MUSICA E CREATIVITÀ
ARTISTICA
NEI
CAMPI
DI
CONCENTRAMENTO
• Nei campi di concentramento, e soprattutto in quelli destinati
agli ebrei, ai prigionieri politici comunisti o ai testimoni di
Geova, che rifiutavano l’obbedienza al nazismo, la musica
serviva ad “aggregare e stemperare l’odio”, ma la musica
non fu solo un mezzo per liberare la fantasia di chi era
costretto a vivere nei ghetti o nei campi di concentramento,
ma venne utilizzata anche dagli aguzzini nazisti come
strumento di tortura e di disumanizzazione degli internati.
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Secondo il “costume nazista”, molte volte ai deportati fu imposta la
creazione di canti da intonare dopo l’appello o al ritorno dai lavori forzati o,
come succedeva nel campo di concentramento di Auschwitz, musiche
prodotte ed eseguite su ordine di un Kapò per l’intrattenimento degli ufficiali
tedeschi , mentre in certi casi la perversa imposizione dei capi nazisti,
arrivava a far comporre canti ingiuriosi o autoderisorii
Si sollecitava, quindi, la composizione e l’esecuzione di veri e propri inni di
campo, come successe per gli ebrei di Buchenwald, ai quali fu imposto di
eseguire il “Canto degli Ebrei”, che risultava essere una confessione
autodenigratoria sulla loro origine giudaica.
I comandanti, di certi campi di concentramento, sollecitavano la nascita di
piccole orchestre, di scuole di musica, e premevano per l’acquisto di
strumenti musicali, con un conseguente stemperamento dell’odio e di
aggregazione sociale tra i prigionieri.
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Dove queste orchestre non nacquero, e dove non si incentivò tra i deportati
dei campi, un’attività musicale, si fomentò il risentimento e la reazione, che
diventarono forme acute di combattimento contro i militari del campo.
In questi luoghi di morte che furono i campi di concentramento e di
sterminio, la musica rappresentò, per chi la praticava, e per chi la ascoltava,
una sorta di capitale di sopravvivenza, essa aveva lo scopo di unire e dare
forza nei momenti di fatica, di segnare il passo delle colonne di prigionieri
nelle uscite e nei rientri dal campo, di risollevare il morale, ma altresì fu la
traccia di una fugace umanità che scorreva “su uno sfondo omicida,
attraverso la musica”
Ancor prima d’essere sopravvivenza spirituale, l’esecuzione musicale nella
quotidianità dei campi di concentramento, società perversa ma comunque
società, rientrava nell’ordine degli scambi, della concorrenza, dei giochi
d’influenza, della lotta per sopravvivere. Gli strumentisti che ottenevano di
entrare in orchestra o nei complessi minori avevano forse qualche
possibilità in più di non far parte del successivo contingente di gassati o di
fucilati, di conseguenza, le orchestre “ufficiali” o i complessi ad hoc, in
genere clandestini e sempre dipendenti dalla disponibilità di strumenti, e
dall’arbitrio dei carcerieri o dal particolare momento della guerra,
germogliavano in quegli enormi cimiteri che furono i campi di
concentramento.
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L’importanza che ebbe la musica nella vita dei deportati, va ricercata
nell’aspetto collettivo della sua espressione, in quanto tutti i prigionieri dei
campi di concentramento vivevano il momento dell’esecuzione musicale
uniti dal calore umano che solo la musica può dare nei momenti di
disperazione e di sofferenza. Questo aspetto di aggregazione sociale,
anche se indotto dai comandanti nazisti, o dall’esigenza di sopravvivere
come esseri umani, salvò la vita a molte persone che, facendo parte delle
orchestre che si esibivano nei campi di concentramento, venivano
risparmiate dalle fucilazioni o dalle camere a gas.
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Va ricordato l’esempio del ghetto di Terezìn (Repubblica Ceca), che fu un
campo di concentramento “agevolato”, in quanto fu parzialmente
amministrato da un consiglio ebraico. Nel ghetto avevano luogo
rappresentazione teatrali, concerti di musica da camera e di un complesso
jazz. Tristemente celebre fu l’episodio dell’esecuzione del Requiem di
Giuseppe Verdi su richiesta dei carcerieri nazisti. I deportati che eseguirono
il concerto, all’indomani della rappresentazione, furono spediti a morire ad
Auschwitz. Nel ghetto di Terezìn furono scritte pagine sublimi della musica
del ‘900, come la sonata n. 7 di Viktor Ullmann o il Nonet di Rudolf Karel,
nonché l’opera per ragazzi Brundibàr di Hans Kràsa, quest’ultima eseguita
in presenza degli ispettori della Croce Rossa Internazionale.
LA MUSICA NEI LAGER
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In una sua famosa e assai contestata affermazione, Adorno stabiliva che
dopo Auschwitz non si poteva più fare poesia. Ma, possiamo domandarci,
'durante' Auschwitz? Nei ghetti polacchi, nei campi di concentramento, alle
soglie della morte, era possibile fare poesia, intendendo metaforicamente,
nel senso più ampio di cultura, quella 'poesia' su cui Adorno si interrogava?
L’interrogazione non è vana, se pensiamo alla straordinaria produzione
culturale nata nelle condizioni più estreme, quasi sulle soglie delle camere a
gas. A Terezin, il ghetto-lager costruito dai nazisti a scopo propagandistico
per mostrarlo alla Croce Rossa e ai media degli stati neutrali, e dove furono
rinchiusi prima di essere inviati ad Auschwitz numerosissimi intellettuali,
letterati, artisti, musicisti, furono create opere musicali straordinarie, come
l’opera per bambini Brundibar, di Hans Krása, che fu eseguita innumerevoli
volte a Terezin. Nel 1944 fu filmata e registrata a scopo propagandistico dai
nazisti, che subito dopo mandarono nelle camere a gas di Auschwitz il
compositore insieme con i piccoli protagonisti.
Ma che cosa rappresentava per un intellettuale chiuso in un ghetto o in un
campo il fatto di comporre, suonare, scrivere, recitare? Era una domanda
che si posero ad esempio quanti, nel ghetto di Vilnius nel 1942 coprirono i
manifesti che annunciavano i primi concerti che si tennero nel ghetto con la
scritta: «Nei cimiteri non si canta». Alcune di queste motivazioni le
conosciamo, come nel caso del giovane storico Emmanuel Ringelblum, il
cui gruppo di ricercatori raccolse e seppellì testimonianze scritte e diari:
testimoniare, andare oltre la morte.
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E forse quello che ci si proponeva era, per tutti, un andare oltre la morte:
uscire dalle gabbie in cui i nazisti avevano rinchiuso i loro corpi, per
affermare alta la libertà del proprio spirito, per continuare ad esprimere
vitalità e forza creativa. Oppure, come nell’interpretazione di Polanski nel
film Il pianista, una fuga dalla realtà, tanto irreale che il pianista non può
neanche, suonando, toccare realmente i tasti del suo pianoforte?
Wladislav Szpilman , il pianista ebreo polacco alle cui memorie Polanski si
è ispirato, è sopravvissuto alla Shoah, è morto tanti anni dopo compositore
e musicista riconosciuto. Ma per quanti invece non sono sopravvissuti, per
quelle vite troncate a metà, quanta musica non è stata composta, quanti
poemi non sono stati scritti! Ma anche di quanto è stato realizzato in quelle
situazioni estreme, molto spesso si è perduta memoria. Tante opere
musicali non hanno potuto materialmente essere messe sulla carta, tante
altre sono andate smarrite.
È per riparare a questa perdita, una riparazione al tempo stesso
ricostruzione critica rigorosa e affettuosa riparazione morale, che nel 1991
un giovane pianista e compositore pugliese, Francesco Lotoro, ha iniziato a
raccogliere la musica concentrazionaria, a radunare materiali e documenti,
a parlare con i sopravvissuti e con i discendenti dei musicisti assassinati, a
suonare la musica dei campi, a dirigerla. Un lavoro di ricerca immane e
difficilissimo, anche perché portata avanti nel disinteresse totale delle
istituzioni, che poco a poco ha delineato un paesaggio sempre più mosso,
una messe di opere sempre più fitta, che ha fatto riemergere, accanto ai
lavori già entrati nel repertorio concertistico, composizioni
straordinariamente importanti e finora sconosciute.
•Lotoro ha raccolto anche la musica composta su imposizione
dei comandanti dei campi, quella suonata dalle orchestre dei
prigionieri per allietare i loro aguzzini: i canti e i brani composti
per sottolineare i vari momenti della vita del campo, fino alle
impiccagioni che erano sempre accompagnate, come anche nel
gulag sovietico, dall’orchestrina dei prigionieri. Si è giunti così
alla raccolta di quattromila opere musicali, oltre a migliaia di
documenti e a moltissime registrazioni del tempo. Il lavoro di
raccolta ed esecuzione si è realizzato a Foggia, dove Lotoro ha
creato l’Istituto Musica Judaica e dove si è avvalso per le
esecuzioni, in gran parte realizzate direttamente da lui, della
collaborazione dei migliori musicisti pugliesi. È nato uno
straordinario archivio, l’Archivio
musicale dei ghetti e dei campi, il cui catalogo è consultabile on
line. Nel 2007, la casa editrice Musikstrasse ha iniziato la
pubblicazione dell’intera produzione musicale raccolta. Alla fine
dell’opera, prevista per il 2010, saranno pubblicati 32 Cd, che
presenteranno un’enciclopedia completa di tutta la musica
concentrazionaria, intendendo il termine nel suo senso più
ampio, la produzione musicale cioè di qualunque genere
realizzata tra il 1933 e il 1945 «in tutti i campi di prigionia,
transito, concentramento e sterminio da musicisti imprigionati o
deportati o uccisi o sopravvissuti da qualsiasi contesto
nazionale, sociale o religioso». Una musica, quindi, non solo di
ebrei, anche se prevalentemente ebraica. Un lavoro
straordinario, che ricostruisce un tassello vitale e creativo della
storia della Shoah e che ci permette di concludere che, forse, nei
cimiteri si può anche suonare.
È possibile fare cultura «durante» Auschwitz? La ricerca
compiuta dimostra che sì, è possibile resistere spiritualmente
Qual era il suono della Shoah? Il silenzio lugubre dei campi
squarciato dagli urli delle sirene, dall´abbaiare dei cani e delle SS,
dallo sferragliare dei treni… Il gracchiare degli altoparlanti diffonde
musica da ballo per dare la sveglia o avviare al lavoro forzato;
esistono perfino orchestre, nei Lager: gli stessi prigionieri sono
costretti ad accompagnare verso la morte i propri parenti, i propri
fratelli.
Ci fu un luogo quasi irreale, però, in cui risuonava musica vera, la grande musica:
Mozart, Verdi, Puccini, perfino il jazz "degenerato"; questo luogo era Theresienstadt,
ex cittadella imperiale situata nelle vicinanze di Praga, trasformata dai nazisti in
ghetto-modello nel 1941 per "ospitare" i decorati della Prima Guerra Mondiale e
soprattutto numerosi artisti. Lì venne rappresentata per circa cinquanta volte l´operina
Brundibár, del ceco Hans Krása, che La Scuola all´Opera riproporrà al pubblico dei più
giovani in occasione del Giorno della Memoria. Già lo scorso anno l´opera suscitò
l´interesse e la commozione di centinaia di ragazzi, grazie anche al delizioso
allestimento e alla bravura dei bambini del Coro di voci bianche del Teatro Regio e del
Conservatorio, accompagnati da un duo pianoforte-fisarmonica.
La delicata vicenda ripropone l´eterna lotta tra il Bene e il Male, in cui i piccoli Pepíc?ek e Aninka
(Hänsel e Gretel in versione cittadina) sono impegnati a crescere in un mondo di adulti disattenti o
crudeli, tra i quali il perfido Brundibár, suonatore di organetto capace di manovrare il pubblico
come un esperto incantatore, rappresenta il terribile dittatore che nella fiaba esce sconfitto dal
coraggio e dalla solidarietà dei piccoli innocenti. L´opera, scritta per e con i bambini, nasce nel
1938 in una Praga ancora libera ma già presaga dell´immane tragedia; gli eventi di lì a poco
precipitano: i nazisti invadono la città e la nazione, gli ebrei sono deportati, deflagra la Seconda
Guerra Mondiale. Krása e molti altri artisti praghesi non vengono immediatamente divorati dalla
macchina di distruzione, passano prima da Theresienstadt, dove la condizione dei prigionieri è
sotto i livelli di sopravvivenza, ma vengono incredibilmente incentivate dagli stessi aguzzini le
attività artistiche, il teatro, la musica, la pittura… semplicemente per il cinico gusto di veder
"danzare sul precipizio" coloro che sono destinati invece alla "soluzione finale".