Filosofia
Platone
Lettera VII
353 a.C. circa
PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO
Platone ha scritto un gruppo di lettere estremamente importanti per la comprensione
della sua parabola esistenziale e intellettuale. La loro datazione viene fatta risalire al
periodo 403-353 a.C., e riguardano prevalentemente le vicende legate ai suoi soggiorni
nella città di Siracusa. La questione della loro autenticità impegna da lungo tempo la
critica, ma la Lettera VII, la più significativa, è senza dubbio autentica. Questa lettera va
letta, oltre che per le numerose notazioni biografiche, come una testimonianza del
tentativo di rendere effettivo l’ideale politico platonico da parte del filosofo stesso: di
renderlo pertanto operativo, immanente, e non soltanto consegnato ai cieli della
speculazione. Il naufragio di un progetto di questo genere non può che indurre il lettore a
riflettere sul rapporto tra la filosofia politica e la realtà.
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PUNTI CHIAVE

Platone ritiene che a Siracusa vi sia la possibilità di mettere in pratica le sue idee
politiche

Nella città siciliana è presente infatti un circolo di suoi discepoli, e anche il tiranno
è interessato alla filosofia

La salita al trono del figlio del tiranno provoca però un duro scontro con i seguaci
di Platone

I tre viaggi da Atene a Siracusa di Platone si concludono quindi con un fallimento

La soluzione non è la tirannide o il governo assoluto, ma la Legge, alla quale la
fazione vincente deve sottomettersi

L’insegnamento filosofico orale è superiore a quello scritto, e il filosofo non deve
mettere le sue dottrine più profonde per iscritto

Platone torna definitivamente ad Atene proponendosi di non farsi più coinvolgere
nelle trame politiche
RIASSUNTO
La situazione politica di Siracusa
Siracusa era retta a quel tempo dal tiranno Dionigi I, ma tra i suoi cittadini Platone poteva
contare sull’amico e discepolo Dione. Platone credeva che in questa città fosse possibile
mettere in pratica il suo ideale politico, anche per l’interesse dello stesso sovrano per la
sua filosofia. Le richieste di Dione, l’interesse di Dionigi I e la speranza di vedere realizzato
il suo progetto politico spinsero Platone ad imbarcarsi nel 388 a.C. per il primo dei suoi tre
viaggi a Siracusa.
La morte di Dionigi I nel 367 e la salita al trono del figlio Dionigi II, meno incline del padre
alle speculazioni e più sospettoso verso Dione, tanto da costringerlo all’esilio ed a
confiscargli i beni, portarono al secondo e al terzo viaggio del filosofo, al fine di ricucire i
rapporti e giungere ad un risultato che rendesse Siracusa una città retta da principi
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filosofici platonici. Questo tentativo di Platone non riuscì. Dione e Dionigi II si
scontrarono nel 357 ed entrambi perdettero la vita ed il potere, che passò a Callippo. Per
una singolare serie di coincidenze, i figli di Dione e il figlio di Dionigi II, Ipparino, si
allearono e scacciarono Callippo nel 353.
L’occasione e la complessa vicenda
La Lettera VII è una lunga missiva, che per complessità e argomenti trattati si potrebbe
definire un pamphlet in forma di epistola, indirizzata da Platone agli amici ed ai familiari di
Dione. È un ricordo della sua figura e del suo progetto politico, chiaramente improntato
alle speculazioni platoniche sulla città ideale e sul governo dei sapienti. Platone vuole
ricordare ai suoi cari l’uomo che ha avuto come discepolo, e l’occasione lo porta a
ricordare, quasi per un parallelismo tra tre diverse generazioni (lui, Dione ed Ipparino) se
stesso da giovane, la sua esperienza, la sua vocazione politica nei tempi travagliati
dell’Atene dei Trenta Tiranni.
Platone ricorda la sua passione per la politica e per la ricerca del bene comune della città,
ma ricorda anche di non avere aderito alla parte politica aristocratica cui le parentele e le
inclinazioni avrebbero dovuto condurlo, ma di aver atteso il comportamento della
magistratura straordinaria per emettere un suo giudizio. Questo giudizio non tardò ad
essere spietatamente negativo. Il periodo dei Trenta Tiranni si concluse negli anni tra 401
e 400 a.C. senza rimpianti.
Platone tornò a sperare che ci fosse margine di manovra per un intellettuale come lui e
per la sua dottrina, pur sotto un governo democratico molto lontano dai suoi modelli
ideali. In questo frangente si verificò l’episodio cruciale dell’accusa, del processo, della
condanna a morte e del suicidio di Socrate. Emerge dal ricordo di Platone la commozione
per la morte di un uomo giusto, del suo maestro, di un cittadino che aveva aiutato un
democratico durante la tirannide, rischiando in proprio. Platone non esita ad additare i
potentati che hanno portato a questa ingiustizia.
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Il giovane Platone è sconvolto da questo dramma, che segna indelebilmente la sua
vita e il suo modo di pensare la politica. Da questo momento in avanti Platone sviluppa
una filosofia politica chiaramente improntata ad una forma complessa di elitismo:
soltanto attraverso “uomini devoti ed amici fidati” si può fare qualcosa per lo stato.
Gli ideali e i progetti politici
La Lettera VII, uno degli ultimi scritti di Platone, conferma l’assoluta centralità che per il
filosofo ateniese ricopre la speculazione politica. L’atteggiamento del filosofo verso la
politica è qui di disgusto e di sfiducia, ma sempre attento a tutti gli sviluppi per trovare
un’occasione propizia. In una prospettiva nella quale i filosofi avrebbero dovuto diventare
i governanti oppure i governanti avrebbero dovuto votarsi alla filosofia, era necessario un
colpo di fortuna, un evento straordinario che potesse servire da banco di prova per le sue
speculazioni.
L’occasione si presenta con il primo viaggio in Italia, dove trova un clima di edonismo
sfrenato dovuto, a suo parere, all’assenza di una costituzione giusta ed equilibrata e alla
presenza di forme di governo errate o inadeguate. L’insegnamento di Platone nella città
siracusana gli procura alcuni discepoli ed un circolo intellettuale che si riconosce nel suo
insegnamento, ma al tempo stesso gli crea inimicizie ed odi inestinguibili.
Sembra che la successione di potere tra Dionigi I e Dionigi II possa essere favorevole al
cenacolo intellettuale platonico animato da Dione e da Platone stesso. La giovane età e la
propensione del nuovo padrone di Siracusa sembrano far ben sperare. Le cose cambiano
tra il primo ed il secondo viaggio. Platone, di ritorno a Siracusa, trova la situazione molto
cambiata. Il clima verso Dione è divenuto ostile e Dionigi lo costringe all’esilio adducendo
il pretesto di una cospirazione ai suoi danni. Dionigi II di fatto tiene prigioniero Platone
impedendogli di partire e, nonostante le rassicurazioni puramente esteriori, non cambia
sostanzialmente il suo comportamento.
Platone finalmente riesce a scappare ad Atene. Ritornerà però un’ultima volta a Siracusa,
manifestando quel tipico desiderio degli uomini di cultura a non darsi per vinti quando si
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tratta di provare a persuadere qualcuno della bontà delle proprie idee. Platone
afferma che a coloro che non seguono le giuste prescrizioni del filosofo ci si deve rifiutare
di dare ulteriori consigli. Per Platone, infatti, la precondizione necessaria per l’opera del
filosofo-consigliere è la disposizione di animo di chi deve riceve quei consigli, la sua
convinzione ad orientare la propria esistenza verso quel senso di giustizia e bene che gli
sono consigliati.
Lo scontro con la realtà e il fallimento
La complessa ed intricata vicenda, non esente da lati oscuri, mette luce la dura realtà con
cui gli uomini di intelletto devono misurarsi. Questo confronto è spesso segnato dal
fallimento. L’esperienza di Platone dimostra però che l’insuccesso è causato non solo
dalla mancata predisposizione del tiranno agli insegnamenti della filosofia, ma anche alla
tipica tendenza intellettualistica del filosofo, che Platone incarna nel suo grado più alto.
L’impostazione di Platone diverrà infatti, nei secoli seguenti, sinonimo di una precisa
volontà di costruire un modello prescindendo dalla realtà e pretendendo di piegare i fatti
oggettivi alle ragioni ideali. Platone ha sperimentato nella sua vita un percorso fatto di
profonde delusioni di fronte agli sviluppi della storia ed alle manchevolezze degli uomini.
Il rigetto di fronte ai Trenta Tiranni motivato dalla loro scelleratezza, lo sdegno davanti
alla complessa società che uccise Socrate, la delusione mista alla condanna per l’indegnità
di un tiranno nel quale aveva in fondo riposto molte aspirazioni dovrebbero sempre
metterci in guardia di fronte all’astrattezza che non sa valutare adeguatamente la
ricchezza dell’esperienza.
Con un lampo di consapevolezza, Platone, rivolto ai seguaci di Dione, afferma che la
soluzione non è la tirannide o il governo assoluto, ma la Legge. Con questo termine
polisenso egli comprende non solo il complesso delle norme giuste che riguardano il
cittadino e la vita associata, ma anche il perfezionamento individuale del sé, l’insieme dei
valori spirituali oltre che materiali, l’anima piuttosto che il corpo.
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Anche l’uccisione di Dione, possibile uomo giusto di governo retto, è stata
l’ennesima delusione per Platone. Essa però gli fornisce l’occasione per proporre una
serie di criteri di scelta dei governanti: innanzitutto devono essere i migliori, essere
anziani, avere moglie e figli, essere virtuosi, di buon nome, ricchi quanto basta. Costoro
devono essere le avanguardie capaci di elaborare leggi giuste, uguali, compartecipate. Se
la fazione vincente (sia essa la maggioranza, oppure i più forti, oppure i più ricchi) si
sottomette alle regole della Legge, abbiamo una città ben ordinata, altrimenti avremo
sempre dei problemi
Le Dottrine non scritte
La Lettera VII ha ricoperto, negli ultimi anni, un significato sempre più rilevante alla luce
del fatto che in essa sono chiaramente esplicitate alcune riflessioni di Platone sul
rapporto tra oralità e scrittura. In particolare, in essa si parla del fatto che la scrittura, per
quanto profonda e ricca sia, non può svolgere quel ruolo di svelamento della verità e di
unione tra l’anima del discente e quella del discepolo quanto l’insegnamento orale.
Platone si impegnò a non esplicitare mai completamente attraverso gli scritti quelli che
definì i Principi Primi e Supremi, cioè le cose di maggior valore. Li consegnò piuttosto a
sottili rimandi, a sporadiche allusioni, ad enigmatici, ma allusivi accenni. E nella Lettera VII
afferma che essi si riducono “a brevissime proposizioni” inscritte nell’anima del filosofo.
Chiunque osi metterle per iscritto commetterà una violazione imperdonabile, rivelando
un’incomprensione dell’aspetto più profondo del filosofare, un animo ambizioso e
lontano dall’ideale di virtù. Questo è quanto fece Dionigi e questa è la testimonianza più
palese, secondo Platone, della sua indegnità.
La conclusione del racconto
Il racconto si conclude con il rientro definitivo in patria di Platone e con la sua volontà di
non farsi più coinvolgere in dinamiche che comportino possibili atti di violenza o di
vendetta. Il suo ennesimo tentativo di persuadere Dione a non farsi coinvolgere in uno
scontro che non avrebbe potuto controllare, non degno di una persona dotata di senso
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morale, porta all’ennesimo insuccesso. L’opera di Platone ci fa quindi
comprendere quanto sia difficile applicare i dettami filosofici alla complessa trama della
realtà, fatta di pulsioni e di tensioni non facilmente padroneggiabili.
CITAZIONI RILEVANTI
Vendette e rivoluzioni
«Non fa meraviglia che nelle rivoluzioni anche le vendette sui nemici siano molto più
feroci» (p. 1807).
Filosofi e politica
«I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi
veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe
dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata
alla filosofia» (p.1807).
Il dovere di far sentire la propria voce.
«È questa, dunque, la mentalità che ogni uomo di senno dovrebbe avere riguardo alla sua
città. Faccia sentire la sua voce se lo Stato non gli pare ben amministrato, se pensa che le
sue parole non cadranno nel vuoto, e se in tal modo non rischia la vita. Ma non ricorra
alla violenza per costringere la patria a mutar regime, tanto più se questo suo
miglioramento dovesse avvenire al prezzo di esili e stragi di cittadini. Stia calmo,
piuttosto, ed auguri prosperità a se stesso ed alla collettività» (p.1812).
Le cose serie non vanno messe per iscritto.
«Pertanto ogni uomo che sia serio si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non
gettarle in balìa dell’avversione e dell’incapacità di capire degli altri» (p. 1822).
L’AUTORE
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Platone nacque ad Atene nel 427, che a vent’anni divenne discepolo di Socrate e che fu
suo discepolo per otto anni, fino alla sua morte nel 399 a.C. Nel 388 intraprese il suo
primo viaggio in Italia, visitando i circoli pitagorici, oltre che la Taranto del tiranno Archita
e la Siracusa di Dionigi I. Nel 387, di ritorno ad Atene, acquistò un terreno con un ginnasio
ed un parco e vi fondò una scuola chiamandola Accademia. Nel 367 e nel 361 compì il
secondo e terzo viaggio a Siracusa. Morì ad Atene nel 347 a.C.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Si è utilizzata la versione tratta dalla raccolta: Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni
Reale, Milano, Rusconi, 1991, p.1806-1829.
Altre versioni si trovano in: Platone, Lettere, Rizzoli, Milano, 1986; Platone, Lettere,
Mondadori, Milano, 2002.
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