Platone
La vita
Il Platone-Leonardo della Scuola di Atene di Raffaello
Secondo Apollodoro (Cronologia) Platone nacque ad Atene nel settimo giorno di Tergellione nell'anno
dell'LXXXVIII Olimpiade, ovvero nel 428-427 a.C. Era lo stesso giorno nel quale i Delii festeggiavano il
compleanno del dio Apollo.
Il padre di Platone si chiamava Aristone e poteva vantare una discendenza dall'antico re di Atene, Codro. La
madre si chiamava Perictìone ed era figlia di Glaucone il vecchio, fratello di Crizia, uno dei Trenta Tiranni.
Aveva un fratello, Carmide, ed uno dei dialoghi composti da Platone è dedicato proprio allo zio.
Il vero nome di Platone era Arìstocle. Il soprannome gli venne imposto, sembra, da un maestro di ginnastica
che lo aveva giudicato di ampia (platuév = largo, ampio) costituzione, probabilmente nel senso di "di spalle
larghe" più che nel significato di "rotondetto". Diogene Laerzio ipotizza che fosse chiamato Platone anche
per l'ampiezza del suo stile letterario, o per quella della sua fronte.
Ricevette l'educazione tipica dei giovani ateniesi del V secolo, e, secondo Dicearco, in gioventù compose
poesie e tragedie, ma fu folgorato da un casuale incontro con Socrate e distrusse la sua ultima composizione
proprio mentre si stava recando ad una specie di concorso letterario.
Venne a contatto con Socrate solo nel 408, anche se è probabile che fin da bambino sentisse discorrere delle
sue teorie in casa del padre e dello zio Crizia.
Negli anni della giovinezza partecipò a tre campagne militari.
Come testimonia la VII lettera (l'unica sicuramente autentica fra quelle attribuite a Platone) ebbero un forte
impatto sul giovane Aristocle sia la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso (405 a.C.), sia la
conseguente parentesi del governo dei Trenta Tiranni, imposto nel 404 a.C. alla città dal generale spartano
Lisandro, sia il processo e la morte di Socrate nel 399 a.C.
Scrive Platone:
Quand'ero giovane provai ciò che provano molti: pensavo, una volta divenuto padrone di me stesso, di entrare subito
nella vita politica. Ora, questa era la situazione politica della città nella quale venni a trovarmi: il governo di allora
[quello democratico radicale, N.d.R.], osteggiato da molti, venne rovesciato e passò nelle mani di cinquantun
cittadini che divennero i reggitori dello stato: undici in città, dieci nel Pireo (tutti costoro dovevano occuparsi del
mercato e di ciò che concerne l'amministarzione cittadina), ma trenta, al di sopra di tutti, con potere assoluto [Platone
qui fa riferimento alla situazione politica dell'anno 403, più che del 404, N.d.R.].
Alcuni fra questi erano miei familiari e conoscenti, e mi invitarono subito ad entrare nella vita pubblica come ad una
attività che ben mi si conveniva. Io avevo allora sentimenti che, data l'età, non sono per niente strani: credevo che essi,
col loro governo, avrebbero liberato la città dall'ingiustizia e le avrebbero imposto un giusto sistema di vita; perciò stavo
bene attento a quello che avrebbero fatto.
Ora, mi accorsi che in breve tempo questi uomini fecero apparire oro il governo di prima: fra l'altro, una volta
mandarono insieme con altri Socrate (un mio amico più anziano di me, che io non esito a definire il più giusto degli
uomini del suo tempo) ad arrestare un cittadino per metterlo a morte, in modo che egli divenisse, volente o nolente,
complice delle loro azioni; ma Socrate non obbedì, preferendo esporsi ad ogni pericolo che farsi complice di azioni
nefande. (VII lettera)
Pur nel ritegno che caratterizza l'espressione platonica, è facile comprendere che tanto lui quanto Socrate
furono almeno inizialmente fiancheggiatori dei Trenta Tiranni: il fatto stesso che essi siano presenti in città
nel 404 a.C. toglie ogni dubbio in proposito, giacché tutti i democratici ed i loro sostenitori avevano
abbandonato Atene insieme a Trasibùlo, rifugiandosi a Munichia.
Trasibùlo riuscì a rientrare in Atene già nel 403, ma questo non significò un immediato ripristino del regime
democratico: infatti ad Atene venne a crearsi una situazione di grande tensione, alla quale cercò di porre
rimedio il re spartano Pausania con un'amnistia generale, e il governo della città si spaccò in tre realtà
politiche coesistenti:
- i democratici radicali di Trasibùlo, rifugiatisi al Pireo;
- il governo dei Dieci (magistrati speciali) ad Atene;
- i Trenta Tiranni ed i filo-oligarchici nel "principato" di Eleusi.
È appunto a questa situazione politica che fa riferimento Platone nella VII lettera.
Solo nel 401-400 si ebbe il completo ripristino del regime democratico, allorché i democratici radicali
attirarono in un agguato mortale i Trenta e li uccisero, ponendo così termine allo staterello libero di Eleusi.
Ne seguì una tremenda raffica di processi sommari e vendette politiche da parte dei democratici radicali;
una delle prime vittime che caddero sotto i colpi della democrazia ripristinata fu Socrate.
Platone seguì da vicino il processo di Socrate, ma il giorno della morte del suo maestro ed amico, come dice
egli stesso nel Fedone, non era presente perché ammalato (probabilmente ebbe un malore).
Nel 399, subito dopo la morte di Socrate, probabilmente anche per sottrarsi alle vendette della democrazia
restaurata, andò con comuni amici prima a Mègara (a pochi km da Atene) da Euclide (da non confondersi
con il celebre matematico Euclide di Alessandria), filosofo di orientamento socratico-parmenideo e fondatore
di quella scuola megarica con cui polemizzò Aristotele.
Poi intraprese lunghi viaggi che lo misero in contatto con tutti i più rilevanti ambienti intellettuali del
Mediterraneo. Stabilì contatti con Teodoro di Cirene e il pitagorico Archita di Taranto, visitò Creta ed altri
paesi, probabilmente anche l'Egitto.
Nel 388 è storicamente certo che egli fece un primo viaggio a Siracusa, alla corte del tiranno Dionigi I; qui
conobbe Dione, cognato di Dionigi, con lui strinse un legame profondissimo, fondato sulla stima reciproca,
che probabilmente andò oltre l’amicizia.
Le critiche che Platone osò muovere alla corrotta corte di Dionigi lo misero in pessima luce agli occhi del
tiranno. Imbarcato su una trireme diretta ad Atene in qualità di ambasciatore dello stesso tiranno Dionigi, fu
invece sbarcato nell'isola di Egina, in guerra con Atene, e venduto come schiavo, anche se fu
immediatamente riscattato da Annicèride di Cirene (l'aneddoto si trova in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi).
Tornato finalmente ad Atene nel 387, acquistò un terreno presso un famoso ginnasio situato nel giardino
dedicato all'eroe Academo e vi fece costruire un santuario dedicato alle Muse e alcuni locali destinati
all'insegnamento, ai dibattiti e all'abitazione: nacque così l'Accademia (o più propriamente Academia),
fondata con lo scopo precipuo di formare una scuola per governanti presenti e futuri, in programmatica
contrapposizione con la scuola "di filosofia" (così era definita) fondata dal retore Isòcrate nel 390.
Era ovviamente un altro modo, indiretto, di intervenire nella vita politica, che tuttavia non rinnegava
l'ispirazione precedente.
L'Accademia raccolse ben presto l'adesione di figure di rilievo del mondo politico e culturale ellenico:
innanzitutto Dione di Siracusa; poi Erasto e Corisco, in seguito signori di Asso; Eufreo di Oreo, consigliere di
Perdicca re di Macedonia; Aristonimo, Formione e Menedemo, anch'essi consiglieri di governanti; gli
ateniesi Iperide, Cabria, Licurgo e Focione. Ben presto furono ospiti dell'Accademia anche insigni matematici
ed astronomi quali Eudosso di Cnido, Eraclide Pontico e Filippo di Opunte, il medico di Siracusa Filistione
ed altri ancora.
Ad Atene dunque, come s'è detto, esisteva già una scuola di filosofia e politica strutturata, quella di Isocrate,
fondata nel 390, dunque solo tre anni prima dell'Accademia.
Isocrate era stato allievo del sofista Gorgia; tuttavia si era evoluto rispetto al pensiero del maestro e dei
sofisti in genere, giungendo a riconoscere l’insufficienza di una semplice preparazione tecnico-retorica che
mettesse il politico in grado di imporsi con i mezzi della parola, con il rischio (cinicamente dato per scontato
ed anzi auspicato dai Sofisti) di far prevalere il falso sul vero e l’interesse individuale su quello collettivo; era
quindi necessaria una rigenerazione morale della classe politica.
La differenza di impostazione tra la scuola di Isocrate e quella di Platone non stava dunque nell'obiettivo
finale dell'educazione che potremmo definire di livello universitario: per entrambi si trattava di allevare
uomini di governo in grado di mettere al primo posto il bene della collettività; si trattava piuttosto di una
differenza di metodo, e proprio il Gorgia, confrontato con le opere di Isocrate, ci consente di intendere la
qualità del dissenso.
Per Isocrate infatti è impossibile applicare alla politica regole scientifiche universalmente valide: esse si
trovano di volta in volta attraverso il confronto di opinioni ed una capacità di intelligente inserimento nelle
circostanze (teoria del kairoév) che può sembrare camaleontico opportunismo, ma che rispecchia invece la
volontà di risolvere i problemi "pragmaticamente", secondo un preminente concetto utilitaristico. Un'altra
differenza sostanziale riguarda il mezzo espressivo attraverso il quale avviene il confronto di opinioni:
Isocrate era un retore ed insegnava la retorica, ossia l'arte della persuasione (giacché questo, e non altro, è il
fine della teécnh r|htorikhé).
Ritratto di Isocrate
Platone invece non credeva in una simile educazione alla politica, giacché chi non ha capito cosa sia il Bene
non può neppure sapere in che cosa consista il bene della collettività (tipica in questo senso la critica di
Socrate ad Alcibiade): preliminare, dunque, è la ricerca filosofica, volta alla definizione del Bene in quanto
tale. Quanto al modo d'espressione, Platone giudicava in modo radicalmente negativo la retorica, che
implica la volontà di sopraffazione di un parlante sull'altro ("persuasione" significa questo) senza che
nessuno dei parlanti si sforzi di ricercare la verità; ad essa sostituiva la dialettica, tesa non alla persuasione
del prossimo, ma appunto alla ricerca della verità, alla quale devono collaborare tutti i parlanti (si veda la
seconda parte del Fedro); credeva che attraverso il procedimento dialettico fosse possibile giungere ad una
sorta di scienza del bene (e del male), ed appunto in questo faceva consistere la scienza politica.
Nel Gorgia, come segnala Adorno, Platone polemizza con l'epidissi, il "discorso lungo" del modello retorico:
Ad essa Platone contrappone - scrive Adorno - il metodo dialettico, mediante cui si possa scientificamente determinare
il modo di vivere eticamente, che fondandosi appunto su premesse non accolte nell'ambito dell'opinione, della dòxa (su
cui empiricamente si basa la retorica), determina modi di vita, un'etica le cui regole appaiono ai più paradossali ("fuori
della dòxa") (op. cit.).
Questa rincorsa della scientificità, cioè di una conoscenza incontrovertibile di cosa sia il bene, anche nel
senso di bene comune, bene dell'insieme dei cittadini e dello stato-pòlis, necessitava di controprove pratiche
che non giungevano mai e che sicuramente inducevano uno stato di profonda frustrazione sia in Platone che
nella cerchia più ristretta dei suoi allievi.
Pertanto, quando si presentò l'occasione di un secondo viaggio a Siracusa, Platone colse la palla al balzo e vi
accompagnò l'amico Dione con la speranza di "testare" l'applicabilità di queste teorie, quelle che si trovano
espresse nella Repubblica, confidando in una rapida conversione di Dionigi II, nuovo tiranno di Siracusa,
molto giovane e quindi forse più malleabile del predecessore. Era l'anno 367 e Platone era già sessantenne.
La conduzione dell'Accademia fu temporaneamente affidata ad Eudosso di Cnido.
Anche questa seconda spedizione si risolse in un disastro, perché Dionigi il Giovane si rivelò completamente
ottuso e fraintese gli insegnamenti di Platone e di Dione. Inoltre concepì un affetto geloso e possessivo nei
confronti del filofoso, entrando così in urto con Dione, il quale, accusato di complottare contro il tiranno, fu
esiliato.
Nel 364, vista l'impossibilità di influire su Dionigi e quindi di imprimere una svolta politica alla vita della
città, Platone riuscì, sia pur con difficoltà, ad abbandonare Siracusa, si imbarcò per Atene e tornò a guidare
l'Accademia.
Durante la sua assenza era successo un fatto nuovo e di estrema importanza; dall'estremo nord-est della
Grecia era giunto ad Atene, per frequentare i corsi dell'Accademia, un giovane di diciassette anni: Aristotele.
Tuttavia, stando a quanto raccontano le fonti antiche, i rapporti tra Platone e il geniale discepolo non furono
mai gran che positivi: stando a Diogene Laerzio, a Platone dava fastidio perfino l’aspetto fisico di Aristotele,
il fatto che portasse i capelli corti, che si vestisse con cura, che fosse eterosessuale. Non è un caso che Platone,
alla sua morte, abbia affidato la direzione dell'Accademia al nipote Speusippo.
L’Aristotele della Scuola di Atene di Raffaello
Ma la storia di Platone con i tiranni di Siracusa non era finita: nel 361 l'inquieto Dionigi II mandò ad Atene
una trireme per prelevare Platone ormai sessantaseienne, il quale nonostante tutto accettò l'invito,
intraprendendo il suo avventuroso terzo viaggio in Sicilia, nella speranza di riuscire finalmente a
dimostrare la realizzabilità delle proprie teorie politiche.
Ancora una volta Dionigi II si dimostrò incapace di recepire le teorie platoniche, convinto per di più, com’è
tipico dei veri ignoranti, di averle comprese perfettamente: si permise infatti di pubblicare per iscritto gli
a"grafa doégmata, cioè il corpus delle dottrine più alte e profonde di Platone, quelle che egli non riteneva
possibile mettere per iscritto e che comunicava solo oralmente ad una ristrettissima cerchia dei suoi
discepoli. Questo suscitò lo sdegno dell'anziano filosofo.
Inoltre Dionigi, nonostante le pressioni di Platone, si rifiutò di richiamare Dione dall'esilio. Sorse così un
nuovo conflitto tra Platone ed il tiranno. Dionigi, per vendetta, fece allora consegnare il filosofo ad alcuni
mercenari, con il probabile intento di metterlo successivamente a morte. Fu solo per l'intervento del
pitagorico Archita, tiranno di Taranto, che Platone fu lasciato libero di tornare ad Atene nel 360 a.C., risoluto
a non rimettere più piede in Sicilia.
Anni dopo Dione radunò un esercito per occupare Siracusa e spodestare il tiranno con un colpo di stato: per
questo chiese l'appoggio di Platone, che però glielo rifiutò, esortandolo a non mettere in atto alcun tipo di
violenza, dal momento che dalla violenza non può nascere nulla di buono. Dione intraprese ugualmente il
tentativo, ma fu tradito da uno dei suoi compagni di congiura, che pure era stato allievo di Platone. La VII
lettera fu scritta da Platone agli amici di Dione proprio per spiegare la sua estraneità alla congiura e la sua
profonda amarezza per quanto accaduto e per non essere riuscito ad impedirlo.
Ad Atene Platone riprese con vigore l'attività filosofica e la proseguì fino alla morte, avvenuta nel 348-347,
all'età di ottant'anni.
Le opere
Il cosiddetto “Dioniso-Platone”
(Napoli, Museo archeologico)
La scelta del dialogo come forma di espressione è indicativa di una impostazione che Platone non
rinnegherà mai, ed è indizio di una sostanziale fedeltà, pur nell'infedeltà, agli insegnamenti socratici: essa
riflette la convinzione della superiorità della discussione viva e presente rispetto ad ogni forma di
trattatistica scritta.
Come osserva Enrico Berti nella sua Storia della Filosofia (Laterza 1992, vol. I, Bari, pag. 53):
Il motivo per cui Platone scrisse dei dialoghi è intuitivo: egli scelse la forma letteraria più adatta a rappresentare le
conversazioni orali praticate da Socrate, abbandonando quella adottata dai filosofi precedenti, il trattato, per via della
sua stessa concezione della filosofia come discussione dialettica. La sfiducia da lui dichiarata più volte nei confronti
dell'esposizione scritta (sia nel Fedro che nella VII lettera) non deve pertanto essere riferita ai dialoghi, che sono il tipo
di scrittura più somigliante alla discussione orale, ma alla trattatistica.
Oltre a questa ragione di base, sulla scelta di Platone avrà influito quasi certamente la sua predilezione per
gli scritti del siciliano Epicarmo (V a.C.), autore di draémata in prosa apprezzatissimi dal filosofo.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., ordinò le opere platoniche in nove tetralogie, ovvero gruppi di
quattro (35 dialoghi e il corpus delle lettere), seguendo una poco persuasiva affinità di argomento; la sua
catalogazione tuttavia fece testo, ed è quella tuttora in uso. I dialoghi di sicura attribuzione sono indicati in
grassetto per distinguerli da quelli considerati spuri:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altri dialoghi considerati spuri, non inclusi nelle tetralogie, sono:
Assioco, Definizioni, Demodoco, Epigrammi, Erissia, Alcione, Sulla giustizia, Sulla virtù, Sisifo.
Una diversa e più antica classificazione risale all'alessandrino Aristofane di Bisanzio (III secolo a.C.), che
ordinò le opere platoniche in cinque trilogie, per un totale di soli 14 dialoghi + le lettere.
1. Repubblica, Timeo, Crizia
2. Sofista, Politico, Cratilo
3. Leggi, Minosse, Epinomide
4. Teeteto, Eutifrone, Apologia di Socrate
5. Critone, Fedone, Lettere
A noi però importa ricostruire la cronologia di queste opere nel modo più preciso possibile: e non è impresa
semplice. Di seguito si cercherà di spiegare i motivi di questa difficoltà e di evidenziare alcuni criteri che
possono consentirci di azzardare un ordinamento cronologico plausibile.
Il problema della cronologia degli scritti platonici
Stabilire l’ordinamento cronologico degli scritti di Platone, seppure sia difficile, è essenziale per la
comprensione del suo pensiero: Platone infatti, per motivi che sono strettamente inerenti alla sua filosofia,
non volle mai mettere per iscritto, neppure nell'età più avanzata, una esposizione completa del suo sistema
filosofico. La ragione principale di questo rifiuto consiste nella asistematicità del suo pensiero, direttamente
connessa con la sua convinzione che la ricerca non conosca mai un punto di arrivo definitivo.
I suoi dialoghi non sono che fasi o tappe diverse, punti di arrivo provvisori, e quindi piuttosto punti di
partenza che di arrivo, di una ricerca la quale ritiene di non potersi fermare a nessun risultato.
L'ordine cronologico dei suoi scritti è l'ordine stesso di questa ricerca: è l'ordine nel quale egli pervenne ai
successivi approfondimenti della sua filosofia. Non si può dunque intendere lo sviluppo di questa filosofia
senza rendersi conto dell'ordine cronologico degli scritti.
Purtroppo però le fonti esterne mancano quasi completamente. Abbiamo una sola indicazione indubitabile,
e ci è data da Aristotele (Pol., 1264 e 26): le Leggi sono posteriori alla Repubblica. Da altra fonte sappiamo che
le Leggi furono lasciate «sulla cera» e che furono copiate dopo la morte di Platone.
Inoltre è difficile immaginare che Platone abbia cominciato l'esaltazione della figura di Socrate quando
ancora era in vita il maestro: è probabile quindi che tutta la sua attività letteraria sia posteriore al 399,
sebbene su questo alcuni critici abbiano avanzato parecchi dubbi (si veda oltre).
Data l'assoluta insufficienza di queste indicazioni, bisogna ricorrere ad altri criteri, di tipo interno.
1. Il primo criterio è il confronto dei dialoghi l'uno con l'altro.
Da esso risulta ad esempio che la Repubblica viene prima del Timeo, che ne ricapitola l'argomento; il
Politico si presenta come continuazione del Sofista e questo a sua volta come continuazione del Teeteto.
Allusioni meno chiare, ma abbastanza trasparenti, consentono di vedere che il Menone è anteriore al
Fedone ed entrambi questi dialoghi sono anteriori alla Repubblica. Il Teeteto ed il Sofista accennano poi ad
un incontro tra Socrate giovane ed il vecchio Parmenide, che è forse quello narrato nel Parmenide.
2. Il secondo criterio per l'ordinamento cronologico è quello stilometrico (= basato sullo stile). Tra la
Repubblica e le Leggi, cioè tra i due dialoghi di cui conosciamo con certezza l'ordine di composizione, ci
sono notevoli differenze di stile, che sono state minutamente studiate. Si tratta di particelle,
congiunzioni, formule di affermazione o negazione, dell'uso dei superlativi, di giri di frase e di parole
che ricorrono nelle Leggi e non si trovano invece nella Repubblica.
Queste particolarità stilistiche, o stilemi, contraddistinguono l'ultima fase dell'opera di Platone scrittore
come una sorta di tic stilistici. È evidente che gli altri dialoghi nei quali ricorrono devono appartenere
allo stesso periodo, ed alcuni critici sono giunti a stabilire un ordine dei dialoghi a seconda della
frequenza di tali stilemi, assegnando al periodo più tardo della vita di Platone i dialoghi in cui essi
ricorrono più frequenti ed ai periodi via via anteriori i dialoghi in cui sono meno frequenti.
Per quanto un ordine rigoroso così fondato sia fittizio, perché altri motivi hanno potuto influire sullo
stile dello scrittore, tuttavia questo criterio ha condotto a delineare un gruppo di dialoghi che per la
somiglianza del loro stile con quello delle Leggi va assegnato all'ultimo periodo dell'attività di Platone.
Essi sono il Parmenide, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Timeo e il Filebo. Circa l'ordine di composizione di
questi dialoghi non ci si può certamente fondare, per stabilirlo, sulla sola stilometria, ma occorre servirsi
anche degli altri criteri.
3. Un terzo criterio può essere ricavato dalla forma narrativa o drammatica dei dialoghi.
In alcuni di essi, infatti, l’andamento è drammatico, cioè il dialogo viene riportato direttamente, a botta e
risposta, come in un copione teatrale; in altri invece è diegetico, cioè raccontato da un narratore, sicché la
sua esposizione è inframmezzata dalle frasi: «Socrate disse», «l'altro rispose», «ne convenne», ecc.,
quando non da lunghi inserti narrativi. Ma nel prologo del Teeteto (143 c), lo stesso Euclide, che narra il
dialogo, avverte che ha soppresso queste frasi per maggior speditezza, esponendo il dialogo
direttamente come esso si svolse tra Socrate e i suoi interlocutori. Ci si può quindi aspettare di non
trovare più il metodo della narrazione nei dialoghi che seguono il Teeteto: e così infatti accade per tutti i
dialoghi dell'ultimo periodo, tranne che per il Parmenide, il quale è perciò probabilmente anteriore al
Teeteto.
Dall'altro lato quasi tutti i dialoghi più complessi ed importanti, come il Protagora, il Simposio, il Fedone, la
Repubblica, sono narrati, mentre sono in forma diretta alcuni dialoghi che hanno struttura più semplice e
minor valore artistico, ed inoltre hanno un finale aporetico (= che non giunge ad alcuna conclusione
certa), come è tipico del primo Platone.
Si può quindi supporre che Platone:
• abbia adoperato la forma diretta in un primo tempo: i primi dialoghi sarebbero dunque quelli
contraddistinti dalla forma drammatica diretta e dal finale aporetico;
• abbia fatto ricorso in seguito alla forma narrativa per dare al dialogo il maggior risalto: a questa
seconda categoria apparterrebbero quasi tutti i dialoghi della maturità;
• infine, per motivi di comodità e di speditezza di stile, sia ritornato alla forma diretta: gli ultimi
dialoghi sarebbero dunque contraddistinti dalla forma drammatica diretta, ma senza finale
aporetico e con una forte ricorrenza di stilemi simili a quelli delle Leggi.
Ma l'ordinamento che risulta da questo criterio, se vale per decidere l'appartenenza di un dialogo a
questo o quel periodo dell'attività di Platone, non è sufficiente a stabilire l'ordine dei dialoghi stessi
all’interno dei singoli periodi.
4. Ai risultati che possono essere conseguiti dall'uso combinato di questi tre criteri vanno aggiunti quelli
che scaturiscono da un quarto criterio di importanza capitale: ossia la considerazione che i primi
dialoghi devono essere quelli nei quali la dottrina delle idee non compare ancora e che si mantengono
quindi strettamente fedeli alla lettera del socratismo (la dottrina delle idee, com’è noto, non risale a
Socrate).
Partendo da questi presupposti, si può approdare ad una catalogazione di questo genere:
I primi dialoghi diretti
Secondo alcuni critici, un primo gruppo di opere sarebbe da collocare tra il 407 a.C. e il 399 a.C.
Non ci sono, a loro dire, valide ragioni per pensare che l'attribuzione a Platone di questi dialoghi sia spuria: i
temi sono quelli tipici del Platone "socratico", l'argomentazione è ineccepibile, le conclusioni a cui giungono
sono sempre importanti. Queste prime opere sono brevi e lineari nella trattazione dell'argomento: il loro
incipit è immediato, determinato da una domanda perentoria. Chi li ritiene autentici fa osservare che, se essi
fossero un'imitazione dei dialoghi maggiori, non si capisce per quale ragione non dovrebbero essere
altrettanto stilisticamente elaborati dei loro modelli.
A queste prime prove apparterrebbero Demodoco, Quesiti, Sul giusto, Sulla virtù, Minosse, Ipparco e Sisifo.
Il primo testo in cui compare il nome di un interlocutore ben delineato è Sisifo: a partire da questo, i dialoghi
successivi avranno quasi sempre il titolo dal nome di un personaggio.
I dialoghi in difesa di Socrate
Nel 387 a.C. Platone torna ad Atene dopo i viaggi seguiti alla morte di Socrate. Ha trascorso circa 12 anni in
territori di cultura greca e in territori di cultura ‘barbara’. Due fatti accaduti in sua assenza lo convincono a
riprendere la scrittura a favore dell'insegnamento di Socrate: l'opuscolo diffamatorio di Policrate contro
Socrate e l'apertura della Scuola di retorica di Isocrate. Ne nascono i cosiddetti dialoghi "socratici", che si
contrappongono agli scritti polemici e retorici che circolavano in Atene e che hanno come argomento la
figura del Maestro e la sua arte confutatoria: l'Apologia di Socrate e il Critone; l'Alcibiade primo e secondo; il
Teage e il Lachete; l'Ippia minore e maggiore; l'Eutifrone, lo Ione, il Menone, il Menèsseno. A questi dialoghi va
aggiunto il Menone, in cui compare Ànito, uno dei due accusatori di Socrate (l’altro era Melèto).
In prima istanza il dibattito verte sulla figura di Alcibiade e sul suo rapporto con Socrate: com'era stato
possibile che il più famoso discepolo di Socrate avesse compiuto la profanazione delle Erme e fosse risultato
tutto concentrato sugli interessi personali invece che su quelli del bene della patria? Inoltre: era possibile
equiparare Socrate ai Sofisti?
Il Teage, il Lachete e il Menèsseno sono invece probabilmente legati all'apertura della scuola di Platone,
antagonista rispetto a quella di Isocrate. A questi va aggiunto il Gorgia: questo importantissimo dialogo
chiude infatti una fase della produzione platonica e ne apre un'altra.
I dialoghi narrati
L'apertura dell'Accademia spinse Platone a indicare gli obiettivi del suo insegnamento attraverso la figura di
Socrate che discute con i giovani. Tre dialoghi si presentano come un trittico unitario con questo valore
introduttivo; essi vogliono dimostrare che la filosofia:
1. non deve essere volta ad un numero indeterminato, quantitativamente rilevante, di nozioni, ma deve avere
di mira un sapere "misurato" (Amanti);
2. si identifica con quella scienza che sovrasta le altre scienze: "scienza di sé e delle altre scienze" e
"conoscenza del bene e del male", capace di guarire l'anima (Carmide);
3. ha per fine la conoscenza e la partecipazione dell'"amico primo, a causa del quale diciamo che tutte le altre
cose sono amiche tra loro" (Liside).
Platone adotta qui una nuova forma letteraria, passando dal dialogo diretto a quello narrato (da Socrate).
Aprendo le porte della propria scuola, quindi, Platone si nasconde dietro la figura del Maestro, dando
tuttavia il grande annuncio della scienza del Bene: scienza di cui però ancora non parlerà esplicitamente nel
primo libro del dialogo che segue il trittico: la Repubblica (Politeia).
I dialoghi misti
I dialoghi misti formano un gruppo a sé stante. La forma ‘mista’ è ottenuta secondo diverse soluzioni
letterarie:
1. una scatola cinese di narrazioni;
2. un dialogo diretto all'interno di un altro ugualmente diretto;
3. una narrazione all'interno di un dialogo diretto, con possibilità di ritorno al dialogo diretto.
Si tratta di Eutidemo, Protagora, Fedone, Simposio (o Convivio), Repubblica II-X, Parmenide (dialogo narrato con
tre cornici concentriche) e Teetèto, che chiude la serie dei dialoghi misti ed è già un dialogo pienamente
diretto.
Questi dialoghi presentano un’ambientazione molto particolare e suggestiva: l'esterno della strada
nell'Eutidemo, l'interno della casa di un ricco ateniese nel Protagora, il carcere degli Undici nel Fedone, l'interno
della casa di Agatone nel Simposio, quella di Cèfalo al Pireo nella Repubblica, quella di Pitodoro nel Parmenide,
e infine quella di Euclide nel Teetèto. In tutti è presente un grande numero di personaggi e la cura stilistica è
straordinaria.
I secondi dialoghi diretti
Va distinto un primo gruppo con Socrate protagonista (Fedro, Cratilo, Filebo); il primo di questi dialoghi è
quasi certamente il Fedro, affine per molti versi al Simposio, che con esso ed il Fedone costituisce la cosiddetta
“trilogia dell’anima” (l’ordine logico-cronologico è Fedone-Simposio-Fedro). Un secondo gruppo vede Socrate
presente, ma non più protagonista (Sofista, Politico); poi un altro gruppo di dialoghi in forma di ‘trattati’,
anche questi con Socrate non più protagonista (Clitofonte, Timeo, Crizia); un quarto senza più la figura di
Socrate e con un ritorno alla forma interamente dialogata (Leggi, Epinomide). Ma già nel Clitofonte, nel Timeo
e nel Crizia la figura di Socrate si riduce a semplice garante delle tematiche trattate, e il suo contributo al
dibattito è nullo.
Escludendo i dialoghi di incerta attribuzione e limitandoci a quelli sicuramente platonici, su questi
fondamenti appare probabile il seguente ordinamento cronologico, nel quale però, se l'attribuzione di un
dialogo a un determinato periodo è abbastanza sicura, l'ordine di successione dei dialoghi in ciascun periodo
è problematico e discutibile:
1° periodo (scritti socratici): Apologia, Critone, Ione, Lachete, Eutifrone, Carmide, Liside;
2° periodo (di trapasso): Eutidemo, Ippia minore, Ippia maggiore, Cràtilo, Menèsseno, Gorgia, Repubblica libro I,
Protagora, Menone;
3° periodo (scritti della maturità): Fedone, Simposio, Fedro, Repubblica libri II-X;
4° periodo (scritti della vecchiaia): Parmenide, Teetèto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi.
Si può ritenere con una certa verosimiglianza che:
• gli scritti del 1° periodo e del 2° periodo siano posteriori alla morte di Socrate (399) ed anteriori al primo
viaggio in Sicilia (388) ed alla fondazione dell'Accademia (387);
• gli scritti del 3° periodo siano stati composti nel ventennio tra la fondazione dell'Accademia (387) e il
secondo viaggio in Sicilia (367);
• gli scritti del 4° periodo siano stati composti tra il secondo viaggio in Sicilia (366-65) e il terzo (361), e
forse alcuni, come il Crizia e le Leggi, anche dopo il terzo;
• le Lettere VII e VIII (la prima certamente autentica, la seconda ritenuta autentica dai più) si rivelano, per
il loro contenuto, posteriori alla morte di Dione, e quindi al 353.