Claude Béata
Anche gli animali amano
Dalle origini animali dell’attaccamento
agli amori umani
Presentazione di Boris Cyrulnik
Traduzione di Riccardo Mazzeo
Indice
Presentazione di B. Cyrulnik
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Introduzione15
Capitolo primo
La forza di amare
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Capitolo secondo
La necessità di amare
69
Capitolo terzo
La libertà di amare
123
Capitolo quarto
La bellezza di amare
177
Capitolo quinto
Il rischio di amare
253
Epilogo
317
Bibliografia
321
Presentazione
Boris Cyrulnik
Si potrebbe forse vivere senza amore e senza dolore?
Ho conosciuto l’epoca in cui ci veniva insegnato che l’affetto non
era altro che un inquinamento dello spirito scientifico. Per effettuare una
buona osservazione medica, ci veniva detto, non bisogna interessarsi che
ai fatti. Ma non ci veniva spiegato che chi stabilisce un fatto scientifico è
una persona costituita dalla sua storia e dal suo contesto culturale.
Oggi, accade che l’affetto sia diventato un oggetto di studio scientifico
che ci permette di scoprire il nuovo continente dell’affettività. Claude Béata
è uno dei primissimi veterinari esploratori di questa terra sconosciuta in
cui gli animali ci aiutano a comprendere come possa essere intessuto un
attaccamento.
Come potete pretendere, ribattono certuni, che degli animali, macchine biologiche, possano farci concepire il delicato sentimento etereo
dell’amore? Be’, risponde Claude Béata, il punto è che gli animali hanno
smesso da tempo di essere delle macchine. Abbiamo scoperto il cervello
delle loro emozioni e della loro memoria. Da Darwin in poi, sappiamo
come esprimano i loro slanci affettivi per accostare coloro che amano,
fuggirli o minacciarli quando nella loro memoria si è inscritta un’esperienza difficile.
Partendo alla scoperta dei mondi mentali degli animali li comprendiamo meglio e, grazie a ciò, mettiamo in luce ciò che condividiamo con
loro e ciò che da loro ci differenzia.
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Anche gli animali amano
Che si tratti di uccelli o di mammiferi superiori, come i delfini, i cani,
i gatti, le scimmie e gli esseri umani, quando un incidente dell’esistenza
ci priva della possibilità di legarci a un altro, tutte le nostre possibilità di
sviluppo si bloccano perché apparteniamo a una specie in cui un individuo
ha bisogno di un altro per diventare se stesso. Ma, per osservare un legame
che si imbastisce fra due organismi, fra due mondi mentali, dobbiamo
assumere un atteggiamento che integri svariate conoscenze: neurologiche,
emozionali, comportamentali e culturali.
Claude Béata racconta, con un linguaggio molto semplice che non
esclude affatto il rigore scientifico, la storia poetica di Salsa, il pappagallo
matematico che non riesce a separarsi da una femmina, di Chiquita, la
gatta madre di Hermione e del puledro che studia il triplo galoppo. Questi
aneddoti divertenti permettono all’autore di illustrare alcune scoperte scientifiche recenti e di chiarificare problemi filosofici fondamentali: il cortisone
secreto da uomini e animali non può spiegare tutti i danni cerebrali provocati
dall’eccesso di stress. Alcuni neuromediatori come la tenera ossitocina o la
vigorosa vasopressina diventano a loro volta idoli culturali che tutti citano
per spiegare i propri sentimenti.
La condizione animale ci aiuta a delineare meglio i contorni della
condizione umana. Molti pensatori credono ancora che l’uomo si caratterizzi per la coscienza della propria morte. Gli elefanti non sono d’accordo
e li smentiscono poiché si inibiscono alla presenza di un cadavere della
stessa specie. Percepiscono «il» morto rappresentandosi «la» morte perché
ricoprono il suo corpo di ramaglie. Più tardi tornano sul luogo di questa
«sepoltura» e gemono davanti ai resti mentre i piccoli saltellano attorno ai
loro genitori addolorati.
Persino il tabù dell’incesto come fondatore della cultura umana viene
contestato dagli animali. Nell’insieme del mondo vivente, esiste un processo
che tende a disperdere i geni. Nell’ambiente naturale gli animali legati da
parentela si accoppiano di rado. Fin dalla pubertà, i giovani, cacciati dal
gruppo, sono costretti ad accoppiarsi lontano da esso. Succede però che
abbiano relazioni sessuali fra loro e che un oracolo dica a Edipo-animale:
«Hai fatto tre figli con tua madre», e che non si accechi. In effetti, l’inibizione dell’accoppiamento tra parenti che gli umani chiamano «incesto» è un
processo emozionale, mentre l’interdetto dell’incesto sanziona verbalmente
tale incontro sessuale designato come un crimine.
Presentazione
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Sembra che cinque milioni di inglesi (e diciassettemila francesi) si siano chiesti perché i topi campagnoli delle pianure formassero coppie fedeli
mentre i topi che vivono in montagna danno vita a coppie instabili. Forse
gli inglesi chiederebbero consiglio a questi piccoli roditori per spiegare le
loro seccature personali?
Ho conosciuto Claude Béata poco dopo che aveva concluso i suoi
studi veterinari, allorché già cominciava le sue ricerche sui disturbi dei
comportamenti degli animali. Fin da allora fui affascinato dalla sua gioiosità, dalla sua chiarezza e dal suo rigore scientifico. È un insegnante molto
richiesto perché nei suoi corsi, così come in questo libro, alterna le belle
immagini di film sugli animali con idee scientifiche assolutamente fondate
e con intensi scoppi di risa.
Allora, perché privarsi del «gioioso sapere» che ci propone?
Introduzione
Può sembrare incongruo che un veterinario si metta a parlare d’amore.
Non dovrebbe lasciare queste cose ai romanzieri o ai filosofi?
D’altro canto i biologi, gli etologi, talvolta persino i legislatori e i
filosofi non si pongono problemi nel parlare di animali senza conoscerne
le sofferenze e le gioie! È sempre sorprendente constatare la presenza molto
rara dei veterinari — e ancor più dei veterinari comportamentisti — quando
si tratta di parlare dell’animale in nome della scienza o della filosofia, come
se questi tecnici della salute, fisica o comportamentale, non avessero niente
da dire e non disponessero di alcun contributo da fornire.
Riteniamo tuttavia di essere gli spettatori quotidiani della manifestazione di un legame forte, spesso buffo e armonioso, talora doloroso e dalle
conclusioni tragiche. È amore la parola che viene in mente quando i nostri
interlocutori non ce la impongono: «Se sapesse quanto lo amiamo…».
Il fatto che i proprietari possano amare il loro animale non sorprenderà
nessuno. Indubbiamente sorprende di più constatare quotidianamente
che anche gli animali «amano», con o senza virgolette, come vedremo. E
allora, cominciando con i cani e con i gatti, e anche con gli umani che li
accompagnano, d’improvviso si impone l’evidenza dell’importanza del legame, il desiderio di testimoniare ma spingendosi più lontano, chiamando
sul banco dei testimoni tutte le specie con cui condividiamo la capacità di
attaccamento per, alla fine, interrogare l’umano, la sua capacità di amare,
la sua comunità e le sue differenze rispetto agli altri animali.
16
Anche gli animali amano
«È dell’amore che soffriamo, anche quando crediamo di non soffrire di
niente»,1 scrive il romanziere Christian Bobin, e questa frase mi accompagna
ormai da anni: se è ovvio che si applichi agli umani, mi è sempre sembrata
altrettanto appropriata per gli animali di cui dovevo prendermi cura. In un
mio libro precedente,2 la cagna Jade ci aveva appunto dischiuso le porte dei
disturbi del comportamento e avevo detto fino a che punto questa parte della
psicopatologia costituisse una fascinazione per me. Non è possibile parlare
di attaccamento nell’animale senza presentirne immediatamente le analogie,
le corrispondenze con quel che viviamo nella nostra vita di umani. Anche
se il fatto di non cedere all’antropomorfismo resta una volontà costante,
sarebbe frustrante sul piano intellettuale rifiutare di vedere i ponti che ci
collegano, tanto sono numerosi.
Essere veterinario, e più ancora veterinario comportamentista, significa
dunque per me essere quotidianamente immerso nell’amore. Amore dei
proprietari per il loro animale malgrado i suoi difetti, amore degli animali
per il loro padrone nonostante i suoi immancabili, sistematici errori. Si
tratta di un primo insegnamento che ci rivela in che misura si stia parlando
proprio di attaccamento: il legame non è proporzionale alla soddisfazione che
procura. Talvolta, perfino spesso, la situazione è paradossale e i disturbi del
comportamento dell’uno, o i controsensi dell’altro, finiscono per rafforzare
ancora di più il legame.
Ho quindi colto l’opportunità di partire dal caso particolare della mia
pratica, dall’esperienza quotidiana, per andare verso concetti più generali e
per seguire la pista di un meccanismo universale. Gli animali hanno qualcosa
da insegnarci: sono i testimoni viventi della nostra appartenenza alla stessa
comunità del legame. Seppure non hanno le nostre capacità cognitive —
ma noi possediamo le loro? —, condividono comunque con noi il mondo
delle emozioni fondamentali. Guardarli, comprenderli, ci permette anche
di conoscere meglio noi stessi come esseri umani. E se non è mai questione
di ridurre l’uomo alla sua parte animale, perché volerla occultare in modo
così sistematico?
C. Bobin, L’Inespérée, Paris, Gallimard, 1996.
C. Béata, La psychologie du chien, Paris, Odile Jacob, 2004, trad. it. La psicologia del cane,
Trento, Erickson, 2005.
1
2
Introduzione
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Amare è una caratteristica comune a determinate specie di cui l’essere
umano fa parte. Poter mettere tutto in parole, sapersi proiettare nell’avvenire, non potersi mai disfare dei morsi del passato costruisce un rapporto
con l’amore indubbiamente differente da quello degli animali ma, una
volta di più, ci troviamo di fronte più a una differenza di grado che a una
differenza di natura. Vedremo che in alcuni animali esiste, in forma talvolta
appena abbozzata, tutto ciò che pensiamo spesso sia appannaggio unico
dell’umano: la passione, l’incapacità di sopravvivere all’essere amato o, al
contrario, la resilienza.
E ciò non ci toglie nulla, tanto non c’è bisogno di contorcimenti
intellettuali per rendersi conto che la nostra specie è capace di prestazioni
particolari. Mi sembra, in compenso, che vi sia tutto da guadagnare nel
considerare le radici comuni, la catena ininterrotta che formiamo con gli
animali, per comprendere talvolta ciò che, in noi, soffre o palpita.
Allora, per concludere il percorso, potremo ricordare che, da molto
tempo, da molto più tempo di quanto la nostra memoria possa serbarne
traccia, cani e umani hanno deciso di vivere insieme e tutti i giorni si assumono il rischio di amarsi.
Capitolo primo
La forza di amare
Devono andare liberamente
Come i pesciolini nel mare
O le stelle nei cieli
Mentre voi, voi restate
la riva verso cui tornano di tanto in tanto.
Frances Cornford, nata Darwin
L’attaccamento non è una scelta. È un motore, una forza vitale che
orienta tutta la vita degli individui. Le specie i cui piccoli si sviluppano in
questo meccanismo brillante e sottile hanno occupato, a poco a poco, nel
corso dell’evoluzione, un posto privilegiato. Se contano solo le cifre nel numero delle specie, nella quantità di individui, allora gli insetti sono i grandi
vincitori nell’occupazione del nostro pianeta. La strategia di massa degli
insetti, capaci di adattarsi a tutte le condizioni ecologiche, indistruttibili
(nessuna specie di insetto è mai sparita a causa dei pesticidi usati contro
di essa), è vincente con un’unica restrizione: per quanto ne sappiamo, l’individuo non esiste, è votato alla sopravvivenza della specie. In compenso,
se ci interessiamo al mondo degli esseri viventi per i quali esistere è anche
un’avventura individuale, l’apparizione dell’attaccamento ha apportato un
guadagno evolutivo innegabile.
Poiché nella natura non c’è niente che sia un vantaggio senza costituire
al tempo stesso una fonte di rischio, questa forza ha anche il suo tallone
20
Anche gli animali amano
d’Achille e la sofferenza da temere è proporzionale all’efficacia del meccanismo quando non c’è niente a ostacolarlo. Ma, prima di considerarne i
fallimenti, cerchiamo di comprendere come l’attaccamento si manifesti,
quale sia il meccanismo semplice che lo agisce e come si possa osservarlo.
Più vicino a te…
L’attaccamento innesca la ricerca di prossimità. Con una cronologia
precisa che cambia in funzione della specie e dell’individuo, vediamo un
balletto la cui stella centrale è l’essere di attaccamento, la madre nella maggior parte dei casi. È facile comprendere l’importanza dei sistemi sensoriali
nel porsi in essere corretto del meccanismo. L’altro, il centro del mondo
del neonato, quale che sia la sua specie, deve essere identificato sulla base
di caratteristiche proprie e differenziato, riconosciuto.
Numerose esperienze testimoniano come i piccoli riconoscano colei
che non devono perdere per poter sopravvivere. Il neonato umano segue
con lo sguardo le forme che evocano un viso; il cucciolo, dal canto suo,
tesaurizza il tatto e l’olfatto, cieco alla nascita e per almeno quindici giorni!
L’attaccamento nasce nella sensorialità propria a una specie e, poiché sarebbe
decisamente troppo arrischiato basare la sopravvivenza del piccolo su un
unico canale sensoriale, tutti i sensi vengono poi messi in moto per individuare quest’essere che è l’alfa e l’omega dell’universo agli inizi della vita.
Abbiamo parlato della cronologia dell’attaccamento. È significativo
constatare che l’attaccamento non è immediato né per la madre né per i
piccoli. La natura si concede un margine di errore. Una cagna o una gatta
conta i suoi piccoli solo dopo un paio di giorni. E i nostri piccoli carnivori
domestici e familiari cominciano ad attaccarsi alla loro madre solo una
quindicina di giorni dopo la nascita, quando la loro competenza sensoriale
migliora.
Nella mia clinica veterinaria, avevo potuto osservare che le madri
conoscono bene il numero di piccoli che hanno nella loro figliata (per la
madre, salvo rari casi, è più facile). Così, una volta, ospitavo una gatta madre
di una figliata di cinque gattini che era un vero modello materno. Leccava
i suoi gattini, li teneva fra le zampe, faceva le fusa mentre poppavano —
insomma, un’immagine classica e quotidiana dell’attaccamento materno
La forza di amare
21
nel gatto, spesso ripetuta, sempre commovente. Come ci capita spesso,
una persona di buon cuore ci ha portato un gattino, trovato in un sacco di
plastica, un orfanello come ve ne sono tanti nelle nostre strade e per i quali
noi non abbiamo, in linea di principio, soluzione. Quel giorno, mi è venuta
voglia di fare un’esperienza innocente, di tentare una soluzione naturale
che si osserva però di rado. Ho messo il gattino orfanello in una gabbia,
da solo, con la porta aperta. Ho aperto anche la porta della gabbia della
gatta che si occupava dei suoi piccoli. Mi sono appostato in un angolo della
stanza e ho aspettato. Il gattino isolato ha cominciato a emettere gridolini
acuti, caratteristici della ricerca dell’essere di attaccamento — analoghi ai
pianti dei nostri poppanti che infallibilmente riportano le loro mamme a
contatto con loro.
Nella sua gabbia, apparentemente serena e appagata, la giovane mamma gatta distendeva le zampe a mo’ di massaggio facendo poppare tre dei
cinque gattini. Le grida del gattino, a qualche decina di centimetri da lei,
le hanno fatto improvvisamente sollevare il capo e si è messa a guardare i
suoi gattini l’uno dopo l’altro con un’aria interrogativa e poi inquieta. Se
l’avesse fatto una volta sola, nutrirei ancora qualche dubbio, ma sono pronto
a giurare che molte volte di seguito le ho visto contare i suoi gattini. Non ne
mancava nessuno, naturalmente. E tuttavia, un gattino urlava non lontano
da lei. Turbata, si è alzata e ha messo la testa fuori dalla gabbia, ha annusato l’aria e poi, con una lentezza infinita, si è diretta verso l’angolo da cui
provenivano i miagolii addolorati. Ha girato la testa verso i suoi gattini che
cominciavano ad agitarsi ed è ritornata da loro. Ma le grida non cessavano
e allora è ripartita verso la gabbia dell’orfanello. Lo ha annusato con attenzione molte volte e questo non deve aver evocato granché in lei. Ma, al suo
contatto, i vocalizzi si erano modificati e si spegnevano dolcemente. L’olfatto
non ha innescato nulla e lei è tornata nella sua gabbia con i suoi piccoli ma
senza calmarsi. Le sue orecchie si muovevano continuamente. Tutto il suo
corpo manifestava movimenti di attenzione orientati verso l’altra gabbia.
Ha annusato nuovamente i suoi gattini, le grida di sconforto sono riprese
poco lontano. Improvvisamente, si è alzata, è andata verso l’altro gattino,
lo ha leccato, lo ha preso per la collottola e se l’è portato nella sua gabbia.
Mi si potrà obiettare che questo aneddoto non testimonia in favore
di un attaccamento molto individualizzato. Io ne deduco al contrario che
l’amore sa contare, ma che non è egoista.
22
Anche gli animali amano
In ogni caso, questa giovane gatta «sapeva» che l’unica opportunità
del gattino era di ritrovarsi in contatto con un essere che potesse occuparsi
di lui. Lo sviluppo non è reso possibile dalla distanza.
Più le madri hanno esperienza, più sono capaci di liberarsi dalle costrizioni biologiche. I pastori sanno che è vano cercare di far adottare un
capretto da una capra primipara, salvo eventualmente ricoprendo il piccolo
con la placenta uscita da questa capra. In compenso, dopo qualche nascita,
l’apprendimento della maternità svincola l’animale dalla stretta necessità del
legame biologico e gli allevatori sanno quali delle loro madri sono capaci di
accettare con piacere e di nutrire una prole che non sia loro. Tutto avviene
come se la femmina avesse imparato, durante le settimane passate con i
piccoli, che vi è anche un guadagno, un beneficio emozionale in questa
relazione per colei che offre le sue cure, che apporta la protezione, la base
di sicurezza. Non mi risulta che questa parte della relazione abbia costituito l’oggetto di alcuno studio scientifico. È sempre più difficile mettere in
evidenza e misurare il piacere rispetto al dolore. Per decidere di osservarlo,
bisogna che una simile ipotesi esista nel campo della ricerca e che non si
tratti di un «oggetto scientifico non identificato».
A me piacciono tantissimo gli oggetti scientifici non identificati! Il
cambiamento di cornice di riferimento, di punto di vista, ci offre l’opportunità di scoprire un’altra realtà.
Torniamo alle nostre capre, ai nostri cuccioli e ai nostri gattini.
L’attaccamento non è dunque immediato ed eccoci quindi ridotti a
fare ipotesi. È perché il parto in tutte le specie, e ancor oggi finanche per
la donna, resta un episodio pericoloso che bisogna lasciare al piccolo e alla
madre il tempo di sopravvivere prima di cominciare ad attaccarsi?
Questo differimento permette di mettere in campo diversi meccanismi
sensoriali che sostengono l’attaccamento. Nelle nostre specie domestiche, la
cecità e la sordità naturali dell’inizio della vita rendono i piccoli meno competenti per l’attaccamento, anche se i loro sensi tattile e olfattivo delineano
già i contorni dell’essere rassicurante. Questo meccanismo riveste una tale
importanza nella protezione del piccolo che sarebbe impensabile dipendesse da un’unica funzione sensoriale. L’essere di attaccamento è dunque, ad
esempio per il cane, per ordine di apparizione delle sensazioni, dei gusti,
degli odori, dei suoni e infine delle immagini. Questa modalità multipla
di riconoscimento sopperisce al deficit dell’uno o dell’altro canale e si può
La forza di amare
23
immaginare che più la coerenza tra le informazioni sensoriali è grande, più
l’essere di attaccamento è rassicurante.
In caso di necessità, il tempo della costruzione dell’immagine definitiva
facilita la sua sostituzione. L’immagine sensoriale ancora fluida può essere
adattata a un nuovo essere in caso la madre muoia o se ne vada. Tutto l’equilibrio emozionale si costruirà sulla base di questo legame: il riconoscimento
efficace dell’essere che ne è il supporto e che costituirà la base della sicurezza
è dunque un punto da non trascurare. La sua conoscenza sensoriale da parte
del piccolo che vi si è attaccato dev’essere perfetta. Quando una situazione
d’allarme attiva questo meccanismo, tutti i canali sensoriali entreranno in
gioco per ritrovare al più presto l’essere che ristabilisce la calma e assicura la
protezione. La nozione di base sicura non è mai così importante come quando
ne siamo lontani. È stato necessario che il mio lavoro mi trascinasse spesso
a centinaia o migliaia di chilometri di distanza perché avessi la coscienza
fisica dell’esistenza di un angolo rassicurante, il mio nido.
Se l’attaccamento procura piacere ai due partner, dà anche la possibilità
della permanenza della sensazione di sicurezza che consente l’allontanamento.
Se mi ami, posso andarmene…
Il sottile paradosso dell’attaccamento consiste anche nel fatto che
l’amore ai suoi inizi si manifesta in modi differenti ed è per questo che la
transizione fra l’amore-passione e l’amore-attaccamento è così difficile da
realizzare per molte coppie.
Ma, di questo, parleremo dopo.
L’attaccamento ha come conseguenza prevedibile, e indubbiamente
come scopo, di rendere il piccolo autonomo pur proteggendolo. Apporta
a tutti gli esseri che si sviluppano nel suo bozzolo, e quando tutto va nel
migliore dei modi, la certezza che esista, da qualche parte, qualcuno che li
proteggerà rispetto a quanto di peggio possa accadere.
È allora comprensibile che, come suggerito da Frances Cornford, questo
legame sia differente per i due partner. Per la madre, o per il soggetto di
attaccamento che riveste il ruolo di genitore, si tratta di essere presente, di
essere prevedibile e di rispondere alle richieste del piccolo.
Capitolo terzo
La libertà di amare
La verità scientifica è segnata dalla coerenza e dall’efficacia.
La verità poetica è segnata dalla bellezza.
Aimé Césarire
L’attaccamento non è una scelta. Cionondimeno, porta in sé la libertà. Il
modo in cui amiamo è anche la prova della nostra unicità. Umano o animale,
padre o madre, amico o innamorato, fedele o volubile, ciascuno di noi ama
e ciò ci avvicina, ma amiamo tutti in maniera differente e ciò ci rende unici.
La capacità di stabilire un attaccamento si basa su fenomeni così differenti come la conoscenza dell’altro e la decifrazione delle sue emozioni. Per
poterla comprendere nella sua globalità, bisogna senz’altro guardare le cose
in modo differente, smettere di tenere in ostaggio la natura passando tutto
al setaccio dei nostri valori umani e del nostro filtro morale o culturale. Ciò
che ci dice Aimé Césaire sembra essere stato scritto per l’attaccamento che sa
unire in un solo mazzo i fiori della coerenza, dell’efficacia e della bellezza per
affermare che verità scientifica e verità poetica possono coesistere, invitandoci
così a nuovi modi di pensare. Farlo significa autorizzarsi a compiere scoperte
incredibili, e l’attaccamento non è mai così sorprendente come quando si
manifesta laddove non ce lo si aspetterebbe.
Anche una cosa del genere appassiona: come mai il fenomeno della
paternità, la cui probabilità è molto debole fra i mammiferi, in cui i maschi
124
Anche gli animali amano
mancano di qualunque opportunità di conoscere l’attaccamento genitoriale,
finisce comunque per manifestarsi in un certo numero di specie? E cosa
possono insegnarci gli uccelli, che per tanto tempo sono stati considerati il
modello dell’assenza di cognizione evoluta e le cui capacità vengono oggi
riscoperte?
E se ciascuna specie ha già il proprio modo particolare di stabilire e
mantenere l’attaccamento, non dobbiamo mai dimenticare che all’interno
di ciascuna di queste specie ogni individuo, ogni diade madre-figlio, deve
trovare la sua maniera personale ed esclusiva di amare.
Natura o cultura?
Poniamo spesso le domande sbagliate agli animali, domande da umani alle quali fanno fatica a rispondere e che li fanno passare per stupidi.
Talvolta, in sogno, vedo un’assemblea di delfini intenti a studiare degli
umani che un nuovo diluvio avrebbe costretto a una vita acquatica. Forse,
il delfino con lo spirito più aperto comincerebbe la sua lezione inaugurale
sulla specie umana nel modo seguente: «Cari colleghi e amici, vi assicuro
che questa specie non è priva di interesse. Certo, si tratta di poveri esseri
sprovvisti della capacità di dormire nuotando, come noi. Sono anche incapaci di reggersi su un piede solo su un tronco galleggiante e di riposarsi
come fanno alcuni uccelli amici nostri. Non sto neppure a parlarvi della loro
velocità di nuoto… Malgrado questi handicap e le loro note insufficienze
(pensate che non possiedono neanche un sistema di ecolocalizzazione),
nonostante i loro scarsi risultati al DIAT (Dolphin Intelligence Assessment
Test — una parte del quale si fonda sul riconoscimento radar di banchi
di pesci mentre un’altra sezione esamina i vocalizzi di base che un piccolo
di delfino possiede già a sei mesi), continuo a pensare che siano dotati di
una forma primitiva di intelligenza».
Mi risveglio di soprassalto: era solo un sogno. La terraferma è ancora
qui, possiamo ancora distruggerla o proteggerla e cercare di non sottoporre
agli animali problemi insolubili, riflettendo invece in loro compagnia sulle
grandi questioni della nostra esistenza.
Ciò non vuol dire neppure sedersi attorno a un tavolo con un delfino,
un elefante e un bonobo: vorrebbe dire sbagliare ancora una volta e ripro-
La libertà di amare
125
durre l’ingiustizia. È solo un’arringa in favore di un’altra forma di osservazione basata sul rispetto, sulla curiosità, sul divertimento, sulla solidarietà
e naturalmente sull’amore.
Fra le centinaia di migliaia di pubblicazioni scientifiche, c’è lo spazio
per questa nuova via e la vediamo affiorare con piacere. Evitiamo dunque di
chiedere agli animali se sanno di amare, ma guardiamoli amarsi e cerchiamo
di trovare le armonie che ciò può indurre in noi. Ragioniamo di meno e
risuoniamo di più!
L’attaccamento è alla radice delle altre relazioni affiliative o bisogna
immaginare un nuovo fossato, ad esempio fra l’attaccamento e l’amore
romantico, o fra la paternità e la maternità? Riprendendo il cammino fra le
specie che ci accompagnano, dovremo scorgere il limite, se esiste, identificare
le differenze di natura e di funzione o, al contrario, far emergere la continuità.
L’attaccamento è un fenomeno attivo che va dal piccolo verso la madre,
ci ha detto Bowlby che si rifiutava di usare lo stesso termine per il comportamento di quest’ultima. Ha preferito usare le parole «comportamenti di
cura». Leggendo questo non ho mai potuto fare a meno di avere immagini
istantanee di madri scimmie o di madri cagne con un cappello a bustina da
infermiera chine sul loro piccolo o sulla loro figliata.
Conosciamo la comunanza delle strutture implicate nell’attaccamento
dei due protagonisti e sappiamo che, in gran parte, si sovrappongono e si
situano nel cervello profondo, emozionale. Questo motore situato nel sistema
limbico è interessato da regolazioni e influenze tanto più complesse quanto
più la corteccia prefrontale aumenta di importanza. Nell’essere umano, il
legame è sublimato dalle dimensioni simbolica, culturale, forse religiosa, che
non prenderemo in considerazione per gli animali. Ma è anche nella nostra
specie che le condizioni ecologiche (bambini separati dai genitori), politiche
(gli orfanotrofi della Romania e di tanti altri Paesi), morali (ragazze madri,
bambini nati da uno stupro, ecc.) o religiose (freni posti alla contraccezione,
condanna degli aborti perfino in casi estremi di incesto o stupro) possono
soprattutto deteriorare la relazione primordiale madre-figlio.
La complessità della civiltà umana aggiunge dunque un’ulteriore incognita, e pesante, nell’equazione già difficile dell’attaccamento.
Nella civiltà dei ratti, ora lo sappiamo, la leccatura rappresenta l’alfa
e l’omega dell’attaccamento: c’è nella femmina di ratto una ripartizione
normale, gaussiana, del comportamento di leccatura, con le note conse-
126
Anche gli animali amano
guenze sul grado di coraggio dei piccoli.1 Molti non esiteranno a spingersi
oltre e immagineranno che, anche per l’essere umano, il comportamento
dell’essere di attaccamento, la madre nella maggior parte dei casi, sia dunque
responsabile dello sviluppo del piccolo. E se questo è in parte innegabile,
i nuovi dati permettono di sapere che la madre è solo un elemento delle
condizioni dello sviluppo del piccolo, anche se lei è il sole della sua galassia.
Troppe madri sono state segnate a dito nel corso dei decenni passati, ritenute
responsabili di disturbi gravi come la schizofrenia e l’autismo, per non dover
cominciare a presentare loro delle scuse a nome di tutti gli scienziati. Al
tempo stesso, per comprendere, è anche necessario accettare di esaminare
la relazione e le sue conseguenze, avanzando però in punta di piedi su un
sentiero irto di pericoli.
Per le specie che allattano, come le mucche, le capre o le pecore, gli
allevatori non esitano a parlare di «buona madre» o di «cattiva madre» in
funzione della loro accettazione più o meno spontanea della loro progenie,
della quantità di latte prodotta, e anche della capacità di adottare un orfano.
I termini «buono» e «cattivo» riflettono realtà economiche e oggettive nel
mondo degli allevatori, ma la trasposizione di questi termini è irricevibile
nel nostro mondo umano. È il grande rischio della teoria dell’attaccamento. Essa può sia illuminare il mondo e aiutare a comprendere fino a che
punto vi siano, prima di tutto, dei sentimenti positivi che legano gli esseri
viventi fra loro, sia permettere di intravvedere tutte le variazioni, tutti i
diversi funzionamenti, tutte le maniere specifiche di amare, sia diventare
uno strumento temibile di categorizzazione. Per coloro che sono incapaci
di sfumature, questi studi rischiano molto in fretta di portare a conclusioni
drammatiche: le madri sono buone o cattive; il loro comportamento materno
fabbrica bambini più o meno adatti al mondo, dei vincitori dalla fiducia
illimitata in se stessi o dei vinti in partenza fragili sui loro piedi d’argilla;
che siate un cucciolo o un umano, se siete stato amato male, amerete male
e sarete incapace di stabilire relazioni armoniose; se l’attaccamento materno,
per qualunque motivo, è stato di cattiva qualità, allora la maledizione si
trasmetterà di generazione in generazione. Difficile non sentirsi terrorizzati
di fronte a un simile inventario.
Si veda anche il capitolo secondo, La necessità di amare.
1
La libertà di amare
127
Ora, non è difficile rendersi conto che questo non è vero. Tali influenze
esistono, sono innegabili, ma possono anch’esse essere sottese ad altri fattori
suscettibili di realizzare un avvenire diverso. La questione natura o cultura
mostra ancora una volta tutti i suoi limiti: voler definire dei limiti precisi
fra ciò che è fissato sul frammento di DNA e ciò che viene trasmesso dal
contesto porta a delle impasse esplicative, come nel caso dei topolini.
Un ratto adulto intrepido può essere nato da madre intrepida, leccatrice, ed essere stato allevato da lei, o essere nato da una madre paurosa ed
essere stato allevato da un adulto gran leccatore, e si può scommettere che,
in una figliata di ratti paurosi, ce ne sono almeno uno o due più coraggiosi
degli altri. Bisogna poi mettere tutto ciò in relazione con il contesto: in un
ambiente molto ostile, i prudenti sopravvivranno meglio, mentre i temerari pagheranno un pesante tributo. Le proporzioni di paurosi e coraggiosi
verranno modificate in funzione di chi ne definirà i termini, e laddove noi
vediamo oggi degli intrepidi e dei paurosi, un’altra cultura li definirà degli
incoscienti e dei prudenti.
Sembra dunque esserci una sola strada: riconciliare queste branche differenti della scienza. Non si tratta di impedire a chicchessia di approfondire
tale ricerca superspecializzata, ma ogni risultato dovrebbe essere sottoposto
a un comitato integrativo composto da esperti di diverse discipline, magari
lontane l’una dall’altra, magari persino opposte, per permettere la sintesi
delle conoscenze.
Maternità e paternità
Partiamo da questo riferimento che abbiamo cominciato a delineare,
la maternità le cui manifestazioni inducono meraviglia e prudenza. Quando
il grado di libertà aumenta, le variazioni comportamentali si manifestano e
non dicono niente sulla quantità o sulla qualità dell’amore.
Madri e meraviglie
In ogni caso, ogni piccolo, che si tratti di un topo, di un delfino, di
un cucciolo o di un umano, nasce da una madre, non la sceglie e vive con
il bagaglio genetico, epigenetico e contestuale che colei che gli ha dato la
128
Anche gli animali amano
vita gli concede. Già durante la gravidanza, e poi ancora dopo il parto, le
condizioni ambientali esercitano la loro funzione. Le madri sono differenti,
e questa è una ricchezza per ciascuna specie. I due poli dell’attaccamento
— sicurezza e piacere — varieranno in modo separato, creando un’infinità
di pattern di attaccamento. Pur rivendicando tali differenze e senza posare
un qualsivoglia sguardo morale sulle maniere diverse di essere madre, ciò mi
sembra sempre la maniera più semplice di sentire la continuità del vivente.
La maggior parte delle donne, guardando le immagini di una leonessa con i
suoi leoncini, di una femmina di delfino con i suoi piccoli, di una femmina
di elefante o di scimpanzé con i loro piccoli, prova un sentimento profondo
di familiarità, di solidarietà. Hanno la sensazione profonda di comprendere
che cosa prova quella femmina: «empatia» è una parola importante, è facile.
Ciò è ancora più vero per le donne che hanno già partorito, ma perfino le
nullipare (questo aggettivo ovviamente non comporta alcun giudizio di
valore), quelle che non hanno conosciuto né le gioie né le sofferenze della
maternità, ne sono spesso commosse.
Già nel 1943, Lorenz aveva mostrato perché siamo così commossi
dalla vista dei piccoli, quale che sia la loro specie: forma arrotondata del
cranio, grandezza sproporzionata degli occhi nel viso, sono tutti elementi
che innescano delle «pulsioni di cura» negli adulti, e ciò funziona anche fra
specie differenti. Uno che ha capito molto bene tutto questo è Walt Disney,
i cui personaggi positivi corrispondono in generale a questa descrizione.
Nella specie umana, anche se le femmine sono più sensibili a questi
segnali e si mostrano migliori, in generale, nell’empatia, uomini e donne,
ragazzi e ragazze, possono essere commossi da queste immagini. Va detto
che apparteniamo a una delle rare specie di mammiferi in cui il padre si
occupa dei suoi piccoli. Insomma, per lo meno alcuni padri… Secondo i
ricercatori, una percentuale che va dal tre al cinque per cento delle specie
di mammiferi vede i maschi prendere parte alla cura dei piccoli. Piuttosto
poco! Tanto più che bisogna relativizzare quel che si definisce «partecipare
alle cure». Nella maggior parte dei primati, ciò resta confinato al fatto di
trasportare il piccolo o i piccoli quando sia necessario. Non farò ai miei
congeneri l’affronto di ricordare che secondo un’indagine recente dell’INSEE
(Institut national de la statistique et des études économiques),2 gli uomini
INSEE, novembre 2011, n. 1377.
2
La libertà di amare
129
non svolgono che il venti per cento dei compiti domestici. L’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (minusc) si dispera
constatando la curva che si è invertita nell’ultimo decennio: mentre la parte
degli uomini impegnati nello svolgere lavoro domestico stava aumentando
in modo regolare, da dieci anni a questa parte ha ricominciato a diminuire
nonostante il numero di figli sia a sua volta diminuito. Per contro, fra gli
uccelli, la proporzione è inversa ed essi sono stati oggetto di molti studi
che cercano di spiegare quali benefici possano avere i maschi nell’occuparsi
degli uccellini.
Che si tratti di uccelli o di mammiferi, sottolineiamo subito che il
piacere di occuparsi dei propri piccoli, che avrebbe potuto essere misurato
in termini di aumento delle condotte di attaccamento, di contatti corporei,
di diminuzione della distanza, non viene mai evocato oppure è liquidato
in due righe.
Konrad Lorenz: la grazia dei volti
Fig. 3.1 Così carini! Comparazione delle caratteristiche facciali dei piccoli e degli adulti nelle
differenti specie (Eibl-Eibesfeldt, 1964, su Lorenz, 1943).
130
Anche gli animali amano
Un paio d’ali per i padri
Negli uccelli, l’ipotesi maggiormente tenuta in considerazione sembra
essere quella del guadagno riproduttivo. La maggior parte delle specie di
uccelli sono monogame sociali, vale a dire che formano coppie durevoli e
che i due partner passano la maggior parte del loro tempo fianco a fianco.
La definizione «monogamia sociale» è apparsa quando i ricercatori sono
stati in grado di controllare le firme genetiche e si sono accorti che, anche
nella classe degli uccelli, la proporzione di fecondazione avvenuta al di fuori
della coppia non era nulla se non in rare eccezioni e si verificava dal dieci per
cento a più del cinquanta per cento… La dizione «monogamia genetica» è
riservata ai casi in cui non vi è fecondazione al di fuori della coppia.
Il tasso di copule al di fuori della coppia sembra correlato in modo
inverso all’investimento paterno.3 Più le femmine hanno bisogno del maschio
affinché fornisca molte risorse, meno si assumeranno il rischio di avere una
relazione extraconiugale rischiando di diminuire così la volontà del padre
presunto di occuparsi delle uova con loro.
Dopo una vasta rassegna di comportamenti paterni di cura negli uccelli,
due ricercatori ne traggono conclusioni che li lasciano un po’ frustrati, e ciò
si percepisce nel modo stesso in cui descrivono la loro scoperta.4 Le specie in
cui le femmine hanno il minor numero di fecondazioni fuori dalla coppia
sono quelle che vedono il maschio partecipare alla cova. Un’evoluzione
parallela li conduce ad avere un dimorfismo sessuale inesistente o molto
debole: i maschi e le femmine si somigliano a tal punto che è difficile distinguerli. Forse è questa la fonte della palpabile tristezza dell’articolo: il
coinvolgimento dei maschi comporterebbe la perdita della loro specificità
e della loro bellezza?
Più i maschi si danno da fare «a casa», più perdono le loro specificità
e, in particolare, le loro piume spettacolari. Non dimentichiamo che fra gli
uccelli, nella stragrande maggioranza delle specie, sono i maschi che portano
S.C. Griffith, I.P. Farrar Owens e K.A. Thurman, Extra pair paternity in birds: A review
of interspecific variation and adaptive function, «Molecular Ecology», vol. 11, 2002, pp.
2195-2212.
4
E.D. Ketterson e V. Nolan Jr., Male parental behavior in birds, «Annual Review of Ecology,
Evolution and Systematics», vol. 25, 1994, pp. 610-628.
3
La libertà di amare
131
gli ornamenti della bellezza, i colori più vivi, per convincere delle femmine
a venire a condividere il loro nido.
Andrew Cockburn, in una pubblicazione più recente,5 confessa l’impossibilità di collegare tutti gli esempi di cure paterne a una sola ipotesi.
Nella sua esaustiva compilazione, ricorda che nell’uno per cento delle
specie i maschi si occupano da soli dei piccoli mentre questo è il privilegio
esclusivo delle femmine nell’otto per cento dei casi. Il caso più frequente
è l’allevamento in comune, con compiti che vanno dalla partecipazione a
tutto, compresa la cova, alla mera difesa del nido.
Quando si parla degli uccelli, non viene mai menzionata la nozione
del piacere. Bisognerebbe che questa idea nascesse affinché in seguito uno
spirito acuto trovasse un modo di cercarlo, provarlo e, perché no, misurarlo.
Una prima sorpresa per i ricercatori che potrebbe schiudere la porta a questa
via è quella di rendersi conto che i maschi prodigano delle cure a uccellini
che non sono loro! Ma nelle tassonomie, nelle discendenze evolutive in cui
più dell’ottanta per cento dei maschi partecipa all’educazione dei piccoli,
come si fa a non evocare dei benefici che vadano al di là di un semplice
guadagno riproduttivo?
Padri senza pietà
Fra i mammiferi le cose vanno diversamente. Sono rari i maschi che
partecipino all’allevamento. Per contro, non sono affatto rari gli infanticidi
e ci colpiscono molto, tanto appaiono contrari alla visione rousseauiana
secondo cui l’animale, compreso l’uomo, è buono per natura e non può
essere reso cattivo che dalla civiltà.
Nello studio dei comportamenti, la morale non trova ancora posto (lo
studio dei fondamenti della morale è ai suoi primi balbettii) e noi cerchiamo
di rispondere alle domande di Tinbergen:6 quali sono le cause distali di questi
infanticidi? Quale beneficio ne trae chi perpetra questi assassinii di piccoli?
Ancora una volta, dai leoni agli umani, dai delfini alle scimmie, l’ipotesi formulata è spesso la stessa: distruggendo la stirpe di un altro maschio
A. Cockburn, Prevalence of different modes of parental care in birds, «Proceedings of the
Royal Society of London», vol. 273, 2006, pp. 1375-1383.
6
Si veda il capitolo secondo, La necessità di amare.
5
132
Anche gli animali amano
o della femmina con cui vogliono accoppiarsi, gli animali che praticano
l’infanticidio favoriscono la dispersione dei loro geni.
In modo più immediato, molte femmine tornano ad essere disponibili
sul piano sessuale se non hanno più uno o alcuni piccoli da allattare o di
cui occuparsi.
È indubbiamente nei delfini, probabilmente la specie più romantica
della nostra epoca, che la realtà è più scioccante, ed è senza dubbio per
questo che i giornali destinati al grande pubblico non ritrasmettono in
genere queste scoperte. Gli stessi scienziati hanno impiegato molto tempo
prima di enunciare questa ipotesi, tanto essa appariva incoerente con la
rappresentazione che abbiamo di questo animale. Piccoli delfini possono
essere uccisi da squali se si allontanano troppo dalle loro madri, ma sembra
proprio che il rischio massimo provenga dai maschi della loro stessa specie.
La descrizione delle lesioni dei piccoli delfini fa fremere: ferite sulla testa e
sul torace con segni di denti che dimostrano attacchi sferrati da altri delfini;
emorragie polmonari legate allo sfondamento delle costole provocato da
testate; numerose lesioni interne. Le statistiche che si basavano sugli arenamenti tendevano a privilegiare la spiegazione di aggressioni da parte di altre
specie o di incidenti causati da navi. La verità è però emersa studiando le
focene incagliate. Le focene sono piccoli cetacei la cui statura adulta equivale
a quella di un giovane delfino (all’incirca un metro e venticinque). Erano
stati osservati attacchi dei delfini alle focene. Confrontando le lesioni delle
focene morte a seguito di questi attacchi con quelle presenti sui cadaveri
di giovani delfini non si è potuto che confermare l’ipotesi dell’infanticidio.
Flipper trasformato in Hannibal Lecter, difficile da digerire! Eppure…
Ciò che è stato provato al di là di ogni ragionevole dubbio, ad esempio nel leone, è che la mortalità dei leoncini aumenta quando una nuova
coalizione di maschi prende il potere, benché le troppo scarse osservazioni
dirette non consentano di stabilire se siano quegli stessi maschi a uccidere
i piccoli. E in numerose specie della natura, la constatazione è la stessa: i
maschi uccidono talvolta i piccoli della loro stessa specie, contraddicendo
il dogma dell’etologia moderna enunciato da Lorenz e Tinbergen e ripreso
da Eibl-Eibesfeldt secondo cui gli animali non ucciderebbero i loro simili.
Rendere le femmine disponibili sul piano sessuale o favorire la dispersione dei propri geni, sono queste le due tesi degli adattamentisti. Gli altri
gridano allo scandalo e ritengono che gli esempi di infanticidio siano rari e
La libertà di amare
133
indichino una patologia. Se bisogna sapersi meravigliare contemplando la
bellezza naturale, non bisogna però coprirsi gli occhi quando questo spettacolo diventa il peggior film dell’orrore. Mi era molto piaciuto Baxter, un
film che mostrava un cane dalla natura cattiva, occupato a infliggere sofferenze da tutte le parti: se un cane del genere è ben lungi dal rappresentare la
stragrande maggioranza dei cani, ogni tanto ne incontro uno che catalogo
nella mia mente con il nome di Baxter. Io non credo in una natura buona
che sarebbe stata pervertita soltanto dall’uomo. Non credo neppure che
l’appartenenza a una specie, e ancor meno a un’etnia, costituisca un fattore
affidabile per prevedere se ci troviamo di fronte a un individuo gentile o
malvagio, incline alla bontà e alla solidarietà o alla cattiveria e all’aggressione. Non è neppure una questione di convinzione, è solo una questione
di osservazione non aprioristica. Mettendo in figura il piacere, lo scopro
talvolta con tristezza in attività «negative» come l’aggressione, ma la tristezza
che mi suscita non è una ragione per rifiutare di vederlo. Nella mia attività
professionale, non formulo lo stesso pronostico se penso di essere di fronte
a un animale che talvolta morde per paura o per necessità o se invece mi
trovo di fronte un cane del quale sento che l’atto di aggredire e di mordere
gli procura sensazioni di intenso piacere.
La nascita dei padri
Perché così poche cure paterne fra i mammiferi? Più la gestazione è
lunga, meno è evidente il rapporto fra l’accoppiamento e la presenza del
piccolo, meno importanza assume l’investimento paterno.
Fra gli uccelli, la deposizione delle uova, le cure prestate insieme,
la cova talvolta condivisa, tutto questo coinvolge il maschio nelle cure
genitoriali. Anche quando il maschio non cova deve difendere il nido ed è
implicato nello sconvolgimento biologico. Nei mammiferi, in molte specie,
le femmine preferiscono allevare i piccoli nell’assenza di, o persino al riparo
dai maschi, e ciò è legato per molte madri al rischio di infanticidio. In ogni
caso si constata che questo comportamento di cure materne esclusive viene
osservato anche nelle specie in cui non è stato descritto alcun attacco dei
piccoli da parte dei padri.
Comunque, in alcune specie, i maschi si lasciano coinvolgere, ed è
buffo ritrovare alcuni dei compagni di viaggio di questo libro: se i delfini e
134
Anche gli animali amano
gli elefanti non ci accompagnano su questo sentiero, in compenso gli ordini
dei roditori, carnivori e primati raggruppano la maggior parte dei generi in
cui c’è un investimento paterno.
In modo evidente, la paternità — nel senso di relazione privilegiata
— è un soggetto che interessa poco i ricercatori: la sua rarità e la difficoltà
a trovarne una spiegazione sono di natura tale da scoraggiare i più curiosi.
Le ragioni avanzate dagli scienziati per chiarire i casi in cui i maschi partecipano non sono affatto convincenti. Tutte le ricerche sulla certezza della
paternità, ad esempio, partono dal presupposto che questi animali siano
capaci di stabilire un nesso fra la riproduzione e la nascita dei piccoli, il che
è difficile da dimostrare. Logicamente, o esistono dei marcatori biologici
che permettono a un individuo di sapere che una certa progenie è la sua e,
a quel punto, non vi sarà più alcun dubbio: potremo osservare le differenze
di comportamento fra gli animali la cui filiazione è certa e quelli per i quali
i segni di tale filiazione non esistono; o questa certezza sensoriale, biologica,
non esiste — e l’insieme delle osservazioni fa propendere per questa seconda
ipotesi —, e le spiegazioni sembrano molto curiose.
Ad esempio, in molte specie, le femmine avrebbero numerosi partner
per confondere le tracce e diminuire il rischio di infanticidio. Poiché i maschi hanno copulato più o meno tutti con queste femmine e non possono
essere sicuri di non essere i genitori, diverrebbero più tolleranti nei confronti
dei piccoli… Ma una cosa del genere presuppone di sapere che la copula
determina la procreazione, e sappiamo che nella specie umana questa conoscenza è abbastanza recente. Per giunta, in alcune specie caratterizzate
da una monogamia stretta e quindi da una quasi certezza di paternità, non
c’è alcun investimento paterno.
Altre ipotesi tirano in ballo il costo troppo elevato, in certe condizioni,
di lasciare la madre per trovare un’altra femmina disponibile. Sarebbe allora
più economico restare con la madre e aspettare che sia di nuovo disponibile
sul piano sessuale. In questo tipo di specie, potrebbero apparire comportamenti paterni di cura.
Infine, l’ipotesi di un comportamento paterno che derivi da determinati
modi di vita come la monogamia sociale non tiene poiché vi sono troppi
controesempi. La verità che si intravvede è quella di una coevoluzione: in
alcune specie di mammiferi appaiono, in effetti, in modo quasi simultaneo,
la monogamia sociale e un investimento paterno.
Capitolo quinto
Il rischio di amare
È sempre l’amore, in noi, che è ferito.
È sempre dell’amore che soffriamo,
anche quando crediamo di non soffrire di niente.
Christian Bobin
L’attaccamento non è una scelta. È un obbligo, per l’essere umano
e per molti animali. Ma i meccanismi dell’attaccamento parlano di tutto
fuorché di uguaglianza: da una specie all’altra, ma anche all’interno della
stessa specie, ogni individuo nasce e sviluppa un attaccamento particolare.
Deve lavorare con i suoi strumenti, la sua genetica, la sua biologia, il suo
ambiente, per poter subire o approfittare, sublimare o ferirsi a causa di ciò
che è spesso la più bella ragione di vita.
Il rischio si coglie meglio alle estremità in cui l’evidenza della sofferenza
non ha più bisogno di dimostrazione: non attaccarsi del tutto può impedire
di cominciare a vivere; essere attaccati in modo assoluto può impedire di
sopravvivere.
Naturalmente, esistono tutti i gradi intermedi: attaccarsi troppo, attaccarsi male, non riuscire a staccarsi, espongono al rischio, ma anche non
amare abbastanza o non sentirsi abbastanza amati rende vulnerabili. Tutti
gli squilibri dell’attaccamento generano sofferenza.
Esiste senza dubbio un legame ideale che può essere differente a seconda delle circostanze: un attaccamento materno che protegge da tutti i
254
Anche gli animali amano
pericoli, ma che consente anche tutte le esplorazioni; un amore romantico
che consuma tutto il resto nella passione, ma che lascia spazio a sufficienza
per preservare la propria unicità. Tutti cerchiamo i punti di equilibrio, ma
si tratta di un punto virtuale sia nel tempo sia nello spazio: quello che sarebbe stato un amore perfetto nel Diciassettesimo secolo diventa qualcosa di
insopportabile quando prevale l’amore romantico. L’uguaglianza fra i sessi,
rivendicazione legittima che non dovrebbe più essere in questione, diventa
un vero problema quando si crea confusione fra uguaglianza e identità.
Dire che gli uomini non sono delle donne e che i padri non saranno mai
delle madri non dovrebbe esporre ad accuse di sessismo! E questa relazione
amorosa che ci ha dato tutto il piacere del mondo e una soddisfazione totale
di tutti i sensi e dello spirito, che cosa è diventata… Quattro anni dopo —
poiché l’amore, dicono, non dura che tre anni?
L’amore, che è innanzitutto un dovere, è diventato un diritto o, ancor
peggio, una rivendicazione.
«Ho il diritto di essere amato/a! Amami!», come se bastasse deciderlo
per viverlo! Su questo punto, gli animali possono apparire più saggi, per
mancanza di immaginazione, per mancanza di proiezione. Ciò non impedisce
loro di vivere i loro attaccamenti senza indietreggiare di un passo. E, attraverso le loro sofferenze osservabili, di aiutarci ancora una volta a rispondere
alle questioni che possono ossessionare le nostre vite. La Fedra di Racine
recita: «Da quale amor ferita, moriste ai margini in cui foste lasciata…».1
L’attaccamento può durare per molto tempo. Talvolta fino alla morte
di uno dei due protagonisti. Come reagisce il partner di questa relazione
speciale di fronte alla perdita definitiva e brutale? Le relazioni fra morte e
attaccamento, quando è in gioco un animale, pongono tutta una serie di
interrogativi fondamentali:
–Qual è la rappresentazione della morte nell’animale? Esiste il lutto fra
animali di una stessa specie?
– Quando l’essere di attaccamento dell’animale è un umano, e sappiamo
adesso che ciò è possibile, che cosa sentono gli animali? Niente? Tristezza?
Un lutto?
– E nell’altro senso? Gli umani attaccati a un animale possono vivere un
lutto, persino un lutto patologico, alla perdita di quest’ultimo?
Racine, Phèdre, I, 3, vv. 253-254.
1
Il rischio di amare
255
Eros e Thanatos nei delfini
Siamo ben lungi dal comprendere tutto e dal sapere tutto sul rapporto
delle specie «superiori» con la morte e, anche in quest’ambito, persino la
letteratura scientifica è più ricca di aneddoti che di lavori sperimentali.
Più la vita affettiva delle specie interessate è intensa, più le relazioni
sono forti, più le manifestazioni di lutto sono spettacolari. Non vi sorprenderà sapere che i neodarwinisti, gli adattamentisti, cercano ancora e sempre
di sapere quale vantaggio evolutivo potrebbe esserci nel provare tristezza o
nel vivere un lutto.
Mi sembra che la questione non si possa porre in questo modo. Dopo
aver misurato i benefici emozionali costanti che apporta l’attaccamento,
sembra ragionevole che la perdita scateni sentimenti negativi quasi altrettanto potenti e durevoli.
I delfini, di cui ora conosciamo gli amori ombrosi ma anche le amicizie
indefettibili, hanno comportamenti curiosi nel caso in cui uno di loro muoia.
Poiché è sempre difficile seguirli nell’immensità dei mari che abitano, gli
esempi citati riguarderanno quindi cadaveri scoperti in acque poco profonde.
Sia a Monkey Mia, sia alle Canarie, sia in Florida, è stato osservato che
i gruppi di delfini non abbandonano un cadavere senza un certo numero
di rituali.
È abbastanza facile comprendere che una madre non abbandoni il
cadavere del suo neonato, come ossessionata dalla speranza che la morte
apparente non sia altro che una catalessi e che la vita possa risorgere in quel
corpicino. Le osservazioni fatte, però, non sembrano corrispondere a niente
del genere.2 Se parlassimo di umani, i comportamenti osservati farebbero
pensare senza alcun dubbio a una veglia funebre. I delfini si spostano ogni
giorno: nei casi citati, l’intero gruppo, o una parte di esso, resta nei pressi del
cadavere per molti giorni. I delfini nuotano in modo molto particolare, su
una linea verticale per uscire a respirare e ridiscendere. Fanno funzionare il
loro sistema di ecolocazione, posano la testa e ticchettano sul corpo senza vita.
Possono anche strofinarsi a lui. E soprattutto, in molte situazioni osservate,
che il cadavere fosse maschile o femminile, erano dei maschi ad assicurare il
M. Kurimoto, Behavioural observations of bottlenose dolphins towards two dead conspecifics,
«Aquatic mammals», vol. 29, 2003, pp. 108-116.
2
256
Anche gli animali amano
«servizio funebre». Talvolta assistiamo al nuoto sincronizzato di due delfini
che si danno il cambio vicino al corpo, a volte a contatti multipli di tutto
il gruppo con il cadavere di un giovane maschio, difendendolo dagli altri
nuotatori che vorrebbero avvicinarsi: i comportamenti osservati non sono
mai gli stessi, ma testimoniano tutti il riconoscimento del legame. Che le
madri non abbandonino la loro progenie neppure da morta è stato uno dei
pilastri della teoria di Bowlby, ma che gli altri membri del gruppo condividano a loro volta dei rituali è sorprendente. La cosa che più ha stupito gli
osservatori è la frequenza delle erezioni dei delfini che vegliano il cadavere
e gli sfregamenti e i simulacri di atto sessuale con esso, come se questa fosse
un’altra maniera per non rompere il legame, per conservarlo nel mondo dei
vivi. Nei suoi ultimi scritti, Freud ha identificato nell’equilibrio fra pulsione
di vita (Eros) e pulsione di morte (Thanatos) le radici dell’equilibrio o della
patologia. I delfini sarebbero dunque dei freudiani convinti? La posizione dei
cadaveri provoca degli errori di interpretazione, come suggeriscono certuni?
A noi questa sembra una spiegazione molto debole per una specie che ha
delle capacità cognitive e sensoriali così sviluppate. Nella misura in cui la
vita dei delfini è ritmata da questi giochi sessuali, non sembra incongruo
veder riapparire tali performance in questi momenti di forte emozione,
senza doverle attribuire a un errore.
Il cimitero degli elefanti
I cimiteri di elefanti non esistono. Questi eldoradi dei cacciatori
d’avorio sono germinati in degli spiriti infiammati e non sono mai stati
provati. Ciò non impedisce agli elefanti di essere per certo i testimoni
più impressionanti della possibilità del lutto fra gli animali selvatici non
primati. Sono tantissime le storie di madri elefante che non hanno voluto
abbandonare il cadavere del loro piccolo, che hanno cercato di rianimarlo,
accarezzandolo con la proboscide per giorni e giorni. In questi casi a parlare
è l’attaccamento viscerale e non stupisce nessuno, benché le testimonianze
degli osservatori siano strazianti.3 L’autrice, Joyce Poole, una biologa che ha
dedicato la sua vita agli elefanti, scrive: «È vedendo Tonie vegliare il corpo
J. Poole, Coming of age with elephants: A memoir, New York, Hyperion Press, 1996.
3
Il rischio di amare
257
del suo neonato che ho avuto per la prima volta la sensazione molte forte
che gli elefanti soffrano per la perdita: ogni parte di lei urlava il suo lutto».
Ma gli elefanti ci insegnano ancora di più sul lutto quando a morire
è una matriarca. La morte di un piccolo scompagina la madre, la morte
della matriarca disorganizza il gruppo.4 I racconti diventano sorprendenti.
I membri del gruppo e soprattutto i più prossimi restano a contatto del
corpo e ricoprono più o meno il cadavere di terra o di rami.
E soprattutto, e questo pone degli interrogativi, è il modo in cui i
membri di una discendenza talvolta continuano a riprendere contatto con
le ossa della matriarca morta.5 Gli scienziati, prudenti, parlano di «interesse». Naturalmente, se parlassimo di esseri umani, nessuno si sognerebbe di
mettere in dubbio che si tratti di rituali di lutto e di omaggi resi al morto.
Concedere questo agli elefanti è senza dubbio troppo, o è troppo presto!
Tuttavia Cynthia Moss, una delle esperte in elefanti dell’IFAW (International
Fund for Animal Welfare), racconta come le figlie e le nipoti della matriarca
morta vengano a raccogliersi sui resti, come sua figlia arrotoli la proboscide
attorno al suo cranio, come tutti gli elefanti del gruppo possano sollevare
con delicatezza le ossa e spostarle di qualche centimetro. Turba anche vedere
gli elefanti giocare con le ossa come bambini piccoli che venissero lasciati
correre nei viali di un cimitero, già impregnati, ma ancora impermeabili al
mistero della morte.
La spoglia, poi i resti della madre o dell’ava, ma anche talvolta di un
piccolo morto di disidratazione vogliono dire qualcosa per gli elefanti ancora
vivi, e non possiamo dubitarne.
Anche fra gli elefanti esistono gli orfani di guerra: in certe regioni del
mondo, interi gruppi sono stati vittime di attacchi con armi automatiche
per impadronirsi dell’avorio o per niente, solo per nuocere alla fazione rivale. I gruppi che cercano di lavorare con questi elefantini orfani descrivono
degli individui inebetiti, il cui stato non può far pensare ad altro che a una
depressione profonda, anche se un’espressione del genere non fa parte del
C. Moss, Echo of the elephants: The story of an elephant family, New York, William Morrow,
1992.
5
K. McComb, L. Baker e C. Moss, African elephants show high levels of interest in the skulls
and ivory of their own species, «Biology Letters», vol. 2, n. 1, 2006, pp. 26-28.
4
258
Anche gli animali amano
linguaggio consueto dei biologi.6 L’esempio di Dika è particolarmente significativo: il suo gruppo era stato decimato dalle armi, alcuni erano fuggiti,
feriti, e lui doveva la sua salvezza a una fuga attraverso cespugli spinosi che gli
avevano lasciato centinaia di spine di acacia su ogni parte del corpo. Quelli
che si sono occupati di lui hanno descritto un elefante stravolto, privo di
qualunque scintilla vitale e incapace per quattro mesi di interagire sia con
i suoi congeneri sia con gli umani.
Fig. 5.1 Gli elefanti al cimitero (schizzo di Claude Béata). Questi elefanti mostrano interesse per il
cranio di elefanti della loro famiglia morti negli anni precedenti.
E ogni volta noi veterinari comportamentisti, formati all’approccio
zoopsichiatrico, non possiamo che provare stupore nel constatare l’incapacità dei ricercatori di chiamare le cose per nome. Se un umano presentasse
questi segni, e magari molto meno accentuati o per ragioni meno evidenti,
nessuno esiterebbe a parlare di disturbo da stress post traumatico o di depressione cronica legata a un evento traumatico. La scuola comportamentista
degli anglosassoni rifiuta di parlare di depressione nell’animale: l’assenza di
I.G.A. Bradshaw, Not by bread alone: Symbolic loss, trauma, and recovery in elephant communities, «Society and Animals», vol. 12, n. 2, 2004, pp. 143-158.
6
Il rischio di amare
259
oggettivazione delle «idee nere» presenti nella definizione umana sembra
loro redibitoria. Ciò equivale a negare che gli animali abbiano una rappresentazione del loro mondo e che essa possa dunque essere più o meno
ottimista. I biologi si pongono ancora più lontano da un approccio medico
e diagnostico: la loro descrizione della realtà ci permette spesso di formulare
l’ipotesi di una diagnosi, ma ciò non fa parte del loro sistema di riferimento.
Se dare un nome preciso a queste affezioni e percorrere le piste delle
diagnosi mi sembra importante, non è certo per cercare di innescare una
lotta fra fazioni, ma per mostrare che, se ce ne asteniamo, priviamo gli
animali al tempo stesso di rispetto e di soluzioni. A partire dal momento
in cui ammettiamo che il loro mondo psichico può essere anche un luogo
di sofferenze importanti, comprendenti la perdita dell’altro, la distruzione
dei suoi riferimenti e l’ansia di fronte all’avvenire, noi non possiamo più
agire come se tutto questo non esistesse. Lo studio della psicologia comparata — e comparazione non è confusione — permette di avere le chiavi
della comprensione e dunque di immaginare delle soluzioni terapeutiche,
che siano farmacologiche o comportamentali.
Un solo essere vi manca…
Negli animali, come negli umani, la tristezza, il lutto, sono generalmente superabili. Cambiano l’individuo, modificano la sua rappresentazione
del mondo, possono renderlo infinitamente triste, ma non impediscono la
vita. Tuttavia, talvolta, la perdita uccide. Tutti ne conoscono degli esempi
umani, ma una cosa del genere può esistere fra le «bestie»?
Se fosse necessario un esempio animale di questo lutto fatale, la descrizione fatta da Jane Goodall7 della morte di Flint non lascia alcun dubbio.
Flint è un giovane scimpanzé maschio di otto anni quando Flo, sua madre,
di cinquant’anni, muore. Certo, a otto anni, uno scimpanzé può sembrare
già maturo, ma Flint è mentalmente un bambino e non sopporta la scomparsa di sua madre. Tocca il suo corpo: è morta, distesa in un corso d’acqua.
Lui piange e cerca di ottenere delle reazioni da parte del cadavere. Tutto il
gruppo li circonda e il sentimento generale che si sprigiona è quello di una
http://www.achievement.org/autodoc/page/goo1int-4, e anche: http://www.youtube.com/
watch?v=hW2XD8x6b6M.
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Anche gli animali amano
profonda afflizione. A poco a poco, le altre scimmie, dopo aver espresso dei
segni di tristezza e perfino di dolore, finiscono per allontanarsi. Il fratello
maggiore di Flint cerca di attirarlo e di farlo partire con il gruppo, ma
senza successo: otto giorni dopo sua madre, Flint muore. Questo piccolo
scimpanzé muore di tristezza, d’amore, di malattia a causa del cedimento
del suo sistema immunitario — sceglierete l’interpretazione che preferite.
Vi è una sola certezza: muore per non essere riuscito a superare la perdita
del suo essere di attaccamento.
Ricordiamo Oscar, l’orfanello eroe del film Disneynature, che ha
saputo farsi adottare in circostanze simili di perdita della madre. Flint
e Oscar ci dicono che la perdita di attaccamento non produce la stessa
cosa in tutti gli esseri e che non parla in modo diretto e obbligatorio della
qualità del legame esistente, ma parla anche delle risorse individuali, della
possibilità di resilienza o dell’esistenza di un attaccamento patologico che
non lascia più alcun grado di libertà.
Animale o umano, la reazione al lutto varia da un individuo all’altro
su una gamma tanto più estesa quanto più sono sviluppate le capacità
emozionali e cognitive. Non si può quindi pensare che le facoltà superiori
dell’umano possano proteggerlo: al contrario, la sofisticazione del suo pensiero, la sua capacità di astrazione, di viaggiare nel passato e di proiettarsi
nell’avvenire sono altrettanti amplificatori del suo potenziale di sofferenza.
La qualità della relazione prima della perdita non è l’unica determinante, ma influenza la qualità e l’intensità del lutto, gli animali ce lo dicono
e noi lo sapevamo già. Prendiamo il caso citato nel film molto bello Perché
i cani sorridono e gli scimpanzé piangono?, uscito nel 1999.8
Un gruppo di macachi viene diretto da un maschio amabile, dolce con
i piccoli, tollerante con l’insieme dei membri del gruppo. Ma un giovane
maschio vuole prendere il suo posto e finisce per ucciderlo. Al di là della
riflessione sulla reazione del gruppo a questo nuovo leader molto aggressivo
(lascio che scopriate da soli il seguito vedendo il film), si prova una forte
emozione a causa dell’atteggiamento di tutti i membri del gruppo quando
il vecchio leader che tutti apprezzavano muore per le ferite inflitte dal suo
assalitore. Tutti vengono a passare un momento vicino alla sua spoglia, ne
scacciano le mosche, emettono dei vocalizzi di afflizione molto dolci: la
C. Fleisher, Why dogs smile and chimpanzees cry, Discovery Channel, 1999.
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Il rischio di amare
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perdita viene sentita dal gruppo e il lutto viene condiviso. L’unico che non
venga a salutare la spoglia del capo morto è il suo aggressore. Non tutti i
morti scatenano la stessa emozione e ciascuno vive il suo lutto in maniera
particolare in funzione della sua storia e delle sue relazioni.
Osservatori quotidiani di questi legami, siamo in una buona posizione
per sapere che esiste l’intera gamma delle reazioni di lutto nei confronti di
un altro animale fra gli animali domestici.
Prendiamo i gatti: tutti i veterinari hanno presenti casi in cui la morte
di un gatto in un gruppo provoca un sentimento di liberazione negli altri
gatti. I proprietari, talvolta scioccati, ci riferiscono, ad esempio, che dalla
morte di Mickey, il grosso gatto grigio, Minou, il piccolino bianco e nero, ha
l’aria molto più felice: occupa i luoghi in cui si tratteneva Mickey, entra in
stanze in cui prima metteva piede raramente. Dopo aver preso informazioni,
sappiamo che Mickey perseguitava Minou, talvolta lo aspettava all’uscita
dalla sua lettiera (passaggio obbligato per un gatto ben educato alla pulizia)
e gli saltava addosso. Minou aveva preso l’abitudine di evitare il grosso
gatto grigio, aveva ristretto il suo territorio e aumentato la sua vigilanza.9
Se una cosa del genere avviene in un luogo in cui esiste una colonia
di gatti, non vedrete mai delle alleanze per rovesciare il dittatore come
possono esisterne fra gli scimpanzé, i macachi o, più vicini a noi, fra i cani.
Per capirlo, dobbiamo ricordare la profonda assenza di socialità del gatto.
Obbligato a vivere con altri, può trarne piacere, stabilire delle amicizie
profonde e durature — abbiamo potuto constatare che è un modello di
amicizia. In questo caso, la perdita dell’altro, che si tratti di un gatto, di
un cane o di un umano, potrà provocare tristezza, reazioni accentuate di
afflizione e dei lutti più o meno prolungati, più o meno reversibili. Ma se
colui che è morto era un aggressore, un individuo che incuteva paura o
imponeva delle costrizioni, allora Minou non sarà in lutto! Al contrario,
esprimerà un piacere e una gioia di vivere ritrovati che potranno scioccare
i proprietari. Ma chi non ha nella sua famiglia una nonna o una prozia,
ben presto soprannominata «la vedova gioiosa» perché non ha mostrato
alcuna afflizione alla morte di un marito che tutti sospettavano la facesse
vivere nel terrore?
Questa è una storia immaginaria. Qualunque somiglianza con personaggi esistenti o esistiti
ha dunque poche possibilità di essere casuale.
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