Reduce De Bonis Francesco Sono partito il 1° Maggio del 1942, recandomi a Grottaglie. Poi mi mandarono a Torino presso la caserma “Moretti” dove mi è arrivata la cartolina di precetto come aviere di Governo. Dopo di che venni spedito all’aereoporto di Treviso con funzioni di guardia o marconista. Dopo qualche tempo nuovamente in partenza, alla volta però della Grecia con una tradotta militare, dirigendoci esattamente ad Atene presso il comando aeronautico attraversando la Bulgaria e l’Ungheria. Ho lasciato il mio paese in un periodo terribile, si viveva male, vi era continuamente un’atmosfera di lutto poiché non si avevano notizie degli altri compaesani e per tutte le privazioni che comportava il conflitto. Abbiamo viaggiato per circa quindici o venti giorni, tra scarafaggi e pidocchi, siamo arrivati ad Atene l’8 settembre il giorno dell’armistizio dell’Italia con gli Anglo Americani. Quel giorno i tedeschi in un campo di aviazione chiamato Karamacchi, ci hanno fatto radunare in uno spiazzo. Eravamo quasi diecimila, e ci hanno chiesto se eravamo disposti a combattere al loro fianco. Ci siamo tutti rifiutati, dopo di che ci hanno caricato su diversi treni merci e ci hanno spedito in Germania. Il viaggio prevedeva il passaggio attraverso i Balcani e l’Austria. Giunti in Ungheria una famiglia proprietaria di un’azienda non mi voleva lasciare andare, chiedevano che restassi per sempre con loro in quanto gli ricordavo il figlio. Appena mi stavo preparando per scendere, un ufficiale italiano mi ha convinto a non andare perché sicuramente i tedeschi mi avrebbero catturato e fatto del male “Sicuramente finirai nei campi di concentramento e i tuoi genitori non sapranno mai che fine hai fatto” mi decisi allora a restare con lui. Con questo ufficiale siamo giunti in Austria, nella Prussia orientale per arrivare fino ad Auschwitz, dove restai per nove mesi, a noi italiani non facevano nulla, ma ci facevano fare lavori pesanti. Faceva molto freddo, vi era sempre la neve e per non farci ammalare ci facevano delle punture speciali. Qui si lavoravano materiali ferrosi per i binari. Si scaricava il carbone dai camion, accompagnati sempre dalle sentinelle tedesche con i cani. Nel campo eravamo settantamila, si mangiavano patate e poco pane, circa cento grammi al giorno. Le bucce della patata ce le mangiavamo fritte. L’acqua inoltre era molto poca. Ogni tanto passavano i borbandieri inglesi e sganciavano alcune bombe. Gli ebrei invece li uccidevano portandoli nei forni crematori. Per due giorni mi misero a lavorare nei forni crematori dove dovevo prendere i cadaveri delle camere a gas, ma no ce la feci e mi ammalai subito. Durante quello strazio atroce, pregavo in continuazione a San Francesco da Paola del quale sono stato sempre devotissimo. Un giorno avevo in mano un tesserino, dovevo uscire per recarmi in fabbrica, all’improvviso è suonato l’allarme e una ragazza tedesca mi tirava per fuggire. Ma quando giunsi nel capannone che lei mi indicava vidi sulla porta l’immagine di San Francesco il quale per tre volte mi disse “Vattene!” “Non è il tuo rifugio!”. Allora io scappai in altra direzione per andare in un altro rifugio. Quando uscii, la fabbrica non vi era più, vi furono più di 1500 morti. Nel dicembre del 1944, vi fu un violento borbandamento dalla mattina alla sera, gli americani avevano sbagliato accampamento distruggendo un campo dov’erano i francesi e io fui vivo per miracolo perché una bomba scoppio molto vicina. Un altro giorno venne fatto l’appello per la decimazione e anche quella volta San Francesco mi ha salvato, non sono stato sorteggiato. Un giorno con la complicità di una donna, siamo andati a Katowize, per poter imbucare delle cartoline. Mi fece vestire da donna, ma fummo catturati e condannati dal tribunale di Katowize a 42 giorni di carcere. Dopo qualche tempo finalmente i Russi arrivarono con i carri armati avanzando dalla parte di Cracovia e ci hanno liberato. Alcuni capi del campo durante l’attesa per ritornare in Italia, che erano addirittura connazionali ci trattavano male, peggio degli animali. Non avevamo sapone per lavarci, e gli indumenti non si asciugavano mai, perché pioveva e faceva freddo. Per riscaldarci nelle baracche usavamo il carbone da scarto, ed era tossico. Ci davano sette sigarette al giorno, ma io non ho mai fumato, le passavo ad tizio che si chiamava Ubertino. La neve era tanta, e per poterci muovere ci voleva lo spazzaneve. D’accordo con un ergastolano di Parma e un prigioniero di Vercelli decidemmo di fuggire a piedi, camminando per ben quaranta giorni. Durante il cammino per sfamarci cercavamo qualcosa da mangiare per le campagne, oppure chiedevamo alle famiglie che incontravamo. Giunsi in Austria dove trovammo una tradotta militare che ci portò fino a Milano. Ma a Tarvisio fui nuovamente catturato. Più tardi gli Americani mi liberarono e mi portarono in una clinica. Dopo qualche giorno potei salire sul treno per Cosenza. Da qui mi diede un passaggio Francesco Cortese che con il suo tràino mi portò finalmente a Luzzi. La prima cosa che feci quando arrivai al paese, era il mese di maggio del 1945, andai a salutare a san Francesco da Paola per avermi fatto ritornare sano e salvo.