SEGNALATO DALLA COMMISSIONE RICCARDO DI LEO LICEO SCIENTIFICO STATALE “VITO VOLTERRA” FABRIANO BENVENUTI AL QUALUNQU(EMENT)ISMO! Qual è l’aspetto più fastidioso di uno stereotipo? Forse, il non sentirsene rappresentati. È questa la conclusione cui sono giunto, mentre io rimanevo totalmente indifferente, ascoltando le risate e osservando i volti divertiti degli spettatori durante la proiezione di “Benvenuti al Sud”. Una sensazione, e non sto esagerando, paragonabile a quella che ho provato guardando in sala “Natale a Miami”, annus horribilis 2005: mentre i genitali venivano nominati, inneggiati, mangiati dagli attori e il mio vicino si stava per strozzare con una dose letale di pop-corn e bibite gassate, ho dovuto simulare disturbi gastrici per fuggire. Il paragone potrà sembrare azzardato, ma i mondi che entrambi i film rappresentano, seppur geograficamente vicini, mi sono risultati ugualmente distanti e irrealistici: anzi, l’Italia “da bere”, ad alto tasso di peti, di Boldi e De Sica (capri espiatori di una crisi che non si limita alla cinematografia), mi è sembrata ancor meno realistica del Sud da cartolina di Miniero. Entrambi i film hanno avuto grandissimo successo, pertanto presumo che il pubblico e, in particolare, i miei coetanei si siano ritrovati in tali rappresentazioni. Confrontando quindi la mia ricezione con il generale apprezzamento per la pellicola, sono stato spinto a chiedermi: questi stereotipi sono veramente lo specchio dell’Italia di oggi? “Benvenuti al Sud” è sì tripudio del luogo comune, ma allo stesso tempo commedia degli equivoci malriuscita, interrotta a metà. Dopo aver imbastito imbarazzanti situazioni basate sull’incomprensione tra Nord e Sud per la prima metà del film, quando ci si aspetta che queste vengano smentite, il regista le sostituisce con una realtà talmente idilliaca da risultare ancora più inquietante, neanche fossimo in un film di David Lynch. Il Sud è invaso dalla spazzatura? Non è vero, anzi la raccolta differenziata è quanto di più “porta a porta” possiamo immaginare. Il meridione è controllato dalle mafie? “I furti poi, qua non ci sono mai stati, si conoscono tutti!”. Insomma, Miniero confeziona il candidato numero uno al ruolo di anti-Gomorra, e sorprende che ad aver curato la sceneggiatura della pellicola sia stato proprio quel Massimo Gaudioso che aveva adattato il libro per l’omonimo film di Matteo Garrone. Il racconto straziante, forse eccessivamente drammatico, ma certamente costruttivo, che fa Saviano della propria terra viene smontato pezzo per pezzo, con una semplicità ed un’efficacia così precisa da far sospettare la volontarietà. Inoltre il regista, nel rapportarsi con la pellicola di riferimento, il francese “Giù al Nord”, utilizza un approccio di assoluta fedeltà, che aggiunge ben poco in profondità all’originale e che è anche testimoniato dal cameo di Dany Boon, che di esso era regista, sceneggiatore ed interprete. Ambientando il film in una piccola realtà, la forza dell’amicizia e dei buoni sentimenti riesce a trionfare sulla fredda cronaca, ed è qui che il pregiudizio nei confronti del Sud raggiunge il suo involontario (?) picco. È la beatitudine della semplicità, quella sensazione di sollievo mista a compassione che lo spettatore prova al termine del film, quando, uscendo dalla sala, ripulendosi dai popcorn, facendo mente locale ai prossimi impegni lavorativi, dice all’amico: “vedi, nonostante tutte le disgrazie che hanno, loro sì che vivono bene”. Seguiranno sospiri nostalgici nel ricordare l’infanzia felice in un paesino di montagna tale e quale a Castellabate, candidata numero uno a meta delle prossime vacanze in famiglia. Il grande merito di Miniero è quello di ricostruire un Sud praticamente irresistibile per il reduce dalla vita metropolitana, in cui, del tutto casualmente, si intende, sono presenti i sogni che ogni stakanovista urbano finisce per avere: orari di lavoro umani, il tempo per un buon caffè, calciobalilla e partite di pallone in piazze senza auto, amicizia e sentimenti, scorci paesaggistici pronti ad essere contrappuntati da Norah Jones come da uno Sting qualsiasi. Forse dipenderà dal fatto di non abitare in una grande città o di non essere un quarantenne in carriera, soggetto privilegiato del cinema contemporaneo nostrano, ma io non mi sento rappresentato da quelli che vengono spacciati per i caratteri dell’italianità nel 2011. È giunto, a mio parere, il momento di un “ricambio generazionale” del luogo comune, che ancora in molti non riescono a concepire: caffè, pizza (miracolosamente assente nella pellicola) e mandolino sono fattori di un immaginario collettivo appartenente al secolo scorso, ed è tempo che vengano messi da parte. Ritengo insomma che il motivo dell’inattualità che ho percepito nel film sia dovuta a questo ritardo socio-culturale nella sceneggiatura. Il problema, in realtà, è ben più grave: quale può essere il futuro dello stereotipo dell’italiano? Quale immaginario può percepire come suo la casalinga di mezza età di oggi, che non si accontenta più del peto vintage di Jerry Calà? Quale può criticare, pur facendone parte, l’intellettuale radical-chic, che in assenza di “Fuori Orario - Cose mai viste” non disdegna la visione dell’“Ubalda tutta nuda e tutta calda”? Di quale pregiudizio, infine, può lamentarsi l’amico, l’italiano medio, di ritorno dalle vacanze, che con l’aria dell’uomo di mondo, e non senza un filo di disprezzo, afferma: “Sono stanco di sentirmi dire le solite cose dovunque vada!”. La questione dello stereotipo, appare chiaro, non è più un problema solamente locale, varca i confini patrii, assume rilevanza europea, direi mondiale, e necessita, senza ombra di dubbio, di rapida risposta. I Governi la pretendono: quali soprannomi, aggettivi, targhe celebrative vanno utilizzati per caratterizzare, diffamare, ridicolizzare gli italiani? L’immaginario collettivo ha un suo valore, e, di questi tempi, meglio evitare crisi internazionali. Pur non essendo un sociologo, nell’Italia che vedo tutti i giorni, sono pochi i tratti e i comportamenti comuni a tutti gli strati sociali: la volgarità, il non rispetto dell’altro, il disprezzo per qualsiasi autorità, che siano lo Stato e le sue istituzioni o l’amministratore del condominio in cui si abita, l’esibizionismo, di cui la nudità rappresenta l’aspetto forse più innocente. L’opposto di quanto rappresentano Bisio & Co.? Purtroppo sì, ma è la dura realtà dei fatti, bisogna prenderne atto. Insomma, tutti vorremmo vivere in una Castellabate – d’altronde, chi non vorrebbe visitare Disneyland? - ma il mondo che ci appartiene è un altro: maleducato, sporco, forse più “vero”, certamente più reale. È l’Italia di Cetto La Qualunque. Anche il personaggio di Albanese vive in una piccola località del Sud, sperimenta il traffico della Salerno - Reggio Calabria, è un assiduo frequentatore del bar del paese e si confronta con un uomo del Nord, ma la storia è completamente diversa: la sua Marina di Sopra è gemellata con Weimar, non con il mondo delle favole; sull’Autostrada del Sole ci si ferma sì, ma perché c’è stato uno scontro a fuoco, e il consulente d’immagine interpretato da Sergio Rubini non è meno corrotto moralmente di Cetto stesso. Vi è una sostanziale differenza nella filosofia e nell’immaginario di riferimento di “Benvenuti al Sud” e “Qualunquemente”: se il primo sceglie semplicemente di sparare in faccia allo spettatore, uno dopo l’altro, una lunga lista di stereotipi, l’altro opta per un approccio maggiormente problematico, tentando di indagare e smontare i luoghi comuni che ne costituiscono comunque l’ossatura. Fondamentalmente, Miniero sembra ricollegarsi alla classica commedia all’italiana, ed il pensiero non può che andare a “Totò, Peppino e la malafemmina”, datato 1956. Le differenze tra Nord e Sud sono palesi, inconciliabili, e la risata che nasce dalle incomprensioni tra i due mondi resta di fatto fine a sé stessa. Manfredonia, al contrario, adotta uno stile più moderno e critico, senza trascurare le origini della comicità italiana: riprende sì il Totò politicante de “Gli Onorevoli” (1963), ma, d’altra parte, non dimentica la lezione di un classico moderno come il Verdone di “Bianco, Rosso e Verdone” (1981), di cui mantiene il gusto per l’esagerazione e l’attenzione al cattivo gusto uniti a un’attenta critica del contemporaneo. L’operazione della coppia Albanese - Manfredonia ha grande valenza sociale: è con loro che nasce il nuovo stereotipo dell’italiano, come un hotel con piscina su delle rovine romane. Certo, il Sud è bellissimo, ma l’abuso edilizio è d’obbligo, gli incendi non sono tanto spontanei quanto crediamo e i turisti, alloggiati in una fogna a cielo aperto con vista mare, non se la passano bene. Ma il tratto caratteristico è la volgarità, l’eccesso ufficializzato, che accomuna l’Italia unita; unita dai mega Suv, dal kitsch nell’arredamento ma soprattutto dal pilu! Albanese ci presenta l’immagine dell’italiano 2.0: vanno bene caffè, bella vita e mare, ma l’importante è che non siano tassabili.