Istituto di Istruzione Superiore "Aldo Moro"

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ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE
Liceo Scientifico
ALDO MORO
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Agnese Dionisio Classe 5D
Anno scolastico 2013 - 2014
TESINA
Il buio di Auschwitz
“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere
questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo con intuizione quasi profetica, la realtà ci si
è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera
non c’è, e non è pensabile.”
Primo Levi, Se questo è un uomo
Per gli ebrei deportati e sopravvissuti nessuna lingua ospita le parole per commentare qualcosa di
simile: i lager, le sei milioni di vite spazzate via come cenere al vento. La Shoah costrinse il mondo
ebraico a interrogarsi sul concetto di Dio e per tutti gli ebrei-tedeschi rappresentò anche la fine di
quella che si rivelò essere una grande utopia, la caduta delle illusioni.
Nei primi decenni del XX secolo filosofi come Franz Rosenzweig e Martin Buber, emblemi
dell’entusiasmo di un’intera generazione, cercarono infatti di attuare una <<simbiosi ebraicotedesca>> .
A fine Ottocento erano circa 500.000 gli ebrei presenti in Germania; centomila solo a Berlino, per
lo più coinvolti nel processo di emancipazione e assimilazione, secondo cui l’essere ebrei
significava essere buoni tedeschi, in quanto necessario, naturale, per realizzare la forma originale e
specifica del loro essere ebrei.
La cultura tedesca fu definita <<il più nobile approccio a tutto ciò che è umano e che è parte
integrante dell’ebraicità>>.
Uomini come Moses Mendelsshon impegnarono la loro vita a dimostrare che l’ebreo, fedele ad
una legge che lo separava dal popolo ospite, poteva allinearsi alla spinta riformatrice
dell’Illuminismo, rendendo possibile una simbiosi tra fede e ragione, “Glauben und Wissen”, priva
di contrapposizione o assorbimento reciproco, ma originata da un desiderio di conoscenza
animato dal credere.
Filosofi ebrei come Rosenzweig tentavano così di proporre un modello culturale, lasciando da
parte l’aut-aut, per crescere e mantenersi liberi nell’ e-e, ebrei e tedeschi. Il sapere ebraico
doveva essere proposto come sapere immediato, <<rivelazione>> del presente entro cui crescere
e vivere. Si delineava dunque la necessità di una compresenza di due differenti culture, da
distinguere ma mai da separare.
Il tema della <<simbiosi>> pretendeva l’assoluta fedeltà alla Torah e alla cultura tedesca,
impregnata di cristianesimo.
Nel 1925 Rosenzweig intraprese con l’amico Buber l’imponente lavoro di traduzione della Bibbia
ebraica, tentando di conciliare ebraico antico e tedesco moderno, non <<tedeschizzando>>
l’ebraico ma <<ebraicizzando>> il tedesco, restando così fedeli alla lingua originale e non
confondendo la traduzione con un’opera di interpretazione, in un movimento che rispettasse le
parole scritte all’origine e ne conservasse la specificità. La questione era assai complessa in quanto
la traduzione continuamente oscillava fra il rispetto della purezza del testo originario e la necessità
di riconvertirlo ai propri modelli linguistici. Secondo i due filosofi solo il <<grido>> di Dio impresso
nella creazione nomina, specifica le cose, chiamandole per nome ed esprimendole in un linguaggio
immediatamente riferibile alla sfera del senso. Solo il nome di Dio, Jhwh, nel libro di Genesi,
nomina le cose perché le ha create, chiamandole, ed è l’unico capace di produrre e dare senso.
Tradurre la Bibbia significava <<far risuonare una voce, non scrivere; ascoltare, non leggere>>,
come precisava Buber, e gli ebrei-tedeschi avrebbero potuto ritrovare nel loro famigliare lessico
linguistico i tratti costitutivi della loro identità originaria, le <<parole-chiave>> (Leitworte) su cui
pareva poggiarsi l’intera struttura linguistica della narrazione. Rosenzweig morì prematuramente
nel 1929, conservando l’utopia del compimento della simbiosi ebraico-tedesca.
Nei decenni successivi Buber continuò la traduzione tedesca della Bibbia ebraica, nonostante nel
1938 l’antisemitismo nazista lo costrinse a trasferirsi a Gerusalemme, dove si impegnò a proporre
politicamente la coesistenza pacifica dello stato ebraico e arabo entro la medesima terra.
La sua vita fu continuamente alimentata dalla tensione verso il riconoscimento dell’altro, l’Ich und
Du, L’io e il tu, ma come osservò il sionista Scholem e come dimostrarono i fatti della Seconda
Guerra Mondiale, questa tensione fu unilaterale, e la degenerazione totalitaristica del nazismo
trovò in questa estrema spinta assimilazionistica la ragione intollerante dell’antisemitismo. Gli
ebrei-tedeschi che amavano in modo quasi viscerale la cultura tedesca, furono sterminati da
quella nazione a cui avevano dato tutto senza mai ricevere nulla, se non la condanna a morte e la
nullificazione delle camere a gas.
Scholem disse che <<nel corso della generazione che precede la catastrofe gli ebrei-tedeschi, il cui
senso critico sarebbe apparso irritante tra i tedeschi, si distinsero per una stupefacente mancanza
di prospettiva critica sulla loro situazione. Un’attitudine “edificante” e come improntata da
giustificazione; una mancanza di franchezza critica caratterizza quasi tutti coloro che hanno scritto
sulla posizione degli ebrei sull’universo tedesco delle idee, della letteratura, della politica e
dell’economia>>, e, riferendosi a Rosenzweig, ricordava che <<egli cercava – non so se debbo dire
riformare o rivoluzionare – dall’interno l’ebraismo tedesco; io non riponevo più nessuna speranza
nell’amalgama nota come ebraismo tedesco e mi attendevo che l’ebraismo fosse rinnovato solo
dalla sua rinascita nel paese di Israele>>. Sin da giovanissimo egli fu consapevole, non a torto, che
nella cultura e nella società tedesca non ci fosse posto per un ebreo e che in quanto tale dovesse
ricercare la propria identità storica nel collegamento con la <<sua>> tradizione, senza
inquinamenti culturali e ideologici.
<<Ero convinto che se esisteva una prospettiva di rinnovamento sostanziale dell’ebraismo, di un
ebraismo che rivelasse tutto il suo potenziale, ebbene solo qui, in terra d’Israele, poteva avverarsi:
nell’incontro dell’ebreo con se stesso, con il resto del suo popolo, e con le sue radici>>.
Il sionismo è il movimento storico-politico << esistenziale>>, derivato da tale consapevolezza , teso
a redimere il popolo ebraico in una prospettiva nazionale e contrapposto al messianismo, una
realtà religiosa con il fine di riaffermare che solo il messia potrà cambiare il corso della storia.
La Shoah segnò la fine di ogni illusione su una simbiosi ebraico-tedesca, rimarcando per sempre la
frattura che gli Arii non vollero colmare.
Tutte le speranze si rivolsero a Israele, perché nessun ebreo poteva più illudersi di poter
appartenere a un altro stato, i Tedeschi hanno insegnato al popolo giudaico che uno straniero
rimarrà sempre tale.
La Shoah dunque fu un trauma profondissimo per il popolo ebraico. Fu soprattutto un trauma
religioso in quanto la Bibbia presentava Israele come il popolo eletto, che Dio stesso avrebbe
protetto dalle sventure se avesse rispettato la Sua Legge.
Primo Levi e altri numerosi deportati avevano da tempo abbandonato la fede dei loro padri,
pertanto Auschwitz rappresentò il fallimento dell’umanità e della civiltà europea ma non provocò
alcuna crisi di tipo religioso.
<<Devo dire che l'esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di
educazione religiosa che pure ho avuto. C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una
soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.>>
Primo Levi, Se questo è un uomo
Diverso fu l’atteggiamento di vari ebrei dell’Europa Orientale: assai più legati, in generale, degli
ebrei occidentali alla religiosità tradizionale, si sentirono traditi da Dio e costretti a interrogarsi
sulla sua ‘’eclissi’’.
Elie Wiesel, a differenza di Levi che era del tutto agnostico, era profondamente attaccato alla fede
tradizionale. Per lui, la deportazione fu l’inizio di una lunga crisi religiosa, in quanto lo sterminio
sembrava mettere in discussione i più elementari postulati della fede biblica. Dio sembrava
terribilmente silenzioso e assente. Auschwitz apparve, prim’ancora che la crisi dell’uomo, razionale
e proteso verso il progresso, come l’aveva descritto l’Illuminismo, la tragica scomparsa di Dio.
Nel 1958 Wiesel pubblicò La notte, dove descrive la vista di << tre condannati a morte per
impiccagione, e tra essi un bambino, per lo spettacolo dell’orrore e dell’inumano. La terza corda
non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora […]. Era ancora vivo quando gli
passai davanti. […] Dietro di me udii il solito uomo domandare: “Dov’è dunque Dio?”. E io sentivo
in me una voce, che gli rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca …” >>.
Salmen Gradowski, forced to work in Auschwitz’s Sonderkommando, expressed his dismay in one
of his manuscripts that, in 1944, he buried near Crematorium IV. To those pages written secretly
he entrusts some remarks regarding the religiousness of his surroundings.
First of all he mentions the prayers, in the long nights of anguish, during the infernal journey on
the trains to be deported to the extermination camps:
<< Heart-felt tones of prayer are heard, the charming voices of women pass on to a fervent melody that
encompasses still wider circles. In that melody the Jews express their most secret longings and their sufferings,
they relate the bitter fate of men, manacled and led into the unknown, into an exile which fills
them with fear and deprives them of tranquility. This melody implores the Creator: save us from the
deep chasm and lead us to a magnificent, better tomorrow. The melody beseeches: lead us on our path of
life as heretofore. Grant that we reach the goal of our journey and may it end in nothing worse than the
fright we had.>>
The worse was yet to come. << Whatever thoughts should occupy your mind, joyful or sad, you will
always obey them. Remember, if you cannot manage it, if you only make light of it, it will crush
you. It will clutch you with their talons, you will be their slave. Your mind will cease to occupy itself
with anything else, except them. All your thoughts will be at their disposal. They will be the master
of your body and they will master your soul completely. You will have to do anything to satisfy
them. You will forget everything, you will break everything that has disappeared into the past
never to return>>.
Towards the end of the manuscript, he depicts a few aspects of the life of the Sonderkommando’s
five hundred souls: lots of his comrades watched with disdain and derision tens of Jews who
gathered, waiting for the shabbat [Saturday, public holiday of Judaism], to recite the evening
prayer. Others watched with bitterness because the terrible reality, the horrible tragedies that
took place each day in front of our eyes could not awake a feeling of gratitude, nor incite to sing
the praises of the universe creator. He, that God has-had permitted a nation of barbarians to
assassinate and annihilate millions of innocent men, women and children, whose only crime was
to be born Jews, to have brought monotheism to mankind and
to have recognized the
omnipotence of that God, to which they rose endless prayers even in that place,. For these
reasons they were subjected to massacre. <<And why, then, should honour him? Why? Why raise
praises in front of that ocean of Jewish blood? Implore Him that does not want to listen to the
innocent children' cries and screams , no! And they withdrew, disappointed and embittered,
angry with their teammates, who didn’t think like them>>. Even other Jews, religious in the past,
have distanced themselves. Since a long time they are cold towards their God. They cannot
understand how a father can deliver his children in the hands of bloodthirsty murderers, in the
hands of those who deride him and make fun of him. They don't want to search too many
answers, fearing they would lose their last support, if it were to disappear their extreme comfort
and consolation. They would still like to pray and open their hearts, but they cannot; not wanting
to be fake, nor to God, nor to themselves. Despite everything, despite this widespread mood,
there is an obstinate group of practitioners, which struggles to repel discouragement, to silence
the protests that daily afflict their hearts and their spirits, asking why. Against the evidence of
things, they persist in staying linked to the laces of a naïve faith, without wondering why or looking
for reasons. They believe and are still convinced and prove it every day, that everything is done
and committed against them is wanted by a higher impenetrable power. That we, with our poor
human reason, cannot understand. They cling with all their forces to their God, feeling like
drowning in the ocean of their belief. Maybe in the deepest of the heart doubts haunt them, but
they held firm, not wanting to lose their last consolation, their last support. <<With their demise, It
has gone the last consolation>>. Salem Gradowski, Diary from an Auschwitz’s crematorium
Il filosofo Hans Jonas si chiede, tramite il saggio “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, come l’evento
dello sterminio degli ebrei interroghi la nostra coscienza religiosa, il nostro concetto di Dio, che
senso conservino, di fronte a una rivelazione così evidente della potenza del Male nella società e
nella storia, parole come fede in Dio, giustizia o misericordia, e soprattutto speranza. Si chiede con
turbamento, rinnovando il sentimento disperato di Giobbe: «Dio permise che ciò accadesse. Ma
quale Dio poteva permetterlo?». Ciò che viene in primo piano in questa riflessione è il dolore delle
vittime, l’assurdo della loro morte, il Male allo stato puro, prima di ogni razionalizzazione e
giustificazione storico-universale o filosofica, prima di ogni teodicea. Anzi, la tesi radicale di Jonas è
quella che proprio l’evento di Auschwitz renda impossibile in futuro una teodicea, nel significato
tradizionale del termine, cioè una giustificazione di Dio.
Jonas confronta l’evento di Auschwitz con il celebre terremoto di Lisbona, che aveva turbato tante
coscienze illuminate, come quelle di Voltaire, Rousseau, Kant. Ci si era divisi, allora, tra
“pessimisti” e “ottimisti” su un “semplice” evento naturale, che non coinvolgeva la responsabilità
degli uomini. Ma ciò che avvenne ad Auschwitz è ben più grave di un terremoto, infatti
rappresenta «l’esistenza stessa del Male quale oggetto della volontà umana e non più le disgrazie
e le tribolazioni che provengono dalla cieca casualità naturale». Il problema è ancor più accentuato
dall’angolazione religiosa assunta dall’autore, che è quella dell’ebraismo. Infatti per il cristiano,
«che attende l’unica salvezza al-di-là, questo mondo (e in particolare il mondo umano a causa del
peccato d’origine) è il mondo di Satana e conseguentemente un mondo non degno di fiducia».
Non che per noi cristiani sia più facile accettare l’esperienza del dolore, ma questa da un lato non
fa che confermare la nostra idea pessimistica di questo mondo, mentre dall’altro gli consente di
unirsi alle sofferenza della croce di Cristo. Per l’ebreo invece, «che vede nell’al-di-qua il luogo della
creazione, della giustizia e della salvezza divina», la sofferenza è maggiore. Dio è per lui anzitutto
«il signore della storia, e “Auschwitz”, per il credente, rimette in questione il concetto di Dio che la
tradizione ha tramandato». Infatti il caso di Auschwitz è un evento catastrofico e assurdo, un
autentica Shoah, ‫שואה‬, calamità, non inquadrabile entro una consapevole persecuzione di
carattere religioso: «Chi vi morì, non fu assassinato per la fede che professava e neppure a causa
di essa o di una qualche convinzione personale. Coloro che vi morirono, furono innanzitutto privati
della loro umanità in uno strato di estrema umiliazione e indigenza: nessun barlume di dignità
umana fu lasciato a chi era destinato alla soluzione finale». Jonas ritiene che l’evento della Shoah
possa assumere un rilievo teologico, se non altro per il fatto oggettivo che, al di là delle possibili
giustificazioni, quello che venne sterminato ad Auschwitz fu proprio l’antico popolo dell’alleanza, e
che per un ebreo credente il “dopo” quel fatto storico, non può essere più uguale al “prima”: la
fede richiede un approfondimento e una purificazione. Il filosofo propone nel suo «frammento di
teologia speculativa» un nuovo mito creazionistico, l’immagine di un «Dio sofferente e diveniente»
assieme al mondo, un Dio Creatore «temporalizzato», che anziché possedere un’essenza perfetta
e immutabile, si cala nel tempo. Dio ha deciso di affidarsi totalmente al «gioco d’azzardo» del
divenire cosmico, della lotta tra bene e male, che si origina dalla comparsa dell’uomo sulla terra.
Così il destino dell’uomo e del mondo si trasforma nel destino di Dio stesso.
Jonas dunque si chiede quali siano gli “attributi”, che la fede monoteistica attribuisce a Dio,
essenzialmente “bontà”, “onnipotenza” e “comprensibilità”. La bontà di Dio si è rivelata nella
creazione del mondo e nella stipulazione di un patto salvifico con gli uomini. L’onnipotenza si è
svelata nei grandi eventi della storia sacra, come l’esodo e la conquista della terra promessa. La
comprensibilità di Dio (seppur limitata) si è rivelata con l’invio dei profeti e dei comandamenti.
Finora tutti i tentativi di teodicea tradizionale hanno tentato di tener uniti questi tre attributi.
Jonas ritiene invece che la totale disumanità di Auschwitz non possa che condurre a una
alternativa radicale. O il riconoscimento di un dualismo di principi, bene o male, coesistenti nel
divino, come affermato dalla dottrina manicheista (il che, però, equivarrebbe alla negazione del
monoteismo) o la riforma radicale del concetto biblico di Dio che salvi ciò che è essenziale per la
nostra capacità di credere e abbandoni ciò che non è essenziale. Non possiamo separare il nostro
concetto di Dio dalla sua bontà, cioè dalla sua volontà di bene e nemmeno spingerci sino all’idea
dell’incomprensibilità, altrimenti verrebbe negata la rivelazione del divino. «Dopo Auschwitz,
possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di
bontà o è totalmente incomprensibile […]. Ma se Dio può essere compreso in un certo modo e in
un certo grado, allora la sua bontà non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in
quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è
comprensibile e buono e nonostante ciò nel mondo c’è il male». Jonas ritiene che un Dio debole,
che non interviene a impedire l’eccesso di malvagità e di ingiustizia nel mondo e nella storia, sia
compatibile con la rivelazione biblica di Dio, dunque Egli «non intervenne, non perché non lo
volle, ma perché non fu in condizione di farlo». L’onnipotenza di Dio non deve essere concepita
come una proprietà “magica” e miracolistica: il Dio «che si prende cura» del mondo, che soffre i
suoi drammi, «non è un mago, che nell’atto stesso di prendersi cura realizza lo scopo della sua
sollecitudine». Dio ha scelto di «far intervenire altri attori e in questo modo ha fatto dipendere da
loro la sua preoccupazione». Decidendo di creare l’uomo e di conferirgli la libertà morale, Dio ha
limitato volontariamente la propria onnipotenza, per lasciare spazio all’autonoma iniziativa
umana, «concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza». La creazione «fu
l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo,
assoluta», creando l’uomo libero, Dio ha compiuto «un’opzione radicale a tutto vantaggio
dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso, un atto infine
dell’autoalienazione divina». Dopo essersi «affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha
più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare», da lui dipende totalmente «che accada o non accada
troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del
mondo». Ma anche ad Auschwitz, che rappresenta il totale oscuramento dalla coscienza e della
ragione, emerge una possibile nota di speranza: anche allora ci furono uomini giusti che si
adoperarono anonimamente, e senza chiedere nulla in cambio, per aiutare, nascondere, salvare
vittime, spesso a rischio della vita. Essi rappresentano un segno e una dimostrazione della nononnipotenza del Male: «grazie alla superiorità del male sul bene», che è l’oggetto fondamentale
della nostra fede in Dio, l’esistenza di quei giusti, «la loro nascosta santità, può controbilanciare
una colpa incalcolabile, saldare il conto di una generazione e salvare la pace del regno invisibile».
Di fronte a questa impostazione, lo storico israeliano Yehuda Bauer, in un’intervista del 1998, disse
che rispetto alla prospettiva di Jonas di un Dio nebbish (miserabile, termine yiddish), l’ateismo era
semplicemente più sensato e coerente. <<In nessun modo Dio può essere al tempo stesso
onnipotente e giusto; o è onnipotente o è giusto. Perché, se è onnipotente è Satana; se è giusto, è
un nebbish>>. Un Dio onnipotente e giusto non avrebbe permesso per nessuna ragione che sei
milioni di innocenti fossero massacrati; se è onnipotente sarebbe potuto intervenire e se è giusto
sarebbe voluto intervenire. Se è onnipotente e ha permesso che il male quasi estremo prevalesse,
che un milione di bambini fossero massacrati, praticamente sotto gli occhi dei genitori, senza
intervenire, tanto vale che sia Satana. Se è giusto non può essere troppo potente, perché vorrebbe
intervenire ma non ha potere sufficiente a cambiare la situazione. <<Che razza di Dio è: non è un
essere onnipotente, però è onnipresente?>>, alludendo a un’argomentazione proposta da Emil
Fackenheim, <<quando è lì piange… già, ma mi serve a poco. È del tutto superfluo. In una simile
concezione non c’è più qualcuno da pregare>>.
In La presenza di Dio nella storia, pubblicato nel 1970, al contrario, Fackenheim esortava gli ebrei a
non perdere la fede per colpa di Auscwitz.
<<Gli antichi rabbini furono costretti a sospendere il biblico “siamo puniti per i nostri peccati”,
forse in risposta alla paganizzazione di Gerusalemme da parte di Adriano. Anche noi possiamo al
più lasciare in sospeso la dottrina biblica solo per il fatto che, come i rabbini, non possiamo né
negare i nostri peccati né isolarli dalla storia. Eppure dobbiamo sospenderla. Perché, comunque
noi giriamo e rigiriamo tale dottrina in risposta ad Auschwitz, essa diventa un’assurdità religiosa e
addirittura un sacrilegio.
“Peccato” ed “espiazione” devono assumere una connotazione individuale? Che idea sacrilega,
quando si pensi che tra le vittime dei nazisti vi furono più di un milione di bambini! Dobbiamo dar
loro una connotazione collettiva? Che idea terribile, se si pensa che non furono le nostre comunità
ebraiche, occidentali, agnostiche, infedeli e ricche, ma quelle più povere, devote e fedeli che
furono più duramente colpite! Quando nel nostro tormento ci rivolgiamo in un ultimo tentativo
alla dottrina tradizionale per cui tutti gli israelitici tutte le generazioni sono responsabili l’uno per
l’altro, noi continuiamo a sentirci completamente sconcertati perché non un solo dei sei milioni
morì perché esso non mantenne il patto divino-ebraico: essi morirono tutti perché i loro nonni lo
avevano rispettato, al limite solo per aver allevato bambini ebrei. Ecco lo scoglio contro il quale
naufraga senza rimedio l’idea che “siamo puniti per i nostri peccati”.
[…] Quando le bande dei crociati si scatenarono contro gli ebrei delle città renane di Worms e
Magonza (1096 d.C.) esse offrirono loro in teoria, se non in pratica, la scelta tra morte e
conversione permettendogli quindi di scegliere il martirio. Ad Auschwitz, invece, non ci fu scelta;
vecchi e giovani, fedeli e non fedeli furono sterminati senza discriminazione. Vi può essere martirio
quando non vi è scelta? […] Auschwitz fu il tentativo supremo, il più diabolico che sia mai stato
fatto di uccidere lo stesso martirio e di privare ogni morte della sua dignità>>.
Tutte le spiegazioni date in precedenza per giustificare la sofferenza di Israele risultavano
inadeguate, ma questa paralisi dell’interpretazione non doveva spingere ad abbandonare la fede
tradizionale: un’eventuale scomparsa della religione ebraica a seguito della Shoah sarebbe stata
una clamorosa vittoria postuma di Hitler, un successo che non gli andava in alcun modo concesso.
<< Gli ebrei non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume. Essi hanno il dovere di
sopravvivere come ebrei, perché il popolo ebreo non abbia a perire. Essi non hanno il diritto di
disperare dell’uomo e del suo mondo e di trovare rifugio sia nel cinismo sia nell’aldilà, se non
vogliono contribuire ad abbandonare il mondo alle forze di Auschwitz. […] Un ebreo non può
rispondere al tentativo di Hitler di distruggere l’ebraismo cooperando egli stesso a tale distruzione.
Nei tempi antichi il peccato impensabile per gli ebrei era l’ateismo. Oggi consiste nel rispondere a
Hitler compiendo la sua opera>>.
<<Se si affronta l’Olocausto e si dice: “Be’, è solo una catastrofe come tante altre”, è una
bestemmia contro le vittime>>; ma, <<se lo si affronta, e come risultato l’ebraismo ne rimane
distrutto, in tal caso per Hitler è una vittoria postuma>>.
<<Ci deve essere una terza possibilità>>, diversa dall’esecuzione capitale di Dio. Si può rifiutare Dio
per qualsiasi altro motivo, perché, ad esempio, si condividono le critiche mosse alla religione da
Marx, da Nietzsche o da Freud, ma non a seguito della Shoah: non si deve concedere a Hitler
questo potere.
Fackenheim vuol far scendere Dio dalla forca su cui l’ha posto Wiesel, la Sua presenza nei campi di
sterminio non era autorevole ma silenziosa e si manifesta nei gesti di eroismo, tenacia, amore e
fede manifestati dai prigionieri del campo messi di fronte al male radicale. E questa è la voce
autorevole di Auschwitz, la voce che proibisce vittorie postume a Hitler.
Egli stesso riconosce però che questo concetto di una presenza silenziosa non risolva il mistero
dell’eclissi di Dio ma l’alternativa è intollerabile. Cedere alla logica spoglia del sillogismo di Bauer –
se Dio è onnipotente, ha permesso che l’Olocausto accadesse, dunque l’ha causato – significa fare
di Dio Hitler o di Hitler Dio.
Un’altra risposta è fornita da Zvi Kolitz, nel racconto ‘’Yossl Rakover si rivolge a Dio’’ del 1946, dove
dichiara che ama e rispetterà sempre la Legge, a prescindere dalla fiducia nel Dio che la impose.
<<Non vi è popolo più eletto di uno sempre colpito. Anche se non credessi che un tempo Dio ci
abbia destinati a diventare popolo eletto, crederei che ci abbiano resi eletti le nostre sciagure.
Credo nel Dio di Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui. Credo nelle sue leggi,
anche se non posso giustificare i suoi atti. Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo
verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua
grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e
continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui. Dio significa religione, ma la sua
Legge rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di quel modello di vita, tanto
più esso diventa immortale.
Perciò concedimi, Dio, prima di morire, ora che in me non vi è traccia di paura e la mia condizione
è di assoluta calma interiore e sicurezza, di chiederTi ragione, per l’ultima volta nella vita.
Tu dici che abbiamo peccato? Di certo è così. Che perciò veniamo puniti? Posso capire anche
questo. Voglio però sapere da Te: Esiste al mondo una colpa che meriti un castigo come quello che
ci è stato inflitto?
Tu dici che ripagherai i nostri nemici con la stessa moneta? Sono convinto che li ripagherai, e senza
pietà, anche di questo non dubito. Voglio però sapere da Te: Esiste al mondo una punizione che
possa espiare il crimine commesso contro di noi?
Tu dici che ora non si tratta di colpa e punizione, ma che hai nascosto il Tuo volto, abbandonando
gli uomini ai loro istinti? Ti voglio chiedere, Dio, e questa domanda brucia dentro di me come un
fuoco divorante: che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente
il Tuo volto al mondo? […]
E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d’ira: non Ti servirà a nulla! Hai
fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio
così come sono vissuto, pervaso di un’incrollabile fede in Te.>>
Il popolo ebraico venne letteralmente lacerato dalla Shoah, che portò sull’orlo del baratro persino
l’autorevolezza di una tradizione e religione millenarie. Le conseguenze furono un’amara
constatazione del fallimento di un nobile tentativo di conciliazione e assimilazione e un dissidio
religioso destinato a perdurare nel tempo. Sono state fornite negli anni varie interpretazioni ma, in
fondo, il tempo necessario perché si produca una risposta univoca al trauma è proporzionale alla
gravità del trauma stesso.
BIBLIOGRAFIA: Primo Levi Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati
Filosofie nel tempo, a cura di Paolo Salandini e Roberto Lolli opera diretta da Giorgio Penzo,
volume terzo, dal XIX al XXI secolo, tomo II (sezione IX: la filosofia ebraica nel Novecento)
SITOGRAFIA: http://www.scribd.com/doc/19085513/Sonderkommando-SALMEN-GRADOWSKIhttp://seieditrice.com/chiaroscuro/files/2010/03/V3_U9-ipertestoD.pdf
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