convinzione che in
tale sede vada cercata la fonte del conoscere, adesso l’esame si è allargato all’uomo intero.
Allo scopo di dimostrare la necessità di tale ampliamento, Morin ha denunciato,
innanzitutto, il tradizionale processo di riduzione dell’uomo al solo intelletto e ha sottolineato
che in realtà egli è radicato nella Natura e fortemente condizionato dalla sua struttura
biologica. Di conseguenza, e in funzione di questa nuova prospettiva, “abbiamo bisogno di un
pensiero che cerchi di riunire e organizzare le componenti (biologiche, culturali, sociali,
individuali) della complessità umana e di iniettare gli apporti scientifici nell’antropologia, come
fece a suo tempo il pensiero tedesco del XIX secolo (riflessione filosofica incentrata sull’essere
umano)”14.
Ma va anche rivalutato il ruolo che l’immaginario ha svolto nella storia, riconoscendo,
per esempio, che “la nostra mente secerne continuamente immaginario. L’importanza del
fantasmatico e dell’immaginario nell’essere umano attiene in parte all’importanza del mondo
psichico relativamente indipendente, nel quale fermentano bisogni, sogni, desideri, idee,
immagini, fantasmi”15.
In considerazione di ciò, Morin ha voluto accostare all’homo sapiens anche la sua parte
demens, sottolineando che essa ne ha caratterizzato la storia evolutiva almeno quanto l’altra.
Ha scritto, per esempio, che dal corso della storia umana “si palesa la faccia dell’uomo
nascosta dal concetto rassicurante e distensivo di sapiens. E’ un essere dotato di un’affettività
intensa e instabile che sorride, ride, piange, un essere ansioso e angosciato” 16.
Se tutto questo è vero, l’idea di conoscenza deve adeguarsi alla nuova concezione, deve
rimodularsi sia in senso diacronico che in quello sincronico.
Bisogna allora precisare esplicitamente che “la conoscenza che noi proponiamo è
complessa:
-
-
-
perché riconosce che il soggetto umano che studia è incluso nel suo oggetto;
perché concepisce inseparabilmente l’unità e la diversità umane;
perché concepisce tutte le dimensioni o gli aspetti, attualmente disgiunti e
compartimentati, della realtà umana, i quali sono fisici, biologici, psicologici, sociali,
mitologici, economici, sociologici, storici;
perché concepisce homo non solo come sapiens, faber, ed economicus, ma anche
come demens, ludens e consumans;
perché tiene insieme verità disgiunte che si escludono l’una con l’altra;
perché unisce la dimensione scientifica (cioè la verifica dei dati, il metodo ipotetico e
l’accettazione della falsificabilità) alle dimensioni epistemologica e riflessiva
(filosofiche);
perché ridà senso alle parole perdute e decadute nelle scienze, comprese quelle
cognitive: anima, mente, pensiero”17.
Dunque il nuovo soggetto conoscente è un essere a tutto tondo che interagisce con
l’ambiente che lo circonda e che instaura una Nuova Alleanza, nel senso di Prigogine, con
l’oggetto; è, cioè, un vivente che inaugura un ripensamento globale del modo in cui questo
rapporto era istituito in precedenza.
E. Morin, Il metodo. 5. L’identità umana, cit., p. XVII.
Ivi, p. 115.
16 E. Morin, Il paradigma perduto, trad. di E. Bongioanni, Feltrinelli, Milano 1994, p. 111.
17 E. Morin, Il metodo. 5. L’identità umana, cit., p. XVIII. Cfr. anche E. Morin, Scienza con coscienza,
trad. di P. Quattrocchi, Angeli, Milano 1987, passim.
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3. Dalla Sintesi a priori alla Nuova Alleanza tra Soggetto e Oggetto.
Com’è noto, infatti, il segno distintivo della scienza classica e il suo atto di nascita
erano caratterizzati dalla netta separazione tra osservatore e oggetto osservato. In quella
prospettiva l’uomo doveva dominare la Natura per mezzo della scienza.
Anche per Kant il rapporto Uomo-Natura restava esteriore. Talmente esteriore da
postulare ancora una Natura “in sé”, pensata come virtualmente separata dall’Uomo. Ma dopo
l’enunciazione del Secondo principio della Termodinamica; dopo il successo della teoria della
relatività di Einstein; dopo l’enunciazione del principio di indeterminazione da parte di
Heisenberg; dopo le riflessioni sui sistemi che osservano da parte di von Foerster; e, infine,
dopo l’elaborazione del concetto di autopoiesi di Maturana e Varela, il concetto di oggettività
appare essenzialmente privo di senso18, perché “oggi abbiamo appreso il nostro doppio
radicamento nel cosmo fisico e nella sfera vivente. Siamo nello stesso tempo dentro e fuori la
natura”19.
Insomma, dopo gli sviluppi assolutamente imprevedibili delle nuove teorie scientifiche,
sappiamo che “siamo forgiati, prodotti, trascinati da questa avventura della quale non
avevamo ancora coscienza alcuna alla metà del ventesimo secolo. La prima lezione che ci dà il
cosmo è che le particelle degli atomi delle nostre cellule sono apparse fin dai suoi primi secondi
di vita, che i nostri atomi di carbonio si sono costituiti in un sole anteriore al nostro, che le
nostre macromolecole si sono unite nei primi tempi convulsivi della Terra; queste
macromolecole si sono associate in vortici, uno dei quali, sempre più ricco nella sua diversità
molecolare, si è metamorfosato in una organizzazione di tipo nuovo rispetto all’organizzazione
strettamente chimica, l’autorganizzazione vivente. L’essere vivente è una macchina
interamente psico-chimica, ma organizzata in maniera più complessa, è dotata di qualità e
proprietà sconosciute nel mondo molecolare dal quale tuttavia è nata: le qualità espresse dal
termine vita”20.
Inoltre, per completare l’ambiente circostante in cui si situa l’essere umano, “alla nostra
ascendenza cosmica, alla nostra costituzione fisica, dobbiamo aggiungere il nostro
insediamento terreno. La Terra si è auto-prodotta e auto-organizzata in dipendenza dal Sole, si
è costituita in complesso biofisico a partire dal momento in cui si è sviluppata la biosfera. Dalla
Terra è effettivamente nata la vita, e dallo sviluppo multiforme della vita policellulare è nata
l’animalità, e in seguito il più recente sviluppo di un ramo del mondo animale è divenuto
umano”21.
Questa consapevolezza ha rivoluzionato la scienza oggettiva per eccellenza, la fisica, da
quando Werner Heisenberg ha enunciato il principio di indeterminazione. Infatti, “da più di
mezzo secolo sappiamo che né l’osservazione microfisica né l’osservazione cosmo-fisica
possono essere separate dal loro osservatore. I progressi maggiori delle scienze
contemporanee si sono verificati reintegrando l’osservatore nell’osservazione. Ciò è
logicamente necessario: ogni concetto rinvia non soltanto all’oggetto ideato, ma anche al
soggetto ideatore” 22.
Questo vale in ogni caso. “Vi è dunque sempre, nell’estrazione, nell’isolamento, nella
definizione di un sistema qualcosa di incerto o di arbitrario: vi sono sempre decisione e scelta,
il che introduce nel concetto di sistema la categoria del soggetto. Il soggetto interviene nella
definizione del sistema nei, e tramite i, suoi interessi, le sue selezioni e le sue finalità; egli
Maturana ha proposto esplicitamente di mettere “l’oggettività tra parentesi” (H. Maturana,
Autocoscienza e realtà, trad. di L. Formenti, Cortina, Milano 1993. pp. 19-23).
19 E. Morin, Il metodo. 5. L’identità umana, cit., p. 3.
20 Ivi, p. 4.
21 Ivi, p. 7. Cfr. E. Morin, Il pensiero ecologico, trad. di G. Bocchi, Hopeful Monster, Firenze 1988; e id.,
La vita della vita, trad. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1987.
22 E. Morin, Il metodo. 1. la natura della natura, cit., p. 5.
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arreca cioè al concetto di sistema, attraverso la sua sovradeterminazione soggettiva, la
sovradeterminazione culturale, sociale e antropologica”23.
Dunque il soggetto e l’oggetto sono parti di un tutto organico che li mette in relazione e
che fa comprendere che “il concetto di sistema può essere costruito soltanto nella e dalla
transazione soggetto/oggetto, e non nell’eliminazione dell’uno da parte dell’altro” 24.
Questo significa che l’atteggiamento di dominio, proclamato già da Bacone, deve essere
superato definitivamente; e implica anche che, diversamente da quanto accadeva in Kant,
l’etica della responsabilità non riguarda più solo la Ragione pratica, ma anche quella pura;
l’etica non è più solo intersoggettiva, ma si deve aprire alla Natura, deve diventare “ecoetica”;
deve tenere conto di questa nuova “comunanza”, per dirla con Droysen, con la Natura 25.
Dunque “la presa di coscienza della comunità di destino terrestre deve essere l’evento
chiave della fine del millennio: siamo solidali a questo pianeta, la nostra vita è legata alla sua
vita. Dobbiamo ripararlo o morire”26.
Insomma, “assumere la cittadinanza terrestre, è assumere la nostra comunità di
destino”27. Ma “nello stesso tempo, la scoperta della comunità di destino uomo/natura
conferisce responsabilità tellurica all’uomo. Da qui in poi, egli deve radicalmente abbandonare
il progetto di conquista formulato da Descartes, Buffon, Marx. Non più dominare la Terra, ma
curare la Terra malata, abitarla, ripararla, coltivarla”28.
La nuova alleanza impone, insomma, che “l’umanità deve elaborare la co-regolazione
della biosfera terrestre. Certo, essa dispone di considerevoli poteri, destinati perfino ad
accrescersi; ma si tratta di diventare non il pilota, ma il co-pilota della Terra. Si impone il
doppio pilotaggio: uomo/natura; tecnologia/ecologia; intelligenza cosciente/intelligenza
incosciente…La Terra deve guidare attraverso la vita, l’uomo deve guidare attraverso la
coscienza”29.
In conclusione, “uscire dall’età del ferro planetaria, salvare l’umanità, co-pilotare la
biosfera, civilizzare la Terra sono quattro termini legati in un anello ricorsivo, ciascuno
necessario agli altri tre”30. Ma se tutto questo avviene concretamente e costantemente nello
spazio e “nel tempo”, bisogna ora riesaminare anche questi concetti.
4. Dallo spazio come forma pura del senso esterno allo spazio come ambiente.
Il nuovo rapporto tra Uomo e Natura si attua, dunque, in uno Spazio che non è né
parametro esterno dei fenomeni, come nelle coordinate cartesiane; né contenitore assoluto di
essi, come nella prospettiva di Newton; e nemmeno forma pura del senso esterno, come per
Kant. Esso è, invece, come per Darwin, ambiente circostante nel quale il soggetto vive e con il
quale interagisce attivamente, istituendo un rapporto di reciproco condizionamento. Lo Spazio
diventa sistema aperto, e “la nozione di sistema aperto fa appello alla nozione di ambiente” 31.
L’ambiente, dunque, diventa sistema organizzatore. Esso è un’unità complessa che emerge
dall’interazione tra l’ambiente geofisico, il “biotopo” e l’insieme delle interazioni tra gli esseri
viventi che interagiscono col biotopo stesso e che viene definito “biocenosi”.
Ivi, pp. 160-1.
Ivi, p. 163.
25 Cfr. J. G. Droysen, Istorica. Lezioni sulla Enciclopedia e Metodologia della Storia, a cura di L. Emery,
Ricciardi, Milano-Napoli 1966.
26 E. Morin – A.B. Kern, Terra-Patria (1993), trad. di S. Lazzari, Cortina, Milano 1994, p. 190.
27 Ivi, p. 191.
28 Ibidem.
29 Ibidem.
30 Ibidem.
31 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, trad. di M. Corbani, Sperling e Kupfer, Milano 1993, p.
36.
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Esso ha generato una nuova scienza, quella ecologica, la quale “non è arrivata che in
tempi molto recenti a concepire che la comunità degli esseri viventi (biocenosi) in uno spazio o
“nicchia” geo-fisica (biotopo) dà luogo insieme a questo a una unità globale o ecosistema.
Perché sistema? Perché l’insieme di costrizioni, di interazioni, di interdipendenze, in seno a una
nicchia ecologica, costituisce, a dispetto e attraverso il caso e l’incertezza, una
autorganizzazione spontanea” 32.
Così lo spazio si è “ravvivato” al punto da costituire un’unica rete vivente che mette in
connessione tutti gli esistenti. Infatti, “attraverso tutte queste interazioni si costituiscono dei
cicli fondamentali: dalla pianta all’erbivoro e al carnivoro, dal plancton al pesce e all’uccello: un
ciclo gigantesco trasforma l’energia solare, produce l’ossigeno, assorbe l’anidride carbonica, e
unisce con mille reti l’insieme degli esseri dalla nicchia al pianeta; in questo senso l’ecosistema
è veramente una totalità autorganizzata. Non era dunque un delirio romantico considerare la
Natura come un organismo globale, come un essere che contiene ogni matrice, a condizione di
non dimenticare che questa madre è creata dai suoi stessi figli ed è anche matrigna, poiché
utilizza la distruzione e la morte come mezzo di regolazione” 33.
Inoltre, “questa proposizione ha conseguenze teoriche assai importanti: la relazione
ecosistemica non è una relazione esterna tra due entità chiuse; si tratta invece di un rapporto
integrativo tra due sistemi aperti dove ciascuno è parte dell’altro, costituendo un tutto unico.
Più un sistema vivente è autonomo, più risulta dipendente nei confronti dell’ecosistema; infatti,
l’autonomia presuppone la complessità, la quale presuppone a sua volta una grande ricchezza
di rapporti di ogni genere con l’ambiente, cioè dipende da interrelazioni, che costituiscono
molto precisamente le dipendenze che sono le condizioni della relativa indipendenza” 34.
Naturalmente questa consapevolezza comporta un mutamento di prospettiva ancora
difficile da accettare perché “l’ecologia, o piuttosto l’ecosistemologia (Wilden 1972), è una
scienza che sta nascendo”. Tuttavia, “essa costituisce già un apporto capitale alla teoria
dell’autorganizzazione del vivente, e per quanto riguarda l’antropologia essa riabilita la nozione
di natura, radicandovi l’uomo. La natura non è più disordine, passività, ambiente amorfo: è
una totalità complessa. L’uomo non è più un’entità chiusa in rapporto a questa totalità
complessa: egli è un sistema aperto in rapporto di autonomia/dipendenza organizzatrice in
seno a un ecosistema”35.
Morin ha sviluppato queste considerazioni nella prima parte del secondo volume del
Metodo. 2. La vita della vita36, dove ha scritto, per esempio, che “dobbiamo considerare
l’ambiente non più soltanto come ordine e come vincolo (i determinismi e i condizionamenti di
‘mezzo’) e nemmeno soltanto come disordine (distruzioni, divorazioni, rischi), ma anche come
organizzazione. E questa, come ogni organizzazione complessa, subisce, comporta e produce
disordine e ordine”37.
Ciò avviene perché “l’ambiente inteso quale unione di un biotopo e di una biocenesi è un
sistema a pieno diritto, è un tutto che si organizza a partire dalle interazioni fra le componenti
biologiche e geofisiche. Ed è a pieno diritto un’Unità complessa o Unitas multiplex, un’unità che
racchiude in sé una diversità straordinaria di specie, di monocellulari, di vegetali, di insetti, di
pesci, di uccelli, di mammiferi”38.
E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p. 28.
Ibidem. Su ciò mi limito a rinviare a: J. Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, trad. di V. Bassan
Landucci, Bollati Boringhieri, Torino 1996; T. Volk, Il corpo di Gaia. Fisiologia del pianeta vivente, trad. di
G. Barbiero, Utet, Torino 2001; F. Capra, La rete della vita, trad. di C. Capararo, Rizzoli, Milano 1997.
34 Ivi, p. 29.
35 Ibidem.
36 Cfr. E. Morin, Il pensiero ecologico, trad. di G. Bocchi, Hopeful Monster, Firenze 1998.
37 Ivi, p. 16.
38 Ibidem.
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Questo discorso si amplia a tal punto, nell’analisi di Morin, da identificarsi con quello svolto
intorno al concetto di Terra-patria. Per lui, infatti, “la Terra non è l’addizione di un pianeta
fisico, più la biosfera, più l’umanità. La Terra è una totalità complessa fisica-biologicaantropologica, dove la vita è un emergere dalla storia della Terra, e l’uomo un emergere dalla
storia della vita terrestre”39.
Si tratta di una conquista recente, perché “ancora fino agli anni ’50-60 del nostro
secolo, vivevamo su una Terra misconosciuta, vivevamo su una Terra astratta, vivevamo su
una Terra-oggetto. La nostra fine di secolo ha scoperto la Terra-sistema, la Terra-Gaia, la
biosfera, la Terra particella cosmica, la Terra-Patria. Ciascuno di noi ha la propria genealogia e
la propria carta d’identità terrestre. Ciascuno di noi viene dalla Terra, è della Terra, è sulla
Terra. / Apparteniamo alla Terra che ci appartiene” 40.
E’ questo uno spazio del tutto nuovo e diverso rispetto a quello kantiano; uno spazio
concreto, uno spazio in cui gli eventi si sviluppano nel Tempo.
5. Dal tempo come forma pura del senso interno al tempo come struttura degli eventi.
Dobbiamo, allora, ripensare anche il concetto di Tempo. Quel concetto che per Kant era
“forma pura del senso interno”.
Sulle orme di Prigogine, Morin ritiene che esso non è quello descritto da Kant, ma è la
struttura intrinseca di tutti i fenomeni; è ciò che li caratterizza in maniera specifica. Per lui
“ogni sistema fisico è a pieno titolo un essere del tempo, nel tempo, un essere che il tempo
distrugge. Nasce (da interazioni), ha una storia (gli eventi esterni e interni che lo perturbano
e/o lo trasformano), muore per disintegrazione”41.
Per comprendere meglio questo discorso, bisogna precisare che “il tempo sistemico non
è soltanto il tempo che va dalla nascita alla dispersione, è anche il tempo dell’evoluzione. Ciò
che è evolutivo nell’universo, ciò che si sviluppa, prolifera, si complessifica, è
l’organizzazione”42.
In questo senso, e in linea con le teorizzazioni elaborate da Ilya Prigogine, “non c’è
niente nell’universo che non sia temporale, non c’è alcun elemento, dalla particella sino alla
componente più stabile di un sistema stabile, che non possa essere concepito come evento,
cioè come qualcosa che avviene, si trasforma, scompare. Lo stesso cosmo è un Evento che si
protrae in cascate di eventi in cui sono sorte le particelle, si sono formati gli atomi, in cui si
accendono i soli, muoiono le stelle, nasce la vita”43.
Questo significa che nella scienza nuova il tempo è visto come complesso e si connota
come storia degli eventi. Allora, bisogna riconoscere che “il nuovo universo è consustanziale a
un tempo ricco e complesso: non è né il tempo semplice della degradazione né il tempo
semplice del progresso né il tempo semplice della sequenza né il tempo semplice del ciclo
perpetuo. Esso è, in modo insieme complementare, concorrente e antagonistico, tutti questi
tempi diversi, pur rimanendo il Medesimo. La Storia rientra nell’universo: quest’ultimo ha una
e più storie, che a miliardi si fanno e disfanno nelle stelle e nelle galassie” 44.
A questo punto il tempo, “spazializzato” da Cartesio a Einstein, riacquista tutta la sua
concretezza e chiude, per così dire, il cerchio rivelandosi come la storia stessa di tutti gli
E. Morin – A. B. Kern, Terra-Patria, cit., p. 55.
Ivi, p. 187.
41 E. Morin, Il metodo. 1. la natura della natura, cit., p. 156.
42 Ibidem.
43 Ivi, p. 428. Cfr. I. Prigogine – I. Stengers, La Nuova Alleanza, trad. di P. D. Napoletani, Einaudi, Torino
1993.
44 Ivi, p. 482.
39
40
8
eventi. Il che, ovviamente, rende ancora più lontano e più estraneo l’orizzonte di senso del
pensiero kantiano, anche perché coinvolge il significato da attribuire alla nuova logica.
6. Dalla causalità lineare alla causalità circolare.
Uno dei punti fondamentali su cui era stata edificata la scienza classica era quel
concetto di causa che Kant esprimeva nell’enunciato per il quale “tutti i cangiamenti avvengono
secondo la legge del nesso di causa ed effetto”45. Enunciato relativo a quella che egli definiva
relazione oggettiva da cogliere non tanto “con la semplice percezione”, quanto con “un
concetto intellettuale puro”, e che presentava in questo modo: “Ora, affinché possa esser
conosciuta come determinata, la relazione fra i due stati deve essere pensata in modo che ne
venga determinato necessariamente qual di essi va posto prima e quale dopo, e non
inversamente. Ma il concetto che rechi in sé una necessità dell’unità sintetica, non può essere
se non un concetto intellettuale puro, che non si trova nella percezione; e in questo caso è il
concetto del rapporto di causa ed effetto, di cui la prima determinata nel tempo, il secondo
come conseguente, e non come qualcosa che potrebbe precedere semplicemente
nell’immaginazione (o, in generale, non essere punto percepita)” 46.
Da ciò Kant deduceva che “dunque, l’esperienza stessa, cioè la conoscenza empirica dei
fenomeni, è possibile solo a patto che sottoponiamo il loro succedersi, e quindi ogni
cangiamento, alla legge di causalità; quindi i fenomeni stessi, in quanto oggetti dell’esperienza,
sono possibili soltanto secondo questa legge” 47.
Questa concezione presuppone la continuità dei fenomeni. “Ogni cangiamento è dunque
possibile soltanto per un’azione continua della causalità, la quale, in quanto è uniforme, dicesi
momento. Il cangiamento non consiste in questi momenti, ma ne è prodotto, come loro
effetto”48.
La causalità regolava inoltre i rapporti tra gli oggetti in maniera lineare, secondo la
sequenza irreversibile del prima e del poi, e veniva identificata con la scienza stessa. Questo
avveniva non solo nell’ambito della tradizionale visione continuista dei fenomeni naturali, ma
anche in quella discontinuista, perché, come affermava Max Planck qualche secolo dopo Kant,
“il pensiero scientifico aspira alla causalità, è anzi la stessa cosa che il pensiero causale, e la
meta finale di ogni scienza deve essere di condurre fino alle sue ultime conseguenze il punto di
vista causale”49. Ovvero, come aggiungeva ancora, “si può affermare a buon diritto che la
ricerca scientifica ha le sue radici nel concetto di causa, e che l’ipotesi rigidamente
deterministica di una causalità senza eccezioni forma il presupposto e la condizione preliminare
della conoscenza scientifica”50.
Essa dunque era vista come una regola che determina i fenomeni in maniera lineare e
irreversibile, sia da Kant che da Planck. Ma anche riguardo a questo concetto la posizione di
Morin è ormai opposta. E’ una posizione che si può avvalere del supporto di Heisenberg, il
quale aveva dedotto dal suo principio di indeterminazione la seguente conclusione: “Nella
formulazione netta della legge di causalità: ‘Se conosciamo esattamente il presente, possiamo
calcolare il futuro’, è falsa non la conclusione, ma la premessa. Noi non possiamo in linea di
principio conoscere il presente in ogni elemento determinante. Perciò ogni percepire è una
selezione da una quantità di possibilità e una limitazione delle possibilità future51”.
I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 201.
Ivi, p. 202.
47 Ibidem.
48 Ivi, p. 215.
49 M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, trad. di E. Persico e A. Gamba, Bollati Boringhieri, Torino
1993, p. 148.
50 Ivi, p. 145.
51 W. Heisenberg, Sul contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica quantoteoriche (1927), ora
in Indeterminazione e realtà, a cura di G. Gembillo e G. Gregorio, Guida, Napoli 2001, p. 76. Su cui cfr.
45
46
9
Quindi aveva aggiunto: “Poiché il carattere statistico della teoria quantistica è così
strettamente collegato all’imprecisione di ogni percezione, si potrebbe essere indotti
erroneamente a supporre che al di là del mondo statistico percepito si celi ancora un mondo
‘reale’, nel quale è valida la legge di causalità. Ma tali speculazioni ci sembrano, insistiamo su
questo punto, infruttuose e insensate. La fisica deve descrivere formalmente solo la
connessione delle percezioni”52.
Infine aveva concluso il proprio ragionamento affermando che “si può caratterizzare
molto meglio il vero stato delle cose in questo modo: poiché tutti gli esperimenti sono soggetti
alle leggi della meccanica quantistica, e dunque all’equazione (1), mediante la meccanica
quantistica viene stabilita definitivamente la non validità della legge di causalità”53.
La quale, quindi, in fisica non ha più il ruolo che le veniva attribuito in precedenza, ma
mantiene solo un compito limitato e comunque diverso rispetto a quello riconosciutole dalla
scienza classica, anche perché in quella nuova essa ha perso i suoi vecchi connotati.
Infatti, contrariamente alla causalità classica, “la causalità complessa non è lineare ma
circolare e interrelazionale; la causa e l’effetto hanno perduto la loro sostanzialità; la causa ha
perduto la sua onnipotenza, l’effetto la sua onni-dipendenza. Si sono relativizzati l’uno
attraverso l’altro e nell’altro, si trasformano l’uno nell’altro e viceversa. La causalità complessa
non è più soltanto deterministica o probabilitaria; essa crea qualcosa di improbabile; in questo
senso, non riguarda più soltanto corpi isolati o popolazioni, ma esseri individuali interagenti
con il loro ambiente”54.
Questo tipo di causalità fa sì che le parti in causa, interagendo, producano qualcosa di
assolutamente nuovo, le cosiddette emergenze, le quali, appunto, vengono fuori dall’incontro
tra gli elementi in gioco, ma non erano presenti, prima dell’interazione, in nessuno degli
elementi stessi.
Ciò fa comprendere meglio in che senso “la causalità complessa abbraccia un complesso
di causalità diverse per origine e carattere (determinismi, alee, generatività, finalità, circolarità
retroattiva ecc.) e comporta sempre una dualità fondamentale indo-eso-causale. Per capire
qualcosa nella vita, nella società, nell’individuo, occorre fare appello al gioco complesso delle
causalità interne ed esterne”55.
Insomma, in questa nuova prospettiva la causalità deve essere intesa nel senso di
azione reciproca e di condizionamento interattivo e imprevedibile; diventa, per usare il
linguaggio dell’ultimo Dewey “transazionale”56.
7. Dalla logica trascendentale alla logica della circolarità.
Questo modo di intendere i rapporti causali impone una nuova prospettiva e, con essa,
una nuova logica, sostanzialmente diversa da quella tradizionale. Infatti la logica occidentale è
lineare e in base ad essa si giudica negativamente un ragionamento senza “fondamento”
esterno, che, in quanto tale, viene considerato un procedimento che si avvolge su se stesso e
G. Gembillo, Werner Heisenberg. La filosofia di un fisico, Giannini, Napoli 1987; AA.VV., Werner
Heisenberg scienziato e filosofo, a cura di G. Gembillo e C. Altavilla, Armando Siciliano, Messina 2002.
52 Ibidem.
53 Ibidem.
54 E. Morin, Il metodo. 1. La natura della natura, cit., p. 313.
55 Ibidem.
56 Cfr. J. Dewey – A. F. Bentley, Conoscenza e transazione, trad. di E. Ristretta, La Nuova Italia, Firenze
1974, su cui cfr. M. R. Abramo, La circolarità transazionale in Dewey, in E. Mori net al., La metafora del
circolo nella filosofia del Novecento, a cura di A. Anselmo e G. Gembillo, Armando Siciliano, Messina
2002, pp. 193-250.
10
che diventa, così, “tautologico”. Quando si incappa in ciò, si cade, nella prospettiva di essa, in
un circolo “vizioso”.
Ebbene, Morin si propone di dimostrare che la circolarità non solo è “virtuosa”, ma è
sempre creativa; anzi, è, per così dire, la forma della creatività in quanto “autoformazione”.
Allo scopo ha sviluppato un puntuale e articolato ragionamento in un’ampia sezione del primo
volume del Metodo e ne ha tratto una definizione della logica su cui è bene soffermarsi
brevemente.
Per Morin tale logica è la logica del reale perché il reale si autoforma attraverso un
processo circolare di autorafforzamento. Dunque la struttura ad anello costituisce la forma del
tutto. Allora, per comprendere il tutto, è necessaria una logica circolare. Anzi, è necessario che
la logica sia circolare57. Emerge, dunque, una impostazione ontologica e logica nello stesso
tempo che connota ogni evento e regola tutti i rapporti. Per esempio, regola i rapporti tra
uomo e natura e fa dire a Morin che “questa relazione circolare significa innanzitutto che una
scienza dell’uomo postula una scienza della natura, la quale a sua volta postula una scienza
dell’uomo: ora, dal punto di vista logico questa relazione di dipendenza reciproca rinvia ognuna
di queste proposizioni l’una all’altra, l’altra all’una, in un ciclo infernale in cui nessuna di esse
può prendere corpo. Questa relazione circolare significa anche che nello stesso tempo la realtà
antropo-sociale dipende dalla realtà fisica, e la realtà fisica dipende dalla realtà antroposociale.
Prese alla lettera, queste due proposizioni sono antinomiche e si annullano
reciprocamente”58.
Esse si annullano o sono, comunque, ritenute viziate da circolarità, che deve, quindi,
essere spezzata. Ma Morin contesta proprio la scelta tradizionale di spezzare questa circolarità,
disgiungendo e separando. Per questo motivo, sottolineando espressamente le proprie
affermazioni, precisa: “Si afferma con ciò che spezzare le circolarità, eliminare le antinomie
significa precisamente ricadere sotto il dominio del principio di disgiunzione/semplificazione al
quale vogliamo sfuggire. Di contro conservare la circolarità significa rifiutare la riduzione di un
dato complesso a un principio mutilante: significa rifiutare l’ipostatizzazione di un concetto
principale (la Materia, lo Spirito, l’Energia, l’Informazione, la Lotta di classe ecc.). Significa
rifiutare il discorso lineare con un punto di partenza e un punto di arrivo. Significa rifiutare la
semplificazione astratta”59.
A ciò bisogna aggiungere la considerazione per la quale “spezzare la circolarità sembra
ristabilire la possibilità di una conoscenza oggettiva in senso assoluto. Ma proprio questo è
illusorio: al contrario, conservare la circolarità significa rispettare le condizioni oggettive della
conoscenza umana che comporta sempre, in qualche luogo, il paradosso logico e
l’incertezza”60.
Inoltre, in linea con un’affermazione di Niels Bohr, il quale aveva detto che spesso il
contrario di una verità profonda è un’altra verità profonda, Morin ha aggiunto che “conservare
la circolarità, mantenendo l’associazione di due proposizioni che isolatamente sono riconosciute
vere entrambe, ma che non appena entrano in contatto si negano reciprocamente, significa
aprire la possibilità di concepire queste due verità quali due facce di una verità complessa;
significa svelare la realtà fondamentale, che è la relazione di interdipendenza fra nozioni che la
disgiunzione isola od oppone, significa dunque aprire la porta alla ricerca di questa
relazione”61.
Inoltre la circolarità consente l’autoriflessione e collega la nuova logica a quella
cartesiana, che in questo modo viene integrata e non annullata. Così “prendere in esame la
Cfr. E. Morin, Il metodo. 1. La natura della natura, cit., pp. 209 e ss. Su ciò cfr. A. Anselmo, Dal
circolo vizioso al circolo virtuoso, in E. Morin et al., La metafora del circolo nella filosofia del Novecento,
cit., pp. 345-374.
58 Ivi, p. 13.
59 Ivi, p. 14.
60 Ibidem.
61 Ibidem.
57
11
circolarità significa conseguentemente aprire la possibilità di un metodo che, facendo interagire
i termini che si rinviano l’uno all’altro, diverrebbe produttore, attraverso questi processi e
questi scambi, di una conoscenza complessa che comporti la propria riflessività”62.
Allora la scelta a favore della circolarità diventa nello stesso tempo programma da
realizzare costantemente nel senso di metterlo alla prova di volta in volta; diventa metodo,
via, che deve essere aperta passo dopo passo, e che non è mai pretracciata, ma che resta da
tracciare nella direzione che cammin facendo appare quella giusta. Si comprende, in questa
prospettiva, questa sorta di progettazione, espressa, conclusivamente, in questi termini:
“Vediamo così la nostra speranza sorgere da ciò che costituiva la disperazione del pensiero
semplificante: il paradosso, l’antinomia, il circolo vizioso. Intravediamo la possibilità di
trasformare i circoli viziosi in cicli virtuosi, che diventano riflessivi e generatori di un pensiero
complesso. Da qui l’idea che regolerà la nostra partenza: non bisogna spezzare le nostre
circolarità, bisogna al contrario prestare attenzione a non staccarsi da esse. Il cerchio sarà la
nostra ruota, la nostra strada sarà a spirale” 63.
Su di essa, infatti, Morin ha fondato e ha edificato tutta l’impostazione ontologica e
logica del Metodo.
8. Dalla scienza classica alla Scienza Nuova.
Tutto il ragionamento svolto fino a questo punto comporta, come Morin scrive in
italiano, una “Scienza Nuova”. Ossia, “Il nuovo paradigma dell’antropologia fondamentale
richiede una ristrutturazione della configurazione complessiva del sapere. Non si tratta solo di
stabilire relazioni diplomatiche e commerciali tra le discipline, dove ognuna si confermi nella
sua sovranità. Si tratta di mettere in causa il principio di discipline che mutilano con l’accetta
l’oggetto complesso, il quale è costituito essenzialmente dalle interrelazioni, le interazioni, le
interferenze, le complementarità, le opposizioni tra elementi costitutivi ciascuno dei quali è
prigioniero di una disciplina particolare”64.
In altri termini, e aprendo così la via per la interdisciplinarità, “si tratta, dunque, non
soltanto di far nascere la scienza dell’uomo, ma di far nascere una nuova concezione della
scienza, che contesti e sconvolga, non solo le frontiere stabilite, ma le pietre angolari dei
paradigmi, e, in un certo senso, l’istituzione scientifica stessa” 65.
Insomma, all’interno di un contesto che metta definitivamente in discussione la
“barbarie dello specialismo” di cui parlava Ortega y Gasset, “la Scienza nuova, o scienza
generale della physis, dovrà stabilire l’articolazione tra la fisica e la vita, cioè fra entropia e
antientropia, tra la complessità microfisica (ambiguità corpuscolare-ondulatoria, principio di
indeterminazione) e la complessità macrofisica (autorganizzazione). Essa dovrà stabilire
l’articolazione tra il vivente e l’umano, l’antientropologia e l’antropologia, dato che l’uomo è
antientropico per eccellenza”66.
Questo significa prendere consapevolezza di cosa è adesso la teoria e, soprattutto, dei
suoi limiti, perché “noi sappiamo ormai che ogni teoria, compresa quella scientifica, non può
esaurire il reale, rinchiudendo l’oggetto nei suoi paradigmi. Essa è condannata a rimanere
aperta, cioè incompleta, insufficiente, spalancata sull’indeterminatezza e l’ignoto, ma a opera
di questo abisso, che è nello stesso tempo la sua bocca affamata, a proseguire la sua ricerca,
elaborare una metateoria, che anch’essa, a sua volta.”67.
62
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64
65
66
67
Ivi, p. 15.
Ibidem.
E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p. 205.
Ibidem.
Ivi, p. 206.
Ivi, p. 207.
12
Inoltre, rimettendo tutto in discussione profonda e proficua, “ora ciò che la scienza
nuova propone, e le cui conseguenze a catena saranno incalcolabili, è semplicemente questo:
non solo l’oggetto deve essere adeguato alla scienza, anche la scienza deve essere adeguata al
suo oggetto”68.
Per essere adeguata essa deve diventare storica e complessa, pur mantenendo la sua
vecchia fisionomia. “Così, la scienza nuova non distrugge le alternative classiche, non fornisce
una soluzione monastica intesa come l’essenza della verità. Piuttosto i termini alternativi
diventano termini antagonisti, contraddittori, e nello stesso tempo complementari all’interno di
una visione più ampia, la quale dal canto suo dovrà incontrare ed affrontare nuove
alternative”69.
Questa scienza impone anche una concezione complessa della razionalità, in
contrapposizione a quella tradizionale. Infatti per un verso “il pensiero mutilato e l’intelligenza
cieca si pretendono e si credono razionali. Di fatto, il modello razionalista al quale obbediscono
è meccanicista, determinista, ed esclude come assurdità ogni contraddizione. Non è razionale,
ma razionalizzatore”70. Invece, “la vera razionalità è aperta e dialoga con una realtà che le
resiste. Fa la spola incessante fra la logica e l’empirico; è il frutto di un dibattito argomentato
delle idee, e non la proprietà di un sistema di idee. La ragione che ignora gli esseri, la
soggettività, l’affettività, la vita è irrazionale. Bisogna tenere conto del mito, dell’affetto,
dell’amore, del pentimento, che devono essere considerati razionalmente”71.
Insomma, la nuova scienza insegna che “la vera razionalità conosce i limiti della
logica, del determinismo, del meccanicismo; sa che la mente umana non potrebbe essere
onnisciente, che la realtà comporta il mistero. Negozia con l’irrazionalizzato, l’oscuro,
l’irrazionalizzabile. Deve lottare contro la razionalizzazione che attinge alle sue stesse sorgenti
e che tuttavia, nel suo sistema coerente che si pretende esaustivo, racchiude solo frammenti di
realtà. E’ non soltanto critica, ma autocritica. Si riconosce la vera razionalità dalla sua capacità
di riconoscere le proprie insufficienze”72.
In conclusione, la Scienza Nuova richiede una ragione nuova; impone un modo diverso
di intendere la ragione.
9.
Dalla Ragione critica alla Ragione storica.
La Scienza Nuova si fonda su una ragione che è molto più complessa rispetto a quella
tradizionale, nella quale, tutto sommato, rientrava ancora quella kantiana. Morin se ne
occupa in ogni suo lavoro. In maniera più specifica nel quarto volume del Metodo, nel quale
indaga a lungo il rapporto razionalità-logica da Aristotele alla Complessità e sottolinea il
ruolo ineliminabile della contraddizione. A conclusione di tale indagine scrive infatti che
ormai ci dobbiamo convincere che “non c’è pensiero che possa riassorbire logicamente lo
scandalo della contraddizione, se non in un gioco di prestigio che renderebbe ‘logica’ la
contraddizione stessa”73. E precisa questo convincimento affermando che “l’incertezza della
contraddizione deriva dal fatto che non sappiamo in anticipo quali siano le contraddizioni
che si possono superare e oltrepassare e quelle che vanno mantenute e salvaguardate.
Ciascuna delle contraddizioni che sorgono nel procedere della conoscenza deve essere
considerata nella singolarità e nella problematica che le sono proprie”74.
E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 52.
Ivi, p. 53.
70 E. Morin – A. B. Kern, Terra-Patria, cit., 166.
71 Ibidem.
72 Ibidem.
73 E. Morin, Le idee: habitat, vita organizzazione usi e costumi, trad. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1993,
p. 208.
74 Ibidem.
68
69
13
Bisogna tenere presente tutto questo perché “il pensiero è un’avventura. Non c’è regola
logica o meta-logica per decidere, in questa avventura, per l’accettazione o il rifiuto di una
contraddizione”75.
Da qui la conclusione per la quale “occorre quindi ‘fare con’. Non si tratta di tollerare
pigramente la contraddizione, addirittura di attendere che un nuovo progresso cognitivo la
faccia scomparire, si tratta di servirsene per riattivare e complessificare il pensiero” 76.
Bisogna farlo, per adeguare la complessità dell’universo in tutte le sue componenti. In
funzione di ciò, Morin, segnando le tappe principali che devono portare coerentemente alla
dimostrazione di queste convinzioni, ha approfondito il discorso in questo modo: “Veniamo
agli strumenti che ci consentiranno di conoscere l’universo complesso. Questi strumenti
sono evidentemente di natura razionale. Solo che, anche qui, occorre fare una complessa
autocritica della nozione di ragione”77.
In termini positivi e da accettare, per lui, senza riserve, “la ragione corrisponde a una
volontà di avere una visione coerente dei fenomeni, delle cose e dell’universo. La ragione
ha un aspetto incontestabilmente logico. Ma anche qui, possiamo distinguere tra razionalità
e razionalizzazione”78.
Questo significa, in termini più specifici, che “la razionalità è il gioco, è il dialogo
incessante tra la nostra mente che crea delle strutture logiche, che le applica al mondo, a
questo mondo reale. Quando questo mondo non è d’accordo con il nostro sistema logico,
bisogna ammettere che il nostro sistema logico è insufficiente, che incontra solo una parte
del reale. La razionalità, in qualche modo, non ha mai la pretesa di esaurire in un sistema
logico la totalità del reale: ha la volontà di dialogare con ciò che le resiste”79.
Invece, riguardo alla razionalizzazione Morin precisa: “Che cos’è la razionalizzazione?
Razionalizzazione, una parola usata molto appropriatamente in patologia da Freud e da
molti psichiatri. La razionalizzazione consiste nel voler rinchiudere la realtà in un sistema
coerente. E tutto ciò che, nella realtà, contraddice quel sistema coerente viene scartato,
dimenticato, messo da parte, visto come illusione o apparenza”80.
Comunque la confusione tra i due termini è possibile e spesso c’è stata. Ebbene,
prosegue Morin, “ci rendiamo conto qui che razionalità e razionalizzazione hanno
esattamente la stessa origine, ma che sviluppandosi diventano nemiche l’una dell’altra. E’
molto difficile riconoscere il momento in cui passiamo dalla razionalità alla
razionalizzazione; non esiste una frontiera; non esiste segnale d’allarme. Abbiamo tutti una
tendenza inconsapevole ad allontanare dalla nostra mente ciò che si prepara a contraddirla,
in politica come in filosofia. Siamo pronti a minimizzare o a respingere gli argomenti
contrari. Avremo un’attenzione selettiva verso ciò che favorisce la nostra idea e una
disattenzione selettiva verso ciò che la sfavorisce. Spesso la razionalizzazione si sviluppa
addirittura nella mente degli scienziati”81.
Per Morin, insomma, “ tra la paranoia, la razionalizzazione e la razionalità non ci sono
frontiere nette. Dobbiamo stare sempre attenti. I filosofi del XVIII secolo, in nome della
ragione, avevano un quadro ben poco razionale di cosa fossero i miti e di cosa fosse la
religione. Credevano che le religioni e gli dei fossero stati inventati dai preti per ingannare
la gente. Non si rendevano conto della profondità e della realtà della sensibilità religiosa e
75
76
77
78
79
80
81
Ibidem.
Ibidem.
E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 69.
Ibidem.
Ivi, pp. 69-70.
Ivi, p. 70.
Ibidem.
14
mitologica nell’essere umano. Ed ecco che erano scivolati nella razionalizzazione, vale a
dire nella spiegazione semplicistica di ciò che la loro ragione non riusciva a capire”82.
Per questi motivi, a causa di queste cecità, “ci sono voluti nuovi sviluppi della ragione
per cominciare a capire il mito. E’ stato necessario, per questo, che la ragione critica
diventasse autocritica”83. Allora, resi finalmente consapevoli di questi rischi, “dobbiamo
incessantemente lottare contro la deificazione della Ragione che è peraltro il nostro solo
strumento di conoscenza affidabile, a patto che sia non solo critica ma autocritica”84.
Insomma, se vogliamo comprendere veramente le nostre capacità e il nostro modo di
essere, dobbiamo prima diventare perfettamente consapevoli del fatto che “noi stessi, che
viviamo in una cultura che ha sviluppato certi settori della razionalità come la filosofia o
come la scienza, viviamo altrettanto impregnati di miti, altrettanto impregnati di magia, ma
di un altro tipo, di un altro genere. Abbiamo dunque bisogno di una razionalità autocritica,
di una razionalità che eserciti un commercio ininterrotto con il mondo empirico, unico
correttivo al delirio logico”85.
Infatti, nonostante i grandi progressi raggiunti e le evoluzioni che lo hanno
caratterizzato, “l’uomo conosce due tipi di delirio. Uno ovviamente è molto visibile, è quello
dell’incoerenza assoluta, delle onomatopee, delle parole pronunciate a caso. L’altro è molto
meno visibile, è il delirio della coerenza assoluta. Contro questo secondo delirio, la risorsa è
nella razionalità autocritica e nel ricorso all’esperienza”86.
Dopo queste considerazioni Morin si pone la domanda pertinente e fornisce la
conseguente risposta: “La ragione? Io mi considero razionale, ma parto dall’idea che la
ragione è evolutiva e porta con sé il suo peggior nemico! Si tratta della razionalizzazione,
che rischia di soffocarla. Tutto ciò che è stato scritto sulla ragione da Hokheimer, Adorno o
Marcuse, bisogna tenerlo ben presente. La ragione non è data, la ragione non procede
lungo binari, la ragione può autodistruggersi, tramite dei processi interni che costituiscono
la razionalizzazione. Quest’ultima è il delirio logico, il delirio di coerenza che si sottrae al
controllo della realtà empirica”87.
Hegel, come
presunzione”.
si
ricorderà,
aveva
definito
questo
atteggiamento
“delirio
della
Comunque, nella nuova prospettiva, conclude Morin, “a mio parere, la ragione si
definisce in base al tipo di dialogo che intrattiene con il mondo esterno che le resiste;
insomma, la vera razionalità riconosce l’irrazionalità e dialoga con l’irrazionalizzabile”88.
In definitiva, prendendo espressamente le distanze da un passato più o meno recente,
Morin può definire ulteriormente il nuovo modo di intendere la ragione in questi termini: “I
Moderni hanno creduto di inaugurare l’era razionale e positiva. Ma le religioni sopravvivono,
il formidabile mito dello Stato nazionale si è sviluppato nel diciannovesimo e nel ventesimo
secolo, una sfera mitologico/magica permane nel basamento psichico degli individui, le
credenze negli spiriti, nei fantasmi, nei sortilegi restano più o meno vitali, nuove forme di
mitologie si sono diffuse tramite i film e le star”89.
Inoltre, contrariamente a quanto pensava Popper, il mito non è stato sconfitto dal
sorgere della “tradizione critica” inaugurata dal nascere della filosofia; né è stato eliminato
dalla nuova versione della tradizione critica rappresentata dalla scienza moderna e dalla
sua logica. Questo perché, diversamente da quanto si crede, “infine e soprattutto, il mito si
è introdotto nel pensiero razionale nel momento stesso in cui questo ha creduto di averlo
82
83
84
85
86
87
88
89
Ivi, pp. 70-71.
Ivi, p. 71.
Ibidem.
Ivi, p. 71-72.
Ivi, p. 72. Cfr. E. Morin, I miei demoni, trad. di L. Pacelli e A. Perri, Meltemi, Roma 1999.
Ivi, p. 119.
Ivi, p. 120.
E. Morin, Il metodo.5. L’identità umana, cit., p. 23.
15
cacciato: l’idea stessa di Ragione è divenuta mito nel momento in cui un formidabile
animismo le ha attribuito vita e potenza per farne un’entità onnisciente e provvidenziale. Il
mito che si infiltra nell’idea astratta la rende vivente, la divinizza dall’interno. Le ideologie
ereditano il nucleo vivente del mito e talvolta anche, come fu il caso del marxismo, della
religione della salvezza”90.
Non bisogna, allora, avere la pretesa, come è accaduto a Freud, di svelare “l’avvenire di
un’illusione”91, ma di comprendere che l’avvenire della Ragione è strettamente collegato a
un dialogo serio e concreto con le “illusioni”.
Questo significa, dialogare, allora, con quei filosofi che al mito e alla religione hanno
riservato uno spazio adeguato e che hanno inteso la ragione in senso storicistico.
11. Senza Kant: le “nuove” fonti filosofiche di Morin.
Si tratta, cioè,dopo queste tappe, attraverso le quali ho cercato di articolare un
confronto più o meno diretto tra Morin e Kant, di verificare in senso storiografico le ragioni
dell’assenza di questi nel pensiero di Morin; assenza che diventerà ancora più comprensibile se
si evidenzieranno, questa volta in positivo, le fonti filosofiche di Morin.
Riferirò tali fonti attraverso qualche citazione. La prima, che Morin utilizza per
presentare la sua nuova concezione della scienza, recita: “Questa è l’idea della scienza nuova.
Questo termine, che prendiamo in prestito da Vico, in un contesto e in un testo diversi, vuole
indicare che il nostro sforzo si situa in una modificazione, una trasformazione, un arricchimento
del concetto attuale di scienza che, come aveva detto Bronovski, non è ‘né assoluto, né
eterno’. Si tratta di una trasformazione multidimensionale di ciò che intendiamo per scienza,
che riguarda ciò che sembrava costituire alcuni dei suoi imperativi intangibili, a cominciare
dall’ineluttabilità della parcellizzazione disciplinare e del frazionamento teorico” 92.
La seconda recita: “Hegel era il primo filosofo che leggevo in un testo e me ne sono
impregnato. Rispondeva ai miei bisogni più costanti”93.
Un altro, assai significativo, riferimento a Hegel, tra i tanti, è quello che compare in un
contesto nel quale Morin si riferisce alle prime forme, ancora implicite, nelle quali si
nascondeva appunto una visione complessa, ancora non perfettamente consapevole. Essa
viene presentata in questo modo: “L’idea di complessità era molto più diffusa nel lessico
corrente che nel lessico scientifico. Portava sempre come connotazione un avvertimento
all’intelletto, una messa in guardia contro la chiarificazione, la semplificazione, la riduzione
affrettata. Di fatto, anche la complessità aveva il suo terreno d’elezione, ma senza la parola in
se stessa, nella filosofia: in un certo senso, la dialettica, e, sul piano logico, al dialettica
hegeliana era il suo campo, dal momento che quella dialettica introduceva la contraddizione e
la trasformazione nel cuore dell’identità”94.
La terza fonte è indicata come quella che si caratterizza positivamente per avere fatto il
tentativo di “ancorare la scienza dell’uomo a una base naturale”, allo scopo di riportare alla
giusta relazione uomo e natura, e riguarda un pensatore che è stato “amore e cruccio” di
Ibidem. Per il riferimento a Popper cfr. K.R.Popper, Ritorno ai presocratici, in Congetture e
confutazioni, trad. di G. Pancaldi, Il Mulino, Bologna 1989; G. Gembillo, La filosofia greca nel Novecento.
Popper Husserl Schoedinger Heisenberg, Armando Siciliano, Messina 2001.
91 Cfr. S. Freud, L’avvenire di un’illusione (1927), ora in id. Il disagio della civiltà e altri saggi,trad. s. i.,
Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 145-196.
92 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 48. Su ciò cfr. A. Anselmo, Vico e Hegel “fonti”
filosofiche della sociologia di Morin, in “Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti” (Messina), Esi,
Napoli 1998.
93 E. Morin, Autocritica, trad. di S. Lazzari, Moretti e Vitali, Bergamo 1991, p. 41. Cfr. M. Kofman, Edgar
Morin. From Big Brother to Fraternity, Pluto Press, London – Chicago 1996.
94 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 31.
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Morin, che su di lui ha scritto : “Nelle pagine folgoranti dei manoscritti del 1844, Marx poneva
al centro dell’antropologia non l’uomo sociale e culturale, ma l’ ‘uomo generico’; lungi dal
mettere in opposizione uomo e natura, egli asseriva che ‘la natura è l’oggetto immediato della
scienza che tratta dell’uomo’ “95.
Tralasciando il riferimento ai contemporanei, queste sono le principali fonti filosofiche
“classiche” di Morin. Esse compaiono ripetutamente nelle sue pagine e ne costituiscono la base
storico-filologica più consistente. Non mi soffermo ulteriormente su di esse perché mio intento
specifico è quello di indicarle soltanto, come prova concreta dell’interesse di Morin e del
correlato suo disinteresse per Kant. In questo senso credo che i precedenti riferimenti testuali,
ancorché assai brevi, siano sufficienti per far capire che l’assenza di Kant nel suo pensiero ha
anche un aspetto, per così dire, positivo e non crea un vuoto teoretico, perché esso è coperto
dai grandi pensatori storicisti.
Anche questa constatazione costituisce una diretta testimonianza dell’avvenuto
passaggio “dall’essere al divenire”, debitamente sottolineato , a livello scientifico da Prigogine 96
e a livello epistemologico appunto da Morin.
Giuseppe Gembillo
Università di Messina
E. Morin, Il paradigma perduto, cit. p. 19.
Cfr. I. Prigogine, Dall’essere al divenire. Tempo e complessità nelle scienze fisiche, trad. di G. Bocchi e
M. Ceruti, Einaudi, Torino 1986.
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