Essere e divenire: come si diventa
ciò che si è
Dr. Domenico Bocale
«Come si diventa ciò che si è»
- F. Nietzsche -
La filosofia come un essere vivente
Si potrebbe paragonare la
nascita della filosofia a
quella di un organismo
vivente che ha messo le
sue radici in Grecia e
ha vissuto per oltre
2500 anni e che vive
tutt'ora. Questo essere
vivente immortale è
quello
che
noi
chiamiamo filosofia.
Perché non crediamo più al
racconto mitico delle origini?
Perché è venuta meno la
convinzione che in quel
racconto ci fosse la
VERITÀ.
Che cos'è la verità?
“Verità” è un termine di cui abusiamo nel descrivere
qualsiasi avvenimento. Dalla cronaca alla politica,
fino all'indiscrezione e al pettegolezzo.
Da dove viene la verità?
“La tensione per la verità è la nascita della
filosofia”.
- Emanuele Severino -
Il significato radicale di questa parola coincide con
il senso stesso della ricerca razionale sulla vita e sui
fenomeni della natura.
Il mondo ludico
Nel mondo ludico delle
origini, in cui non è
ancora arrivata la
chiarezza intellettuale,
gli uomini sono ancora
un pò come bambini.
Sono dei sognatori, non
hanno un metro
comune per misurare il
mondo.
Il mondo comune
Come siamo riusciti a
descrivere un mondo
che appare comune a
tutti gli uomini?
Innanzitutto definendo le
caratteristiche
dell'essere, cioè di ciò
con cui noi abbiamo a
che fare e con cui
inevitabilmente
entriamo in relazione.
L' “essere” come parola chiave.
“Essere” è una parola chiave della filosofia
occidentale. È il modello culturale da cui dipende
l'orientamento della nostra vita.
“Essere” è la misura di tutte le cose e di tutto ciò che
noi effettivamente possiamo incontrare nel mondo
o a cui diamo il valore di realtà, fosse pure soltanto
una realtà ideale o immaginaria.
Le idee esistono perché esiste una nozione come
quella di essere.
“Anche colui che ama il mito è, in certo qual modo,
filosofo”
- Aristotele -
Il mito.
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Deriva dal greco “mythos”, racconto, che in Omero
significa “parola e discorso” ma anche “progetto e
macchinazione”, produzione, invenzione,
narrazione sacra di gesta e origini di dei e di eroi.
Nel pensiero filosofico “mythos”, in quanto
discorso che non necessita di dimostrazione, fu
contrapposto a “logos” nel senso di
argomentazione razionale.
L'uomo mitico.
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Produce il racconto su come stanno le cose e non
vive questo racconto come una favola ma come
una realtà, da cui dipende.
Il mito è quell'insieme di prospettive che guidano
fin dall'inizio la vita dell'uomo, inventando un
senso divino del mondo da cui esso si sente difeso
dalla minaccia del dolore, dell'infelicità e della
morte.
Si tratta di trovare un rimedio.
L'uomo poetico.
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Nel racconto mitico l'uomo è poetico.
Il poeta, dal greco “poietes”, è colui che fa, che
crea, che produce.
Il mito infatti è questo misto di invenzione,
produzione e racconto meraviglioso, dettato dalla
paura e dallo stupore difronte ai fenomeni della
natura. Non potendo dimostrare le cause, gli
uomini delle origini attribuirono la loro esistenza
ad azioni e volontà di figure simili a quella umana
ma molto più potenti.
Il mito del fuoco.
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In questo modo nasce il
mito del fuoco, donato
agli uomini da un Dio
buono per aiutarli a
svolgere la vita
quotidiana.
Meraviglia e stupore.
“Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora
come in origine, a causa della meraviglia”
- Aristotele -
Aristotele dice:
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La filosofia nasce da “thaûma”, è lo stupore che
nasce quando ci troviamo difronte a qualcosa di
cui ignoriamo le cause.
Il sentimento di meraviglia è una traduzione
debole di “thaûma”.
La filosofia nasce dalla paura, dallo
sconvolgimento totale dell'uomo difronte al terrore
della morte, dell'infelicità e del dolore.
(Cfr. E. Severino)
L'uomo filosofico.
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A un certo punto l'uomo non si accontenta più del
racconto mitico.
L'atteggiamento dell'uomo mitico per il filosofo è
quello di colui che difronte al terrore della realtà
sogna una soluzione.
I primi filosofi greci vogliono uscire dal sogno e
guardare la realtà con chiarezza, in piena luce,
affinché il rimedio contro la morte e il dolore sia
un vero rimedio.
(Cfr. E. Severino)
La chiarezza intellettuale è quella
che noi diciamo: filosofia.
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Filosofia, è tradotto comunemente con
l'espressione “amore della sapienza”. Si tratta di
una traduzione debole, che ha il sapore di parole
dolciastre, che non si addicono alla forza di chi
deve affrontare il problema della morte.
Filosofia, dal greco philosophia, è un termine
composto da philos che vuol dire amico e sophia,
da saphès, imparentato con la parola phòs, che
significa luce.
(Cfr. E. Severino)
Il sapere filosofico
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E' ciò che sta in luce in
modo incontrovertibile.
La filosofia è anche teoria.
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Teoria, dal greco theoria, vuol dire innanzitutto
“festa”, come contemplazione della cerimonia
salvifica e poi nel greco ellenistico, assume il
significato proprio di osservazione speculativa.
Entrambe le accezioni sono accomunate dal
significato intermedio di “contemplazione”. Infatti
nella festa l'uomo celebra la propria capacità di
salvarsi dal dolore e dalla morte. Quando con la
filosofia l'uomo smette di sognare, la teoria diventa
“contemplazione” di ciò che sta in luce in modo
incontrovertibile.
(Cfr. E. Severino)
Teoria vuol dire anche sguardo
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Lo sguardo
genealogico di chi
penetrando l'oscurità
consente di mettere in
luce ciò che si
nasconde al senso
comune.
Il problema della verità.
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In greco la ricerca della verità è resa con la parola
Alètheia, che vuol dire non-nascosto e quindi in
luce.
La verità è quindi l'essere non nascosto delle cose
ma non basta, poiché essa è anche ciò che si
impone nella sua luminosità accecante.
Da qui deriva l'incontrovertibilità di ciò che sta in
luce.
(Cfr. E. Severino).
La verità e l'episteme
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Alètheia, presa da sola non restituisce il significato
completo della parola “verità”.
E. Severino dice: «la verità è il non essere
nascosto delle cose imponendosi, essendo qualcosa
che non può essere smentito. Questa non
smentibilità è indicata della parola episteme».
Occorre dunque tenere insieme i significati che
possiamo attingere dalle due parole: alètheia ed
episteme, composta da epi,sopra e histànai, esser
posto.
(Cfr. E. Severino).
La grandezza del sapere greco
“Una delle grandezze più strepitose del sapere greco
– in relazione alle quali la civiltà occidentale
continuerà a fare i conti - (…) consiste appunto
nell'aver evocato un tipo di sapere che (…) non può
essere smentito, né dal cambiamento dei tempi, né
dal cambiamento degli uomini ma nemmeno da un
Dio onnipotente. Non può esserci un Dio
onnipotente che riesca a smentire il sapere a cui i
greci aspirano e che chiamano appunto alètheiaepisteme”.
- E. Severino -
Il problema dell'archè
È il principio della totalità di tutte le cose. I primi
filosofi hanno indicato in una phýsis (natura), la
matrice di tutte le cose. Nella molteplicità delle
cose c'è qualcosa di identico, di comune, che si
abbraccia con uno sguardo sinottico, che ci rende
capace di vedere l'insieme. È necessario che le cose
mostrino qualcosa di identico che gli accomuna,
laddove il mito guarda la parte la filosofia guarda il
tutto.
Parmenide e il nulla
Parmenide definendo per primo le caratteristiche
dell'essere, identifica al tempo stesso anche il nulla
come non-essere. L'essere è, il nulla non è.
In questo modo Parmenide ci aiuta a pensare per la
prima volta all'enorme distanza che c'è tra ciò che è
e l'assolutamente nulla, contrapposto alla totalità
delle cose.
Qui il nulla acquista una radicalità che si farà sempre
più drammatica nella storia del pensiero
occidentale.
(Cfr. E. Severino).
La vita e il nulla
Il rapporto che c'è tra queste due parole è chiaro ed
evidente a partire da un insieme di forze coessenziali. Non si tratta di una semplice invenzione
teorica, è piuttosto l'opera della “ragione” che
fotografa quello che siamo.
«Crediamo che sia la stessa cosa morire senza sapere
alcunché del nulla e invece morire, sapendo e
credendo che la morte sia un andare nel nulla e
dunque in ciò da cui non c'è ritorno?».
- E. Severino -
La responsabilità della filosofia
La filosofia si fa carico della responsabilità che si
produce «quando si pensa che il morire sia un
andare là dove non c'è ritorno, perché si è diventati
niente.
La filosofia è responsabile dell'emersione di questo
significato terrificante che è il nulla».
- E. Severino -
Il pericolo dei pericoli
“La filosofia espone
dunque al massimo dei
pericoli, cioè il pericolo
che il dolore e la morte
sia in ultima analisi un
cadere nel nulla”
- E. Severino -
Il sommo rimedio
Il senso della ricerca filosofica è quello di trovare un
rimedio che sia costituito da ciò che non è
sottoposto a morte poiché è sempre salvo dal nulla.
Da qui deriva l'espressione di Aristotele
«dell'essere sempre salvo». Al di là dell'etere,
dell'acqua, della terra e del fuoco c'è un essere
sempre salvo che è la totalità del tutto. Si tratta di
un essere che non sottostà alla vicenda dello
sporgere dal nulla che è la vicenda propria delle
cose.
(Cfr.
Severino).
E.
La verità incontrovertibile
“l'essere è, il non essere non è”
- Parmenide Le conseguenze di questo principio si fanno
immediatamente drammatiche.
Le molte cose che conosciamo non
significano l'essere
Il non essere
Nessuna delle molte cose può significare l'essere del
tutto.
Questo significa che è impossibile che il mondo sia.
(Cfr.
Severino).
E.
Il mondo e l'essere
Il mondo è opinione (dòxa) illusoria, l'essere è verità
incontrovertibile e dunque incompatibile con la
varietà delle cose del mondo poiché «simile alla
forma di una ben rotonda sfera», (cfr. Parmenide)
non divisibile in parti.
L'esistenza dell'illusione
Parmenide dice chiaramente che il mondo è illusione
ma non dice che il mondo come illusione non
esiste. Qui Parmenide ci mette sulla strada del
superamento di se stesso. Se l'illusione in cui noi
viviamo è un'illusione scavata nella nostra carne
nella misura in cui viviamo nel mondo e se
l'illusione quindi esiste, allora ecco che viene
smentito il principio parmenideo per il quale solo
l'essere è. Parmenide contraddice se stesso
riconoscendo l'esistenza dell'illusione.
(Cfr E. Severino).
La frantumazione della verità
La verità si trova così ad essere frantumata tra il
principio che l'essere non è il nulla e il “divenire”
di tutte le cose.
Non esiste più la verità ma esistono le verità, ognuna
delle quali rivendica il carattere di evidenza. Quello
che è rilevante è che ognuna delle verità dice
l'opposto di quella che dice l'altra. La stessa cosa si
tratterà in Platone e Aristotele.
La filosofia si divide in due grandi
famiglie: essere e divenire
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La nozione che solo l'essere è, sostiene l'apparenza
illusoria di tutte le cose, poiché ciò che è eterno si
coglie con la mente e non con i sensi.
Con l'evidenza del divenire, si ritiene invece che se
le apparenze si manifestano in un determinato
modo, occorre fornire la ragione delle apparenze
vissute realmente in carne e ossa.
L'angoscia della morte
La radice dell'angoscia si scatena nel momento in cui
affiora
alla
coscienza
l'inevitabilità
dell'annientamento di ogni cosa. A partire da questa
presa di coscienza il cristianesimo inaugura
“un'ontologia della possibilità”, in cui si vive la
propria esistenza come un semplice luogo di
passaggio e dunque la morte diventa attesa, più o
meno angosciata per la speranza di poter risorgere
nell'al di là eterno e migliore dell'al di qua
effimero. Da questo punto di vista la religione
cristiana ha costituito un potente e raffinato
apparato dottrinario, per molti aspetti debitore
dell'antica filosofia.
Il nichilismo
Le molte cose viventi, sono pensate come un pendolo
oscillante fra l'essere e il nulla. Solo a partire da
questa conoscenza possiamo dominare le cose. La
radice di ogni potere consiste nel credere che le
cose non siano eterne. Non a caso Zygmunt
Bauman definisce la nostra società in termini di
liquidità, immersa nel continuo divenire delle cose
assolutamente precario e contingente. Alla base di
tutto ciò esiste l'antica convinzione che le cose
sono provvisoriamente emergenti dal nulla.
(Cfr. E. Severino).
Leopardi: maestro del nichilismo
Leopardi pensa il concetto di “divenire” con estrema
evidenza. Tuttavia, esplorando a fondo le radici di
questo pensiero, ne ricava l'esperienza della
contraddizione dell'essere. L'essere in quanto tale è
contraddittorio in quanto assume i caratteri propri
del divenire.
«La verità è l'esistenza della contraddizione».
- E. Severino -
Il crollo del pensiero occidentale
Il crollo del pensiero occidentale coincide con l'atto
stesso della ricerca. È la conoscenza che ci porta
inevitabilmente su questa strada dove la «trama
eternitaria delle idee fisse» (E. L. Petrini) e
incontrovertibili, costruite intorno al concetto di
“essere eterno”, si trova ad essere così frantumata e
assume i caratteri propri del “divenire”. Dunque il
pensiero sulla “frammentarietà dell'essere” diventa
la conseguenza coerente e necessaria, che porta a
compimento ciò che è posto a fondamento della
tradizione filosofica occidentale.
(Cfr. E. Severino).
L'inevitabilità del tramonto
«Mostrando l'inevitabilità del tramonto della
tradizione occidentale Leopardi mostra dunque che
il contenuto della verità è l'annientamento e
l'annientabilità di ogni cosa, e che quindi la verità
non è rimedio, ma, all'opposto la radice
dell'angoscia. (…) Per il “genio” l'unica possibile
forma di rimedio è l'unione della verità, ossia della
visione del nulla annientante, alla poesia, cioè
all'ultima illusione che consente di reggere lo
spettacolo terribile della verità».
- E. Severino -
“Sola nel mondo eterna”
- G. Leopardi -
Il deserto senza limiti
La poesia non solo ha la forza di guardare il deserto
ma è anche capacità di rompere ogni limite della
conoscenza attraverso il potere della visione
immediata. Poesia è capacità di intuire
l'impossibile: è la possibilità di intuire la morte
come l'infinito che opera all'interno della stessa
vita.
La vita è stupenda e meravigliosa
Parlano i morti:
l'esistenza suscita meraviglia e stupore (thaûma)
anche agli occhi di che ha raggiunto il punto più
alto del sapere. Al culmine della saggezza
l'esistenza appare come ciò che non ha un perché.
Priva di qualsiasi fondamento la vita risulta essere
insolita e dunque stupenda.
La naturalità della morte
I morti prendono la parola e non ignorano le cause
della morte e del nulla (che invece suscitano lo
stupore dei vivi). Dunque la espongono con una
certa sicurezza:
“Sola nel mondo eterna, a cui si volve
ogni creata cosa,
in te, morte, si posa;
nostra ignuda natura;
lieta no, ma sicura
dall'antico dolor.”
- G. Leopardi -
L'evidenza della contraddizione
La coscienza della contraddizione dell'esistenza in
quanto tale, risulta chiara e distinta nella visione
immediata della poesia. La prospettiva dei vivi si
trova ad essere rovesciata. Per noi vivi la morte
continua ad essere l'oggetto dello stupore, poiché
ne ignoriamo le cause. Non possiamo esperire la
morte se non sprofondando nel nulla.
Qui la poesia del genio (Leopardi) ci spiazza, dal
momento che ci mette difronte a chi ha esperito la
morte in prima persona direttamente sulla propria
pelle. I morti narrano l'apparenza illusoria della
conoscenza dei vivi.
La tradizione filosofica
Per la tradizione filosofica lo stupore e la meraviglia
che si scatena negli uomini quando ignorano le
cause di ciò che accade, si dissolve quando si
raggiunge il “culmine della sapienza”(saphès) che
mostra ciò che non può essere smentito: l'essere
eterno da cui si emana tutto ciò che a noi si
manifesta.
Nel “coro di morti” solo il nulla è eterno, ragione per
cui l'esserci delle cose suscita meraviglia e la vita
improvvisamente ci appare come «cosa arcana e
stupenda» del tutto priva di causa.
L'essere dell'ente
“Il nulla da cui l'essere proviene non differisce dal
nulla in cui l'essere si posa”.
- E. Severino L'esserci di ogni ente è nulla rispetto all'eternità del
suo non essere. Ogni cosa esistente trova un limite
nel suo volgersi verso la morte. Solo il nulla da cui
tutto proviene e verso cui tutto ritorna è senza
limiti e infinito e nessuna cosa esistente può
limitare l'eternità del nulla.
“Nascere è più terribile, più violento e più assurdo che
morire; l'esplosione della materia nel Big Bang, che si
diffonde con inauditi cataclismi per creare innumerevoli
vite effimere e dolorose, è più spaventosa della lenta
entropia in cui forse alla fine si spegnerà dolcemente e
stancamente, l'universo (...). Anche la nascita del
bambino espulso dal ventre materno è un'irruzione nel
mondo più sconvolgente, più inconcepibile dell'uscita
dal palcoscenico alla fine dello spettacolo. L'arte, in
quanto creazione, partecipa di questa violenza, di
questo squarcio insito in ogni atto generativo che estrae
qualcosa dal nulla, che stupra il non-essere, il nulla. Un
libro (…) che forza il niente a divenire essere”.
(Claudio Magris, Lo stupro del nulla, «Corriere della sera», 6 / 4 / 2003).
Perché esistiamo?
L'esistenza può trovare una ragione solo nel gioco, che
si mostra nella sua innocenza, svincolata da fini o
scopi legati a un ordine prestabilito ma è piuttosto
esplorazione e movimento gioioso.
Il gioco è spontaneità creativa attraverso cui le cose
giungono all'esistenza per caso.
«Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un
giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto,
un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione,
fratelli, occorre un sacro dire di sì».
- F. Nietzsche -
L'esistenza è relazione giocosa
Il gioco stupendo del divenire fa sì che il nulla possa
incontrarsi con l'essere, da cui scaturisce
quell'«arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza
universale» dimostrato dalla suprema «fatale e
sensibile evidenza» (G. Leopardi, P. 141).
Le cose nascono e si creano da un incontro casuale
degli opposti (l'essere e il nulla) ed è il gioco
stupendo del divenire «che forza il niente a
divenire essere» (C. Magris).
La vita porta con sé il marchio della contraddizione.
Il mistero della vita
La vita è un segreto nascosto dal gioco stupendo del
divenire e in quanto tale, non può ricevere alcuna
spiegazione. Il suo mistero si può solo intuire
attraverso la metafora del gioco, che non ha cause
necessarie. Nella domanda: «Che fummo?/ Che fu
quel punto acerbo/ che di vita ebbe nome?», non
possiamo trovare alcuna risposta al di là del modo
in cui è formulata la domanda, dal momento che
non esiste una risposta.
Dal nulla non possiamo dedurre alcuna ragione che
mostri la necessità dell'esistenza ma solo la sua
possibilità di “divenire” , incominciare ad essere.
L'imprevedibilità della vita
La vita è imprevedibile e nessun ordine necessario
può forzare questa imprevedibilità e imporsi come
modello. Ciò che si forma ha bisogno di cambiare
continuamente e dunque non può essere in
relazione all'eterno, immutabile e sempre identico
ma diviene nel rapporto con l'altro e con il mondo,
che a sua volta diviene. Essendo l'esistenza nata per
caso, non può esistere una relazione originaria e
assoluta, a cui tutto si misura e si adegua secondo
un ordine necessario, che esclude la relazione con
le cose del mondo in quanto vincolata da un
legame eterno.
La mutevole evidenza del divenire
«L'evidenza del divenire cancella le ultime tracce
dell'episteme».
(Cfr. E. Severino).
Quando noi giudichiamo l'essere assolutamente
perfettissimo, questa perfezione vale solo per noi
occidentali, per altri popoli questo non vale e
dunque non può esistere una perfezione assoluta
ma relativa.
L'essere è immerso nel divenire
L'esperienza insegna «che le cose stanno così, perché
così stanno, e non perché così debbano
assolutamente stare». (P. 1339 Leopardi).
Ecco la Palinodia leopardiana: la totalità del
“divenire” è la ragione di tutte le cose. Si tratta di
un vero e proprio “platonismo rovesciato”. Nel
dimostrare questa tesi Leopardi non si serve del
ragionamento ipotetico-deduttivo. Egli mostra
direttamente il principio fondamentale: l'evidenza
innegabile del divenire. Se esistesse l'essere eterno,
il divenire sarebbe impossibile e verrebbe negata
l'innegabile evidenza.
(Cfr. E. Severino).
L'essere eterno come superba
pretesa
«Vale a dire che un primo e universale principio delle
cose, o non esiste, né mai fu, o se esisté non lo
possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi
né potendo avere il menomo dato per giudicare
delle cose, avanti le cose, e conoscerle al di là del
puro fatto reale». (G. Leopardi, P. 1341).
Pretendere di vedere chiaramente in modo luminoso
e trasparente alla ragione ciò che viene prima o
dopo la nostra esistenza sensibile è il frutto di una
superba presunzione dell'animo umano, che è
comunque destinata a fallire ogni sua pretesa. (Cfr. E.
L. Petrini).
La sfuggente verità
La verità nel suo complesso resta sfuggente a
qualsiasi forma di cattura, è questa la cifra
filosofica propria di Jankélévithc, che tiene sempre
la distanza di sicurezza da qualsiasi tesi che rischia
di diventare una nuova fede oppure una risposta
definitiva, con la pretesa della verità in tasca.
Occorre demolire ogni atteggiamento conoscitivo
che approda verso una conoscenza certa e
indubitabile, soprattutto quando si affronta un
problema come quello della morte.
Che cosa possiamo conoscere?
L'uomo non riuscirà mai a rispondere alla domanda
sull'essere, né tantomeno ha senso che l'uomo si
faccia custode di questa domanda, per cercare di
capire da dove proviene la realtà effettiva dentro la
quale viviamo. Il perché delle cose si sottrae alle
nostre parole.
Occorre usare una ragione decostruttiva e mostrare
come l'essere immemorabile di tutte le cose è
propriamente «non essere». L'esistenza è un
mantenersi in «equilibrio instabile» sul nulla
nascosto all'interno della nostra stessa vita. (Cfr.
Jankélévitch).
La morte come inossidabile
ragionamento
Fin dai tempi più remoti della nostra cultura, l'uomo
occidentale accetta la morte razionalmente ma poi,
si lusinga, trascinando nel futuro indefinito quella
certezza. Accetta la morte ma al tempo stesso se ne
allontana. Si tratta di quel marchio universale che
vale per tutti ma non tocca nel vivo di nessuno.
Siamo difronte a un sillogismo perfetto: «tutti gli
uomini sono mortali, Tizio è un uomo, dunque
Tizio è mortale». Fin qui va tutto bene, l'importante
è che quel Tizio non diventi mai l'Io nella forma
della prima persona.
Sull'immortalità dell'anima
Il potere della decostruzione in Jankélévithc è molto
forte e dice chiaramente che non si può dimostrare
alcuna conservazione o persistenza dell'anima, dal
momento che lei opera in «simbiosi indivisa» con il
corpo. Dunque l'anima senza il corpo perde la sua
stessa ragione di essere. Ecco perché la morte è una
tragedia che non si può aggirare.
(Cfr. E. L. Petrini).
La pienezza della finitudine
Altrettanto spietata è la critica di Jankélévithc nei
confronti dell'epicureismo e dello stoicismo,
entrambi appiattiti sul semplificante e rassicurante
ciclo della finitudine. La morte è naturale quanto la
pioggia in autunno e il freddo in inverno. Questa
strategia concettuale è specularmente opposta a
quella dell'immortalità dell'anima.
Entrambe le posizioni sono fondate su un ottimismo
di fondo che rifiuta di riconoscere “la cosa stessa”
(la morte) come un problema paradossale.
Modernità e ottimismo
L'ottimismo di fondo attraverso cui il pensiero
occidentale ha affrontato il problema della morte
scavalcherà molti secoli e approderà comodamente
nell'età moderna, dove sotto forma di
«trasformazionismo» si negherà il problema della
morte da Spinoza a Leibniz fino Bergson.
Quest'ultimo nell'Evoluzione creatrice nega la
morte in funzione di un vitalismo capace di
riassorbire al suo interno ogni singola morte
individuale. Questo per Jankélévithc significa che
tutto è vita e ancora una volta si cerca di
anestetizzare il problema della morte. (Cfr. E. L. Petrini).
La morte abita dentro di noi
«È la vita stessa, dunque, che porta in sé la propria
contraddizione interna».
- V. Jankélévithc -
La propria vita e la propria morte
La vita assume la propria forma solo in relazione alla
morte come connessione indivisibile di vita e di
morte. Una vita a cui sia tolta la sua «propriamorte» non è più vita umana (con i propri ricordi,
con le proprie emozioni, con i propri limiti e
confini) ma è un puro processo biologico.
Qui si apre il paradosso
La vita, quella che riteniamo essere il nostro dono
primario, è ricevuto insieme alla morte che opera al
suo interno, questo significa che non possiamo mai
impossessarci di ciò che propriamente ci
costituisce. La morte abita dentro di noi e questo
significa che «non si muore di malattia, ma della
propria morte» che accade sempre in modo
imprevedibile e dunque «inappropriante». Non
possiamo mai essere i custodi dell'essere né
tantomeno dell'«assolutamente altro», che resta
inaccessibile. La morte è lo «specchio opaco del
quaggiù» che effettivamente viviamo.
(Cfr.V. Jankélévitch)
L'unica forma di sapienza “immortale” concessa
all'uomo, che va al di là della piatta apparenza, non
può ricavarsi dalla descrizione di una trascendenza
mitico-religiosa, né tantomeno dal sogno di
un'infinita «corrente vitale» e immanente.
L'immortalità possibile coincide con la testimonianza
unica e irripetibile del nostro vissuto, che solo in
relazione alla “morte” assume quel carattere di
unicità dell'«esser-stato».
«Chi è stato, non può più ormai non esser-stato:
ormai questo fatto misterioso e profondamente
oscuro di aver vissuto è il suo viatico per l'eternità».
- V. Jankélévithc -
Bibliografia di riferimento
Parmenide, frammenti B 1, B 2 e B 3, in I presocratici, testimonianze e frammenti nella raccolta di
H. Diels e W. Kranz, a cura di Giovanni Reale, ed. Bompiani, Milano 2006.
Aristotele, Metafisica, A 2, 982 b 12- 19, a cura di Giovanni Reale, ed. Bompiani, Milano 2004.
G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di Giuseppe Pacella, ed. Garzanti, Milano 1991.
G. Leopardi, Operette morali a cura di Antonio Prete, ed. Feltrinelli, Milano 2003.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, un libro per tutti e per nessuno, a cura di Giorgio Colli e
Mazzino Montinari, ed. Adelphi, Milano 2000.
F. Nietzsche, Ecce Homo, come si diventa ciò che si è, a cura di Roberto Calasso, ed. Adelphi,
Milano 2004.
V. Jankélévitch L'Irréversible et la Nostalgie, Flammarrion, Paris 1974, ora in introduzione di E. L.
Petrini a V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino 2009.
V. Jankélévitch, La morte (1977), a cura di Enrica Lisciani Petrini, ed. Einaudi, Torino 2009.
V. Jankélévitch, Quelque part dans l'inachevé, Gallimard, Paris, 1978, ora in introduzione di E. L.
Petrini a V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino 2009.
Bibliografia di riferimento
E. Severino, Cosa arcana e stupenda, L'occidente e Leopardi, ed. Bur, Milano 2006.
E. Severino, I presocratici e la nascita della filosofia, ed. l'Espresso, anno VI – n. 14, Roma
2009.
C. Magris, Alfabeti, saggi di letteratura, ed. Garzanti, Milano 2008.
E. L. Petrini, Perché noi siamo solo la buccia e la foglia... introduzione a V. Jankélévitch, La
morte, Einaudi, Torino 2009.