Modelli culturali e processi di integrazione: quale progetto per l'Europa di domani? Pierpaolo Donati 1. Premessa: quale progetto per l'Europa? 1.1. L'Italia è riuscita a “entrare in Europa”, nel senso di aver conseguito l'obiettivo di farsi includere nel ristretto club degli Stati-nazione che daranno vita alla moneta unica. Lo ha fatto a prezzo di grossi sacrifici (una pesante imposizione tributaria e un controllo sistemico che hanno frenato lo sviluppo economico e sociale, con ripercussioni decisamente negative sull’occupazione e sulle autonome capacità di iniziativa della società civile) e senza poter prevedere quello a cui andrà incontro. Nonostante ciò, tutti siamo convinti che il cosiddetto ingresso in Europa debba essere una meta da perseguire, e nessuno può ragionevolmente pensare che un'Italia fuori dell'Europa potrebbe essere migliore. Di conseguenza, il progetto culturale della Chiesa italiana si interroga sul nuovo orizzonte europeo a cui l'euro darà vita. Nel mio contributo, non intendo - evidentemente delineare lo scenario e i suoi possibili sbocchi sotto il profilo economico, e neppure sotto quello strettamente politico, ma invece sotto il profilo specificatamente socioculturale. L'interrogativo è: a che cosa andiamo incontro, come cattolici italiani, sotto il profilo delle interazioni e degli esiti culturali una volta che per noi diventerà effettiva a tutti gli effetti l'integrazione nella nuova Europa? 1.2. La situazione è ben nota, e non vorrei soffermarmi in modo analitico sulla parte descrittiva. Solo per richiamarla, basterà citare i Lineamenta del Sinodo Europeo (1998, pr. 7): «La cultura in sé appare oggi in Europa come una qualità assoluta e onnicomprensiva della persona, mentre manifesta una grande precarietà, che consiste in una frammentazione manipolata contro la fede in Gesù Cristo. È in atto un tentativo di eliminare il riferimento a questa fede come elemento fondante e origine della cultura europea stessa e della sua unità. Si assiste al sorgere di una cultura giuridica che propone modelli di comportamento nei quali sono assenti i valori del Vangelo». Su questo scenario, di una cultura europea sempre più individualistica, cioè attratta nell'orbita di un individualismo etico radicale istituzionalizzato, e perciò incerta, disorientata e debole, si innestano i processi di confronto con le altre culture portate dai processi immigratori, che diventeranno sempre più massicci per via della nota depressione demografica delle popolazioni europee autoctone. Come non vedere gli enormi problemi di confronto fra culture tanto diverse, che richiedono un dialogo al proprio interno e con l'esterno, ma in condizioni in cui il dialogo stesso diventa più difficile proprio a motivo della mancanza di premesse e requisiti necessari ad un incontro significativo, pacifico, solidale, nell'orizzonte di un processo di globalizzazione (mondialità) che si fa sempre più impellente? L'Unione Europea, come si sa, punta sui fattori economici (Trattato di Maastricht e successivi) come fonti privilegiate di integrazione, pensando che, dall'unità economica, derivi anche quella sociale e culturale. La convergenza sui parametri economici è considerata come la premessa necessaria per evitare di porre il problema dell'integrazione sulla base di scelte etiche, considerate impraticabili, se non impossibili. Di fronte a questo scenario, occorre pensare ad un progetto che non veda la cultura come un sottoprodotto dell'economia. Un tale progetto presenta estreme difficoltà, e in particolare deve essere tale da evitare sia il fondamentalismo sia il vuoto culturale. Per questo si deve basare su un pensiero generativo, costruttivo, capace di connettere le differenze senza fare violenza ad alcuno, senza voler colonizzare questa o quella cultura, ma, al contrario, orientato a valorizzare ciò che di buono vi è in ogni cultura. Questo pensiero non può che essere un pensiero relazionale agìto nel quadro dei diritti umani (e non solo civili, politici, economici e sociali). È mia convinzione che il pensiero cristiano abbia queste caratteristiche (P. Donati, 1997b) e che pertanto abbia buone possibilità di costituire un framework accettabile in modo universalistico. Un tale pensiero è progettuale nel senso e nella misura in cui riesce a ‘gettare oltre l'esistente’ (pro-jectum) un'idea di società buona, o almeno decente (per dirla con A. Margalit), in cui le distinzioni del passato siano sostituite da altre distinzioni, più umane. Voglio in sostanza dire, e lo dico in grande sintesi, che, se è vero che la situazione attuale è il prodotto della modernità, fare un progetto significa pensarlo in termini di dopo-moderno. Dobbiamo prendere atto che l'attuale situazione culturale in Europa è l'esito di una secolarizzazione infinita la quale, ultimativamente, è il prodotto del gioco fra le due grandi ideologie della modernità, il liberalismo e il socialismo. Queste ultime hanno avuto certamente tanti meriti, ma, per il modo in cui attualmente bloccano lo sviluppo culturale, rischiano di produrre il collasso dell'Europa sotto il profilo del senso umano. Non possiamo dimenticare che è dalla dialettica fra liberalismo (lib) e socialismo (lab) che proviene la sfida mortale all'umanesimo (non solo occidentale), nonostante certe radici umanistiche della modernità liberale e socialista (basterebbe solo ricordare autori come A. de Tocqueville e Ch. Péguy). Chi avesse qualche dubbio potrebbe proficuamente riflettere sul pensiero di N. Luhmann, a questo riguardo. La crisi della coscienza europea, fatta di disgregazione etica e sociale che si manifesta in una crescente solitudine di moltitudini di persone umanamente allo sbando, è il prodotto di un gioco congiunto fra lib e lab. Se non vediamo questo, non saremo neppure in grado di comprendere dove possano stare i rimedi, i quali, a mio avviso, consistono essenzialmente: nel ripensare la relazione fra coscienza e cultura (l'incapacità di dare un senso alla propria vita e alle singole azioni nasce dalla mancanza di relazioni umane e sociali significative), nel comprendere che un sistema sociale non può procedere spingendo da un lato sul mercato (di profitto) e dall'altro predisponendo misure di coesione e inclusione sociale di tipo compensatorio e assistenziale. Poiché la rottura del legame fra coscienza umana e cultura e la configurazione della società sul binomio mercato-stato come asse fondante sono caratteristiche dell'assetto lib-lab, è su questo assetto che dobbiamo appuntare la nostra attenzione e pensare in termini alternativi. Ciò significa cominciare a mettere in crisi le idee fondamentali dell'assetto lib-lab oggi dominante in Europa. Queste idee, per ricordarne solo le principali, sono basate sui seguenti assiomi: che la politica si faccia in base alla distinzione destra/sinistra (anziché su altre distinzioni), che i rapporti fra i gruppi sociali debbano essere gestiti in termini di inclusione/esclusione (anziché in termini relazionali), che la cittadinanza sia statuale o non sia. È a questo progetto alternativo che vorrei dare corpo in questo breve contributo. Esso prende il nome di una ‘cittadinanza societaria’ vista come superamento di quella statuale (oggi neo-corporativa, lib-lab) tipica della modernità europea. Il fulcro di tale progetto sta nel basare la cittadinanza, a tutti i livelli (da quello locale, a quello regionale, nazionale, europeo e infine mondiale), su un duplice fondamento: innanzitutto, che la cittadinanza sia l'espressione politica della socialità propria della sfera pubblica quando questa è eticamente qualificata, anziché eticamente neutra o indifferente; e che il condividere un ‘mondo comune’ (nel senso di H. Arendt) fra soggetti e culture differenti si basi sul principio di sussidiarietà, anch'esso moralmente qualificato, e cioè declinato in senso personalistico anziché come mera divisione funzionale (tecnica) del lavoro a fini di decentramento e di efficienza, e in modo pieno (cioè come principio promozionale dell'Altro) anziché in modo puramente difensivo (cioè come mera salvaguardia delle comunità minori rispetto a quelle maggiori). Al fondo, si vede che il progetto di cui si parla, per essere viabile, deve trovare un sostituto alla distinzione-guida che è stata fondamentale nella modernità, quella fra lib e lab, ovvero fra destra e sinistra: la mia convinzione è che la distinzione-guida che può sostituire la precedente sia quella fra umano e non-umano, o, per dirla in modo più sociologico, fra società dell'umano (società prodotta come relazione umana) e società tecnica (società prodotta da e mediante la tecnica) (P. Donati, 1993). 1.3. Il progetto culturale non è, né deve essere, a mio modesto avviso, un piano razionalistico, ingegneristico, di costruzione di un qualche edificio prefigurato sulla carta. Piuttosto è, o dovrebbe essere, la costruzione di una comunità di discorso, di un linguaggio comune, di un comune codice culturale, con cui e attraverso di cui orientare la società europea verso criteri di comune vita associata che possano ridondare a beneficio non solo dei popoli europei, ma anche del resto del mondo. L'Europa di Maastricht e dell'euro non può essere un club esclusivo di paesi ricchi che vogliono soprattutto mantenere e incrementare il loro benessere in competizione con l'America del Nord e il Giappone, a detrimento dei paesi in via di sviluppo o delle aree più povere del mondo. Se tutto questo è vero, come io credo, allora il progetto culturale della Chiesa italiana deve essere la definizione di un orizzonte di finalità, e di concrete vie per perseguirle, che possa realizzare un'Europa significativa dal punto di vista degli ideali umani che essa incorpora e si propone di realizzare, alla luce di una visione cristiana della vita e della storia. Il progetto deve essere la configurazione di una società di diritti umani (e non solo quelli civili, politici ed economico-sociali tipici della modernità) che possa valere per il mondo intero. La tesi che vorrei proporre è che un tale progetto si pone necessariamente come alternativa ad un sistema - quello della società europea contemporanea, nata dalla modernità europea - che produce livelli apprezzabili di ricchezza materiale e di sicurezza sociale, ma che non produce più senso umano, anzi produce malessere, e inoltre non è esente da rapporti sociali iniqui al proprio interno e con il resto del mondo. Siamo entrati, così si dice, in Europa: a quando ne eravamo usciti ? E poi, di che tipo di ingresso si tratta ? Ingresso a che cosa ? I cattolici italiani devono porsi questi interrogativi non solo e non tanto dal punto di vista economico, quanto da quello culturale. Che cosa significa l'espressione - divenuta corrente nel linguaggio quotidiano - di “entrare in Europa”? Pochi, credo, potrebbero rispondere a questa domanda. È assai difficile dire in che cosa dobbiamo ‘farci europei’ sotto il profilo culturale e sociale, una volta che si lascino da parte i parametri di Maastricht e - più in generale - le considerazioni economiche. Le domande che ci sfidano suonano piuttosto così: l'Italia che “entra in Europa” troverà modelli culturali più o meno validi rispetto a quelli che ha già? Troverà più o meno fede religiosa di quanta non ne veda al proprio interno? Con quali altre culture (in particolare religiose) dovrà confrontarsi? Quali modelli culturali troverà in Europa e quali dovrà assumere a suo paradigma ove voglia essere considerata una società ‘veramente’ europea? Come potrà compararsi con questi modelli, fino a che punto lo potrà fare e con quali esiti? Queste e altre domande sono di una estrema complessità. Non posso e non voglio affrontarle in questa sede. Dirò solo che le classi dirigenti italiane che hanno realizzato la convergenza economico-monetaria non si sono poste questo problema. Semplicemente ce lo hanno lasciato come un problema da risolvere, possibilmente - a loro dire - dopo che si sarà veramente realizzata l'Europa economica. Eppure, è evidente a tutti che il cosiddetto ingresso in Europa implica, per l'Italia, confrontarsi con Paesi in cui il cattolicesimo è in maggiore difficoltà che da noi, Paesi che hanno modelli culturali prevalenti che corrispondono a tradizioni alternative a quella cattolica, come le tradizioni protestanti, liberali e in generale secolarizzate e secolarizzanti. La sfida, dunque, è grande. Anche perché l'Europa è profondamente divisa da cleavages culturali che la percorrono in tutte le direzioni, secondo le distinzioni Ovest/Est, Nord/Sud e altre ancora, che non possono trovare facilmente una composizione. E poi quale tipo di composizione è auspicabile e/o percorribile? Come affrontare l'inevitabile confronto che il contesto socioculturale dell'Italia, già molto divisa in se stessa, dovrà affrontare nel momento in cui si faranno sempre più forti e concrete le pressioni per realizzare convergenze con gli altri Paesi su comuni orientamenti culturali e, in senso lato, comuni politiche sociali, ben oltre i comuni interessi economici? 1.4. In questo breve contributo, io vorrei delineare uno scenario plausibile e offrire ragionevoli indicazioni che siano utili ad un progetto culturale che consenta ai cattolici italiani di non subire passivamente il confronto europeo, ma anzi di essere protagonisti e offrire un contributo originale. A mio avviso, bisogna partire da un dato di fatto, l'estrema eterogeneità delle culture in Europa, e da un'esigenza, quella di costruire una “casa comune”, in modo da rispettare quanto di meglio vi è nelle differenti tradizioni culturali e allo stesso tempo metterle in sinergia, senza alimentare propositi né di colonizzazione né di omologazione da parte di una cultura sulle altre. Dal mio punto di vista, questo Progetto si identifica, allora, nel concepire la costruzione dell'Europa come costruzione di una specifica ‘cittadinanza societaria europea’. Ed è all'illustrazione di questa idea-guida che vorrei dedicare l'intero contributo. Il senso della proposta sta in questo. Che solo una cittadinanza societaria ad hoc può consentire di pensare il futuro dell'Europa in termini di: - equilibrio dinamico fra processi di integrazione e differenziazione culturale; - di valorizzazione delle specifiche radici culturali europee (greco-latine-cristiane), senza incorrere negli errori di una modernità che, mentre ha in apparenza valorizzato l'uomo, è incorsa nella fine del soggetto umano e in una cultura che enfatizza - anziché un sano e legittimo pluralismo - un “pluralismo indifferenziato” (Fides et ratio, pr. 5) basato sul neutralismo etico; - evitando le attuali tendenze societarie che generano disorientamento, rischio e incertezza, non già quali effetti indesiderati e in qualche modo inattesi, ma invece quali 'condizioni normali' e strumenti previsti e programmati opportunisticamente all'interno di un progetto evoluzionistico e pragmatico, proprio dell'attuale establishment europeo, il quale rischia di portarci dritti dritti verso l'implosione della società. In ultima analisi, si tratta di ri-pensare i fondamenti del processo di civilizzazione, cioè di costruzione di una nuova società civile (P. Donati, 1997a), e di fare questo senza negare, ma anzi valorizzando la missione evangelizzatrice della Chiesa. Come cercherò di spiegare, ciò implica prendere le distanze dall'attuale Progetto Europeo basato su un assetto lib/lab e su una configurazione societaria che procede liquidando le proprie radici culturali, per delineare un'alternativa plausibile. Questa alternativa deve essere costruita sulla distinzione umano/non-umano. 2. La crisi della cittadinanza moderna europea 2.1. I modelli culturali trovano la loro integrazione, così come il loro conflitto, in una sfera pubblica che siamo soliti chiamare della cittadinanza. Il problema che l'Europa oggi ha è quello di decidere se tale sfera debba essere moralmente neutra (in-differente sul piano etico) oppure invece moralmente qualificata. Ora, è un fatto che la cittadinanza europea tipicamente moderna è entrata in crisi quanto più ha scelto la via del neutralismo etico. La crisi non si riferisce tanto alla democrazia come sistema di governo (le istituzioni politiche rappresentative non sono generalmente in causa), quanto al nucleo del suo assetto istituzionale, cioè alle istituzioni che garantiscono e promuovono quel complesso di diritti che siamo soliti chiamare diritti di cittadinanza. La crisi della cittadinanza moderna, impostata sulla omogeneità culturale della nazione che sta dietro lo Stato-nazione, ha a che fare soprattutto con novità nell'ambiente culturale (in senso sistemico) della politica. L'ambiente culturale della cittadinanza, infatti, non produce più motivazioni, valori, norme che siano in sintonia con le istituzioni del moderno Stato-nazione democratico. È per questo motivo che, alla lunga, anche la democrazia potrebbe correre seri pericoli. Di qui una crisi senza precedenti: diventa possibile una democrazia senza cittadinanza (o con ridotta cittadinanza) moderna, così come diventa possibile una cittadinanza senza democrazia (o con limitata democrazia) moderna. È la fine della modernità. La mia tesi è che sono in atto processi che, assieme ad alcune continuità, presentano forti discontinuità con il progetto moderno della cittadinanza, e della democrazia come forma omogenea di sistema politico. Gli aspetti ‘regionali’ rappresentano solo una dimensione di una crisi assai più complessa. Se un progetto culturale ha un senso, oggi in Europa, questo senso lo deve avere (e trarre) in quanto risposta a questi fenomeni. 2.2. Le democrazie europee sembrano in una empasse più grave di quella americana. Poiché in Europa lo Stato gioca un ruolo più decisivo, allorché lo Stato entra in crisi sembra che tutto l'edificio della cittadinanza venga rimesso in discussione. La domanda che ci si pone è: in Europa, e in Italia in particolare, l'attuale crisi della cittadinanza porterà ad un rilancio della stessa, oppure ad una involuzione, oppure ad una americanizzazione della politica, o a che altro ancora? Quali che possano essere gli sbocchi, un fatto è certo, anche se non tutti sembrano accorgersene: è finita l'epoca della continuità moderna. Siamo di fronte alla nascita della cittadinanza postmoderna. Come dobbiamo intenderla? Alcuni ritengono che, al di là delle fluttuazioni odierne, le istituzioni fondamentali della cittadinanza moderna possano essere mantenute e anche incrementate qualora si restringa l'idea di cittadinanza ad un ‘nucleo emancipativo forte’. Altri pensano che si debba de-giuridificare la cittadinanza, e farne una questione di libertà di ‘dissenso’ nell'ambiente del sistema politico. Altri rilevano le difficoltà, ma anche la necessità di includere le differenze culturali e ascrittive (non di tipo acquisitivo parsonsiano) nelle istituzioni di cittadinanza ereditate della modernità. Altri ancora, propongono una nuova generalizzazione di valori, sotto forma di “bene comune” o ancora sotto forma di un diritto di “condivisione universale”. Quali che siano le analisi e le proposte di fuoriuscita dalla crisi attuale, in ogni caso a me sembra che esse portino la cultura della cittadinanza al di là del "codice statuale" verso quello che chiamo un “codice societario" della cittadinanza: la cittadinanza quale espressione della società anziché dello Stato (P. Donati, 1993). 3. Positività e limiti della proposta lib-lab 3.1. La cittadinanza moderna, caratterizzata dalle forme liberali e socialiste, è stata certamente una conquista significativa e con conseguenze enormi per la vita sociale. Essa ha consentito di liberare energie umane vincolate a legami ascrittivi e così costruire una “società aperta” preoccupata allo stesso tempo di preservare e incrementare libertà ed uguaglianza (B. Turner, 1986, pp. 134-136). Che tale conquista possa essere descritta anche come meccanismo della differenziazione sociale (come pensano i funzionalisti sistemici), nulla toglie al fatto che essa sia stata prodotta come risultato di un'azione storica intenzionale, ‘volontaristica’, portata avanti da movimenti culturali e sociali orientati ad una idea di ‘emancipazione umana’. Dal punto di vista sociologico, il principale risultato è stato una certa valorizzazione dell'individuo umano contro la sua ‘chiusura’ in gruppi sociali localistici, particolaristici, di tipo ‘corporativo’. Si è avuta così una fioritura senza precedenti delle libertà civili, innanzitutto quelle di parola, opinione, associazione, di praticare la propria fede religiosa, di stipulare contratti, e in generale di muoversi fra ambiti sociali in precedenza separati da barriere insuperabili. Tutti fenomeni che hanno consentito una enorme crescita di soggettività umana e corrispondenti iniziative sociali. Le preoccupazioni per l'uguaglianza sociale hanno, in generale, teso a contemperare gli effetti asimmetrici prodotti dalle libertà liberali e ad introdurre maggiori garanzie nelle opportunità di accesso ai beni sociali per le grandi masse di popolazione. Che la valorizzazione dell'individuo abbia messo in gioco, e anzi abbia portato a eliminare le relazioni sociali, riducendo la persona (individuo-in-relazione) a mero ‘Io’ (soggetto monadico), è un fatto. Che libertà ed uguaglianza siano diventati codici simbolico-normativi dell'evoluzione sociale che operano ‘automaticamente’ anziché ‘ideologicamente’ (cioè come procedure - anche amministrative - più che come forze intenzionali e come norme rinvianti a dei presupposti morali), è - per certi versi - un'altra realtà. Ma, nella società, gli individui puri non esistono e i meccanismi funzionali non operano privi di senso umano, come attribuzione di un significato alle operazioni che la società e gli agenti sociali compiono o ‘sentono’ di dover compiere. L'espansione della cittadinanza nei secoli XIX e XX ha certamente implicato una continua esplorazione e affermazione di ciò che significa contare come individuo umano nella vita sociale. E questo ha significato, come ancora significa, interrogarsi sui “diritti umani” in quanto distinti da quelli inclusi nelle forme di cittadinanza storicamente realizzate. Seguendo in tutto o in parte le note tesi di T.H. Marshall (1950), molti autori hanno evidenziato come la moderna cittadinanza occidentale abbia sviluppato i diritti sociali di uguaglianza nella cornice delle libertà civili e politiche. Quale che sia il modo e il quantum di interazioni fra questi diversi tipi di diritti (o dimensioni della cittadinanza), il principale problema che, con Marshall e dopo di lui, rimane aperto è se la società contemporanea attenda solo una progressiva estensione, come moltiplicazione e dilatazione, dei diritti intesi secondo la modernità (nell'assunto che la modernità sia un ‘progetto incompiuto’ che attende solamente di essere ‘portato sino in fondo’), oppure se la società odierna manifesti una messa in causa, con forti discontinuità o addirittura con radicali modificazioni, di ciò che costituisce un diritto di cittadinanza. Una discontinuità che chiama in causa l'ambiente ‘umano’ esterno al diritto e alla politica. 3.2. La risposta a questo interrogativo si è manifestata storicamente, negli ultimi decenni, in modi assai differenti. Due esperienze, fra le altre, sono state paradigmatiche: quella marxista e quella lib-lab. La prima, dopo un periodo storico di eccezionale espansione, è fallita. La seconda sembra invece avere avuto un notevole successo. Ma è dubbio se, in che misura e qualità, possa interpretare e anche ‘guidare’ il processo storico in corso, nel passaggio al postmoderno. 3.3. Sulla concezione marxista della cittadinanza non è il caso di soffermarsi a lungo. In generale, essa ha oscillato fra due poli. Da un lato, ha tratto le conseguenze dalla sfiducia di Marx verso i compromessi politici e verso il diritto come espressione della società borghese, e dunque ha cercato di svelare il fatto che la cittadinanza liberal-democratica, sarebbe, in realtà, un “re nudo”. Dall'altro, ha cercato di sviluppare, nello stesso tempo, i potenziali di emancipazione della cittadinanza moderna come strumento di progresso sociale, per quanto ‘mistificato’ fintanto che la società non raggiunga lo stadio del ‘comunismo reale’. Nel complesso, questa concezione ha mantenuto, come ancora mantiene, l'idea che la cittadinanza moderna sia essenzialmente una risposta ai problemi sociali generati dal capitalismo, e in un certo senso una sovrastruttura di questi. Una sovrastruttura che, in parte in modo intenzionale (consapevole) e in parte in modo meccanico (per logica evoluzionistica), lavora comunque in direzione della liberazione dell'umanità da ogni forma di repressione e sfruttamento. Circa la struttura del complesso della cittadinanza, la posizione ideologica del marxismo classico afferma il primato dell'economico nella dinamica sociale e quindi non rinuncia all'idea che le variabili economiche determinino quelle politiche di governo della società. Secondo i neomarxisti, invece, si dovrebbe riconoscere un qualche spazio e una relativa autonomia ad altri fattori, culturali e/o normativi. Ma, anche in quest'ultimo caso, il discorso sulla cittadinanza non riesce a liberarsi dalle ipoteche del politico, dal momento che gli elementi culturali e/o normativi restano pur sempre incorporati (o comunque sono interpretati) dal politico. I diritti di cittadinanza sono considerati come istituzionalizzazione politica (=per forza di potere) di bisogni materiali di tipo collettivo, inerenti a quello che Marx chiamava il “singolo sociale”. Il grande limite delle posizioni marxiste, pur variegate fra loro, sta nel fatto di leggere la cittadinanza come un gioco limitato alle relazioni fra sistema economico e politico, fra le spinte disugualitarie (supposte tali) del primo e le garanzie (supposte tali) del secondo. In tale quadro, la cittadinanza viene ad essere configurata come uno strumento di emancipazione provvisoria, sempre incompiuta fintanto che non arrivi il “comunismo”, cioè non venga socializzato il sistema economico nel suo complesso. I diritti sono concepiti come ‘conquiste’ sociali che debbono essere prese con la forza (vuoi fisica, come nel primo marxismo, vuoi con la forza dell'opinione e del voto politico nelle forme più democratiche). La loro funzione è quella di riconoscere dei ‘bisogni collettivi’ che debbono essere ‘soddisfatti’. Per l'ortodossia marxista, il linguaggio dei diritti mantiene un carattere ideologico ‘borghese’. E il comunismo è ancora, in linea di principio, quell'assetto della società in cui i diritti, sia come patti sia come costrizioni storico-sociali contingenti, non dovrebbero più essere ‘necessari’. Nelle forme revisionistiche, invece, si riconosce una relativa autonomia al diritto come espressione di una realtà autonoma indispensabile, non riducibile ad un artificio per mascherare la disuguaglianza fra le classi sociali. In quest'ultima forma il pensiero neomarxista muta notevolmente, perché riconosce che la disuguaglianza sociale ha una pluralità di forme e di fonti, in particolare culturali, che sono relativamente indipendenti dalle basi puramente economiche della società. Ma le ambiguità non sono risolte. Anziché aversi un trattamento differenziato delle diverse sfere di vita, si ritorna sempre ad un qualche ‘primato del politico’, e del politico ‘sistemico’. Ovviamente, dire ciò non significa misconoscere il fatto che alcuni concreti movimenti storici di ispirazione marxista hanno rappresentato importanti fattori per l'allargamento dei diritti di cittadinanza alle classi sociali subalterne e alle categorie sociali emarginate (donne, poveri, immigrati, ecc.). 3.4. È invece la via lib-lab che ha avuto di recente un notevole rilancio. Per essa, la cittadinanza è un complesso di diritti degli individui che deve corrispondere al disegno di una società ‘pluralista’. Ho detto di ‘diritti’ e non anche di ‘doveri’ volutamente, perché, per quanto i secondi siano o sembrino in qualche modo impliciti, essi non sono direttamente e chiaramente esplicitati (su questo importante aspetto ritornerò più oltre). Si tratta della concezione ‘vittoriosa’ dell'Occidente sul "comunismo orientale". Dobbiamo perciò analizzarne positività e limiti più in dettaglio. Vediamone innanzitutto le positività. Ralf Dahrendorf (1994), notoriamente uno dei massimi campioni del pensiero lib-lab, pone la domanda fondamentale: in che cosa consiste la qualità della cittadinanza? La domanda non è teoretica, ma storica: essa viene riferita alla società europea moderna e contemporanea, in particolare guardando alle vicissitudini della cittadinanza dopo una decade, quella degli anni '80, che è stata ricca di due grandi avvenimenti: da un lato una forte crescita economica in Occidente (benché si sia trattato in parte di un capitalismo d'azzardo e selvaggio, basato anche sulla contrazione di debiti e prestiti), e dall'altro la caduta del comunismo all'Est. Per capire tali eventi, in buona misura inattesi, dice Dahrendorf, bisogna comprendere che le società moderne e contemporanee operano su due grandi ‘temi’, che sono i due poli che rendono la società aperta e progressiva. Il primo tema ha a che fare con la crescita e con l'ampliamento del raggio delle scelte, ossia con il lato dell'offerta (supply side) di nuovi approvvigionamenti (provisions). L'altro tema ha a che fare con l'accesso alle scelte che vengono offerte, quindi con le opportunità intese come ‘biglietti di ingresso’ ai beni offerti, cioè a dire con le intitolazioni (entitlements) a diritti. A suo avviso, la cittadinanza appartiene precisamente al lato politico della intitolazione di questa figura (entitlement side), che - a suo parere - non ha alcun carattere sistemico. In breve, secondo Dahrendorf la cittadinanza è uno status universalistico conferito in modo incondizionato a individui (e solo individui) sulla base di un criterio essenzialmente politico: il diritto di cittadinanza viene attribuito come intitolazione per l'accesso a determinati beni o prestazioni dello Stato-nazione. Evidentemente, se lo Stato dà questa intitolazione, occorre che abbia qualcosa da offrire. E per questo è necessario che, prima, il mercato abbia potuto lavorare liberamente per produrre beni e servizi. In concreto, per l'approccio lib-lab, la cittadinanza è il risultato di un regime politico che estende progressivamente la combinazione fra offerte (provisions), date dal mercato, anche quello culturale, e intitolazioni a diritti (entitlements), date dallo Stato. Tutti riconoscono che, negli anni '50 e '60 questa combinazione ha funzionato bene (sulla base del modello keynesiano), mentre negli anni '70 si è inceppata. Gli anni '80, invece, sono stati caratterizzati dalla crescita nell'offerta (degli approvvigionamenti della supply side economy) e dal declino di molti entitlements (messa al margine di molte intitolazioni universalistiche, non solo di quelle di welfare). All'inizio degli anni '90, e nella prospettiva dell'anno 2000, Dahrendorf vede tre grandi problemi, o sfide, alla cittadinanza. Il primo consiste nella esistenza, anzi nella emergenza, di una ‘sottoclasse’ (underclass), grossomodo definita come l'insieme degli individui socialmente marginali o esclusi, i cui problemi possono essere risolti soltanto con una estensione dei diritti come intitolazioni di cittadinanza. Il secondo consiste nella riemergenza di spinte culturali che comportano sentimenti di appartenenza a gruppi etnici particolari i quali mettono in crisi lo Stato moderno. Ad avviso di Dahrendorf, queste spinte alla autodeterminazione nazionale (secondo le etnìe) sono dannose e comunque rappresentano un pericolo per la cittadinanza. Egli ritiene che la cittadinanza fiorisca negli Stati nazionali che sono eterogenei quanto alle etnie e alle tradizioni culturali locali o particolari, mentre deperisce nelle nazioni omogenee e autodeterminate (egli insiste sulla seguente differenza: le nazioni, a suo dire, sono ‘tribù di uguali’, mentre gli Stati-nazione sono costruzioni consapevoli per il bene comune, il commonweal). In base a ciò, egli si oppone con forza all'idea di una “Europa delle regioni”, come all'idea di un'Europa delle diverse culture, che, sempre a suo avviso, sarebbe “una pessima formula che ci riporterebbe alle tribù”. Il terzo problema è quello ecologico, dell'habitat umano. Qui si gioca la terza grande pressione per dare maggiore potere ai cittadini. I rischi che minacciano la vita umana sul pianeta sono oggetto di nuove richieste di entitlements. “Non sono sicuro, egli afferma, se si possa stipulare una titolarità ad un ambiente vivibile per tutti noi come cittadini del mondo, e con ciò ad azioni che la sostengano, ma qualcosa di tal genere dovrebbe entrare nell'agenda della cittadinanza”. 3.5. Il disegno lib/lab è chiaro e non manca di una sua capacità di persuasione. Alla base della struttura di cittadinanza ci sono i diritti umani e civili (non meglio specificati) il cui nocciolo è la libertà. Su tali diritti debbono essere erette le istituzioni politiche capaci di realizzarli attraverso intitolazioni che debbono offrire opportunità piuttosto che determinare degli obiettivi o prescrivere particolari norme o sentieri di azione alla gente. Tali intitolazioni debbono essere universalistiche e incondizionate. Ma possiamo continuare a vivere nella libertà? A questa drammatica domanda, che egli stesso si pone, Dahrendorf risponde di non essere per nulla sicuro di quale sarà la risposta della società. “Freedom above all” è il suo motto, come programma per la sopravvivenza. La società aperta è, a suo avviso, l'unica risposta che abbiamo per sopravvivere nella libertà. E i diritti di cittadinanza, che costituiscono per lui il "cuore" della società aperta, debbono essere riformulati non dalla gente comune (che, a suo avviso, è alquanto disorientata), ma da ‘menti precise’ che non li utilizzino per fini deviati o per proteggere e mascherare interessi particolari anche se diffusi. «Alla fine della strada da percorrere - così conclude Dahrendorf - deve esserci la visione di Immanuel Kant di una società civile mondiale». Si può, in breve, sintetizzare il pensiero lib-lab in questi termini. La cittadinanza è una estensione di diritti operata dalle istituzioni politiche (statuali o sovranazionali) nei confronti degli strati sociali esclusi dai beni prodotti attraverso il libero mercato, mediante nuove garanzie di accesso a tali beni. Anche se la cosiddetta underclass fosse soltanto il 5% della popolazione, il resto della società non potrebbe vivere tranquilla sapendo che una parte di essa non gode dei fondamentali diritti di sopravvivenza. Chi assicura questa cittadinanza? Il “soggetto garante” di tale istituto, e del suo progresso, deve essere - secondo Dahrendorf - ‘qualcuno’ che prende il posto delle élites borghesi della prima modernizzazione. Nuove élites illuminate, insieme economiche e politiche, succedendo alla prima borghesia liberale, dovrebbero da un lato aumentare l'offerta di beni di mercato e dall'altro allargare i diritti di accesso a tali beni a cerchie sempre più ampie, e alla fine, alla totalità della popolazione. Come ciò possa avvenire non è ben chiarito da Dahrendorf. Quel che è certo è che la sua concezione della cittadinanza non elimina di certo il dubbio che si tratti di una strategia delle classi dominanti per mantenere il governo della società. La concezione di Dahrendorf si inscrive nel filone delle strategie elitarie: da un lato c'è una élite economica la quale garantisce che vengano offerti beni economici; dall'altro c'è una élite politica che, agendo nelle istituzioni mediante partiti che governano secondo regole democratiche, garantisce che gruppi sempre più vasti di popolazione possano accedere a tali beni senza condizioni. 3.6. In questo disegno, si può apprezzare il fatto che la cittadinanza venga intesa come un principio di equità redistributiva. Ne sono però evidenti anche i molti limiti. Innanzitutto di osservazione sociologica. a. Nell'approccio lib-lab, la società è un intreccio di economico e politico, il resto è irrilevante per la cittadinanza, è sfera ‘privata’. Si capisce bene dove vada a finire la religione: nella sfera delle preferenze meramente private, senza alcuna incidenza sociale o pubblica. Questa impostazione, lungi dal valutare - come dovrebbe - le sfere socioculturali, le mette completamente da parte. Le differenze culturali, tra le quali quelle che forgiano le identità nazionali, sono per lui solo un ostacolo alla cittadinanza. Si noti: le dimensioni culturali, tra cui, ovviamente, le caratteristiche religiose ed etniche, non hanno cittadinanza. b. In questo approccio, non esiste alternativa ad una cittadinanza intesa quale combinazione fra liberalismo e socialismo. Secondo Dahrendorf, la struttura politica non deve farsi carico altro che di una possibilità, quella di combinare libertà ed uguaglianza nell'accesso alle intitolazioni di cittadinanza sullo sfondo di una sola premessa e promessa: “libertà contro sistema”. La solidarietà sociale non entra nel discorso, né come base del consenso democratico che deve sostenere l'estensione e il mantenimento delle intitolazioni, né come - essa stessa - titolo di cittadinanza per le forme sociali che si orientano su di essa. c. Nell'approccio lib-lab, la cittadinanza, per definizione incondizionata, mette i cittadini in uno status di 'ricettori'. Una delle conseguenze è che la cittadinanza viene a confondersi con l'assistenza, anche se le intitolazioni sono date come diritti, e non come benefici discrezionali. Ciò comporta un equivoco silenzio sui doveri. È evidente che, in generale, la cittadinanza implica doveri (per esempio pagare le tasse), ma nell'approccio di Dahrendorf i doveri non hanno relazioni strutturate con i diritti e possono anche venire meno (ad esempio, per certi gruppi di persone marginali, che si suppone non possano dare nulla alla società). In questa impostazione, proprio il fatto di considerare la cittadinanza come un puro e semplice conferimento di status, comporta che coloro i quali si trovano in condizioni socialmente deboli e marginali vengano confermati in una posizione considerata incapace di qualunque scambio socialmente rilevante. 3.7. A fronte di questa impostazione, la domanda che si pone è: tali assunzioni sono capaci di identificare una cittadinanza adeguata ad un progetto culturale europeo, in particolare ove lo si voglia perlomeno compatibile con una ispirazione cristiana? C'è più di un motivo per affermare che la prospettiva lib-lab, che è poi quella dell'attuale establishment europeo, e che si identifica con le proposte più innovative (come la cosiddetta “terza via” di Tony Blair, una sorta di mixage fra lib e lab, basato sulla conflazione centrale di agency e struttura sociale), sia fondamentalmente incompatibile con una visione cristiana di un'Europa significativa sotto il profilo culturale. In corrispondenza ai tre assunti di cui sopra, si può rilevare almeno quanto segue. a. Ciò che sta fuori del binomio Stato-mercato non è irrilevante agli effetti della cittadinanza, non è mero ‘privato’, ma anzi contiene dimensioni essenziali per la cittadinanza. Chi ha detto che realizzare una sempre più piena cittadinanza significhi annullare la rilevanza delle differenze culturali (ovvero di identità) che nascono fuori dal mercato e dal politico? Si può condividere l'idea che “la cittadinanza non sarà mai completa finché non sia cittadinanza mondiale”. Una tale prospettiva difficilmente può trovare degli avversari teorici, anche se poi non tutti ne traggono le necessarie conseguenze. Ma il punto è un altro: ci si deve chiedere se il passaggio dalla cittadinanza della città-Stato alla cittadinanza dello Stato-nazione e poi a quella di comunità sovranazionali (come quella europea), fino a quella mondiale, sia possibile se e solo se vengono rimosse le identità primarie. Al contrario, se si deve dar credito alle ricerche empiriche, si deve prendere atto che la crisi odierna della cittadinanza sta proprio nel fatto che essa non riesce a rispondere ad esigenze di identità socioculturale che si formano fuori dell'area Stato-mercato, e dunque che tale crisi è precisamente una conseguenza di corsi di azione e iniziative che hanno pensato di poter rendere tali identità irrilevanti per la sfera politica. b. La cittadinanza concepita essenzialmente come problema di bilanciamento fra libertà (esigenze antisistemiche) ed uguaglianza (come valore funzionale all'ampliamento delle libertà) evita di misurarsi con i problemi di regolazione sociale che tale impostazione comporta, specie nelle società tardo-moderne. Non c'è bisogno di essere “ossessionati dal problema dell'ordine sociale”, come polemicamente qualcuno sostiene, per riconoscere che, per il suo modo di funzionare, l'operatore simbolico che combina libertà ed uguaglianza alla maniera lib-lab genera enormi problemi sociali connessi all'erosione dei circuiti di reciprocità (ristretta e allargata) che deriva da un uso improprio dei codici mercantili e politici in sfere di relazioni sociali che non sono né mercantili né politiche. Anche se si può essere d'accordo sul fatto che la pianificazione (come ogni sistema basato su una programmazione precettorale) non è una risposta regolativa che possa funzionare, è tuttavia evidente che la combinazione lib-lab è quasi muta sui problemi della regolazione complessiva dei sistemi sociali odierni. c. Una cittadinanza intesa e praticata per definizione come intitolazione senza condizioni solleva il problema della mancanza di reciprocità nelle aspettative e nei comportamenti che intercorrono fra individui e Stato, come fra gli stessi soggetti della cittadinanza. Una tale cittadinanza rischia sempre di tradursi in assistenzialismo, e in concreto di dipendere dalle risorse di cui le élites possono disporre in rapporto agli alti-e-bassi delle congiunture economiche. 3.8. I pensatori lib-lab non sembrano aver capito molto delle discontinuità storiche che si sono aperte negli anni '80. Non hanno veramente compreso perché il welfare state basato su orientamenti lib-lab sia entrato strutturalmente (e non contingentemente) in crisi, per ragioni legate alla sua propria logica interna che non dipendono solo da difficoltà nel funzionamento del mercato, o della burocrazia, o nel reperimento delle risorse. Inoltre, i pensatori lib-lab non hanno compreso il senso delle emergenze regionali (nazionali), che interpretano come ri-emergenze “tribali” (così Dahrendorf le definisce), anziché quali espressioni di culture comunitarie che, su un certo territorio, tentano una ridefinizione delle relazioni fra universale e particolare (R. Gubert, 1992). Ancora: i pensatori lib-lab non danno indicazioni su come possano essere ancora estesi ed allargati i diritti (intitolazioni) in presenza di sistemi fiscali che, come quello italiano, sono stati portati al limite delle loro capacità impositive (oltre al fatto di essere basati sull'inefficienza e sull'iniquità). Più in generale, i pensatori lib-lab non hanno capito che il gioco della cittadinanza moderna intesa come creazione di ricchezza attraverso il mercato e poi di redistribuzione per via di intitolazioni, mediante meccanismi universalistici (in quanto) centralizzati, è un gioco che è giunto al suo limite. Beninteso, l'idea che l'inclusione nel sistema politico possa risolvere i problemi dei gruppi sociali emarginati garantendo loro condizioni di miglior benessere materiale non è certamente divenuta obsoleta. Ma il meccanismo di inclusione non può venire assicurato semplicemente attraverso una sempre ulteriore generalizzazione di strumenti centralizzati e di corrispettive garanzie di sicurezza sociale materiale. Intendere lo sviluppo della cittadinanza solo come estensione del welfare state pubblico significa modellare la società su una “forma panottica” (mi riferisco al Panopticon di J. Bentham) di controllo sistemico che, oltre a non poter risolvere una quantità di problemi sociali, produce enormi effetti perversi. Un tale approccio rimane comunque troppo normativo, e diventa insostenibile a partire dal momento in cui ci si rende conto del fatto che gli stereotipi del benessere universalistico nascondono ampie variazioni nel trattamento degli individui e delle famiglie. Inoltre: dove trovare quella élite illuminata, cui Dahrendorf si appella, che dovrebbe oggi garantire il progresso sociale per le masse escluse (diseredati, immigrati clandestini, drop-out people, ecc.)? E poi: chi assicura che il meccanismo della cittadinanza come semplice allargamento delle intitolazioni possa ancora funzionare laddove crescono le aspirazioni e le pretese? E laddove ci siano crisi congiunturali o strutturali profonde della economia? E che dire dei nuovi migranti? Per essi, si deve pensare solo in termini di rifiuto/accesso ad una cittadinanza universalistica e incondizionata oppure possono esistere altre forme di soluzioni intermedie, adatte a situazioni temporanee o di transito da un territorio ad un altro? Purtroppo, a tutte queste domande Dahrendorf non può rispondere. Mancando un quadro adeguatamente complesso, Dahrendorf non può dare indicazioni operative soddisfacenti sui maggiori problemi che sfidano oggi la cittadinanza: la sottoclasse (underclass), l'autodeterminazione nazionale e regionale, i problemi dell'habitat umano. Egli non si rende conto che i nuovi mali sociali non consistono tanto in problemi di disuguale accesso alla distribuzione delle opportunità offerte dal mercato, ma soprattutto in problemi di giustizia nelle concrete relazioni sociali e culturali, singole e generalizzate. Per questo motivo il suo appello alla “libertà” come soluzione-principe suona stonato e vuoto, e lui stesso lo avverte. Il fatto è che Dahrendorf non sembra aver capito come i tempi siano cambiati. Lo stuolo di coloro che condividono le posizioni à la Dahrendorf è veramente grande, anche se, ovviamente, con mille sfumature diverse. Non tutti, comunque, anche fra i teorici della cittadinanza lib-lab, condividono una impostazione individualistica, per quanto moderata e corretta da istituzioni di giustizia redistributiva. Nella riflessione storicosociologica c'è chi ritiene che non si possa accettare l'individualismo metodologico come base della concezione lib-lab della cittadinanza. All'interno del pensiero liberale, poi, cresce il numero di studiosi interessati ad un “superamento” della prospettiva individualistica come base della cittadinanza, una volta che diventi evidente l'incompatibilità fra individualismo e cittadinanza (P. Birnbaum, J. Leca eds., 1991). Viene così elaborata la distinzione fra “modelli individualistici” e “modelli altruistici” come stili differenti e per molti aspetti del tutto divergenti della tradizione liberale (A. Besussi, 1992). Mentre, per converso, il pensiero socialista si mostra più incline a incorporare elementi liberali, soggettivi, negoziali, plurali (G. Andrews ed., 1991). Si tratta di riflessioni che possono aprire un campo interessante di nuove prospettive di confronto e convergenza fra differenti approcci culturali. 4. La differenziazione della cittadinanza europea e i suoi problemi di integrazione universalistica 4.1. La mia argomentazione centrale è che, ferma restando la validità di una certa parte delle analisi storico-empiriche degli studiosi lib-lab (riferite al passato), la concezione della cittadinanza che essi esprimono, in quanto si rifà ad argomenti del tutto tradizionali e in buona misura superati, è inadeguata ad affrontare lo scenario dell'Europa postmoderna. In altri termini, se i contenuti, le forme e le procedure della cittadinanza a cui essi si riferiscono sono stati distintivi della società moderna, borghese e industriale, tali caratteristiche non connotano più le distinzioni-guida per i problemi della cittadinanza nelle cosiddette società complesse. Per comprendere e affrontare le difficoltà della cittadinanza nel nuovo contesto storico-sociale e culturale, occorre un nuovo framework concettuale capace di osservare se e come venga prodotta una nuova legittimazione culturale. 4.2. Bisogna innanzitutto mettere a fuoco e approfondire l'idea, tutta moderna, che la cittadinanza sia un ideale, un'opzione o una scelta “di sinistra”. Complessità, dopotutto, significa che la distinzione destra/sinistra assume altri significati e viene anche sostituita da altre distinzioni-guida. La distinzione destra/sinistra, nata e sviluppata in un ambito storico e ideologico legato alla dialettica idealistica (hegeliana e posthegeliana), può essere stata chiara fino ad ieri, ma non lo è più oggi. È per questo che, da qualche tempo a questa parte, è sorto un vivace dibattito su che cosa significhi asserire che la cittadinanza moderna è “di sinistra”. Molti si chiedono: possiamo saltare a piè pari quanto Luhmann (1990) ha dimostrato, cioè il fatto che destra e sinistra sono diventati i termini di una opposizione binaria (sempre invertibile e reversibile) che serve alla differenziazione funzionale di un sistema che procede ‘opportunisticamente’? La filosofia lib-lab più o meno implicitamente assume che l'espressione “di sinistra” significhi prendere partito per l'identità cittadinanza=emancipazione, e che quest'ultima coincida sic et simpliciter con più libertà (individuale) e più uguaglianza (sociale). Ma questa impostazione, rimanendo totalmente all'interno della antropologia moderna, non guarda in faccia le nuove realtà. Essa si rifiuta di prendere atto che: a. in quanto la modernità significa incessante e crescente separazione fra individuale e sociale, alla fine, ciò che ne consegue è che la combinazione sinergica di libertà individuale ed uguaglianza sociale non solo ‘salta’ o è sempre meno tenibile, ma anzi si ribalta in fenomeni imprevisti, come sono i nuovi ‘egoismi’ e vaste patologie sociali, dette appunto della modernità; b. se nella modernità il meccanismo binario destra/sinistra aveva una ‘direzione’ (l'idea di emancipazione-liberazione dal dominio, di ogni tipo), nel postmoderno tale direzione scompare, perché non c'è più una meta di liberazione finale, e con ciò il gioco dello "scavalcamento a sinistra" che aveva contraddistinto il progresso moderno perde di senso. Non a caso la maggior parte dei pensatori lib-lab, anche se non tutti, hanno difficoltà nel parlare di “postmodernità”. Una espressione - a loro avviso - assai poco sensata. Schiavi, sudditi, cittadini: è una sequenza che essi assumono come una storia ‘progressiva’ in qualche modo necessaria, pur nella contingenza delle sue fasi e stadi di realizzazione. In generale, l'idea che la moderna cittadinanza occidentale possa anche configurare o addirittura generare nuove illibertà e nuove disuguaglianze, che insomma possa mangiarsi la coda, viene ammessa solo da pochi. Questa ‘dimenticanza’ era già stata denunciata da Dahrendorf in un saggio sul “cittadino totale”, negli anni '70, ma lui stesso sembra poi averlo dimenticato nel corso del tempo. Lo riconoscono invece oggi solo coloro i quali accettano un confronto con la realtà. Se nella trattazione della gran parte dei pensatori lib-lab questi dubbi non sorgono è perché, per essi, la cittadinanza è una idea (o un ideale, se si preferisce) contro-fattuale, che si lascia assorbire senza residui nell'idea moderna di emancipazione: per loro cittadinanza ed emancipazione sono non solo co-rispondenti, ma la stessa e identica cosa. Ma l'emancipazione che cos'è? La risposta è abbastanza semplice: per loro emancipazione è una combinazione (ibridazione) ottimale di libertà liberale e di uguaglianza socialista. A fondamento della cittadinanza, a loro avviso, c'è una condivisione di alcuni princìpi ovvero una "costituzione di libertà": un assetto etico e giuridico della società, in breve un regime politico, basato sul valore della scelta individuale e su una teoria contrattualistica della scelta collettiva. Cittadinanza, dunque, è il mix, il ponte, la sinergia, o come altro la si possa pensare, fra le due grandi ‘tradizioni moderne’: il ‘primo '89’ (1789, rivoluzione francese) e il ‘secondo '89’ (1889, seconda internazionale). Sulla linea di tale continuità sarebbe uscito il ‘terzo '89’, ossia la caduta dei regimi comunisti europei. Adesso, i problemi si ridurrebbero, a loro parere, a quelli di una nuova etica pubblica (S. Veca, 1990, pp. 46-47). È questa la soluzione che io chiamo del neoindividualismo democratico, della quale è sociologicamente dimostrata la inadeguatezza ad affrontare i problemi che nascono dalla crisi del welfare state postbellico. Fra le altre cose, essa porta a configurare, di fatto, una duplice cittadinanza: quella di chi è forte sul mercato, e quindi ha un potere di scambio con lo Stato, e quella di chi, non avendo nulla da scambiare, deve interamente dipendere dallo Stato per poter effettivamente fruire dei diritti a cui ha titolo. I pensatori lib-lab si rendono ben conto delle difficoltà operative della loro proposta (o visione), ed è forse anche per questo che molti di essi cercano di superare tali difficoltà attraverso il radicamento del concetto di cittadinanza nella generalizzazione del concetto di dignità umana, ovviamente uguale per uomini e donne. Ma, sfortunatamente, esso viene espresso “entro l'orizzonte della recente modernità” (Veca, 1990, p. 19): il che significa che ‘dignità umana’ diventa un insieme indeterminato di aspettative di uguaglianza contro-fattuali, difficili da giustificare e ancor più da perseguire. Al punto che l'idea di uguaglianza può anche mascherare forme di meritocrazia regressiva (ad esempio: l'ideologia dell'uguaglianza uomo-donna finisce oggi per legittimare una ‘meritocrazia repressiva’, per la quale chi non ha successo - uomo o donna che sia - è esso stesso colpevole, come individuo, del suo fallimento). Certamente nessuno può sottovalutare l'importanza, i meriti e l'afflato morale della concezione lib-lab. Essa è stata sempre mossa dall'intento di una crescente libertà umana, per tutti gli esseri umani, nella preoccupazione delle condizioni di uguaglianza formale e materiale che possono sostanziare e garantire una maggiore valorizzazione della autonomia dei soggetti individuali. Ma ne è anche troppo evidente e scoperto il carattere euro-centrico e ideologico. Né sfugge la portata utopica dello ‘sfondamento culturale’ che ha inteso e intende produrre: per essa, cittadinanza non è più, come il pensiero classico o un autolimitato punto di vista politologico potrebbero suggerire, la specifica relazione politica che lega fra loro i consociati, ma diventa un ideale normativo di vita per l'intera società, che ne assorbe e ne forgia l'etica, dunque anche le dimensioni pre e meta-politiche. È su tale base che i pensatori di cui si parla arrivano alla conclusione che la cittadinanza oggi e domani dovrebbe realizzare l'ideale kantiano rimasto incompiuto. Con le parole di Veca (1990, p. 57), “non è impossibile” pensare all’utopia della società civile dei cittadini del mondo, cioè “pensare in modo non patetico o fatuo a una fraternità o solidarietà di specie”. La prospettiva, inutile dirlo, è allettante, e sarebbe scorretto criticarla come semplice utopismo. Ma ci si chiede: se la cittadinanza (europea) viene concepita come relazione che connette gli esseri umani in quanto individui di una ‘specie’, dove ci porta la proposta lib-lab? Non ci troviamo forse ancora una volta di fronte al sogno di una ‘secolarizzazione infinita’ dell'antica idea, introdotta nella storia umana dal e con il cristianesimo, che esiste una fraternità universale fra gli uomini derivante dal fatto di essere tutti figli di Dio? È possibile tradurre un siffatto ideale in una filosofia politica senza alcun fondamento religioso (un “minimo di religione” come Tocqueville direbbe) e, in parallelo, senza alcun fondamento di ‘verità’ (che i pensatori lib-lab debbono per forza di cose ritenere ‘dogmatico’)? Molti studiosi, come sappiamo (tra cui N. Bobbio, 1990), rispondono di sì. Ma c'è da avere seri dubbi, perché la politica è politica, non religione, neppure una ‘religione laica’, e la prima non può funzionare da equivalente della seconda. La politica non può dare le prestazioni (‘religiose’) che i pensatori lib-lab si aspettano. Può essere segno di un animo grande intendere la cittadinanza come ‘emancipazione integrale’ dell'uomo, ma la cittadinanza è e resta solo e soltanto una relazione politica. Come tale, essa deve bensì relazionarsi ai diritti dell'uomo, ma non può includerli. I diritti dell'uomo non sono dominio della politica, ma semmai ‘ambiente’ di quest'ultima, e ogni tentativo di assimilazione o inclusione totale dell'uomo nel cittadino porta, dietro l'idea di emancipazione (in particolare quella moderna), ad una qualche forma di ‘totalitarismo’, che non necessariamente deve essere pensato e agito in forme apertamente autoritarie di governo. Almeno questa è l'esperienza storica dal primo '89 ad oggi. I pensatori lib-lab non ci offrono dati o motivi per pensarla diversamente. Chi è partito pensando, dentro la sfera politica latamente intesa, di costruire una società come pura cooperazione in assenza di vincoli pre e meta-consensuali, ha dovuto subire le secche smentite della storia. Come i pensatori lib-lab possono allora, oggi, pensare alla cittadinanza in quanto istituzionalizzazione di una società di liberi ed uguali al di là della scarsità e dell'economia, dell'autorità e della politica e dei vincoli di tutte le religioni universali? Essi sono consapevoli di prospettare un'utopia. Sociologicamente, il problema è che la pensano come possibile alla maniera dei moderni, mentre la società postmoderna esige criteri per distinguere fra utopie sensate e utopie insensate. Essi si affidano ancora alla vecchia distinzione destra/sinistra, mentre quest'ultima ha perso di significato (anche se non di funzione, come Luhmann insegna). Non vedono che essa è stata sostituita dalla distinzione umano/non-umano. La cittadinanza postmoderna si caratterizza, infatti, per mettere al centro del suo stesso modo di costruirsi come codice simbolico, la distinzione fra il carattere umano e non-umano di ciò a cui si riferisce, mentre utilizza la distinzione fra destra e sinistra solo come procedura. Per affrontare questo scenario non servono più le vecchie distinzioni. 5. Quale integrazione socioculturale per l'Europa di domani? 5.1. La mia opinione è che, ferma restando l'intelligenza dell'analisi e la capacità di esprimere posizioni ‘esemplari’, i pensatori lib-lab si riferiscono a temi antichi e presentano argomenti in buona misura non adeguati alla situazione attuale. La loro proposta è piena di promesse, ma occorre avere consapevolezza sufficiente delle discontinuità che si sono aperte negli anni più recenti rispetto alla problematica, alla concezione e alla pratica tipicamente moderne della cittadinanza. Fare un passo in avanti implica fare i conti con almeno tre questioni di fondo che sono largamente disattese dai pensatori lib-lab. 1) Primo, la cittadinanza è certo espressione di un contratto sociale, ma tale contratto ha comunque delle premesse che non sono contrattuali. In breve, nella cittadinanza ci sono elementi che sono il risultato di interessi, strategie e rapporti di forza, ed elementi che rappresentano cose non negoziabili. I pensatori lib-lab lo riconoscono a parole, ma poi non affrontano il problema alla radice, perché fare ciò comporterebbe un discorso sui diritti della persona umana e delle formazioni sociali che i loro schemi di analisi e valutazione non contengono. 2) Secondo, la cittadinanza è e resta per loro una questione (una attribuzione) che si gioca nelle combinazioni e intrecci fra Stato e mercato, con una conseguente sottostima, quando non una vera e propria svalutazione, di ciò che, nella società, sta fuori del mix Stato-mercato. Essi vedono nel pluralismo sociale e culturale non già una base ed una espressione della cittadinanza, ma qualcosa di ambivalente per essa, quasi fosse una sorta di permanente ‘attentato alla cittadinanza’, arrivando a considerare il terzo settore o privato sociale - tutto sommato - come una sorta di ‘diminuzione della cittadinanza’. 3) L'idea lib-lab di cittadinanza è e rimane una questione di ‘elargizione’ di diritti concordata, meritata o conquistata -, la quale presuppone che vi sia un grande ‘distributore’ (o ‘riconoscitore’) di tali diritti, sia esso lo Stato-nazionale o un Ente composto di Stati-membri. Ma nella società tardomoderna la cittadinanza non ha più nello Stato il suo centro e/o vertice. I diritti sorgono ora in buona misura fuori della organizzazione statuale data e dei suoi riconoscimenti di diritto positivo, e si riferiscono alla persona umana e alle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. È questo che diventa nuovamente il ‘centro’ della questione cittadinanza, come fu all'inizio dell'epoca moderna. È difficile pensare che, per quanto latente e indicibile esso sia, si possa fare a meno di affrontare il discorso antropologico che sostiene questa ‘svolta’. Il che non toglie, anzi implica, che lo Stato si riorganizzi ad un livello di garanzie universalistiche ancora più elevato. Un discorso realmente nuovo sulla cittadinanza, oggi, non può evitare di fare i conti con queste tematiche, che sono del tutto postmarshalliane: la cittadinanza diventa una nuova relazione fra cittadino e persona umana, e si pone con ciò un nuovo scenario. O la cittadinanza presta un'attenzione alla condizione esistenziale umana in quanto tale o va perduta. Il discorso sulla cittadinanza oltre la modernità richiede, dunque, molto di più di una realizzazione dei princìpi dell''89. La cittadinanza moderna può ben essere una questione di perfettibilità o di utopia incompiuta. Ma quella postmoderna deve necessariamente essere un'altra cosa: diventa una questione di trattamento della condizione umana in situazioni di elevata diversità. Diventa un problema di riconoscimento e gestione della dissimiglianza, e dunque investe le stesse basi culturali della democrazia e dei diritti. Non è solo, per dirla in breve, una questione di diversità nei modi o nei mezzi che possono realizzare la cittadinanza secondo una continuità storica che si pensa come l'unica possibile. 5.2. I teorici del postmoderno hanno capito tutto ciò. Essi prendono atto che le società complesse si caratterizzano per una crescente, e non evitabile, differenziazione e autonomizzazione dei “diversi ambiti di significato” (F. Crespi) o diversi “sottosistemi della società” (N. Luhmann). Poiché ogni ‘sfera di vita’ (famiglia, religione, azienda, scienza), ovvero ogni sottosistema diventa un ambito di significati e interazioni specifico (autopoietico), esso può entrare in contrasto con gli altri. Il che avviene (anzi deve avvenire) se deve essere prodotta o almeno assecondata la differenziazione e autonomizzazione di ogni ‘soggetto’ (dall'individuo ai vari attori collettivi). Se a questo si aggiunge la crisi dei valori religiosi e razionali, nonché delle ideologie, che in realtà è un processo sinergico e interattivo rispetto a quello della differenziazione sociale, si vede perché e come la cittadinanza moderna entri necessariamente in crisi: perché di necessità cresce il divario fra mondi della vita quotidiana e istituzioni politiche. E non c'è possibilità di ricondurre ‘il tutto’, significato dalla cittadinanza, ad una unica ‘sintesi universalistica’: «la domanda politica tende a spostare l'accento dalle richieste tradizionali di maggiore uguaglianza, di liberazione dallo sfruttamento e di più equa distribuzione delle risorse, verso richieste di riconoscimento dei diritti alla propria differenza in condizioni naturali e sociali che assicurino la realizzazione del proprio ideale privato di vita» (F. Crespi, 1992). La solidarietà del sistema societario nazionale si frammenta e al suo posto subentrano solidarietà locali, etniche, limitate o a corto raggio, che questi autori interpretano come identità particolaristiche e separate. Si pone con ciò il problema di come ricomporre questi particolarismi in unità sociali che, pur dando spazio alle autonomie che caratterizzano il rispetto del pluralismo, siano in grado di rifondare la solidarietà sociale di base su valori universalistici (anche se non universalmente condivisi). Si prende atto che le soluzioni neoliberali e quelle ecologiste sono del tutto insufficienti. La prima perché pensa di poter costruire la convivenza civile semplicemente sul riconoscimento di procedure o di regole generali comuni che consentano di ‘giocare tutti i giochi’. Una tale soluzione non può, si osserva, mobilitare le coscienze: una siffatta idea presuppone la presenza di identità individuali già fortemente consolidate su basi universalistiche (‘natura umana’, idea di razionalità, di libertà, ecc.). La seconda perché, per quanto grave sia il problema ambientale, rimanda a valori positivi che possono essere costruiti solo in un più ampio orizzonte di senso. Dove cercare allora la soluzione? F. Crespi ritiene che un vero superamento del particolarismo dovrebbe essere cercato in direzione di una nuova attenzione alla condizione esistenziale come tale, pur nella consapevolezza dei profondi e insuperabili limiti che abbiamo nella sua conoscenza. Da un lato, infatti, la differenza di ciascuno è indicibile, se non riducendola ad una etichetta (uomo/donna, nero/bianco, nord/sud, etero/omo-sessuale, ecc.); dall'altro, tuttavia, c'è la consapevolezza di un comune essere insieme in una situazione di vita, anche se non ne conosciamo tutti gli elementi. La formazione dell'identità proprie dei soggetti, dice Crespi, potrebbe allora avvenire non sulla base di etichette particolaristiche, ma sulla base del fatto che ciascuno, in quanto partecipante ad una società, ha la possibilità di sviluppare il proprio ‘potere intrinseco’, ossia la capacità di gestire le contraddizioni che emergono nel rapporto tra le esigenze individuali e quelle collettive, tra il bisogno di rassicurazione e stabilità e quello di promuovere innovazioni che rispondano alle mutevoli condizioni dell'esistenza storica. Il concetto di ‘potere intrinseco’ indica l'autonomia individuale senza definirne in modo specifico le caratteristiche, altro che come ‘forza attiva socialmente responsabile’. La proposta interpretativa è suggestiva. Ma ci si chiede: chi assicura questa responsabilità sociale? Crespi riconosce che una siffatta cultura politica non solo oggi non esiste, né è programmabile, ma si dovrebbe avvalere di nuove forme di mediazione (simbolica), le quali tuttavia - come tutte le forme di mediazione simbolica - rischiano sempre di distorcerla e tradirla (Crespi, 1989). Crespi respinge la soluzione che conferisce un primato al modello normativo (di ogni modello normativo) sul vissuto soggettivo. Tale soluzione, egli afferma, è caratteristica della “tendenza di destra”, che si distingue per ritenere il vissuto come fonte di pericolosa indeterminatezza, privilegia il problema dell'ordine su ogni altro, e giustifica le istanze della ragione strumentale propria dell'apparato tecnologico. Per contro, “essere di sinistra” significa, a suo avviso, “affrontare senza schemi preordinati la realtà complessa che emerge dalle trasformazioni in atto”, approfondendo il problema del rapporto fra etica e politica attraverso la capacità pratica di saper gestire in maniera più equilibrata il rapporto fra le forme di determinazione normativa che assicurano la stabilità sociale e le dimensioni indeterminate che emergono dalla effettiva esperienza individuale e collettiva. In conclusione, il discorso postmoderno sulla cittadinanza approda ad un bivio. O si adotta la soluzione luhmanniana e si lasciano perdere i contenuti ‘umanistici’ della cittadinanza, abbandonando ogni idea di emancipazione/liberazione, e considerando la cittadinanza solo come un puro meccanismo della inclusione funzionale, sottosistema per sottosistema a seconda delle contingenze. Oppure si deve sperare che possano sorgere nuove forme di mediazione simbolica della nostra esperienza umana che sappiano conciliare l'attenzione alle differenze individuali con il riconoscimento di una comune condizione esistenziale. Questa seconda prospettiva è indubbiamente più attraente. Ma la sua coscienza critica non lascia trasparire molte speranze, perché essa stessa avverte che le forme mediative cui si appella saranno sempre riduttive e che, in ogni caso, non potranno avere alcun ‘fondamento’, se non nella loro stessa contraddizione. Come si possa realizzare la promessa di una cittadinanza migliore con i mezzi, anche pragmatici, necessari. Ciò resta affidato alla nostra coscienza esistenziale. Diversamente dai pensatori lib-lab, che si muovono ancora nel quadro della modernità, per la quale il problema della cittadinanza è e resta quello di ricondurre la politica ad una ‘filosofia normativa’ che sappia progressivamente combinare più libertà e più uguaglianza, il problema dei teorici del postmoderno è dunque un altro. Nella misura in cui essi teorizzano la de-normativizzazione della cittadinanza, tutti i suoi ‘contenuti’, inclusa libertà ed uguaglianza, diventano problematici, oltreché differenziati, autonomi, separati: non è comunque possibile che si possa pensare di tenerli assieme, tantomeno, per così dire, ‘dall'alto’ di un qualche ordine sociale. La società dovrebbe riconoscere i diritti umani, ma non ci sono né basi fondative né condizioni sociologiche per potere fare questo. Cittadinanza diventa l'uguale diritto degli individui e dei gruppi sociali alla differenza e alle opzioni particolari. Diritto che deve essere garantito dal sistema politico. Così viene re-interpretato T. H. Marshall, anche dai neofabiani, nella convinzione che la sua concezione della politica fosse quella secondo cui lo Stato deve creare e difendere la cittadinanza come complesso di condizioni che conferiscono ai cittadini il potere di fare e di essere ciò che essi desiderano, a condizione che gli altri cittadini abbiano gli stessi diritti e poteri. Che si prenda la strada di un esistenzialismo sofferto, o quello di una nuova fioritura di associazionismo civile, nell'un caso come nell'altro le basi normative della cittadinanza sono considerate perdute. Credo che questo sia anche il senso della tesi secondo cui viene emergendo una sorta di ‘civismo postmoderno’, concetto con il quale si “vuole cogliere l'ecumenismo razionale, il pragmatismo normativo, la destoricizzazione del sociale, la ricerca del rispettabile e la de-realizzazione della società come un complesso di atteggiamenti misurabili empiricamente che guidano l'azione sociale postmoderna” (V. Belohradsky, 1989, p. 247). 5.3. La situazione attuale è in buona misura descrivibile nei termini di un confronto fra gli schemi normativi lib-lab(cittadinanza come emancipazione) e il loro ribaltamento de-costruzionista postmoderno (cittadinanza come critica di ogni mediazione simbolica in quanto riduttiva, e sviluppo del ‘potere intrinseco’ degli individui nel riferimento al Dasein). Di fronte a tale confronto, è forse possibile intravedere fenomeni che alludono ad un altro modo, dissimile, di pensare, vivere e attuare la cittadinanza. Un modo che, nella varietà, tiene conto delle differenze come pluralità di una comune sfera pubblica, relazionale e sinergica. Per comprendere tali fenomeni bisogna osservarli attraverso alcuni concetti-guida: i) la differenziazione delle dimensioni della cittadinanza, ii) l'autonomizzazione dei suoi diversi livelli, iii) l'esigenza di una loro integrazione relazionale (che può andare dalla semplice co-esistenza o compatibilità, fino a nessi funzionali più stretti; in generale, però, si tratterà di una integrazione reticolare a maglie larghe). La cittadinanza si differenzia non solo in quanto complesso di diritti (per cui diventa problematica qualunque catalogazione dei diritti, come quella che li distingue in civili, politici e sociali), ma anche in quanto complesso di relazioni fra i vari diritti. 5.4. La differenziazione lungo le dimensioni amministrative e di valore avviene oggi in maniera accelerata, in concomitanza con l'esplosione delle richieste per nuovi diritti di cittadinanza. Tale differenziazione comporta la ricerca di nuovi strumenti sia per attualizzare le varie componenti della cittadinanza sia per coordinarle relazionalmente. In altri termini, la cittadinanza: A) deve darsi nuovi meccanismi di scambio adattativo fra diritti/doveri; G) deve darsi nuovi fini e scopi situazionali relativamente ai diritti/doveri; I) deve darsi nuovi standard (regole) di integrazione associativa fra diritti/doveri; L) deve darsi nuovi orientamenti di valore nei diritti/doveri. E deve fare tutto ciò relazionalmente, se il processo deve evitare, il più possibile, di pervenire a situazioni ingestibili per il livello troppo spinto di inflazione e conflitto fra i diritti. La cittadinanza si differenzia al proprio interno anche in relazione alle dimensioni territoriali cui si riferisce: al livello locale (la città e sue articolazioni), al livello di regione, di nazione, di comunità sovranazionali e della comunità internazionale (Onu). In altri termini, le dimensioni amministrative e di valore non sono le stesse a seconda dei vari contesti territoriali: un certo diritto o una certa relazione fra diritti non può essere trasferita sic et simpliciter da un livello all'altro. 5.5. Con ciò si pongono enormi problemi di ‘integrazione’, sia per quanto riguarda le varie dimensioni della cittadinanza, sia per quanto concerne i livelli territoriali della sua implementazione. Che cosa darà coesione, se non proprio unità, alla cittadinanza? Non dovrebbe essere proprio la cittadinanza, come titolo globale di appartenenza, a funzionare da elemento societario integrativo per eccellenza? Così, appunto, non è più. La cittadinanza statuale non può più offrire questo tipo di prestazioni ‘integrative’, se non divenendo reticolare e plurale, il che ne trasforma completamente il modo di essere sia rispetto alla concezione organica tradizionale sia rispetto alla configurazione moderna assunta nello Stato-nazione. L'integrazione deve essere cercata nel ‘reticolo’, non in un suo punto privilegiato. Si deve, infatti, prendere atto che la cittadinanza moderna entra in crisi: a. perché vengono meno i presupposti culturali che sostenevano l'universalismo delle mete; la critica ad ogni forma di ‘dogmatismo’ (inclusa l'idea che la cittadinanza sia dell'individuo in quanto ‘uomo’) non può essere arrestata; b. perché, venendo meno la legittimazione e la possibilità o capacità di perseguire il bene comune, il collettivismo deve cedere all'individualismo; l'individuale deve prevalere sul sociale, dal momento che quest'ultimo contiene una connettività limitante; c. perché i sistemi complessi devono evitare di perseguire l'integrazione; un tale orientamento risulta dannoso agli effetti della loro capacità di adattamento, e quindi viene percepito come rischioso e contraddittorio; per il loro funzionamento le società postmoderne debbono far prevalere il senso del conflitto sul senso dell'integrazione; d. in una società orientata ai risultati (achievement-oriented) non c'è posto per gli status ascrittivi, neppure, quindi, per quello della cittadinanza; le comunicazioni, tutte le comunicazioni, non sarebbero possibili (accessibili) se vi fossero delle appartenenze ascrittive. Questi fenomeni possono essere visti come frammentazione e particolarizzazione. E non c'è dubbio che, per molti versi, lo siano. Globalmente considerata, infatti, la cittadinanza perde il suo carattere di appartenenza, il suo consistere di un insieme strutturato di titolarità (uno standard di civilizzazione), e il suo carattere ugualitario incondizionato (l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge). Si deve prendere atto che, per così dire, la cittadinanza non può che essere commisurata, se non proprio graduata, per ciascuno. La storia degli assegni familiari in Italia, con riferimento a quanto è successo negli anni '80, ne costituisce un esempio emblematico, in quanto, da universalistici che erano, tali assegni sono passati ad essere sempre più condizionati, cioè dati a fasce sempre più ristrette di famiglie (selezionate in base a criteri di neoindividualismo democratico). Più in generale, diventa impensabile (se non impossibile) che i cittadini di Stati diversi abbiano lo stesso paniere di diritti/doveri. Ma i fenomeni di crisi della cittadinanza statuale, che la concezione lib-lab ha contribuito a mettere in rilievo, possono anche essere visti, dal lato opposto, come aperture di nuove possibilità, risorse, strategie di costruzione delle solidarietà necessarie ad una qualche forma di ‘integrazione’ della cittadinanza a scala differenziata, su nuove basi. Quali? a. In base a presupposti culturali di un universalismo che potrebbe essere generalizzato a scala mondiale (diritti dell'uomo), mentre prende corpo e si attua in forme distinte a scala di ‘comunità locali’. b. In base ad un bene comune definito relazionalmente, sempre in modo differenziato alle varie scale. c. In base ad una solidarietà concepita non più come fattore di inclusione che divide (o separa o particolarizza), ma come legame creativo di risorse, dunque come relazione che crea nuove connessioni e anche generalizzazioni. d. In base alla presa d'atto che l'’accesso funzionale’ ai diritti non si ha nel vuoto, ma in un contesto, il quale richiede una gestione delle appartenenze, cioè delle identità ascritte. La prospettiva di analisi suggerita da Dario Rei (1989) per una cittadinanza “oltre il welfare” sollecita più di un approfondimento in questa direzione allorché osserva che: “il contesto della inclusione politica garantita dalle istituzioni pubbliche definisce il lato visibile della cittadinanza, ma lascia fuori il campo della esperienza concreta e relazionale dei soggetti, ossia il contesto della loro identificazione sociale. D'altra parte, le crescenti difficoltà di fondare i diritti su un modello razionale economico dell'individuo suggeriscono l'ipotesi che l'individualità sia una costruzione sociale modellata storicamente da culture e valori. Occorre guardare ad una antropologia più complessa dell'individuo soggetto, che non nasconde nella sua ombra o in un quadro formale di attese le relazioni in cui si riconosce: affettive, di genere, di generazione; le solleva alla consapevolezza della sua autodefinizione e ne fa la base dei suoi processi di determinazione. Pesa e valuta la diversità compresente degli interessi, delle obbligazioni e delle opzioni, alla luce delle responsabilità e degli impegni verso gli altri. Una tale antropologia invita a distinguere fra diritti che universalizzano l'io a criterio esclusivo di scelta e di azione (non senza esiti autocontraddittori) e diritti che scrivono una trama istituzionale comune, in quanto sono regole e risorse per l'espressione di una soggettività autonormativa e relazionale. Si è parlato di una ‘democrazia dei cittadini solidali’, capaci di rappresentare a se stessi e nelle istituzioni l'intreccio complesso di relazioni che nella soggettività si annodano” (D. Rei, 1992, pp. 14-16). Se una nuova cittadinanza può darsi, così conclude Rei, essa non può venire né prima né dopo i cittadini solidali, ma può solo procedere insieme con loro: “in altri termini, essa non può avere qualità e significati divergenti dai mezzi di fiducia, scambio e governo che circolano nella società e modellano le relazioni sociali”. Dallo “Stato dei cittadini” si deve davvero passare ad una nuova “società dei cittadini”. 5.6. Persona umana e reticolarità sociale: questi sembrano essere i punti fra i quali si snoda la cittadinanza postmoderna. Laddove la cittadinanza moderna è la possibilità di accesso a ruoli uguali per tutti (salvo poi dover constatare e legittimare le differenze di outcome), e la cittadinanza postmoderna è la possibilità di accesso alla comunicazione uguale per tutti (fatte salve le differenze che vengono lasciate ai singoli sottosistemi con i loro codici), si direbbe che la nuova cittadinanza societaria postfunzionalista sia una relazione che si instaura in un framework di ordine interattivo. Un ‘ordine’ di realtà in cui la mediazione culturale non ha un primato indipendente dal senso del soggetto che la interpreta e agisce; cioè un ordine in cui il progetto culturale non si appiattisce sulla mera richiesta di conformità normativa, ma si apre alla produzione di senso soggettivo e inter-soggettivo. Di recente, Achille Ardigò ha osservato che il progetto culturale non dovrebbe tanto affidarsi a “certezze politiche e sociologiche” (peraltro sempre più scarse), quanto piuttosto dovrebbe mirare a far sorgere, nelle coscienze personali dei laici, credenti e non, un agire libero-e-responsabile capace di creatività e apertura carismatica. Egli giustamente ricorda che la missione della Chiesa cattolica, se vuole - come deve - superare dilacerazioni sociali e culturali, “non può ricondursi in prevalenza all'efficacia di una mediazione culturale, perché nessuna lezione morale razionalmente proposta può avere efficacia, nelle scristianizzate moltitudini di persone, senza che prima nelle coscienze e nelle volontà più lontane siano insorte domande personali e interpersonali di senso, per merito di carismi religiosi. Non possiamo convertire la gente del postmoderno solo o tanto con precetti e sillogismi. Occorrono carismi e creatività personali e interpersonali” (A. Ardigò, 1998, p. 48). Il richiamo di Ardigò è più che opportuno e sensato. Tuttavia, per non incorrere in equivoci, è necessario ricordare che il senso/intenzione della singola coscienza, se non può essere mera conformità cognitiva (adequatio rei et intellectus) e tantomeno normativa, non può però essere neanche un atto soggettivistico: il senso è fondamentalmente senso di una relazione, si attua nella relazione e, anzi, è esso stesso relazione (che altro è la coscienza cristiana se non l'atto di essere in relazione a Cristo, in qualunque situazione ci si trovi? Per il cristiano, la coscienza sta nel ‘sentire con Cristo’, nell'avere gli stessi sentimenti di Cristo come dice S. Paolo -, sia per riguardo alla mente o sfera intellettiva, sia per riguardo al cuore o sfera affettiva e della volontà). L'atto di chiarimento del senso, l'atto di dare un senso (l'husserliano atto di Sinngebung), non consiste né nella mera assunzione di un ‘oggetto’ (sia esso una cosa, un simbolo, un valore, una regola), né in un atto puramente intra-coscienziale. Esso consiste in (e quindi dipende da) la relazione che il soggetto ha con l'Altro da sé, in quanto verità, vita, via da seguire, quindi con gli altri che sono significativi in quel senso. Solo così può essere e diventare un atto pienamente umano, distinto da un atto (relazione) che umano non è. La mediazione culturale consiste, perciò, non già in una norma di mera conformità, ma nella relazione pienamente umana, cioè nel nesso fra libertà-e-responsabilità relazionale che c'è nella donazione di senso. È un farsi relazionale, rispetto all'Altro che è significativo in termini veritativi. In quanto relazione, l'agire dotato di senso è un'altra cosa dal puro comportamento di adesione acritica, di passività, di abitudinarismo, così come è un'altra cosa rispetto ad una mozione puramente psichica intra-individuale (ovvero a quello che F. Crespi denomina il ‘potere intrinseco dell'individuo’). La relazione è veramente tale se è autotrascendimento, autosuperamento verso l'Altro, un andare verso l'Altro non per catturarlo, né tantomeno negarlo, ma invece per valorizzarlo (alla fine, questo è l'amore del prossimo, come base di quella ‘civiltà dell'amore’ di cui ha parlato Paolo VI). Se la mediazione non è puramente orizzontale, come accade nella cultura lib-lab (in cui gli individui si confrontano in termini di uguali libertà ed opportunità), ma è anche verticale (capace di trascendenza), dov'è la paura dell'immigrazione? Dov'è la paura dell'Altro? Ma per perdere la paura dell'Altro, e diventare capaci di sostenere un dialogo e un confronto positivo con l'Altro (fatto di fiducia, reciprocità, sussidiarietà), occorre vedere che la mediazione che sostiene la solidarietà è di ordine differente dalle mediazioni che reggono l'uguaglianza e la libertà (intese in senso moderno). Ecco perché non bastano né la “mano invisibile” del mercato liberale (A. Smith) né la “mano visibile” dello Stato (sia esso giacobino o hegeliano, di destra o di sinistra), ma occorre un terzo codice - relazionale, civilizzatore, che sta su un altro piano, non riducibile ai primi due - della solidarietà praticata come principio di sussidiarietà: ti aiuto in modo da renderti più autonomo e quindi più capace di reciprocità, all'interno di reti di scambio che non operano né sul metro del guadagno-profitto né su quello del potere-comando. Ed è questo il mondo del privato sociale o terzo settore, che non può e non deve essere ridotto a ruota di scorta del mercato e/o dello Stato, ma deve invece avere la dignità di un terzo polo simmetrico rispetto agli altri due, istituzionalmente (secondo Costituzione) tale da configurare una società civile distinta e distante dal sistema politico e dal mercato for profit, per quanto in relazione sinergica con essi (P. Donati a cura di, 1996). Se si vedono le cose in questo modo, si può allora intendere quanto il concetto di societarismo che ne deriva differisca dalla versione liberale e anche da quella lib-lab: societarismo qui significa non già valorizzazione del polo privato-particolaristico, né tantomeno la sua opposizione a quello pubblico-universalistico, ma l'orientamento e la prassi a far emergere la cittadinanza - nelle sue diverse componenti (morali, sociali, politiche e civili) - dall'intreccio fra particolare e universale, fra individuale e collettivo, fra privato e pubblico, nella distinzione relazionale di tali sfere. La cittadinanza societaria mette l'accento sul carattere di sociabilità e di societalità dei diritti-doveri che le ineriscono, in quanto consiste di un complesso di diritti-doveri primari e secondari che gli individui hanno in relazione gli uni con gli altri. Essa rimarca sia il carattere relazionale dei diritti-doveri individuali, sia i diritti-doveri delle forme associative. E tratta il problema della cittadinanza non come un fatto normativo ‘dall'alto’, ma come una concreta esperienza - ovviamente avente un risvolto normativo, però ‘dal basso’, dalle volontà personali - di appartenenza a un insieme di relazioni che costituiscono gli individui, le famiglie e i gruppi sociali più ampi come soggetti di cittadinanza in specifici momenti e luoghi. La cittadinanza societaria postcorporativa non ignora, né nasconde, il fatto che, in tali specifici momenti e luoghi, l'esperienza dell'essere cittadini è il più delle volte - di fatto, se non di diritto - disuguale e differenziale. Ma, anziché rimuovere tale constatazione, o risolverla in termini corporativi, promuove forme di riconoscimento e di organizzazione delle disuguaglianze e delle differenze nei termini di una ‘gestione delle appartenenze’ che opera in base a criteri ispirati a finalità solidaristiche e universalistiche, mediante strumenti di reciprocità, fra i vari soggetti della cittadinanza. Si apre una fase storica, o, in termini sociologici, una semantica societaria in cui la cittadinanza assume la forma di un complesso di diritti-doveri delle persone e delle formazioni associative che articola la vita civica in ‘autonomie universalistiche’ capaci di integrare la generalità dei fini con pratiche di autogestione. Questa è la sfida che la società europea, sempre più complessa e articolata anche in termini culturali, lancia a se stessa. Tale sfida si chiama ‘cittadinanza societaria’ o delle autonomie socioculturali. Bibliografia di riferimento ANDREWS, G. (ed.), Citizenship, Lawrence & Wishart Publ., London 1991. ARDIGO', A., Dottrina, culture, senso. A proposito del "progetto culturale" della CEI, Edizioni Dehoniane, Bologna 1998. BELOHRADSKY, V., Verso un civismo postmoderno, in Id., La modernità e oltre, Bozzi editore, Genova 1989, pp. 231-249. 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