Continua a leggere… - nuovo teatro made in italy dal 1963

Titolo || L’Orestea dei Socìetas Raffaello Sanzio
Autore || Valentina Valentina
Pubblicato || «Bibliteca Teatrale», n. 14, aprile-giugno 1997, Bulzoni.
Diritti || © Tutti i diritti riservati.
Numero pagine || pag 1 di 5
Archivio ||
Lingua|| ITA
DOI ||
Orestea (una commedia organica?)
da Eschilo
regia e scene Romeo Castellucci
ritmo drammatico Chiara Guidi
melodia Claudia Castellucci
con Nàtali Carvalho Oliveira, Claudia Castellucci, Loris Comandini, Febo Del Zozzo, Nicola Di Martino, Paolo Guidi,
Enzo Lazzarini, Nicoletta Magalotti, Carlotta Piras, Giovanni Velia
cura Gilda Biasini
cura scenica Paolo Guidi
produzione Socìetas Raffaello Sanzio
in collaborazione con Teatro Bonci di Cesena, 1995
Prima rappresentazione Santarcangelo, Villa Torlonia, 4 luglio 1995
L’Orestea dei Socìetas Raffaello Sanzio
di Valentina Valentini
La funzione mitopoietica del teatro della Raffaello Sanzio
Attingere ai miti, a trame (mythoz) già esistenti, appartenenti alla tradizione orale (come per la tragedia greca) o letteraria
(come per il teatro shakespeariano), è un'operazione accreditata e legittimata dalla storia della letteratura drammatica che si
configura come un repertorio frutto di contaminazioni e innesti di storie, personaggi, eventi che appartengono all'immaginario
collettivo, riletti alla luce di un presente in trasformazione che dà ad essi una nuova forma.
Il teatro della Raffaello Sanzio, prima di rivolgersi ai testi classici, come l'Amleto e l'Orestea, ha messo in scena miti
appartenenti ad una tradizione extraoccidentale, dalla quale ha attinto delle trame favolistiche, un universo in cui divino e
umano, mondo degli inferi e mondo terreno, animali e mostri, si presentava sulla scena a marcare la sua estraneità rispetto al
mondo dello spettatore. Un teatro siffatto, le cui armi sono "argomenti prelinguistici", mira a destare nello spettatore uno
stupore infantile in modo che rinunci al gioco intellettuale "di comporre i significati" e si renda disponibile "a essere colpito da
un lampo". Solo mettendo da parte l'attitudine discorsiva, il singolo potrà partecipare al rito teatrale e condividere
collettivamente la visione che esso propone.
La tendenza mitopoietica della Socìetas Raffaello Sanzio non si esercita solo su spettacoli composti sulla traccia di una
fabula mitica (come La discesa di Inanna che narra della lotta della dea dell'amore e della guerra per impossessarsi del regno
degli Inferi), in quanto è fondata sulla pretesa di creare un "dramma" e un teatro fuori dal tempo, "murato e immobile",
1
imperituro come le iscrizioni sulle lapidi funerarie . Quindi sia gli spettacoli più teatralmente "politici" come Santa Sofia
(1985) e I miserabili (1986), sia quelli di impianto mitico-leggendario come Alla bellezza tanto antica (1987), La discesa di
Inanna (1989), Gilgamesh (1990), sono volti a fondare un immaginario e una prassi rituale che non ammette implicazioni con
la realtà fenomenologica. Attingere al mito e alimentare la propria produzione mitografica significa comporre un mondoteatro (i due termini coincidono) fatto di immagini archetipiche e antistoriche: i miti agricoli della nascita e della morte e
quelli della fertilità si fondono con l'immaginario psicoanalitico e archeologico.
La loro valenza politica primaria è quella di rifondare il linguaggio poggiando su "figure della diversità" come i miserabili
ignoranti, sul materialismo della scena e sulla supremazia dello sguardo; alimentando la tensione fra parola e corpo;
concependo l'evento teatrale come viaggio iniziatico dalle tenebre alla luce, come atto epifanico.
Questa visione "religiosa" dell'evento teatrale come organismo che si forma unendo il maschile del linguaggio e il
femminile della materia espressiva prelogica fa sì che quello della Raffaello Sanzio non sia un teatro autoriflessivo, pur
avendo al centro della sua speculazione il teatro stesso. Perché l'evento teatrale non rappresenta una scena-mondo (utopica,
possibile, attuale, o passata), ma pretende di crearla nella separatezza e nella differenza "Il Teatro dei Murati"). Ciò è possibile
perché il linguaggio, possedendo una sua forza originaria, svolge una funzione performativa: si dice per far fare, la parola
equivale alla cosa. Non è chiamato a descrivere ma a fondare attraverso la potenza prodigiosa della voce, una voce sganciata
dal gesto, non compromessa dall'astensione sul palcoscenico. Una tale poetica si inscrive, sulla scia del pensiero di Antonin
Artaud, in quella tradizione del teatro del Novecento che bandisce ogni soggettivismo con le sue declinazioni memoriali e
autobiografiche ed esclude l'asservimento alla cronaca del quotidiano. In tale prospettiva pensiero mitopoietico e pratica
rituale mirano a raggiungere gli stessi obbiettivi: fondare un "teatro necessario" la cui base materialistica è innanzitutto l'attore
che si erge come «dimora» del testo, affinché «il suo corpo sia abitato dalla parola vera: quella del corpo materiale come
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matrice» .
1
Cfr. C. e R. CASTELLUCCI, Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio. Dal teatro iconoclasta alla super-icona, Milano, Ubulibri,
1992, p. 102.
2
Ivi, p.108.
Titolo || L’Orestea dei Socìetas Raffaello Sanzio
Autore || Valentina Valentina
Pubblicato || «Bibliteca Teatrale», n. 14, aprile-giugno 1997, Bulzoni.
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Dunque, se la voce deve esprimere la fisicità delle parole (scelte per il loro ritmo, tono e suono), deve assumere densità e
sostanza, impregnarsi di quella materia di cui è fatto il corpo, perché la voce abita le profondità del corpo, "i recessi del
ventre" e da giù arriva su nella gola.
Sulla tradizione di pensiero artaudiana, la Raffaello Sanzio innesta quella più prossima della Performance Art, produttrice
a sua volta di un potente immaginario legato all'imponenza del corpo in quanto unica fonte di verità e di conoscenza di sé, un
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corpo maltrattato, sottoposto a sforzo, pericoli, tensioni e rischio . L'attore della Raffaello Sanzio è la vittima che occorre per
celebrare il rituale di degradazione e rigenerazione del corpo al centro dell'evento-spettacolo. La sua meta, irraggiungibile, è
quella della stupidità animale, dell'espressività inarticolata, pari ''all'apnea critica" che è lo stato ideale per lo spettatore. Infatti,
come nelle favole, sul palcoscenico della Raffaello Sanzio trascorrono di pari grado attori, animali e cose, ciascuno dotato di
un ruolo di attante, al di là della sua natura vivente o inerte. La presenza di animali in scena - babbuini bianchi, serpenti, cani,
ecc.- costituisce una sfida tesa alla presenza scenica dell'attore, non lo degrada, bensì lo innalza. L'attore, nella scena-mondo
della Raffaello Sanzio, oltre a protendersi verso la pre-espressività animale, si declina come corpo occluso, immobile e muto.
Infatti, un'azione che ricorre negli spettacoli del gruppo è quella dell'attore che sul palcoscenico chiude tutti gli orifizi (bocca,
narici, orecchie, occhi), precludendosi i canali percettivi, in una sorta di autopunizione, non solo perché la maschera
dell'occlusione produce dolore, ma soprattutto perché lo conduce nel buio del non vedere e nel silenzio del non dire. In
positivo, tagliare le vie di comunicazione con il mondo e dal mondo verso di sé si trasforma in un rituale di purificazione, in
quella pratica solitaria e ascetica dei costruttori di icone che, prima di accingersi a dipingere l'icona, si sottoponevano "al
digiuno degli occhi". Sulla stessa direttrice opera la figura dell'attore immobile e muto, nel ruolo di colui che spegne la babele
del vocio del mondo e riporta a una condizione di ascolto e proferimento della parola dopo che questa si è purificata.
L'immobilità è la misura del tempo: è la figura dell'Araldo eretta al centro del palco per tutta la durata dello spettacolo ne I
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miserabili, «grado zero del tempo, grado zero dell'atto, grado zero del luogo [ ... ] » si ritrova nel dormire di Amleto, nel
giacere di Clitennestra... Entrambe queste figure di privazione sono però pronte a rovesciarsi nel contrario: grembo in cui,
deposto il seme, germoglierà, ancora visibile, l'evento teatrale.
È una mitologia del doppio, del ritmo binario di distruzione e creazione, di scomparsa e apparizione, principio femminile e
maschile, materia e forma, buio e luce, silenzio e voce, un doppio che non implica esclusione, non principio dialettico in cui le
contraddizioni si risolvono, ma coesistenza delle opposte polarità. Secondo lo schema nietzschiano, il tragico è un campo di
battaglia per le antitesi, senza conciliazione e senza redenzione. Non c'è dialettica del tragico perché non si dà unità entro le
contraddizioni, ma contrasto infinito privo di telos.
Dal mito orientale allibro occidentale
Una distanza di quasi dieci anni separa la figura dell'Araldo del "Teatro dei Murati" (1987), metafora in cui si condensava
l'etica e l'estetica teatrale "iconoclasta” della Raffaello Sanzio, al ciclo di spettacoli dedicati ai miti dell’antichità,
mesopotamica ed egizia, fino ad arrivare ai due più recenti spettacoli - Amleto (1992) e l'Orestea (1995) che rappresentano
una sorta di ascesa e sprofondamento verso il libro e la scrittura, in quanto confronto con le grandi opere tragiche della storia
del teatro, non certo spinti - sostiene la Raffaello Sanzio - dal desiderio di «ritorno all'ordine della grande tradizione». Infatti
Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco (1992), fa dimenticare completamente la tragedia shakespeariana,
perché ti testo viene assunto «come crocevia su cui pensare il mito dell'attore», un attore malato di autismo (ispirato dagli
studi di Bettelheim), perennemente abbracciato ai suoi orsacchiotti di peluche che si autopunisce per colpa della «scandalosa
condotta della madre» (metafora del Teatro). È uno spettacolo sul rapporto fra attore, autore e scena: dove «per l'attore il padre
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risuona come autore e la madre (incestuosa) è significata dal palcoscenico» .
L'operazione di smantellamento del teatro, iniziata dieci anni prima, diventa in questo spettacolo sadico azzeramento dei
dispositivi drammaturgici. Esclusa completamente la fabula, il tempo è quello che si installa nelle pause, nelle interruzioni,
nella ripetizione, nel non mutamento, perché l'unica azione ammessa è quella di dormire.
La parola in Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco non è detta, ci sono gesti sonori e qualche frase
lanciata come una meteora in uno spazio siderale; la profondità del silenzio - un silenzio di immersione totale in un mondo
autistico - è accentuata dai ripetuti colpi di pistola che assalgono di sorpresa lo spettatore spaventandolo.
Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco nella storia della Raffaello Sanzio segna il "superamento
dell'attore" attraverso il percorso della malattia (l'autismo). L'opposizione fra "essere o non essere" si trasforma (attraverso la
congiunzione e) nel trascorrere fra morire e dormire. La propensione infantile di Amleto non è pulsione verso il grembo
materno (che sarebbe istinto vitalistico) in quanto «Amleto vive lo stadio del mollusco; è colui che decostruisce lo scheletro,
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Come nella Performance Art, il soggetto deve addestrare e fortificare le basi elementari della sua percettività, ragion per cui gli
esercizi degli attori dell'Orestea sono: mettersi in contatto con materiali organici (il concime, le ossa) e con sensazioni inusuali (stare
chiusi in una cassa, prosciugare la cavità orale, ecc.).
4
C. e R. CASTELLUCCI, Il teatro della Socìetas ... cit., p. 86.
5
Cfr. SOCÌETAS RAFFAELLO SANZIO, Amleto, programma di sala, Wiener Festrochen Big/Motion, Vienna 16/18 maggio 1992.
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rifiutandolo quale impalcatura del preordinamento statuale, organicistico, dell'ordine come sistema»6. In questa prospettiva,
rappresentare la tragedia shakespeariana per la Raffaello Sanzio ha comportato tutt'altro che. rinnegare la propria cosmogonia
teatrale, se mai ha tracciato una virata oltre il dualismo tragico e verso l'immersione in un mondo senza differenze, senza
contrasti e senza colori, dove l'irriflesso, la parte animale non sta contro il logos, né la materia (femminile) contro la forma
(maschile), né la natura contro la cultura.
Quanto Claudia Castellucci sosteneva nel "Teatro dei Murati" che bisognava attingere a fonti diverse da quelle della
cultura europea e nordamericana e che Giotto, Leonardo, Picasso erano delle grandezze relative, considerati da prospettive
diverse da quella occidentale - in questo spettacolo trova il suo campo di applicazione più radicale: la tragedia di Amleto è
sradicata letteralmente dalla storia, dal teatro, dalla cultura.
Il mito: come sfuggire al potere del teatro
"Rendere minore" un testo classico- di per sé maggiore- è l'attitudine di Carmelo Bene nei confronti delle tragedie
shakespeariane (da Giulietta e Romeo a Riccardo III, a Macbeth, ecc.). Questo intervento di "menomazione" del testo
significa innanzitutto mutilazione, sfrondamento, riscrittura di una parti tura in cui la fabula non è più riconoscibile e i
personaggi sono travolti nella loro identità letteraria e funzione drammatica, fino a scomparire nell'unico "operatore" presente
in scena che manovra come un demiurgo "il concerto per attore solo", l'orchestrazione delle voci e dei suoni attraverso cui
Carmelo Bene incorpora il mondo shakespeariano. Ciò significa sfuggire al potere dell'istituzione teatro, alle regole della
fabula, dei personaggi, alla coerenza della rappresentazione, a tutto ciò che può trasformarsi in elemento stabilizzante. Il mito
classico, disintegrato dall'agire scenico di Carmelo Bene, diventa nello spettacolo come la formula di un rituale dionisiaco di
scardinamento della rappresentazione teatrale, in bilico fra l'eroico e il patetico, il sublime e la parodia, il gioco infantile e lo
scacco metafisica. In questa prospettiva, e secondo la lettura di Gilles Deleuze, il fare teatro di Carmelo Bene traccia «una
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figura della coscienza minoritaria come potenzialità di ognuno» , indica cioè il modo per sfuggire al potere della storia, della
cultura, del linguaggio, alla normalizzazione del gesto sensato e dell'azione portata a compimento. La condizione per l'arte di
agire politicamente è quella che «la variazione non smetta di variare», che il movimento di scardinamento e disintegrazione
non ceda di fronte all'istanza, altrettanto forte, di rifondazione di una nuova struttura (nuovi miti, nuovi mondi...).
Che succede con l'Orestea, un'opera che inscrive nel mito il passaggio e l'installarsi della civiltà sulle barbarie? Dopo aver
toccato con l'Amleto l'estremo limite, si risale alle origini della civiltà occidentale?
Si tratta di esaminare lo spettacolo e cercare di capire come si è scontrato il mito classico - con tutte le stratificazioni
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interpretative che vi si sono impresse- con l'universo mitico della Raffaello Sanzio fin qui esaminato .
Lo spettacolo è costruito sullo schema del doppio: obscuritas e claritas; i corpi grassi di Clitennestra e di Cassandra e
quelli magrissimi degli adolescenti efebici (Oreste e Pilade); il latte si mescola al sangue nel sogno di Clitennestra, il cui seno
è morsicato dalla vipera-figlio; l'umido al secco della polvere che riveste tutto, compresi i corpi; il contrasto fra il logos Atena e Apollo che difendono Oreste - e il soma - Clitennestra e le Coefore che lo perseguitano.
Tradotto sulla scena questo contrasto si rende visibile attraverso la figura di Clitennestra che istituisce la costellazione:
teatro, corpo, madre, balena, cavità-ventre, sangue-escrementi, di contro alla quale scivola silenziosamente l'autismo
adolescenziale di Oreste e Pilade portatori di una serie opposta: il secco e il bianco della polvere e della sabbia che toglie il
respiro e porta la morte.
Nello spettacolo, oltre a questo binomio, operano due funzioni nello stesso tempo di disgiunzione e di congiunzione: il
corpo grondante sangue di Clitennestra - la serie dell'organismo - differente da quella del "meccanismo" formato dai vari
dispositivi motori (pistoni, tubi, batterie), chiamati sia a mettere in azione oggetti inanimati (come il coro rappresentato da
statuette di conigli) che persone (il braccio pneumatico che Pilade innesta sul corpo di Oreste affinché uccida la madre, per
esempio). Ciascuna delle due serie è disgiunta e congiunta con l'altra perché anche l'organismo si alimenta e respira attraverso
6
Ibidem
Cfr. G. DELEUZE, "Un manifesto di meno", in C. BENE, G. DELEUZE, Sovrapposizioni, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 90.
8
Nel prospettato film su un'Orestiade africana, mai realizzato, Pier Paolo Pasolini si muove sulle due polarità del tradizionale e del
moderno collocandole nel passaggio africano in cui il regista ritrova lo spazio del mito, dell'incontaminato, del sacro e dell'umile,
minacciato e corrotto dall'inarrestabile trasformazione portata dalla società neocapitalista. In questa prospettiva il mito della
trasformazione delle Erinni in Eumenidi, del selvaggio in civilizzato, viene applicato per leggere i cambiamenti in atto nel Terzo
Mondo. Pasolini usa il mito greco come modello in cui comprendere l'ineluttabilità delle trasformazioni e della perdita del sacro.
Sovrapponendo il modello mitico dell'Orestea a una situazione contemporanea, inscrive nel mito una realtà storica. Tale operazione è
inconcepibile per la Raffaello Sanzio che esclude sia la legittimità di attualizzare i classici che di ammodernarli nel linguaggio, di
contaminarli con il contingente dei processi storici, pretendendo il loro mondo-teatro, l'autosufficienza e l'assolutezza del mondo
mitico. Cfr. P. P. PASOLINI, Introduzione a ESCHILO, Orestiade, trad. it. di P. P. Pasolini, Torino, Einaudi, 1960. Questa
traduzione fu commissionata al poeta da Vittorio Gassman in occasione della rappresentazione della trilogia al Teatro Greco di
Siracusa. Per quanto riguarda il progetto del film, cfr. M. TISEI, Appunti per un'Orestiade africana, in «Biblioteca Teatrale»,
n. 35-36, luglio-dicembre 1995, pp. 75-101.
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protesi e queste, a loro volta, vivono di vita autonoma. Eseguito l'assassinio della madre, Oreste si stacca dal corpo il braccio
(simbolo del fato in quanto lui è un esecutore dell'ordine dell'oracolo) e questo conserva il movimento impresso dal suo
congiungersi con il corpo di Oreste. Così il trono di Agamennone - una sedia girevole – si muove pur essendo rimasta vuota
del corpo del re, assassinato. Turbato l'equilibrio in seguito alle morti violente, cambiati i rapporti dinamici fra gli attanti in
scena - gli organismi, dotati di energia cinetica reale e i meccanismi, dotati di energia cinetica virtuale - la scena-mondo tenta
di ripristinare le condizioni originarie. Ecco perché i meccanismi acquistano l'energia cinetica che gli organismi viventi hanno
perso morendo e ne impediscono la dissipazione. Avviene cioè un interscambio di energia fra le due serie, restando inalterate
le loro reciproche funzioni: l'organismo e il meccanismo sono uniti da una linea di congiunzione (una scintilla, una scarica,
una e di Amleto) che opera lo scambio ed eleva a potenza le differenti nature: è proprio il girare a vuoto del trono che grida la
violenza subita dall'organismo.
Nella scena-caravanserraglio della Raffaello Sanzio, i meccanismi sono integrati, essi stessi attanti, di pari grado con gli
animali e i corpi degli attori. La loro presenza non marca la differenza fra natura e cultura, né la riduzione della scena-mondo
a natura morta, ma più realisticamente integrazione e scambio fra organico e meccanico. È il "cibercorpo" di Stelarc pensato
come "oggetto di ingegneria", ma fa pensare ai corpi smontati presenti nei drammi di Heiner Müller le cui pareti organiche
sono sostituite con pezzi artificiali.
Lo spettacolo ribalta la lettura accreditata dell'opera: nel testo di Eschilo le Erinni, «divinità del sangue e del selvaggio, si
mutano in protettrici della vegetazione, della coltivazione e dell'allevamento, [ ... ] si passa dal vocabolario della caccia al
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vocabolario dell'agricoltura» . Ciò non comporta, linearmente, l'eliminazione del selvaggio e dell'animalità, soltanto queste
qualità vengono destinate a sfrenarsi fuori dai confini della città, nella guerra e non tra consanguinei. Nello spettacolo i
personaggi che rappresentano la polis, come il corifeo ed il coro, sono emblemi di viltà (letteralmente hanno le sembianze del
coniglio) rispetto ai quali si staglia la carnalità della costellazione della Madre che afferma la supremazia del diritto naturale
nei confronti della nuova legge istituita da Atena e Apollo con il tribunale dell'Areopago. Clitennestra è «la creatura abissale
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che trascina giù ogni cosa», la donna balena ispirata al Moby Dick di Melville, emblema centrale della scena .
Agamennone nel testo di Eschilo (ma anche Oreste) è sia "cacciatore" che "cacciato", leone o aquila, animale predatore e
nello stesso tempo astuto (serpente o lupo). Nel contempo è un animale preso nella rete, «Vittima della leonessa Clitennestra e
del leone-imbelle Egisto»11, che nello spettacolo è raffigurato come un torturatore violento e infantile (gioca a travestirsi come
un torturatore, indossando la pelliccia e la corona regale). La parte di Agamennone è eseguita da un attore mongoloide che
ride, danza e canta, il che non implica un rovesciamento in negativo, né degradazione rispetto all'immagine del guerriero
valoroso e astuto.
I caratteri patologici nell'Orestea della Raffaello Sanzio sono Oreste e Elettra (qualificata nel testo con gli attributi di
lupo), regredita (o mai cresciuta) allo stadio orale (ciuccia la scarpina del fratello), isolata in un mondo autistico in cui
attribuisce qualità di vivente alle cose inanimate. Il fratello è rappresentato nel testo come figura doppia: è nello stesso tempo
colpevole e innocente, colui che porta il disastro e la salvezza (vendicando l'assassinio del padre), ma, soprattutto, la sua è la
12
doppiezza dell'adolescente, è «l'efebo apprendista-uomo e apprendista-guerriero» . L'Oreste della Raffaello Sanzio
(raddoppiato da Pilade), col corpo completamente imbiancato e con la maschera da clown, è una figura inquietante: né tragica
né comica.
Le figure che vivono sulla scena dell'Orestea formano una tribù che niente condivide con i caratteri delle dramatis
personae della tragedia, pur portandone il nome e svolgendone le funzioni. Lo svuotamento di senso operato sul testo di
Eschilo riduce il mito a una favola i cui protagonisti sono maghe, balene, principi dal corpo imbiancato, conigli, bracci
pneumatici...
L’Orestea della Raffaello Sanzio è uno spettacolo impregnato di sentimento del tragico ma non è una tragedia: non è
rappresentata l'ossessione dell'eroe tragico a perseguire la verità, né questi si autoafferma nelle azioni che compie. La violenza
che le dramatis personae subiscono o agiscono si colloca al di là della distinzione fra puro e impuro, empio o sacro, come
pure della colpa e conseguente punizione. I personaggi, concepiti doppi, non dialogano. Dei tratti che contraddistinguono
l'eroe tragico, lo spettacolo esalta l'isolamento, la lontananza, l'essere fuori sia dal tempo che dallo spazio, estraneo a se stesso
(Cassandra sta racchiusa in una teca di vetro). Ciò significa una dislocazione della tragedia dal piano semantico a quello delle
materie espressive: al suono è affidato il compito di esprimere il pathos degli eventi della tragedia, come lo sconquasso
tellurico che segue l'uccisione di Clitennestra. Il suono è l'elemento che crea tensione, brivido, disturbo insopportabile.
9
P. VlDAL-NAQUET, "Caccia e sacrificio nell'Orestea di Eschilo", in J.-P. VERNANT e P. VlDAL-NAQUET, Mito e tragedia
nell'antica Grecia [1972], Torino, Einaudi, 1976, p. 144.
10
Per conoscere l'apparato critico di riferimento dell'Orestea della Raffaello Sanzio (Benjamin, Girard, Rosenzweig, Vidal-Naquet,
Hölderlin... ) cfr. il programma di sala, SOCIETAS RAFFAELLO SANZIO, Orestea (una commedia organica?), Cesena 1995.
11
P. VIDAI.-NAQUET, "Caccia e sacrificio nell'Orestea di Eschilo", cit., p. 133.
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Ivi, p. 138.
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Sull'altro versante la trama del silenzio: la tragedia dell'ammutolimento e del solipsismo. Il registro sonoro non interviene a
colpire all'improvviso come in Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco, ma istituisce un proprio regime di
persistenza, formando un tessuto fitto, una durezza non scalfibile in cui si mescolano meccanico, elettronico e corporeo (voce,
respiri, gemiti, singulti).
Nell'Orestea della Raffaello Sanzio il testo classico viene scarnificato nelle descrizioni e nei racconti del coro come pure
nelle parti dialogiche, in modo che da un lato le battute incalzino da vicino le azioni cui si riferiscono, dall'altro lascino spazio
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alla scena di dispiegarsi senza parole ; non però senza un rapporto con esse, perché il processo è duplice: il testo si svuota in
rapporto alla messa in scena che lo fa diventare una trama favolistica; contemporaneamente essendo un reperto archeologico,
il testo viene preservato e conservato in quanto evidenza e traccia del mito. Secondo il primo assunto, il testo è una fonte
culturale, un "apparato cartaceo" che, a un certo punto del processo di messa in scena, bisogna dimenticare: "Vietato leggere
l'Orestea" è la prescrizione rivolta agli attori da Romeo Castellucci. In rapporto al secondo, l'Orestea rispetta del testo della
trilogia di Eschilo la sequenza temporale della fabula, anche se colloca la struttura narrativa "fuori dal tempo", nel senso che
non rispetta "le faccende temporali", né prevede culmini e scioglimenti, catarsi e aristoteliche partizioni.
Un'altra struttura che, oltre alla fabula, viene preservata è il rapporto sincronico e invariante fra testo verbale e azione
14
scenica, fra quello che i personaggi dicono e quello che fanno , così pure il ricchissimo apparato di immagini, cromatico,
luminoso, plastico, svolge il ruolo di metafora nei confronti del testo letterario 15. In questo spettacolo dunque, il testo
organizza e struttura la messa in scena che si permette di ribaltare significati e valori, restando però all'interno di un frame
dato. In questo senso, potrebbe collocarsi - come la risultanza ultima - nel solco della tradizione letteraria del teatro di regia
(da Giorgio Strehler a Luca Ronconi) con il quale è ri-nato il teatro moderno italiano nel secondo dopoguerra e verso cui
sembra riconvergere la sperimentazione teatrale delle neo-avanguardie, della più giovane generazione degli autori del
cosiddetto "teatro di ricerca".
13
Le battute aggiunte al testo sono poche e brevi. C'è qualche insert extratestuale: il brano iniziale dell'Alice nel paese delle
meraviglie di Lewis Carroll, raccontato dal corifeo (in cui Alice diventa Ifigenia) e un frammento dell'Umpty-Dumpty di Carroll
tradotto da Artaud.
14
La non concordanza fra parola e azione è un punto saldo della pratica scenica della Raffaello Sanzio: «Il nostro dramma risiede
innanzitutto nel fatto reale di pestare un teatro, che è un luogo abietto e mostruoso [... ]». C. e R. CASTELLUCCI, Il teatro della
Socìetas ... cit, p. 101.
15
La diegesi dell'Orestea è accompagnata e scandita da tre differenti quadri scenici: si passa dalla scena buia con luce oscillante e
ombre dell'Agamennone alla luce bianca-gessosa delle Coefore, al "lucore uterino" delle Eumenidi. Animali, attori, oggetti,
meccanismi semoventi, lanci di sangue, pioggia di polvere, statue con la testa mozzata, modellini-giocattolo, fondali di carta, abitano
lo spazio scenico. Esso è concepito e organizzato come un gioco di quinte che, sfogliandosi, lacerandosi, aprendosi come siparietti,
scoprono e svelano altri scenari provocando un sicuro effetto di meraviglia, secondo il principio che il gioco del teatro è lo svelare
ciò che prima era nascosto dal sipario, lasciar apparire il corpo dell'attore.