Essere e divenire: come si diventa ciò che si è Dr. Domenico Bocale «Come si diventa ciò che si è» - F. Nietzsche - La filosofia come un essere vivente Si potrebbe paragonare la nascita della filosofia a quella di un organismo vivente che ha messo le sue radici in Grecia e ha vissuto per oltre 2500 anni e che vive tutt'ora. Questo essere vivente immortale è quello che noi chiamiamo filosofia. Perché non crediamo più al racconto mitico delle origini? Perché è venuta meno la convinzione che in quel racconto ci fosse la VERITÀ. Che cos'è la verità? “Verità” è un termine di cui abusiamo nel descrivere qualsiasi avvenimento. Dalla cronaca alla politica, fino all'indiscrezione e al pettegolezzo. Da dove viene la verità? “La tensione per la verità è la nascita della filosofia”. - Emanuele Severino - Il significato radicale di questa parola coincide con il senso stesso della ricerca razionale sulla vita e sui fenomeni della natura. Il mondo ludico Nel mondo ludico delle origini, in cui non è ancora arrivata la chiarezza intellettuale, gli uomini sono ancora un pò come bambini. Sono dei sognatori, non hanno un metro comune per misurare il mondo. Il mondo comune Come siamo riusciti a descrivere un mondo che appare comune a tutti gli uomini? Innanzitutto definendo le caratteristiche dell'essere, cioè di ciò con cui noi abbiamo a che fare e con cui inevitabilmente entriamo in relazione. L' “essere” come parola chiave. “Essere” è una parola chiave della filosofia occidentale. È il modello culturale da cui dipende l'orientamento della nostra vita. “Essere” è la misura di tutte le cose e di tutto ciò che noi effettivamente possiamo incontrare nel mondo o a cui diamo il valore di realtà, fosse pure soltanto una realtà ideale o immaginaria. Le idee esistono perché esiste una nozione come quella di essere. “Anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo” - Aristotele - Il mito. Deriva dal greco “mythos”, racconto, che in Omero significa “parola e discorso” ma anche “progetto e macchinazione”, produzione, invenzione, narrazione sacra di gesta e origini di dei e di eroi. Nel pensiero filosofico “mythos”, in quanto discorso che non necessita di dimostrazione, fu contrapposto a “logos” nel senso di argomentazione razionale. L'uomo mitico. Produce il racconto su come stanno le cose e non vive questo racconto come una favola ma come una realtà, da cui dipende. Il mito è quell'insieme di prospettive che guidano fin dall'inizio la vita dell'uomo, inventando un senso divino del mondo da cui esso si sente difeso dalla minaccia del dolore, dell'infelicità e della morte. Si tratta di trovare un rimedio. L'uomo poetico. Nel racconto mitico l'uomo è poetico. Il poeta, dal greco “poietes”, è colui che fa, che crea, che produce. Il mito infatti è questo misto di invenzione, produzione e racconto meraviglioso, dettato dalla paura e dallo stupore difronte ai fenomeni della natura. Non potendo dimostrare le cause, gli uomini delle origini attribuirono la loro esistenza ad azioni e volontà di figure simili a quella umana ma molto più potenti. Il mito del fuoco. In questo modo nasce il mito del fuoco, donato agli uomini da un Dio buono per aiutarli a svolgere la vita quotidiana. Meraviglia e stupore. “Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia” - Aristotele - Aristotele dice: La filosofia nasce da “thaûma”, è lo stupore che nasce quando ci troviamo difronte a qualcosa di cui ignoriamo le cause. Il sentimento di meraviglia è una traduzione debole di “thaûma”. La filosofia nasce dalla paura, dallo sconvolgimento totale dell'uomo difronte al terrore della morte, dell'infelicità e del dolore. (Cfr. E. Severino) L'uomo filosofico. A un certo punto l'uomo non si accontenta più del racconto mitico. L'atteggiamento dell'uomo mitico per il filosofo è quello di colui che difronte al terrore della realtà sogna una soluzione. I primi filosofi greci vogliono uscire dal sogno e guardare la realtà con chiarezza, in piena luce, affinché il rimedio contro la morte e il dolore sia un vero rimedio. (Cfr. E. Severino) La chiarezza intellettuale è quella che noi diciamo: filosofia. Filosofia, è tradotto comunemente con l'espressione “amore della sapienza”. Si tratta di una traduzione debole, che ha il sapore di parole dolciastre, che non si addicono alla forza di chi deve affrontare il problema della morte. Filosofia, dal greco philosophia, è un termine composto da philos che vuol dire amico e sophia, da saphès, imparentato con la parola phòs, che significa luce. (Cfr. E. Severino) Il sapere filosofico E' ciò che sta in luce in modo incontrovertibile. La filosofia è anche teoria. Teoria, dal greco theoria, vuol dire innanzitutto “festa”, come contemplazione della cerimonia salvifica e poi nel greco ellenistico, assume il significato proprio di osservazione speculativa. Entrambe le accezioni sono accomunate dal significato intermedio di “contemplazione”. Infatti nella festa l'uomo celebra la propria capacità di salvarsi dal dolore e dalla morte. Quando con la filosofia l'uomo smette di sognare, la teoria diventa “contemplazione” di ciò che sta in luce in modo incontrovertibile. (Cfr. E. Severino) Teoria vuol dire anche sguardo Lo sguardo genealogico di chi penetrando l'oscurità consente di mettere in luce ciò che si nasconde al senso comune. Il problema della verità. In greco la ricerca della verità è resa con la parola Alètheia, che vuol dire non-nascosto e quindi in luce. La verità è quindi l'essere non nascosto delle cose ma non basta, poiché essa è anche ciò che si impone nella sua luminosità accecante. Da qui deriva l'incontrovertibilità di ciò che sta in luce. (Cfr. E. Severino). La verità e l'episteme Alètheia, presa da sola non restituisce il significato completo della parola “verità”. E. Severino dice: «la verità è il non essere nascosto delle cose imponendosi, essendo qualcosa che non può essere smentito. Questa non smentibilità è indicata della parola episteme». Occorre dunque tenere insieme i significati che possiamo attingere dalle due parole: alètheia ed episteme, composta da epi,sopra e histànai, esser posto. (Cfr. E. Severino). La grandezza del sapere greco “Una delle grandezze più strepitose del sapere greco – in relazione alle quali la civiltà occidentale continuerà a fare i conti - (…) consiste appunto nell'aver evocato un tipo di sapere che (…) non può essere smentito, né dal cambiamento dei tempi, né dal cambiamento degli uomini ma nemmeno da un Dio onnipotente. Non può esserci un Dio onnipotente che riesca a smentire il sapere a cui i greci aspirano e che chiamano appunto alètheiaepisteme”. - E. Severino - Il problema dell'archè È il principio della totalità di tutte le cose. I primi filosofi hanno indicato in una phýsis (natura), la matrice di tutte le cose. Nella molteplicità delle cose c'è qualcosa di identico, di comune, che si abbraccia con uno sguardo sinottico, che ci rende capace di vedere l'insieme. È necessario che le cose mostrino qualcosa di identico che gli accomuna, laddove il mito guarda la parte la filosofia guarda il tutto. Parmenide e il nulla Parmenide definendo per primo le caratteristiche dell'essere, identifica al tempo stesso anche il nulla come non-essere. L'essere è, il nulla non è. In questo modo Parmenide ci aiuta a pensare per la prima volta all'enorme distanza che c'è tra ciò che è e l'assolutamente nulla, contrapposto alla totalità delle cose. Qui il nulla acquista una radicalità che si farà sempre più drammatica nella storia del pensiero occidentale. (Cfr. E. Severino). La vita e il nulla Il rapporto che c'è tra queste due parole è chiaro ed evidente a partire da un insieme di forze coessenziali. Non si tratta di una semplice invenzione teorica, è piuttosto l'opera della “ragione” che fotografa quello che siamo. «Crediamo che sia la stessa cosa morire senza sapere alcunché del nulla e invece morire, sapendo e credendo che la morte sia un andare nel nulla e dunque in ciò da cui non c'è ritorno?». - E. Severino - La responsabilità della filosofia La filosofia si fa carico della responsabilità che si produce «quando si pensa che il morire sia un andare là dove non c'è ritorno, perché si è diventati niente. La filosofia è responsabile dell'emersione di questo significato terrificante che è il nulla». - E. Severino - Il pericolo dei pericoli “La filosofia espone dunque al massimo dei pericoli, cioè il pericolo che il dolore e la morte sia in ultima analisi un cadere nel nulla” - E. Severino - Il sommo rimedio Il senso della ricerca filosofica è quello di trovare un rimedio che sia costituito da ciò che non è sottoposto a morte poiché è sempre salvo dal nulla. Da qui deriva l'espressione di Aristotele «dell'essere sempre salvo». Al di là dell'etere, dell'acqua, della terra e del fuoco c'è un essere sempre salvo che è la totalità del tutto. Si tratta di un essere che non sottostà alla vicenda dello sporgere dal nulla che è la vicenda propria delle cose. (Cfr. Severino). E. La verità incontrovertibile “l'essere è, il non essere non è” - Parmenide Le conseguenze di questo principio si fanno immediatamente drammatiche. Le molte cose che conosciamo non significano l'essere Il non essere Nessuna delle molte cose può significare l'essere del tutto. Questo significa che è impossibile che il mondo sia. (Cfr. Severino). E. Il mondo e l'essere Il mondo è opinione (dòxa) illusoria, l'essere è verità incontrovertibile e dunque incompatibile con la varietà delle cose del mondo poiché «simile alla forma di una ben rotonda sfera», (cfr. Parmenide) non divisibile in parti. L'esistenza dell'illusione Parmenide dice chiaramente che il mondo è illusione ma non dice che il mondo come illusione non esiste. Qui Parmenide ci mette sulla strada del superamento di se stesso. Se l'illusione in cui noi viviamo è un'illusione scavata nella nostra carne nella misura in cui viviamo nel mondo e se l'illusione quindi esiste, allora ecco che viene smentito il principio parmenideo per il quale solo l'essere è. Parmenide contraddice se stesso riconoscendo l'esistenza dell'illusione. (Cfr E. Severino). La frantumazione della verità La verità si trova così ad essere frantumata tra il principio che l'essere non è il nulla e il “divenire” di tutte le cose. Non esiste più la verità ma esistono le verità, ognuna delle quali rivendica il carattere di evidenza. Quello che è rilevante è che ognuna delle verità dice l'opposto di quella che dice l'altra. La stessa cosa si tratterà in Platone e Aristotele. La filosofia si divide in due grandi famiglie: essere e divenire La nozione che solo l'essere è, sostiene l'apparenza illusoria di tutte le cose, poiché ciò che è eterno si coglie con la mente e non con i sensi. Con l'evidenza del divenire, si ritiene invece che se le apparenze si manifestano in un determinato modo, occorre fornire la ragione delle apparenze vissute realmente in carne e ossa. L'angoscia della morte La radice dell'angoscia si scatena nel momento in cui affiora alla coscienza l'inevitabilità dell'annientamento di ogni cosa. A partire da questa presa di coscienza il cristianesimo inaugura “un'ontologia della possibilità”, in cui si vive la propria esistenza come un semplice luogo di passaggio e dunque la morte diventa attesa, più o meno angosciata per la speranza di poter risorgere nell'al di là eterno e migliore dell'al di qua effimero. Da questo punto di vista la religione cristiana ha costituito un potente e raffinato apparato dottrinario, per molti aspetti debitore dell'antica filosofia. Il nichilismo Le molte cose viventi, sono pensate come un pendolo oscillante fra l'essere e il nulla. Solo a partire da questa conoscenza possiamo dominare le cose. La radice di ogni potere consiste nel credere che le cose non siano eterne. Non a caso Zygmunt Bauman definisce la nostra società in termini di liquidità, immersa nel continuo divenire delle cose assolutamente precario e contingente. Alla base di tutto ciò esiste l'antica convinzione che le cose sono provvisoriamente emergenti dal nulla. (Cfr. E. Severino). Leopardi: maestro del nichilismo Leopardi pensa il concetto di “divenire” con estrema evidenza. Tuttavia, esplorando a fondo le radici di questo pensiero, ne ricava l'esperienza della contraddizione dell'essere. L'essere in quanto tale è contraddittorio in quanto assume i caratteri propri del divenire. «La verità è l'esistenza della contraddizione». - E. Severino - Il crollo del pensiero occidentale Il crollo del pensiero occidentale coincide con l'atto stesso della ricerca. È la conoscenza che ci porta inevitabilmente su questa strada dove la «trama eternitaria delle idee fisse» (E. L. Petrini) e incontrovertibili, costruite intorno al concetto di “essere eterno”, si trova ad essere così frantumata e assume i caratteri propri del “divenire”. Dunque il pensiero sulla “frammentarietà dell'essere” diventa la conseguenza coerente e necessaria, che porta a compimento ciò che è posto a fondamento della tradizione filosofica occidentale. (Cfr. E. Severino). L'inevitabilità del tramonto «Mostrando l'inevitabilità del tramonto della tradizione occidentale Leopardi mostra dunque che il contenuto della verità è l'annientamento e l'annientabilità di ogni cosa, e che quindi la verità non è rimedio, ma, all'opposto la radice dell'angoscia. (…) Per il “genio” l'unica possibile forma di rimedio è l'unione della verità, ossia della visione del nulla annientante, alla poesia, cioè all'ultima illusione che consente di reggere lo spettacolo terribile della verità». - E. Severino - “Sola nel mondo eterna” - G. Leopardi - Il deserto senza limiti La poesia non solo ha la forza di guardare il deserto ma è anche capacità di rompere ogni limite della conoscenza attraverso il potere della visione immediata. Poesia è capacità di intuire l'impossibile: è la possibilità di intuire la morte come l'infinito che opera all'interno della stessa vita. La vita è stupenda e meravigliosa Parlano i morti: l'esistenza suscita meraviglia e stupore (thaûma) anche agli occhi di che ha raggiunto il punto più alto del sapere. Al culmine della saggezza l'esistenza appare come ciò che non ha un perché. Priva di qualsiasi fondamento la vita risulta essere insolita e dunque stupenda. La naturalità della morte I morti prendono la parola e non ignorano le cause della morte e del nulla (che invece suscitano lo stupore dei vivi). Dunque la espongono con una certa sicurezza: “Sola nel mondo eterna, a cui si volve ogni creata cosa, in te, morte, si posa; nostra ignuda natura; lieta no, ma sicura dall'antico dolor.” - G. Leopardi - L'evidenza della contraddizione La coscienza della contraddizione dell'esistenza in quanto tale, risulta chiara e distinta nella visione immediata della poesia. La prospettiva dei vivi si trova ad essere rovesciata. Per noi vivi la morte continua ad essere l'oggetto dello stupore, poiché ne ignoriamo le cause. Non possiamo esperire la morte se non sprofondando nel nulla. Qui la poesia del genio (Leopardi) ci spiazza, dal momento che ci mette difronte a chi ha esperito la morte in prima persona direttamente sulla propria pelle. I morti narrano l'apparenza illusoria della conoscenza dei vivi. La tradizione filosofica Per la tradizione filosofica lo stupore e la meraviglia che si scatena negli uomini quando ignorano le cause di ciò che accade, si dissolve quando si raggiunge il “culmine della sapienza”(saphès) che mostra ciò che non può essere smentito: l'essere eterno da cui si emana tutto ciò che a noi si manifesta. Nel “coro di morti” solo il nulla è eterno, ragione per cui l'esserci delle cose suscita meraviglia e la vita improvvisamente ci appare come «cosa arcana e stupenda» del tutto priva di causa. L'essere dell'ente “Il nulla da cui l'essere proviene non differisce dal nulla in cui l'essere si posa”. - E. Severino L'esserci di ogni ente è nulla rispetto all'eternità del suo non essere. Ogni cosa esistente trova un limite nel suo volgersi verso la morte. Solo il nulla da cui tutto proviene e verso cui tutto ritorna è senza limiti e infinito e nessuna cosa esistente può limitare l'eternità del nulla. “Nascere è più terribile, più violento e più assurdo che morire; l'esplosione della materia nel Big Bang, che si diffonde con inauditi cataclismi per creare innumerevoli vite effimere e dolorose, è più spaventosa della lenta entropia in cui forse alla fine si spegnerà dolcemente e stancamente, l'universo (...). Anche la nascita del bambino espulso dal ventre materno è un'irruzione nel mondo più sconvolgente, più inconcepibile dell'uscita dal palcoscenico alla fine dello spettacolo. L'arte, in quanto creazione, partecipa di questa violenza, di questo squarcio insito in ogni atto generativo che estrae qualcosa dal nulla, che stupra il non-essere, il nulla. Un libro (…) che forza il niente a divenire essere”. (Claudio Magris, Lo stupro del nulla, «Corriere della sera», 6 / 4 / 2003). Perché esistiamo? L'esistenza può trovare una ragione solo nel gioco, che si mostra nella sua innocenza, svincolata da fini o scopi legati a un ordine prestabilito ma è piuttosto esplorazione e movimento gioioso. Il gioco è spontaneità creativa attraverso cui le cose giungono all'esistenza per caso. «Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì». - F. Nietzsche - L'esistenza è relazione giocosa Il gioco stupendo del divenire fa sì che il nulla possa incontrarsi con l'essere, da cui scaturisce quell'«arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale» dimostrato dalla suprema «fatale e sensibile evidenza» (G. Leopardi, P. 141). Le cose nascono e si creano da un incontro casuale degli opposti (l'essere e il nulla) ed è il gioco stupendo del divenire «che forza il niente a divenire essere» (C. Magris). La vita porta con sé il marchio della contraddizione. Il mistero della vita La vita è un segreto nascosto dal gioco stupendo del divenire e in quanto tale, non può ricevere alcuna spiegazione. Il suo mistero si può solo intuire attraverso la metafora del gioco, che non ha cause necessarie. Nella domanda: «Che fummo?/ Che fu quel punto acerbo/ che di vita ebbe nome?», non possiamo trovare alcuna risposta al di là del modo in cui è formulata la domanda, dal momento che non esiste una risposta. Dal nulla non possiamo dedurre alcuna ragione che mostri la necessità dell'esistenza ma solo la sua possibilità di “divenire” , incominciare ad essere. L'imprevedibilità della vita La vita è imprevedibile e nessun ordine necessario può forzare questa imprevedibilità e imporsi come modello. Ciò che si forma ha bisogno di cambiare continuamente e dunque non può essere in relazione all'eterno, immutabile e sempre identico ma diviene nel rapporto con l'altro e con il mondo, che a sua volta diviene. Essendo l'esistenza nata per caso, non può esistere una relazione originaria e assoluta, a cui tutto si misura e si adegua secondo un ordine necessario, che esclude la relazione con le cose del mondo in quanto vincolata da un legame eterno. La mutevole evidenza del divenire «L'evidenza del divenire cancella le ultime tracce dell'episteme». (Cfr. E. Severino). Quando noi giudichiamo l'essere assolutamente perfettissimo, questa perfezione vale solo per noi occidentali, per altri popoli questo non vale e dunque non può esistere una perfezione assoluta ma relativa. L'essere è immerso nel divenire L'esperienza insegna «che le cose stanno così, perché così stanno, e non perché così debbano assolutamente stare». (P. 1339 Leopardi). Ecco la Palinodia leopardiana: la totalità del “divenire” è la ragione di tutte le cose. Si tratta di un vero e proprio “platonismo rovesciato”. Nel dimostrare questa tesi Leopardi non si serve del ragionamento ipotetico-deduttivo. Egli mostra direttamente il principio fondamentale: l'evidenza innegabile del divenire. Se esistesse l'essere eterno, il divenire sarebbe impossibile e verrebbe negata l'innegabile evidenza. (Cfr. E. Severino). L'essere eterno come superba pretesa «Vale a dire che un primo e universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o se esisté non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere il menomo dato per giudicare delle cose, avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale». (G. Leopardi, P. 1341). Pretendere di vedere chiaramente in modo luminoso e trasparente alla ragione ciò che viene prima o dopo la nostra esistenza sensibile è il frutto di una superba presunzione dell'animo umano, che è comunque destinata a fallire ogni sua pretesa. (Cfr. E. L. Petrini). La sfuggente verità La verità nel suo complesso resta sfuggente a qualsiasi forma di cattura, è questa la cifra filosofica propria di Jankélévithc, che tiene sempre la distanza di sicurezza da qualsiasi tesi che rischia di diventare una nuova fede oppure una risposta definitiva, con la pretesa della verità in tasca. Occorre demolire ogni atteggiamento conoscitivo che approda verso una conoscenza certa e indubitabile, soprattutto quando si affronta un problema come quello della morte. Che cosa possiamo conoscere? L'uomo non riuscirà mai a rispondere alla domanda sull'essere, né tantomeno ha senso che l'uomo si faccia custode di questa domanda, per cercare di capire da dove proviene la realtà effettiva dentro la quale viviamo. Il perché delle cose si sottrae alle nostre parole. Occorre usare una ragione decostruttiva e mostrare come l'essere immemorabile di tutte le cose è propriamente «non essere». L'esistenza è un mantenersi in «equilibrio instabile» sul nulla nascosto all'interno della nostra stessa vita. (Cfr. Jankélévitch). La morte come inossidabile ragionamento Fin dai tempi più remoti della nostra cultura, l'uomo occidentale accetta la morte razionalmente ma poi, si lusinga, trascinando nel futuro indefinito quella certezza. Accetta la morte ma al tempo stesso se ne allontana. Si tratta di quel marchio universale che vale per tutti ma non tocca nel vivo di nessuno. Siamo difronte a un sillogismo perfetto: «tutti gli uomini sono mortali, Tizio è un uomo, dunque Tizio è mortale». Fin qui va tutto bene, l'importante è che quel Tizio non diventi mai l'Io nella forma della prima persona. Sull'immortalità dell'anima Il potere della decostruzione in Jankélévithc è molto forte e dice chiaramente che non si può dimostrare alcuna conservazione o persistenza dell'anima, dal momento che lei opera in «simbiosi indivisa» con il corpo. Dunque l'anima senza il corpo perde la sua stessa ragione di essere. Ecco perché la morte è una tragedia che non si può aggirare. (Cfr. E. L. Petrini). La pienezza della finitudine Altrettanto spietata è la critica di Jankélévithc nei confronti dell'epicureismo e dello stoicismo, entrambi appiattiti sul semplificante e rassicurante ciclo della finitudine. La morte è naturale quanto la pioggia in autunno e il freddo in inverno. Questa strategia concettuale è specularmente opposta a quella dell'immortalità dell'anima. Entrambe le posizioni sono fondate su un ottimismo di fondo che rifiuta di riconoscere “la cosa stessa” (la morte) come un problema paradossale. Modernità e ottimismo L'ottimismo di fondo attraverso cui il pensiero occidentale ha affrontato il problema della morte scavalcherà molti secoli e approderà comodamente nell'età moderna, dove sotto forma di «trasformazionismo» si negherà il problema della morte da Spinoza a Leibniz fino Bergson. Quest'ultimo nell'Evoluzione creatrice nega la morte in funzione di un vitalismo capace di riassorbire al suo interno ogni singola morte individuale. Questo per Jankélévithc significa che tutto è vita e ancora una volta si cerca di anestetizzare il problema della morte. (Cfr. E. L. Petrini). La morte abita dentro di noi «È la vita stessa, dunque, che porta in sé la propria contraddizione interna». - V. Jankélévithc - La propria vita e la propria morte La vita assume la propria forma solo in relazione alla morte come connessione indivisibile di vita e di morte. Una vita a cui sia tolta la sua «propriamorte» non è più vita umana (con i propri ricordi, con le proprie emozioni, con i propri limiti e confini) ma è un puro processo biologico. Qui si apre il paradosso La vita, quella che riteniamo essere il nostro dono primario, è ricevuto insieme alla morte che opera al suo interno, questo significa che non possiamo mai impossessarci di ciò che propriamente ci costituisce. La morte abita dentro di noi e questo significa che «non si muore di malattia, ma della propria morte» che accade sempre in modo imprevedibile e dunque «inappropriante». Non possiamo mai essere i custodi dell'essere né tantomeno dell'«assolutamente altro», che resta inaccessibile. La morte è lo «specchio opaco del quaggiù» che effettivamente viviamo. (Cfr.V. Jankélévitch) L'unica forma di sapienza “immortale” concessa all'uomo, che va al di là della piatta apparenza, non può ricavarsi dalla descrizione di una trascendenza mitico-religiosa, né tantomeno dal sogno di un'infinita «corrente vitale» e immanente. L'immortalità possibile coincide con la testimonianza unica e irripetibile del nostro vissuto, che solo in relazione alla “morte” assume quel carattere di unicità dell'«esser-stato». «Chi è stato, non può più ormai non esser-stato: ormai questo fatto misterioso e profondamente oscuro di aver vissuto è il suo viatico per l'eternità». - V. Jankélévithc - Bibliografia di riferimento Parmenide, frammenti B 1, B 2 e B 3, in I presocratici, testimonianze e frammenti nella raccolta di H. Diels e W. Kranz, a cura di Giovanni Reale, ed. Bompiani, Milano 2006. Aristotele, Metafisica, A 2, 982 b 12- 19, a cura di Giovanni Reale, ed. Bompiani, Milano 2004. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di Giuseppe Pacella, ed. Garzanti, Milano 1991. G. Leopardi, Operette morali a cura di Antonio Prete, ed. Feltrinelli, Milano 2003. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, un libro per tutti e per nessuno, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, ed. Adelphi, Milano 2000. F. Nietzsche, Ecce Homo, come si diventa ciò che si è, a cura di Roberto Calasso, ed. Adelphi, Milano 2004. V. Jankélévitch L'Irréversible et la Nostalgie, Flammarrion, Paris 1974, ora in introduzione di E. L. Petrini a V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino 2009. V. Jankélévitch, La morte (1977), a cura di Enrica Lisciani Petrini, ed. Einaudi, Torino 2009. V. Jankélévitch, Quelque part dans l'inachevé, Gallimard, Paris, 1978, ora in introduzione di E. L. Petrini a V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino 2009. Bibliografia di riferimento E. Severino, Cosa arcana e stupenda, L'occidente e Leopardi, ed. Bur, Milano 2006. E. Severino, I presocratici e la nascita della filosofia, ed. l'Espresso, anno VI – n. 14, Roma 2009. C. Magris, Alfabeti, saggi di letteratura, ed. Garzanti, Milano 2008. E. L. Petrini, Perché noi siamo solo la buccia e la foglia... introduzione a V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino 2009.