Capitolo II La natura della concessione di beni e servizi Sommario: 1. La concessione come “contratto accessivo a provvedimento”: la teoria bifasica o dualistica – 2. Le concessioni come “accordi sostitutivi di provvedimento”: la teoria unitaria – 3. L’art. 11 della Legge 241/90: le varie posizioni della dottrina sulla natura dell’accordo – 4. I profili di criticità delle varie tesi – 5. L’accordo come manifestazione di autonomia privata – 6. Annullamento del provvedimento e sorte dell’accordo: premesse – 7. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite – 8. Il revirement delle Sezioni Unite – 9. Il risarcimento del danno – 10. L’indennizzo conseguente alla rimozione dell’atto lesivo in autotutela. 1.La concessione come “contratto accessivo a provvedimento”: la teoria bifasica o dualistica Secondo l’indirizzo tradizionale della dottrina italiana, la concessione di beni e servizi rientrerebbe nella categoria definitoria dei cosiddetti “contratti accessivi a provvedimento”1, essendo costituita da un regolamento convenzionale 1. La categoria è stata elaborata, per la prima volta, da Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, 1993, 429 ss.. I contratti accessivi sono configurati come moduli convenzionali, che accedono a provvedimenti, i quali sarebbero già, di per sé, fonte di obbligazioni per il privato (o per il privato e l’amministrazione): in tale ipotesi vi è assoluta preminenza del provvedimento sul contratto, nel senso che le vicende, afferenti al primo, determinano la sorte del secondo. Lo stesso Giannini individua poi ulteriori figure, tra le quali i “contratti ausiliari di provvedimenti”, che sono definiti come atti negoziali inseriti all’interno di procedimenti amministrativi ed utilizzati per disciplinare aspetti di carattere patrimoniale. In questa tipologia contrattuale, qualora il privato non adempia alle proprie obbligazioni, l’amministrazione ha la possibilità sia di agire dinanzi al giudice ordinario per chiedere l’adempimento degli obblighi convenzionali, sia di andare oltre nel procedimento, arrivando all’emanazione del provvedimento finale. Un’ulteriore categoria individuata dall’illustre autore è quella dei “contratti sostitutivi di provvedimenti”, che sono caratterizzati dal fatto di avere natura sostitutiva rispetto all’atto provvedimentale; tuttavia, gli obblighi, gravanti sul privato, deriverebbero direttamente dalla legge, mentre la convenzione avrebbe l’unica funzione di disciplinare gli obblighi medesimi. Tale tipologia negoziale risulta particolarmente calzante in relazione alle convenzioni che si stipulano in materia urbanistica ed edilizia. A proposito di quest’ultima tipologia di accordo, è stato osservato in dottrina (cfr. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, in Sistema del diritto amministrativo italiano, diretto da Scoca, Roversi Monaco e Morbidelli, G. Giappichelli editore, Torino, 2003, 36 s.) che “il quadro muta alquanto, ed in modo significativo, allorché si passa alla terza sottocategoria (appunto quella relativa ai “contratti 26 la concessione tra provvedimento e contratto delle posizioni giuridiche soggettive delle parti (concedente e concessionario) in rapporto di accessorietà o, per meglio dire, di strumentalità con l’atto concessorio, avente natura autoritativa2. A tale proposito è abbastanza ricorrente, l’affermazione, secondo la quale la teoria del contratto accessivo a provvedimento sarebbe nata proprio per giustificare, a livello strettamente giuridico, la possibilità di affidare a privati la disponibilità di beni immobili o l’effettuazione di servizi su cui la pubblica amministrazione intende riservarsi il controllo della gestione, salvaguardandone l’esercizio a beneficio della collettività. La cosiddetta “concessione – contratto”, di indubbia origine giurisprudenziale, costituisce anche l’istituto in cui i giudici, la dottrina e la prassi amministrativa hanno modellato il rapporto fra atto amministrativo e contratto, talvolta propendendo per la prevalenza assoluta del primo sul secondo, talaltra riducendo la concessione ad una mera clausola negoziale, contenente la condizione di efficacia del contratto3 medesimo. Secondo questa tradizionale impostazione dogmatica, l’instaurazione del rapporto giuridico fra concedente e concessionario avverrebbe attraverso una determinazione provvedimentale autoritativa, mediante la quale l’amministrazione concederebbe al privato la gestione di un bene o l’attribuzione del diritto – dovere di organizzare un servizio di rilevanza pubblica. Nell’ambito del suddetto iter procedimentale, assumerebbe poi il massimo rilievo la conclusione di un accordo, di natura chiaramente privatistica, seppur caratterizzato da evidenti riflessi sul piano pubblicistico, avente ad oggetto la concreta disciplina del rapporto fra l’amministrazione ed il privato in merito all’utilizzo del bene od alle modalità di erogazione del servizio. In sintesi, si può concludere che l’atto unilaterale, di natura provvedimensostitutivi di provvedimenti”), nella quale i contratti prendono interamente il luogo di provvedimenti. … Sennonché, a questo punto, non si vede cosa residui della teoria dualistica. La fonte del complesso degli effetti è qui sicuramente unitaria e contrattuale. E poiché l’amministrazione interviene in essa sulla base di potestà pubbliche (che, del resto, conserva anche in sede di esecuzione della convenzione), vi potrebbero essere condizioni sufficienti per riconoscere, in dette fattispecie, almeno i caratteri del contratto di diritto pubblico. Di diritto pubblico – e non di diritto privato –, anche perché l’autore ha cura di distinguere i contratti sostitutivi dai contratti “alternativi” a provvedimenti. Alla base del contratto alternativo sta infatti una determinazione discrezionale dell’amministrazione di scegliere la strada contrattuale anziché quella procedimentale (es. comprare anziché espropriare, affittare anziché requisire); se la scelta è per la strada contrattuale, l’amministrazione agisce come privato, puramente e semplicemente. Il contratto sostitutivo si fonda invece sulla determinazione dell’amministrazione di non esercitare la potestà pubblica di cui è titolare, usando, in suo luogo, lo strumento contrattuale; l’esistenza di detta potestà è quindi presupposto contrattuale; ma siccome le potestà pubbliche sono irrinunciabili, il non averla esercitata non impedisce all’amministrazione di prenderne o riprenderne l’esercizio, se ciò è richiesto dal pubblico interesse”. 2. Cfr. Giannini, Diritto amministrativo, cit., 431 ss.; Di Camillo, Modelli autoritativi e convenzionali: l’attività amministrativa tra potere e consenso, in www.altalex.com. 3. Cfr. Cirillo, I contratti e gli accordi delle amministrazioni pubbliche, in www.giustiziaamministrativa.it. Capitolo II – La natura della concessione di beni e servizi 27 tale, avrebbe la funzione di instaurare un rapporto tra l’ente pubblico ed il concessionario, mentre l’accordo negoziale, di carattere bilaterale, interverrebbe successivamente a regolamentarlo. In altri termini, ci troveremmo in presenza di due rapporti4: uno contrattuale, l’altro autoritativo. Alla luce di tali considerazioni, la natura del contratto in questione potrebbe pertanto definirsi “mista”5, proprio per il fatto che la struttura dell’accordo è, per così dire, bifasica. Se la fase provvedimentale conferirebbe al contratto una connotazione tendenzialmente pubblicistica6, la parte conclusiva dell’iter 4. Cfr. De Valles, Elementi di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 1956, 203 ss. e Gallo, I rapporti contrattuali nel diritto amministrativo, Padova, 1936, 109. 5. Cfr. Bodda, Ente pubblico, soggetto privato e atto contrattuale, Libreria F.lli Treves, Pavia, 1937, 92 ss., che rileva, in proposito, come le manifestazioni di parte non solo si condizionino in modo reciproco, ma si ha piuttosto un fenomeno di “appropriazione dell’una volontà per opera dell’altra, e viceversa”. In altre parole, la manifestazione di volontà, promananante dall’amministrazione, deve tendere alla soddisfazione di una finalità pubblica, ma questa deve essere controbilanciata, nell’ambito del rapporto sinallagmatico, dalla soddisfazione degli scopi, che si prefigge la parte privata, con la quale l’ente viene in rapporto. In conclusione, la causa della dichiarazione di volontà, qui considerata, ha come obiettivo di soddisfare un bisogno pubblico, mediante l’appagamento di un interesse privato. 6. Ved. in proposito, le tesi del Ranelletti, propugnate agli inizi del secolo scorso, le quali traggono origine dall’istituto dell’aggiudicazione definitiva, pronunciata nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica, da cui deriverebbe, indipendentemente dalla successiva stipula del contratto, un vincolo solamente per il privato, non certo per l’amministrazione, che diverrebbe, a sua volta, obbligata solo a seguito del provvedimento di approvazione, ed eventualmente alla sua registrazione da parte della Corte dei conti. Si fa chiaramente riferimento alla nota teoria dell’atto claudicante, impegnativo per una sola delle parti (quella privata), cosicché l’atto di concessione risulterebbe individuabile esclusivamente nel provvedimento amministrativo che lo contiene (cfr. Ranelletti, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni, cit., 81). Gli atti anteriori al perfezionamento della concessione sono pertanto classificabili, secondo il Ranelletti, come endoprocedimentali. Essi sono composti dall’attività preparatoria ed istruttoria, condotta dagli organi dell’ente, nonché – per quanto più interessa ai nostri fini – dalla dichiarazione di volontà del privato, che avrebbe poi potuto essere accettata dall’autorità concedente. A questo punto, l’illustre autore si chiede se le obbligazioni del privato e quelle dell’amministrazione costituiscano due distinti atti negoziali, o se invece si possano fondere in un unico contratto, attraverso il ben noto meccanismo della proposta, cui segue una conforme accettazione. Il Ranelletti propende per la prima soluzione, sostenendo che l’amministrazione agisce sempre a tutela di interessi generali, avendo quale fine diretto della propria attività proprio la salvaguardia dell’interesse pubblico: perciò essa opera sempre come “autorità”, secondo le norme di diritto pubblico (ved. Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni, cit., 84, in cui si osserva che “gli obblighi del privato richiedente, se ve ne sono, possono cominciare ad esistere soltanto dal momento dell’accettazione della sua dichiarazione di volontà, da parte dell’amministrazione, cioè per le condizioni generali dal momento della presa in considerazione della domanda; per le condizioni particolari dal momento della stipulazione dell’atto di obbligazione. E non è possibile prima di questi momenti, perché o non vi è una dichiarazione di volontà del privato, come nelle condizioni particolari, o la dichiarazione non è ancora accettata, come per le condizioni generali. … Il privato si obbliga perché la concessione venga, e se verrà, fatta; per cui solo allora l’atto di obbligazione diverrà perfetto, quando sia accordata la concessione, e nel tempo intermedio esso sussisterà, ma come imperfetto”). Da tali premesse viene tratta la conclusione, secondo la quale gli atti posti in essere, in tale veste, dall’amministrazione non possono che considerarsi atti d’imperio e, come tali, non possono avere origine da una dichiarazione di volontà, promanante dalla parte privata (Le guarentigie della giustizia nella pubblica 28 la concessione tra provvedimento e contratto formativo del rapporto sarebbe invece caratterizzata da una natura eminentemente privatistica7, che attiene, più segnatamente, alle reciproche pretese di carattere patrimoniale e, in genere, alla descrizione complessiva delle prestazioni e controprestazioni8. amministrazione, Milano, 1934, 145 ss. in cui si distingue fra “atto amministrativo”, che è definito come una dichiarazione di volontà dell’autorità amministrativa e “contratti di diritto pubblico”, che invece condizionano l’efficacia dell’atto amministrativo al concorso della volontà del privato, che si manifesta nella richiesta o nell’accettazione, espressa o tacita, dell’atto stesso). Se si ammettesse una tale possibilità, si arriverebbe infatti all’assurdo di un atto d’imperio, alla formazione del quale avrebbe concorso un privato, che non ha certamente alcun titolo per agire come un’autorità. Nel caso in cui si accettasse la teoria della concessione come incontro di volontà, fuse nel medesimo atto, ci troveremmo poi in presenza – argomenta ancora l’autore – di un vero e proprio ibrido, formato dall’unione di due fattispecie di natura diversa. Una simile unione sarebbe invece possibile solo fra dichiarazioni di volontà della stessa natura, come ad esempio nei contratti civilistici, nell’ambito dei quali l’ente agisce come persona giuridica nei confronti di un’altra persona, fisica o giuridica, privata; oppure nel campo del diritto pubblico, quando l’amministrazione agisce in veste, per così dire, “politica”, come nel caso dei trattati di diritto internazionale. La conclusione è che nella concessione si è in presenza di due differenti atti giuridici, che sorgono in due momenti distinti e sono in rapporto di autonomia l’uno con l’altro: il primo è costituito dalla dichiarazione di volontà del privato, mentre il secondo dall’atto di concessione vero e proprio, inteso ovviamente come atto autoritativo tout court. Entrambi, secondo il Ranelletti, sono atti unilaterali, l’uno di natura pubblica, mentre l’altro, in considerazione del soggetto che lo pone in essere, di carattere eminentemente privatistico. Ci troviamo così di fronte ad una posizione esattamente speculare: l’amministrazione accetta di avvalersi della dichiarazione di volontà del privato nello stesso modo in cui quest’ultimo accetta la concessione, senza però fornire il benché minimo contributo alla sua formazione (cfr. Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni, cit., 91 – 93 e 99 ss.). Il provvedimento autoritativo contiene poi, al suo interno, una serie di oneri che, sulla base di un inquadramento civilistico, potremmo definire, secondo l’Autore, come obbligazioni modali o come condizioni risolutive espresse o tacite: queste trovano apposita disciplina nel capitolato annesso alla concessione. La conclusione, cui perviene Ranelletti, conduce pertanto all’assoluta impossibilità di annoverare le concessioni nell’ambito del diritto civile, dovendosi altresì negare la possibilità di configurarle come un contratto di diritto pubblico: viene invece affermata, senza mezzi termini, la natura di atto unilaterale d’imperio dell’amministrazione, rivolto al conseguimento di scopi di interesse generale. Della stessa opinione è il Cammeo (ved. I monopoli comunali, in Arch. Giur., 1896, 524 ss. e Corso di diritto amministrativo, Padova, 1914 (nella ristampa del 1992), I, 122 s.), il quale, a proposito delle concessioni demaniali, afferma che si può arrivare a determinare se il rapporto è materia di diritto privato o pubblico in relazione al contenuto più o meno patrimoniale dello stesso: se si parla di atti d’imperio o di gestione, ci si riferisce ai soli atti dell’amministrazione. Ved. anche Guicciardi, Le transazioni per gli enti pubblici, in Archivio di diritto pubblico, diretto da Donati, Padova, 1936, vol. I, 222 ss., il quale nega, ab origine, la giuridica sussistenza, o comunque la necessità, o anche solo la pratica utilità della categoria concettuale del contratto di diritto pubblico. Il citato autore giunge anche all’ulteriore conclusione, secondo la quale i contratti stipulati dall’amministrazione non hanno natura bilaterale, bensì unilaterale: con ciò non differenziandosi affatto da un atto di natura puramente autoritativa (contra Alessi, Sistema istituzionale del diritto amministrativo italiano, Giuffrè, Milano, 1958, 401 s., e Gullo, Provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative, Cedam, Padova, 1965). 7. Cfr. Iannotta, L’adozione degli atti non autoritativi, secondo il diritto privato, in La nuova disciplina dell’attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, a cura di Clemente di San Luca, Torino, 2005, 142 ss. 8. Cfr. Di Camillo, Modelli autoritativi e convenzionali: l’attività amministrativa tra potere e consenso, cit. Capitolo II – La natura della concessione di beni e servizi 29 Invero, inteso in questo senso, l’interesse pubblico, che risulta sotteso al complesso meccanismo, costituito dal provvedimento e dal contratto accessivo allo stesso, fa presumere, in capo all’amministrazione, una posizione di preminenza tale da giustificare, in presenza dei necessari presupposti, il recesso dalla convenzione e la revoca9 del provvedimento concessorio. In effetti, ai sensi dell’art. 11 della legge 241 del 1990, la parte pubblica può sempre recedere unilateralmente dall’accordo per sopravvenuti motivi di interesse generale, fatto comunque salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato10. Parimenti, in applicazione dell’art. 158 D.Lgs. 163/06, il soggetto concedente può sempre revocare la concessione per motivi di pubblico interesse, ma deve rimborsare al concessionario il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti, ovvero, nel caso in cui l’opera non abbia ancora superato la fase del collaudo, i costi effettivamente sostenuti dal concessionario medesimo; deve inoltre ristorargli tutti gli importi esborsati od esborsabili in conseguenza della risoluzione, nonché un indennizzo, a titolo di ristoro del mancato guadagno, pari al dieci per cento del valore delle opere ovvero della parte del servizio ancora da gestire, valutata sulla base del piano economico – finanziario11. La teoria poc’anzi illustrata non risulta tuttavia condivisibile, in quanto sminuisce gravemente la posizione della parte privata, subordinandola totalmente alle decisioni di quella pubblica in un’ottica molto più autoritativa che negoziale. Ciò determina infatti l’integrale degradazione dell’efficacia contrat9. Cfr. Vasta, La revoca degli atti amministrativi, Padova, 2004, 147 s., che afferma la piena equiparazione fra l’istituto del recesso e quello della revoca, entrambi disciplinati nella legge n. 241/90, ponendo l’accento sui profili dell’indennizzo e della tutela del privato. 10. Cfr. Villata – Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006, 598 ss. 11. Cfr. Valla, Concessione di beni pubblici e natura giuridica della disdetta, in Urbanistica e appalti, Milano 1998, 979 ss., la quale individua (anche sotto il profilo dell’evoluzione storica dell’istituto) la funzione dell’indennizzo, nel fatto di ristorare il pregiudizio subito dal privato, che ha legittimamente fondato il proprio affidamento sull’efficacia del contratto; in effetti, seppur funzionale all’esigenza di garantire il perseguimento dell’interesse pubblico, la revoca mette in crisi l’attendibilità dell’amministrazione stessa nell’ambito del rapporto negoziale col privato. La citata autrice sostiene infatti che la giurisprudenza, pur non disconoscendo il generale potere della pubblica amministrazione di ritirare il provvedimento amministrativo nell’ipotesi in cui la sopravvenienza di nuove situazioni lo rendano inadeguato a soddisfare l’interesse pubblico, non ha mai messo in dubbio gli obblighi della stessa amministrazione, discendenti dal preesistente rapporto di natura contrattuale. Al contrario, un esame diacronico degli arresti giurisprudenziali in materia consente di rilevare come l’influenza del contratto accessorio sia sempre stata considerata in modo tale da garantire la permanenza dei diritti soggettivi del concessionario, discendenti dall’accordo negoziale, nonostante l’atto autoritativo dell’amministrazione concedente. La tutela di siffatte posizioni di diritto soggettivo ha, d’altronde, imposto alla giurisprudenza un sindacato particolarmente penetrante sulla legittimità della revoca per motivi di pubblico interesse. Il giudice infatti, lungi dal limitarsi a condurre una semplice indagine esteriore e meramente qualitativa sui motivi, ha il compito di verificare la loro effettiva sussistenza, realizzando pertanto un controllo sostanziale sull’eccesso di potere, spingendosi fino a valutare l’entita e la gravità delle scelte di merito della pubblica amministrazione. 30 la concessione tra provvedimento e contratto tuale, che dovrebbe disciplinare paritariamente il rapporto, a mera appendice di un provvedimento amministrativo. 2. Le concessioni come “accordi sostitutivi di provvedimento”: la teoria unitaria Mentre l’orientamento dottrinario precedentemente illustrato inserisce l’istituto della concessione nell’ambito di un procedimento bifasico, costituito da un contratto accessivo rispetto ad un distinto atto autoritativo ed individuando pertanto due momenti autonomi e distinti, uno di natura negoziale e l’altro, dominante, di carattere provvedimentale12, altri autori propendono, più correttamente, per una ricostruzione in termini unitari della fattispecie, inquadrando le concessioni (in particolare quelle di lavori e servizi, ma non escludendo affatto quelle demaniali) tra gli “accordi sostitutivi di provvedimento”. Essi fondano le proprie conclusioni sulla fonte del rapporto concessorio, costituito, come dice la legge, da un contratto13, non condividendo affatto la ricostruzione dell’istituto in termini provvedimentali. Sotto questo profilo, viene radicalmente negata l’autonoma sussistenza di un atto amministrativo unilaterale ed autoritativo (ovvero provvedimentale) che, se concepito separatamente dalla convenzione o contratto, è privo di autonomi effetti e se concepito invece quale contributo volitivo dell’amministrazione nella formazione dell’accordo14, perde i connotati dell’atto unilaterale, essendo unica la fonte del rapporto, nel cui ambito confluisce la volontà del privato, senza che neanche per quest’ultima si possa parlare di atto unilaterale di autonomia privata. La convenzione, l’accordo o il contratto (i termini sono, in questo contesto, assolutamente equivalenti) non costituiscono, infatti, la sommatoria di due fonti distinte (l’una autoritativa e l’altra paritetica), ma un unico atto negoziale (appunto bilaterale) a cui partecipano, sia pure sulla base di posizioni diverse, l’amministrazione ed il privato15. 12. Cfr. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1958, I, 261, il quale sottolinea che l’essenza della concessione è di conferire ad una o più persone, estranee all’amministrazione, nuove capacità o nuovi poteri e diritti, dai quali resta ampliata la loro sfera giuridica: i predetti diritti, derivanti dalla concessione, sono propri dello Stato o, in genere, della pubblica amministrazione concedente. La concessione (quantomeno quella traslativa), perciò, consisterebbe in un trasferimento di facoltà dell’ente pubblico al privato. La concessione “costitutiva” si estrinsecherebbe invece nel potere dell’amministrazione di far sorgere ex novo particolari facoltà o diritti in altri soggetti (ad esempio, col conferimento di titoli onorifici). 13. Ved. l’art. art. 3, comma 11, D. Lgs. 163/06, il quale, parafrasando l’abrogato art. 19 L. 109/94, e sulla scia dei dettami comunitari, definisce le concessioni come “contratti” a titolo onersoso, conclusi in forma scritta ed aventi un determinato oggetto. 14. Cfr. Berti, La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova, 1968, 396, ss. 15. Sul punto, cfr. Greco, Accordi integrativi e sostitutivi del provvedimento, in AA. VV., L’azione amministrativa, Milano, 2005, 433, che sottolinea come la teoria dualistica sia da Capitolo II – La natura della concessione di beni e servizi 31 Sotto questo profilo, si tratterebbe, anzi, di un vero e proprio contratto ex art. 1321 cod. civ., posto che attiene, principalmente, a prestazioni corrispettive di carattere patrimoniale16. Sviluppata in questi termini, l’esegesi dell’istituto risulta sicuramente più aderente alla ratio, ed anche al tenore letterale, delle norme che lo disciplinano, le quali non possono fare a meno di tenere in debito conto gli oneri di carattere economico ed imprenditoriale, gravanti sul privato investitore. In effetti, il sinallagma che lega la prestazione dell’amministrazione alla controprestazione del concessionario assume una chiara connotazione di tipo patrimoniale, in quanto, il più delle volte, la parte privata si obbliga a progettare, realizzare e gestire l’opera a fronte della riscossione di tariffe, corrisposte dagli utenti, pagando, eventualmente, un canone alla controparte pubblica. Il gestore si assume inoltre specifici obblighi in relazione all’efficiente erogazione del servizio, all’osservanza delle tariffe, alla realizzazione e manutenzione degli impianti, al corretto e puntuale pagamento dei canoni: tutto ciò in forza di un atto negoziale, che contiene anche la regolamentazione dell’eventuale inadempimento e la prestazione delle garanzie che un atto amministrativo unilaterale non sarebbe mai in grado di imporre. L’accordo diviene pertanto necessario proprio in virtù dello stretto rapporto di strumentalità tra interesse privato ed interesse pubblico17. La funzione del contratto di concessione assume un ruolo fondamentale, in quanto il privato, per valutare l’investimento da compiere, dev’essere garantito in relazione al rischio che si assume. In sintesi, dovrà essere effettuata un’attenta valutazione dei costi e dei ricavi attraverso la redazione di un apposito piano economico – finanziario, con la prospettazione dei profitti evincibili dall’operazione. Il contratto avrà pertanto lo scopo di garantire all’investitore la corretta remunerazione del capitale impegnato nell’operazione, mediante la pattuizione di un congruo tasso di rendimento, che diviene uno degli elementi negoziali più rilevanti delle clausole convenzionali. In tal modo viene definito, a livello contrattuale, quello che è comunemente chiamato “l’equilibrio economico – finanziario” del piano di investimenti, costituito da tutti i presupposti e le condizioni, che stanno alla base dell’operazione stessa e su tempo in crisi, posto che “il provvedimento, senza il contratto, risulta del tutto inautonomo e incapace comunque di produrre effetti indipendenti dalla convenzione (sia essa accessiva rispetto al provvedimento, sia essa incorporante rispetto al provvedimento stesso); la convenzione, a sua volta, non è, né può essere limitata agli aspetti patrimoniali, del tutto avulsi dall’esercizio del potere: tant’è che, tra gli uni e gli altri, si crea sovente un nesso sinallagmatico, che, a sua volta, giustifica e può condurre all’applicazione dello strumento risolutorio”. 16. Cfr. Greco, Le concessioni di lavori e di servizi nel quadro dei contratti di diritto pubblico, in Riv. It. Dir. Pubbl. comunit. 2000, 5, 993 ss. 17. Cfr. Greco, Le concessioni di lavori e di servizi nel quadro dei contratti di diritto pubblico, cit., 993 ss.; ved. inoltre Portaluri, Potere amministrativo e procedimenti concorsuali, Milano, 1998, 221 ss. 32 la concessione tra provvedimento e contratto cui il privato fonda il proprio affidamento nell’ambito del predetto meccanismo negoziale. Sotto questo profilo, con specifico riferimento al settore dei lavori pubblici, l’ottavo comma dell’art. 143 del D. Lgs. 163/0618 consacra, a livello normativo, i suddetti principi giuridici, sancendo che i presupposti e le condizioni di base, che determinano l’equilibrio economico – finanziario degli investimenti e della connessa gestione debbano essere espressamente richiamati nelle premesse del contratto, divenendo parte integrante e sostanziale del medesimo. Ne consegue che, se è pur vero che il concessionario si assume l’alea dell’intera operazione, è altrettanto incontrovertibile che siffatto rischio debba essere confinato nei limiti delle originarie pattuizioni, non riguardando né sopravvenute necessità di interesse pubblico, né eventi imprevedibili od eccezionali sorti nel corso dell’esecuzione del contratto19. D’altro canto, proprio in conformità a tali principi, il codice dei contratti pubblici impone all’amministrazione concedente di salvaguardare l’equilibrio economico finanziario, posto a base del sinallagma negoziale, non solo in presenza delle variazioni disposte dalla parte pubblica, ma anche in forza degli squilibri determinati dalla sopravvenienza di un evento esterno, indipendente dalla volontà delle parti, quali, ad esempio, norme legislative o regolamentari, che stabiliscano meccanismi tariffari o nuove condizioni per l’esercizio delle attività previste in concessione20. Secondo una parte della dottrina21, il punto debole della teoria unitaria sarebbe costituito dalla facoltà, concessa all’amministrazione, di revocare la concessione per motivi di pubblico interesse. Il termine tradizionalmente utilizzato dal nostro legislatore non è infatti quello di “recesso” dal contratto22, bensì di “revoca” del provvedimento concessorio, in tal modo manifestando l’intenzione di muoversi su di un piano pubblicistico e non negoziale23. Il rapporto parrebbe, a prima vista, assoggettato a quella tipica manifestazione di autotutela, riconducibile alla categoria dei “provvedimenti am18. Tale norma costituisce la pedissequa riproduzione di quanto contenuto nel comma 2 bis dell’art. 19 della Legge 109/94 e s.m.i., ora abrogata. 19. Cfr. Pellizzer, L’affidamento delle concessioni di lavori pubblici e gli appalti dei concessionari, in Trattato sui contratti pubblici, IV Le tipologie contrattuali, diretto da Sandulli, De Nictolis e Garofoli, Milano, 2008, 2935 ss., in cui è altresì contenuta un’approfondita analisi sui punti di contatto e sulle differenze fra la tipologia del contratto di concessione e quello di appalto. 20. Cfr. art. 143, comma 8, D. Lgs. 163/06, che riprende il disposto del comma 2 bis dell’art. 19 della Legge 109/94 e s.m.i. 21. Cfr. Fracchia, L’accordo sostitutivo, Padova, 1998, 258 ss. 22. Cfr. art. 158, comma 1, D. Lgs. 163/06, corrispondente all’art. 37 septies della L. 109/94 e s.m.i. 23. Ben diverso è invece il tenore letterale dell’art. 11 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che utilizza il termine “recesso” unilaterale dall’accordo. Capitolo II – La natura della concessione di beni e servizi 33 ministrativi” e non agli atti di regolazione fra privati24. Si deve ritenere, per converso, che, trattandosi di materia da sempre ricondotta in ottica pubblicistica, il termine “revoca”, qualche volta utilizzato dal legislatore, debba essere considerato alla stregua della categoria civilistica del recesso. Il nomen iuris impiegato è probabilmente imputabile ad una certa vischiosità con la nomenclatura “pubblicistica” che, da sempre, ha caratterizzato la materia in esame. D’altra parte, lo stesso termine di “decadenza”, che, per altri motivi, individua il venir meno del provvedimento concessorio, risulta ora sostituito con quello di “risoluzione”25, che non può essere riferito a nient’altro, se non ad un rapporto di tipo negoziale. Analoghe considerazioni valgono per la fattispecie relativa al subentro, disciplinata dall’art. 159 del codice dei contratti pubblici, che, per come è regolata, non può che ricondursi ad un’ipotesi contrattuale e non certo ad un provvedimento di carattere autoritativo. Al di là del nomen iuris, il nostro legislatore, con il termine “revoca”, di chiara connotazione pubblicistica, ha, molto probabilmente, inteso alludere al “recesso” unilaterale pattizio, previsto e disciplinato dall’art. 1373 cod. civ. Siffatto termine lessicale è peraltro presente nell’art. 11 della legge n. 241/1990 che, da parte sua, contiene un chiaro riferimento all’indennizzo, presente anche nel codice dei contratti pubblici. La suddetta impostazione normativa è pertanto perfettamente coerente con la teoria unitaria da noi patrocinata, in quanto, anche in presenza di un accordo sostitutivo di provvedimento, comunque si voglia etichettare l’atto di “ritiro” dell’amministrazione, la stessa dovrà tenere indenne la propria controparte negoziale. In tal modo, si può certamente affermare che trova assoluta conferma la posizione paritaria delle parti nell’ambito del sinallagma contrattuale, posto che, se anche risulta riconosciuto al soggetto pubblico il potere di ritirarsi dal contratto, questo deve sempre e comunque “indennizzare” il privato per il pregiudizio subito. In altri termini, se anche, per assurdo, si volesse attribuire all’accordo un’intrinseca natura provvedimentale, le conseguenze sarebbero comunque riconducibili ad una regolamentazione di carattere meramente contrattuale. 24. I sostenitori della teoria unitaria tentano di ricondurre l’elemento di natura provvedimentale nell’ambito di un’ulteriore categoria definitoria: quella del contratto di diritto pubblico (cfr. Greco, Le concessioni di lavori e di servizi nel quadro dei contratti di diritto pubblico, cit., 993 ss., il quale afferma che “risulta confermata, alla stregua del diritto positivo, la sussistenza di potestà pubblicistiche, che la giurisprudenza ha sempre dato per presupposte nelle concessioni di cui si tratta; e tali potestà pubblicistiche, presenti nella fase di esecuzione e svolgimento del rapporto contrattuale, da un lato valgono a differenziare tali istituti dai contratti ad evidenza pubblica (che non conoscono nulla di simile) e, dall’altro, ne costituiscono l’elemento caratterizzante, idoneo ad inquadrare la fattispecie tra i contratti di diritto pubblico)”, ma la tesi appare tautologica e, perciò, scarsamente convincente. 25. Cfr. artt. 157 e 158 D. Lgs. N. 163/2006 e, prima ancora l’art. 37 septies della legge n. 109/94. 34 la concessione tra provvedimento e contratto Sotto questo profilo, potremmo ipotizzare un sicuro parallelismo con l’istituto disciplinato dall’art. 1671 cod. civ. (afferente all’ipotesi normativa dell’appalto), che presenta altresì, quantomeno a livello di principio, grande affinità con il contratto di concessione di lavori o servizi pubblici: nella fattispecie, il committente (o il concedente) deve tenere indenne l’appaltatore (od il concessionario) delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno26. Invero, contrariamente ad una difforme opinione dottrinaria27, la facoltà, unilateralmente riconosciuta all’amministrazione28, di apportare variazioni alle condizioni poste a base del rapporto, non costituisce affatto un tipico potere autoritativo, dovendo essere assimilato, sia sotto il profilo logico che giuridico, allo ius variandi concesso al committente nell’ambito del contratto di appalto29. In tale ipotesi si rimane infatti sul terreno negoziale, non assumendo alcun particolare rilievo pubblicistico la variazione eventualmente disposta dall’amministrazione; la modifica dei parametri a base del sinallagma è infatti una diretta conseguenza di un mutamento del progetto dell’opera o delle modalità e tempistiche di erogazione del servizio, incidenti sulle onerosità del privato esecutore, che avrà, conseguentemente, diritto al riequilibrio del contratto. In ogni caso, un aspetto, particolarmente rilevante ai nostri fini, è che le parti – e, dunque, anche l’amministrazione – risultano vincolate all’equilibrio sinallagmatico negozialmente pattuito: tale equilibrio si riverbera, inevitabilmente, sui profili di carattere patrimoniale, derivanti dalle varie vicende, che influenzano l’esecuzione del contratto, venendo ad assurgere a baluardo insuperabile, anche per la parte pubblica, relativamente all’esercizio delle sue potestà amministrative. In effetti, se anche volessimo considerare lo ius variandi, riconosciuto dalla legge all’ente concedente, come un’espressione delle predette potestà, il suo esercizio dovrebbe comunque garantire il rispetto dell’equilibrio patrimoniale delle prestazioni pattuite. E non vi è chi non veda che questo costituisce un aspetto riconducibile ad un’ottica meramente civilistica, che presuppone quindi un diverso inquadramento della fattispecie, proiettandola in un emisfero necessariamente privatistico. 26. Cfr. D’Alberti, Le concessioni amministrative, Napoli, 1981, 347 ss., che sottolinea, sia a proposito della revoca che dello ius variandi dell’amministrazione, come tali ipotesi risultino ascrivibili ad altrettanti diritti potestativi che l’ente concedente può vantare nei confronti del privato concessionario. Essi rimangono quindi all’interno di una nozione generale di contratto, quale risulta da norme del tipo di quella contenuta nell’art. 1321 cod. civ. 27. Greco, Le concessioni di lavori e di servizi nel quadro dei contratti di diritto pubblico, cit., 993 ss. 28. Cfr. art. 143, comma 8, D. Lgs. 163/06, che riprende il disposto del comma 2 bis dell’art. 19 della Legge 109/94 e s.m.i. 29. Cfr. D’Alberti, Le concessioni amministrative, cit. 347 ss; cfr. altresì, ai nostri fini, art. 1661 cod. civ. (“variazioni ordinate dal committente”). È opportuno evidenziare che, nella fattispecie, l’amministrazione concedente ha un potere che è della stessa natura di quella riconosciuta al committente nel contratto di appalto. Capitolo II – La natura della concessione di beni e servizi 35 Allo stesso modo, in caso di revoca della concessione o, meglio, di “recesso” dal rapporto negoziale, è riconosciuto alla parte privata un equo indennizzo, che trova giustificazione proprio nella salvaguardia del predetto sinallagma, in evidente applicazione di un meccanismo riequilibratore di indubbia natura civilistica. Si può pertanto concludere che la ricostruzione in termini unitari della fattispecie risulta sicuramente più aderente all’essenza dell’istituto concessorio che, nella sua evoluzione sia normativa che giurisprudenziale, tende a porre su di un piano viepiù paritario i due contraenti, cercando di smussare ogni supremazia della parte pubblica a danno di quella privata30. D’altro canto, non si può neppure trascurare come l’impostazione prospettata faccia emergere il lato più “democratico” dell’amministrazione, la quale deve compiere qualsiasi sforzo per fondare il proprio consenso su un terreno privatistico, anziché esercitare le sue prerogative in maniera autoritaria31. Detta finalità non costituisce una semplice scelta tecnica, bensì culturale ed istituzionale, in quanto tende a sostituire al vecchio rapporto gerarchico, espressione di una concezione autoritaria e statalista, un rapporto paritario tra cittadini e pubblica amministrazione32: esso non può che costituire la base di ogni moderno Stato di diritto. 3. L’art. 11 della Legge 241/90: le varie posizioni della dottrina sulla natura dell’accordo La progressiva diffusione dello strumento di azione non autoritativo ha costituito il presupposto per l’intervento del legislatore che, nel 1990, ha – come noto – emanato la fondamentale legge sul procedimento amministrativo33, nell’ambito della quale ha trovato collocazione anche la materia degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, che, per certi versi, si può accostare al “contratto di diritto pubblico” di area tedesca o al “contratto amministrativo” di origine francese. La fattispecie è appunto regolata dall’art. 11 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, inserita nel capo riguardante la partecipazione del privato al procedimento: l’istituto è stato configurato come uno strumento di cooperazione fra l’amministrazione e la parte non pubblica, rivestendo la precipua funzione di consentire proprio ai privati l’assunzione di un ruolo propulsivo nel con30. Cfr. Cfr. Benvenuti, Disegno dell’amministrazione italiana, linee positive e prospettive, Padova, 1996, 240 ss.; in proposito ved. altresì Allegretti, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, 149 ss. 31. Cfr. Civitarese, Contributo allo studio del principio contrattuale nell’attività amministrativa, Torino, 1997, 215. 32. Cfr. relazione al Senato di Franco Bassanini, accompagnatoria del d.d.l. n. 1281, discusso nella seduta del 10 aprile 2003, in www.senato.it. 33. Cfr. A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1964. 36 la concessione tra provvedimento e contratto temperamento dei diversi interessi in gioco, altrimenti appannaggio esclusivo dell’ente. Il citato articolo 11 consente infatti all’amministrazione di stipulare accordi allo scopo di fissare il contenuto del provvedimento finale oppure in sostituzione del provvedimento stesso34. L’ipotesi in esame innesca una serie di problematiche, fra le quali spicca quella legata alla necessità o meno della pendenza di un procedimento amministrativo in cui far confluire l’accordo integrativo o sostitutivo del provvedimento. La questione è stata esaminata dal T.A.R. Lombardia nel 2006, che, in maniera assolutamente innovativa rispetto alla precedente giurisprudenza, ha prospettato un’interpretazione estensiva della norma, affermando che gli accordi, riconducibili al genus dell’art. 11, possono essere conclusi anche in assenza di un procedimento amministrativo pendente35. In senso contrario si era invece orientata la giurisprudenza precedente, specie quella del Consiglio di Stato, che ha sempre negato la natura di accordo sostitutivo di un provvedimento, qualora non fosse stato preventivamente avviato un procedimento in cui situare l’accordo medesimo36. Per la verità, la pronuncia dei giudici milanesi dev’essere segnalata anche per un altro motivo. La stessa configura infatti un’ipotesi di cogenza dell’accordo non soltanto nei confronti del privato, ma anche dell’amministrazione: secondo il Tribunale, l’inadempimento dell’ente pubblico agli obblighi de34. Cfr. Boschi, Accordi amministrativi e modalità procedimentali, in Foro amm. T.A.R., 2006, 12, 3751 ss. 35. Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 27 dicembre 2006, n. 3067, in Foro amm. TAR 2006, 12, 3742 ss., in una fattispecie riguardante l’affidamento della gestione congiunta di un ristorante e di un bar-caffetteria nell’ambito del medesimo complesso, nella cui motivazione si afferma che l’accordo, in forza del quale l’amministrazione assume specifici obblighi in ordine al contenuto di un eventuale, futuro bando di gara, prevedendo l’attribuzione alla controparte di un diritto di prelazione in ordine all’affidamento di un servizio appaltato, configura un’ipotesi di determinazione consensuale del contenuto discrezionale del provvedimento amministrativo, ai sensi dell’art. 11 L. 241/09, a prescindere dall’esistenza di un procedimento amministrativo in corso di svolgimento. In linea con la citata pronuncia, ved. Falcon, Le convenzioni pubblicistiche, cit., 205 ss. Per un approfondimento delle tematiche affrontate dai giudici milanesi, ved. anche De Pauli, Prelazione e procedure ad evidenza pubblica, in Urb. e app. 2007, 755 ss. 36. Cfr. Cons. St., Sez. VI, 15 maggio 2002 n. 2636, in Foro amm., CDS 2002, 1310, nella cui pronuncia, riguardante un verbale di accordo sindacale, si afferma che un simile atto non costituisce accordo ex art. 11, L. 241/90, in quanto rientra fra le procedure di consultazione sindacale, che necessariamente precedono l’avvio del procedimento per la concessione della cassa integrazione guadagni e, pertanto, non può essere definito come un accordo procedimentale sul contenuto del provvedimento finale, posto che il procedimento diretto ad adottare la determinazione sulla concessione della cassa integrazione guadagni inizia successivamente all’esaurimento delle procedure di consultazione sindacale. Tali procedure sono intermediate in via amministrativa, ad esse presenziano rappresentanti dell’amministrazione, i quali si limitano a prendere atto della volontà delle parti sociali e solitamente si impegnano, ma in via generale, e non certo assumendo in merito precise obbligazioni, ad assicurare i migliori sforzi dell’amministrazione per la composizione del conflitto sociale originato dalla crisi aziendale. Capitolo II – La natura della concessione di beni e servizi 37 rivanti dal contratto assume una rilevanza diretta sul piano dell’azione amministrativa, con conseguente annullabilità del provvedimento difforme per violazione di legge, con riferimento all’art. 1372 cod. civ., in forza del rinvio, contenuto nell’art. 11, comma 2, della legge n. 241 del 1990 ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti37. In virtù della spiccata affinità con la materia delle concessioni, la menzionata sentenza del T.A.R. Lombardia offre lo spunto per una sintetica ricostruzione della natura giuridica degli accordi. In proposito, la dottrina ha elaborato molteplici e variegate teorie, che sono sostanzialmente riconducibili a quattro diversi filoni. Secondo una prima teorica panprivatistica, gli accordi ex art. 11 sono da considerare dei veri e propri “contratti” di diritto privato, trovando nel codice civile la principale sede di disciplina della materia. Il fondamento di tale ricostruzione è costituito dal tenore letterale del citato articolo 11, il quale testualmente dispone che sono applicabili, ove non diversamente previsto, i principi del codice in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. È necessario evidenziare che la legge fondamentale sul procedimento pone una duplice limitazione, costituita dall’insussistenza di una diversa previsione e dalla compatibilità dei principi civilistici, ma, in sostanza, il rinvio assume un carattere generale, espressivo di una piena fungibilità fra il diritto privato e quello pubblico. A tale proposito è stato infatti prospettato che il rimando ai principi codicistici, “in quanto compatibili”, debba essere interpretato nel senso che la loro applicabilità è esclusa solo da norme che disciplinano gli accordi (o talune tipologie di essi) in maniera espressamente incompatibile con quegli stessi principi civilistici38. Allo stesso modo, l’ulteriore limite, costituito dall’insussistenza di una diversa previsione, deve intendersi come riferibile ad eventuali future discipline di settore, derogatorie di siffatta regolamentazione, ovvero come deroga pattizia dei suddetti principi39. In ogni caso, in base alla sopra richiamata impostazione teorica, la clausola di compatibilità implicherebbe la diretta estensione della disciplina civilistica e confinerebbe pertanto tutta la materia nell’ambito di un’unica categoria giuridica di riferimento: quella del contratto40. D’altra parte, la stessa terminologia lessicale, utilizzata dal legislatore nella legge n. 241/990 a proposito dell’”accordo”, è identica a quella, contenuta 37. Proprio per questo motivo, il T.A.R. Lombardia individua il radicamento della causa nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 38. Cfr. Trimarchi – Banfi, I rapporti contrattuali della pubblica amministrazione, in Dir. pubbl., 1998, 66, nota 44. 39. Cfr. Manfredi, Accordi ed azione amministrativa, Torino, 2001, 109. 40. Cfr. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale, Milano 1996, 317 ss. 38 la concessione tra provvedimento e contratto nell’art. 1321 cod. civ., in riferimento al contratto41. Di qui, la completa fungibilità – secondo alcuni autori – fra gli strumenti pubblicistici e quelli di diritto privato in funzione di uno scopo comune, costituito appunto dall’interesse generale42. Il nostro legislatore, attraverso l’art. 11 della legge n. 241 del 1990 ha peraltro chiaramente manifestato la sua volontà di ricondurre tali accordi alla disciplina civilistica del nostro codice43. Anche la giurisprudenza ha invero mostrato di accogliere la suddetta impostazione concettuale: lo stesso Consiglio di Stato ha infatti affermato che la finalità dell’atto e l’intensità del nesso teleologico con la migliore cura dell’interesse pubblico non costituiscono di per sé soli elementi significativi per attribuire a tale atto natura autoritativa e provvedimentale, essendo ormai pacifico che la pubblica amministrazione possa perseguire i propri compiti istituzionali con atti tanto autoritativi quanto paritetici; per altro verso, la finalità pubblicistica è realizzabile con strumenti di diritto comune senza per ciò escludere la cura dell’interesse pubblico e, anzi, la previsione d’una giurisdizione amministrativa esclusiva nei contratti ad oggetto pubblico ex art. 11, l. 7 agosto 1990 n. 241, scaturisce proprio dall’implicito riconoscimento che, in tali rapporti, possono aver rilievo anche le posizioni di diritto soggettivo delle parti, ancorché basate su accordi, ma pur sempre tese alla realizzazione dell’interesse medesimo44. In base ad una differente teoria, gli accordi procedimentali assumerebbero sempre natura negoziale, ma di diritto privato speciale, ad autonomia ristretta. 41. Cfr. Civitarese Matteucci, Contributo allo studio del principio contrattuale nell’attività amministrativa, cit., 189. 42. Cfr. Corso, L’attività amministrativa, Torino, 1999,150. 43. Cfr. altresì, in giurisprudenza, Cons. giust. amm. Sicilia, 04 novembre 1995, n. 336, in Cons. Stato 1995, I,1607, in materia di contratti di sponsorizzazione stipulati da enti pubblici; Consiglio Stato, Sez. V, 20 dicembre 1996, n. 1572, in Giur. it. 1997, III,1, 345, in una fattispecie inerente la posa di cavi su strade comunali; T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. II, 18 luglio 2005, n. 1237, in Foro amm. TAR 2005, 7/8 2597, in ambito di erogazione dell’assistenza sanitaria ed ospedaliera da parte delle Regioni; T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 19 gennaio 2006, n. 723, in Foro amm. TAR 2006,1, 257, Ragiusan 2006, 267-268 99, in materia di affidamento da parte della ASL dei servizi di trasporto infermi e di pronto soccorso; Cassazione civile, Sez. II, 21 aprile 2000, n. 5234, in Giust. civ. Mass. 2000, in relazione alle misure urgenti adottate in materia di opere pubbliche in Sicilia; Cons.giust. amm. Sicilia, Sez. giurisd., 28 aprile 1997, n. 35, in Foro Amm. 1997, 1719, in ambito di sponsorizzazione di eventi sportivi, secondo la quale, gli enti pubblici, salvo espresse eccezioni di diritto positivo, hanno piena capacità di diritto privato nei limiti delle loro finalità istituzionali, come risulta anche dall’art. 11 l. 7 agosto 1990 n. 241, che – ammettendo la possibilità di concludere accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti e sottoponendo tali accordi al regime dei contratti – ha ammesso una tendenziale equivalenza tra l’attività amministrativa di diritto pubblico e quella di diritto privato; pertanto, la p.a. è legittimata a stipulare un contratto, a condizione però che non venga alterato il ruolo – e l’immagine – di neutralità dell’amministrazione stessa. 44. Cfr. Consiglio Stato, Sez. V, 13 marzo 2000, n. 1327, in Foro Amm. 2000, 891 in materia di gestione di servizi pubblici.