1 IL CORPO TRA IL BENE E IL MALE, NELLA - Oikos-bios

IL CORPO TRA IL BENE E IL MALE, NELLA FILOSOFIA E NELLA SCIENZA
-Schiuma fatta carne
Queste pagine tentano un’ ipotesi : l’atteggiamento che l’uomo o un insieme di uomini ha nei
confronti del corpo e della corporeità è un aspetto fondante del modello che struttura il senso stesso
della vita e che determina il significato da attribuire al Mondo.
“Questo corpo a cui sei così strettamente congiunto altro non è che una schiuma fatta carne e
ricoperto di un fragile rivestimento.”
La citazione è tratta dalla “Meditatio de humana conditione”, uno dei tanti testi autorevoli della
letteratura monastica medioevale. Il testo procede con toni particolarmente crudi e macabri nei
confronti della miseria dell’uomo e della bassezza del suo corpo.
Ma già da prima che un vero e proprio terrore per la sensualità, caratteristico di un certo
cattolicesimo, creasse atmosfere di colpa e di mortificazione, nel Fedone platonico il corpo viene
inteso come la tomba dell’anima.
La filosofia greca sembra fondare tutta la sua ricerca gnoseologica attorno alla dicotomia
anima/corpo.
Per Platone questi due aspetti del vivente sono due sostanze separate. Per Aristotele sono aspetti
diversi di una stessa sostanza; il corpo non è più la prigione sorda dell’anima, ma ne è lo strumento
passivo: il corpo è la materia che perisce e si decompone, materia che l’anima razionale, l’intelletto
immortale lascerà alle proprie spalle. Mente e corpo restano divisi e contrapposti sul piano che
separa il mondo sensibile dell’opinione dal mondo ideale della conoscenza, dell’epistéme.
Una distanza emblematica, con il significato “più-in basso-il-corpo”/”più-in-alto-la-mente”,
caratterizza l’ottica con la quale il corpo deve guardare all’anima, allo spirito, all’intelletto.
La citazione dalla “Meditatio”, opera a lungo attribuita erroneamente a S. Bernardo da Chiaravalle,
quasi ad avallare l’efficacia intimidatoria con l’autorevolezza della fonte , qualifica il “basso” dal
punto di vista morale: la vanità e la futilità sono della natura stessa del corpo, e dall’amore per il
corpo deriva il peccato.
Questa connotazione colpevole cresce e, a mano a mano, si rafforza l’azione di svuotamento operata
sul corpo; di questo processo vengono improntate pergamene e carte nonché pulpiti e
confessionali, almeno dal medioevo al settecento.
Nel seicento Cartesio, nella sua laica ricerca di un metodo generale per le scienze, partendo dal
dubbio arriva all’esistenza dell’io pensante: l’unico criterio di verità è posto all’interno del pensiero,
all’interno della Mente, antitesi del corpo.Il pensiero, res cogitans, e la materia, res extensa, sono
due sostanze nettamente separate.
Eppure quando Cartesio prende in considerazione le passioni spiega queste come un’influenza del
sangue sull’anima, contravvenendo proprio a quanto aveva postulato.
La contraddizione logica, nella quale cade questo filosofo matematico, è veramente singolare,
specie se si considera come quella separazione strutturale sia congrua a tutta la costruzione del suo
pensiero.
In ogni caso è comprensibile in quanto indicativa di un forte imperativo, emozionale prima che
gnoseologico, ancora perdurante: una volta associato il mondo psichico delle passioni ad una
turbativa dell’anima e della mente (alle quali competono solo chiarezza e conoscenza), non essendo
possibile attribuire alla mente niente che abbia carattere di negatività, ogni influenza di tale natura
non può che dipendere dal corpo.
Nell’inconscio collettivo o, più concretamente, in fondo ai luoghi comuni che fungono da sistema di
norme spicciole e che sono tanto più potenti quanto più apparentemente banali e innocui operano
come modelli forti due classi contrapposte di associazioni che si portano dietro, equamente diviso,
tutto l’intero mondo: una catena associativa si muove lungo la linea”materia-sordamuta…corpo..negativo”, un’altra si direziona in modo antitetico secondo la
linea”spirito…anima…intelletto…positivo”.
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Il senso della dicotomia “positivo/negativo” si connota diversamente a seconda se questa viene letta
in un contesto laico-scientifico, nel quale caso si traduce in “attivo/passivo”, oppure in un contesto
morale-religioso dove è interpretato secondo l’opposizione “bene/male”
Tutta la vastissima letteratura del pensiero, da quello magico e religioso a quello filosofico e
scientifico, testimonia di questa dicotomia strutturale, contrapposizione emblematicamente segnata
da profondi conflitti e riconferme.
Nel 1482, in quel primo Rinascimento che anche nell’etimo suggerisce una nuova concezione della
vita, lo stesso neoplatonico Marsilio Ficino scrive:
“Fino a quando questo (nostro) spirito sublime vive chiuso in un corpo inferiore, il nostro
intelletto è per così dire sballottato da una parte all’altra, dall’alto in basso, da una perpetua
inquietudine e non smette mai di dormire e di delirare e tutti i suoi moti, tutte le azioni cioè e le
passioni mortali non sono altro che vertigini di malati, sogni di gente assonnata, deliri dementi.
Aveva dunque ragione Euripide a chiamare la nostra vita sogno di un’ombra”.
(Teologia platonica de immortalitate animorum)
Eppure lo stesso Ficino è un interprete degli intensi fermenti vitalistici che proprio nel
Rinascimento si oppongono all’umiliazione con la quale la ragione vuole segnare la corporeità.
Al riguardo Eugenio Garin nel suo scritto “Magia e astrologia nella cultura del Rinascimento”,
interpreta quei fermenti come tentativi che la nuova era mette in atto per opporsi alle difese che la
ragione attua per respingere…
“…la vita e le sue radici fuori delle barriere di un ferrigno castello concettuale.”
L’autore in questo atteggiamento filosofico vede la tensione a…
“…rivendicare l’unità dell’impeto vitale che è insieme forma e materia dell’universo…”
In questa ottica ricorda il francescano Francesco Bacone che già nel XIII secolo …
“…aprendo gli occhi e la mente alla nobile vita delle cose, tesse la più fervida difesa
dell’astrologia e della magia (…) la dottrina che si distese per tutto il Rinascimento , fino alla
soglia della fisica newtoniana, e a cui Campanella dette sonando veste poetica secondo la quale
tutto è vivo, animato, mobile, plastico…”
Si legge da Campanella:
“…questa è una filosofia che apre gli sensi, contenta lo spirito, magnifica l’intelletto…”
E’ testimoniato uno sforzo filosofico tendente a conciliare lo spirito con la materia, è la soluzione
che verrà respinta da Cartesio come pure respinto sarà, per la nuova scienza, tutto l’ambito magicovitalistico del quale quella comunione era sentita parte integrante.
Giulio Preti, nella sua “storia del pensiero scientifico”, riferendosi alla maggior parte degli studiosi
del XVI secolo scrive:
“…sono rimasti ad un pensiero ancora magico e rozzamente empirico: è mancata loro la
visione della struttura della scienza, delle condizioni per un linguaggio scientifico, degli scopi
pubblici del sapere. Soprattutto non hanno capito che essi non dovevano ‘carpire segreti’ alla
natura ma costruire il concetto di natura”
Proprio qui, nel passaggio dal concetto forte di ‘carpire’ al concetto più complesso di ‘costruire’ c’è
il salto di una autentica rivoluzione epistemologica che vorrebbe ribaltare il piano del pensiero
dall’ontologico allo strumentale.
Ma è una rivoluzione difficile da attuare anche nell’ambito dei soli confini razionali e tanto meno
riesce a portare mutamenti nella concezione svalutata del corpo e nella posizione di marcato
subordine che questo ricopre nei confronti dell’intelletto.
-Costruire il concetto di natura
Il pensiero si riscatta da quella posizione di ‘rozzo empirismo, prima con Copernico e poi con
Galilei, con il processo che rivoluziona il mondo scientifico.
Mentre il pianeta Terra esce dal centro dell’universo ed assume una posizione più a latere, la natura
osservabile, la natura materiale, assume, per la scienza, lo status di oggetto fondante.
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Ed è secondo questa direzione di mutato interesse per la materia che la stessa matematica sposta il
proprio baricentro sulla geometria, la scienza dell’estensione.
Già dai fermenti del Rinascimento erano nate la trigonometria e la prospettiva. Cento anni prima di
Galilei, Michelangelo scrivendo al cardinale di Carpi, aveva affermato:
“E’ cosa certa che le membra dell’architettura dipendono dalle membra dell’uomo. Chi non è
stato buon maestro di figure e massime di anatomia non se ne può intendere”.
Leonardo, esperto di dissezioni, aveva scritto:
“…nessuna cosa si può amare nè odiare se prima non si ha cognition di quella(…). L’uomo non
può essere conosciuto senza la sua anatomia”.
Il corpo che vedeva rigettato, con l’accusa di magia, la rivalutazione ottenuta in nome della filosofia
vitalistica riesce a manifestarsi positivamente con la grande arte e con le ricerche degli artisti
nell’ambito della geometria.
Ora, nel Seicento, la scienza sperimentale nata con Galilei si volge alla materia come ad un
elemento essenziale del processo cognitivo. Ma in questa atmosfera pure così fortemente
caratterizzata dal corporeo, il primato della mente non solo permane ma sotto certi aspetti sembra
rafforzarsi. Il meccanismo della nuova scienza se da un lato prende ad elezione ed essenzializza le
leggi statico-dinamiche della corporeità, dall’altra riprende e riconferma proprio sul piano della
conoscenza l’assoluto protagonismo dell’intelletto.
Entra nella legittimazione scientifica solo la fisicità che può essere osservata visivamente,
quantitativamente misurata e sperimentata; valutare e dare la misura sono i compiti precipui
dell’intelletto che allo scopo usa le leggi matematiche, quelle leggi che hanno di fondo una valenza
fortemente ontologica, una connotazione che da Pitagora perdura e investe più o meno
esplicitamente tutta la storia del pensiero scientifico almeno fino a Cartesio.
Il dogmatismo meccanicistico, che si connota proprio partendo da Cartesio, sarà un modello
potente per tutto l’Ottocento e in parte anche in tempi a noi contemporanei; nel comune modo di
pensare è tuttora il paradigma indiscusso.
Il corpo e la mente sono separati e la distanza segna la differenza valoriale.
La dicotomia si laicizza nella democratica scienza sperimentale già propugnata da Francesco
Bacone e proprio perché “laicizzata’ non desta sospetti di metafisica e permette al proprio substrato
ontologico di entrare nel nuovo dominio e di confermare le nuove regole e i nuovi metodi.
In ogni caso le modalità attraverso le quali l’intelletto, nonostante il mutare del contesto, riesce
sempre a conservare il suo primato, non sono indolori.
Le questioni sono anche molto acute; il problema se la realtà, così com’è in sé, sia conoscibile o
meno da parte del soggetto pensante, pervade di tensioni tutta la discussione filosofica di questo
periodo e arriva all’esasperata divaricazione tra un empirismo e un razionalismo radicali, entrambi
chiusi in conclusioni senza prospettive e senza ritorno.
Su un piano di tipo logico diverso, la soluzione viene da Immanuel Kant nell’assioma dell’io
trascendentale: all’intelletto è negata la conoscenza della realtà in sé (noumeno) ma gli vengono
riconosciuti aspetti in grado di restituire alla sua scienza quel senso e quella universalità che Hume
aveva distrutto insieme con il concetto di causa.
La verità della scienza è relativa alle forme a-priori della Sensibilità, Spazio e Tempo, e alle forme
pure dell’Intelletto, le Categorie; sono possibili e legittime le scienze matematiche e la scienza
fisica, è impossibile una scienza metafisica.
Kant nella sua “Critica della ragion pura” scrive:
“Si è ritenuto sinora che ogni nostra conoscenza debba regolarsi secondo gli oggetti: tutti i
tentativi di stabilire su di essi, attraverso concetti, qualcosa a-priori, mediante cui fosse allargata
la nostra conoscenza, caddero tuttavia, dato tale presupposto, nel nulla. Per una volta si tenti
dunque, se dai problemi della metafisica possiamo procedere meglio, ritenere che gli oggetti
debbano conformarsi alla nostra conoscenza.”
Sta a dire che il cercare la ‘Realtà’ dell’oggetto si è dimostrato opera problematica e infruttuosa in
quanto l’in-sé, il noumeno, è fuori da ogni possibile intuizione spazio-temporale e le categorie
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dell’intelletto non hanno pertanto intuizioni empiriche da connettere, allora è meglio, dice il
filosofo, provare la via di ritenere gli oggetti conosciuti e conoscibili come esclusivi prodotti della
nostra Sensibilità e del nostro Intelletto e lì fermarsi.
La teoria kantiana è uno di quegli eventi che costringono al cambiamento del punto di vista e dopo i
quali niente può essere come era prima.
Con esso infatti il modo di concepire la ricerca filosofica cambia radicalmente come cambieranno le
prospettive biologiche dopo Darwin, la lettura del mondo fisico e dei suoi fatti dopo Einstein, il
senso del comportamento psichico dopo Freud…
Ma rimanendo per ora a Kant, ci si potrebbe chiedere se una tale rivoluzione giunga a
ridimensionare l’hybris dell’Intelletto.
Questa purtroppo è una domanda retorica che ha in sé la propria risposta negativa.
La fede nella potenza quasi assoluta dell’Intelletto, quel divino nell’umano che può ricondurci al
cielo, ha radici che fanno un tutt’uno con la stessa nostra Immagine del Mondo, con quel contesto
massivo che,come tutti i convincimenti sperimentati ‘utili’ e diventati abitudine, ha valore di regola
strutturante e connotazioni assolutamente inconsce.
Per cambiare i punti di riferimento a quelle profondità occorrerebbe un evento a valenza ancora più
forte, rivoluzionante.
Proprio per la struttura di questi livelli di complessità che, come i gradini di una scala gerarchica,
classificano e sostengono le nostre filosofie e le nostre opinioni, anche stimoli critici molto potenti,
da soli, non sono in gradi di portare cambiamenti sul gradino di livello superiore, più astratto.
In altre parole questi sovvertimenti rimangono troppo in superficie rispetto alla complessità
gerarchica dell’intero sistema di valori di un individuo o, peggio ancora, di una cultura.
Thomas Kuhn nel 1962 pubblica “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” dove affronta i
problemi legati al venire meno dei punti di riferimento che reggono le singole ricerche o addirittura
l’intero codice della scienza.
Al decimo capitolo “Le rivoluzioni come mutamenti della concezione del mondo”, scrive:
“…dopo un mutamento al paradigma, gli scienziati non possono che vedere in maniera diversa
il mondo in cui sono impegnate le loro ricerche. Nei limiti in cui i loro rapporti con quel mondo
hanno luogo attraverso ciò che essi vedono e fanno, possiamo dire, dopo una rivoluzione, gli
scienziati reagiscono ad un mondo differente.”
‘Reagiscono ad un mondo differente’ afferma l’epistemologo, e ciò sta a dire che quegli scienziati
proprio perché vivono un ‘cambiamento strutturale’ reagiscono in modo diverso rispetto a quanto
facessero in precedenza.
Eppure, uscendo dal laboratorio continuiamo ad usare gli stessi canoni che usavamo prima per
interagire con tutto quanto ci circonda.
Cambia solo la visione del sistema dentro le nostre provette e sotto i nostri microscopi o nei
modelli matematici, anche se questi parlano del mondo; non cambia il modo in cui pensiamo il
nostro sistema mondo; noi sempre ‘sopra’, mai ‘nel’.
Ecco perché la rivoluzione kantiana, anche se ha tolto all’intelletto la possibilità di ritenersi in grado
di raggiungere la conoscenza metafisica, non ha modificato né la contrapposizione corpo/mente, né
la valenza qualitativamente gerarchica di quel rapporto.
Ogni paradigma tende a persistere autoconfermandosi e l’assioma del primato dell’intelletto è
emblematico di questa resistenza. Si vede infatti che lo stesso discepolo di Kant, J. G. Fiche,
cercando una sintesi della natura come appare (il ‘fenomeno’ kantiano) riporta il baricentro
nell’ambito dello Spirito la cui attività è intesa consistere proprio nell’andare oltre la natura visibile
per giungere a conoscere la realtà.
Così‘pure F. W. Schelling si muove in un idealismo assoluto, anche se capovolge la posizione di
Fiche: non è la natura che nasce dall’io, ma è l’io che nasce dalla natura , da una natura che è
Spirito.
G. W. Hegel prosegue nella ricerca della sintesi; riconosce che ormai si è giunti ad una nuova
concezione della conoscenza e che pertanto anche la filosofia ha necessità di un nuovo strumento.
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Shelling aveva postulato l’intuito geniale: per lui la filosofia non era il risultato di una conoscenza
basata sul ragionamento discorsivo, ma era piuttosto il risultato di un’intuizione immediata che è
simile all’intuizione dell’artista; Hegel vede nella logica il mezzo con il quale lo Spirito riesce a
superare gli opposti.
Nel perdurare della dicotomia conflittuale spirito-intelletto/materia-corpo tutte le composizioni
tentate provocano solo uno spostamento di accento o sull’una o sull’altra polarità, senza risolvere il
problema del dualismo, né sul piano filosofico, né su quello epistemologico, né su quello etico.
Credo che il nodo vero della dicotomia sia a monte di ogni nostra elaborazione teorica e tragga le
radici da un vero e proprio ‘mito dicotomico’ fissatosi come modello.
In questo senso la valenza positiva tutta spostata sul fronte della sequenza spirito-anima-intelletto fa
parte integrante della ‘necessità’ che ha permesso a quel modello di mettere radici.
Passando dalla forte inerzia delle categorie di fondo alla capacità motoria dei fatti intellettuali più
vicini alla superficie, non si può non notare come gli anni che precedono il Novecento si
caratterizzano in un sempre maggiore interesse per il cosiddetto mondo della vita.
Giulio Preti scrive
“Già all’inizio del Seicento (…) in seno alla scuola galileiana (Redi e Malpigli) si scopre il
meraviglioso mondo del vivente microscopico: si comincia a conoscere la complessa struttura
minuta degli organi degli esseri viventi, si scopre il fenomeno fino ad allora pressoché insospettato
di vite all’interno di una vita, di animali piccolissimi che vivono entro altri animali, e finalmente
della vita autonoma di esseri elementari, come le cellule, entro il quadro entro il quadro della vita
metazoica. Questi studi dei microscopisti continuano per tutto il sei e settecento portando sempre
nuovi e sempre più importanti risultati.”
Preti in questo passo della sua “Storia del pensiero scientifico” si riferisce a tutta una nuova serie di
campi di ricerca, come l’anatomia, la fisiologia, l’embriologia, la genetica.
Il microscopio è il nuovo occhio dello scienziato che osserva, misura, esperimenta.
Dagli appunti di Lazzaro Spallanzani, scritti nel 1761, si legge:
“Adì 6 ottobre. Saranno venticinque giorni circa ch’io empii una bottiglietta di un fluido in cui
erano nati de’ grani di fromentone, il quale fluido era zeppo di animali assai grandi. Guardato
oggi 6 ottobre gli ho trovati da gran lunga scemati. Avevano però le stesse marche: parecchi non
erano più sì snelli ma movevansi lentamente. Altri vedevansi immobili e morti , ma intieri: e taluni
morti e guasti…”
Tutta la ricerca è osservazione, misura e sperimentazione e tutte le nuove scienze si conformano al
modello meccanicista delle scienze fisiche: solo i fenomeno quantitativamente misurabili e
sperimentabili possono divenire oggetto di scienza.
Il corpo vivente è dissezionato dall’intelletto ed è sempre l’intelletto che ha la parola, il criterio e la
legge: la misura.
Purtroppo ancora oggi il modello meccanicista-lineare continua a decidere delle scienze della vita;
completamente inadatto a tradurne la complessità continua a produrre pericolosi paradossi sul piano
del comportamento.
-La scimmia, l’inconscio e altro
Nel 1886 viene pubblicata “L’origine della specie” di Charles Darwin; la teoria dell’evoluzione
naturale scandalizza nel mentre stesso toglie agli antenati dell’homo sapiens il vanto di una
posizione altolocata.
Pochi decenni più tardi Sigmund Freud sottrae l’assoluto alla coscienza razionale svelando a
quell’homo ancora stordito dallo sconcerto di avere una scimmia nel proprio passato, la nonrazionalità dell’inconscio e la sua presenza in ogni atto del suo lucido presente.
Alla fine ottocento e nella prima metà del novecento la fede nelle soluzioni dell’intelletto subisce
sempre più spesso di questi scossoni e da più parti.
Non ne rimane indenne la fisica, la vecchia grande scienza del mondo.
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Questa, fino nei tempi in cui era soprattutto un’astronomia cosmogonia, si è sempre posta come
luogo paradigmatico nel quale l’uomo si rifletteva per ricavare le risposte più utili a verificare altre
risposte che si era già dato.
Talete,uno dei sette saggi dell’antichità, aveva posto la Terra a galleggiare sull’acqua e l’acqua era
il principio di tutte le cose; Aristotele, traendo da Eudosso, costruisce il suo grande modello
gerarchico: la Terra è al centro delle sfere che costituiscono l’universo e il loro moto deriva dal
Motore Immobile.
Circa cinque secoli più tardi Tolomeo fissa quel sistema geocentrico atto a governare la fisica fino a
Copernico e a Newton, fino all’abiura di Galileo.
All’inizio del novecento la fisica vede il suo paradigma rivoluzionato ancora più in profondità: il
fisico tedesco Albert Einstein spezza l’ottica della scienza classica fondata sulla certezza dei punti
di riferimento e sulla procedura logica di derivazione di tipo lineare e assume il probabilismo come
unico criterio di ricerca.
Einstein generalizza il principio di relatività già espresso da Galilei nel “Dialogo dei massimi
sistemi” affermando che tutte le leggi di natura, dedotte sperimentalmente da osservazioni
attraverso i più diversi riferimenti inerziali, sono identiche.
La Teoria della Relatività sottopone ad una rigorosa analisi critica le stesse leggi della meccanica.
La celebre formula E=mc2 pone la massa e l’energia su un piano di equivalenza.
Il concetto di materia viene a sciogliersi dal vincolo rigido della pura estensione quantitativa
derivatagli dalla scienza sperimentale galileiana, e infine sfugge al visibile.
Einstein libera gli accadimenti dalla cornice di Spazio e di Tempo assoluti, posta da Newton.
Nel 1927 Werner Heisemberg, fisico tedesco allievo del danese Niels Bohr, enuncia il Principio di
Indeterminazione secondo il quale, dato un sistema, la misurazione precisa di una grandezza, e cioè
il tendere a zero della sua determinazione, genera ‘imprecisione’ nella misurazione di un’altra
grandezza riguardante lo stesso sistema.
Il Principio di Indeterminazione sposta definitamene l’ago del microcosmo dal dominio del concetto
di causa determinante, in grado di garantire prevedibilitàò e quindi certezza, al dominio delle
probabilità, molto meno generoso sul piano delle garanzie.
Anche sul versante dall’altra grande scienza, la matematica, viene a perdersi il beneficio della
sicurezza e ci si orienta, mano a mano in modo sempre più netto, verso una valenza puramente
strumentale.
In questo senso il logico-matematico Georg Cantor, partendo dagli insiemi infiniti dei numeri
razionali positivi, sviluppa la Teoria degli Insiemi nell’intento di formalizzare le matematiche
secondo una struttura unitaria.
Agli enti matematici viene attribuita una natura puramente logica…
Proprio mentre l’ottocento cede al novecento, il giovane Bertrand Russell, filosofo e matematico
inglese, cerca di arrivare al concetto di ‘infinito’ tramite dimostrazione in modo da poter rinunciare
alla sua definizione assiomatica; in tal senso postula la costruzione di una classe infinita che
contenga riuniti ‘tutti’ gli oggetti dei vari generi e ‘tutti’ gli oggetti dei vari tipi.
Ma così facendo si accorge che alla fine arriva ad una conclusione che contraddice la regola del
numero cardinale massimo di Cantor.
Non esistendo un errore nella dimostrazione cantoriana né in quella condotta da lui stesso, Russell
riconosce la presenza di un difetto logico sul piano della procedura, riconosce la presenza di un
paradosso, o, in accezione più specifica, di un’antinomia.
Il campo dei paradossi e delle antinomie è il dominio di quei problemi logici per i quali le soluzioni
sono indecidibili.
Nel 1913, dodici anni dopo l’antinomia del massimo numero cardinale, Russell pubblica l’opera
scritta in collaborazione con Alfred N. Whitehead “Principia Matematica” dove viene esposta la
Teoria dei Tipi Logici, teoria che regola le procedure di derivazione e che permette di superare gli
scogli delle soluzioni indecidibili nei sistemi formalizzati.
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La portata teorica e pragmatica di questo strumento è enorme anche se è ancora lungi dall’essere
colta nelle sue più vaste implicazioni.
Restando nel contesto in cui Cantor opera la formalizzazione della matematica e Russell teorizza la
possibilità di affrontarne i problemi logici, e seguendo il filo che lega la nozione di insieme
cantorino alla nozione di sistema, si arriva al matematico David Hilbert e alla formalizzazione della
geometria quale sistema assiomatico.
Nel suo trattato “I fondamenti della geometria” l’autore affronta questo impegno che si presenta
subito difficile perché la geometria, per il legame quasi naturale che ha con lo spazio fisico, si
mostra fin dall’inizio concettualmente poco adatta ad essere tradotta a puro sistema logico-astratto.
Con Hilbert gli ‘enti’ geometrici non sono più intesi come inerenti alla stessa realtà empirica e la
geometria recede da quello status che la vedeva ‘misura intrinseca’ dell’estensione.
Già le geometrie non-euclidee avevano incrinato di molto la fede nell’assolutezza e
nell’autoevidenza dei principi della geometria, ma non erano arrivate a ridurre questi a semplice
strumento logico.
La geometria formalizzata conduce ad una considerazione molto interessante secondo la quale ogni
sistema assiomatico ben formalizzato è non-contraddittorio: sta a dire che la non-contraddittorietà
non costituisce più di per sé una convalida sul piano ‘vero-falso’.
Un sistema può essere perfettamente coerente al proprio interno ed essere completamente ‘falso’
rispetto all’ambito più vasto che lo contiene.
Sul piano della comunicazione umana i sistemi di tattiche e controtattiche lucidamente costruiti da
soggetti paranoici si pongono come un esempio estremo di ‘coerenza’ all’interno e ‘falsità’ rispetto
l’esterno.
Anche la valenza filosofica, e non solo filosofica, di questi aspetti è singolare e va ad aggiungersi a
quella degli altri aspetti di ‘squilibrio’ fino ad ora incontrati.
La stessa definizione di sistema è indicativa della fertilità delle sue implicazioni in quanto modello
formale.
Secondo la proposizione di L. von Bertalanffy si legge che “un sistema può essere definito come
un insieme di elementi che interagiscono tra loro”; con l’accento decisamente portato sulla
relazione in generale, R. E. Fagen e A. D. Hall affermano che “un sistema è un insieme di oggetti e
delle relazioni tra oggetti e tra i loro attributi”.
L’interesse per l’ambito sistemico caratterizza tutto il novecento e contiene in nuce la ‘forma’ che
potrebbe rivoluzionare la nostra vecchia Immagine del Mondo.
Questo dominio si articola a larghe linee secondo tre orientamenti che non devono essere intesi in
modo disgiunto.
Il primo, e non a caso, è l’orientamento di connotazione biologica espresso dal canadese Ludwing
von Bertalanffy, ed è alla base degli altri due filoni di ricerca; è del 1945 la sua Teoria Generale dei
Sistemi.
Il secondo è rappresentato dall’orientamento a carattere più logico-matematico che si esprime nella
cibernetica e che fa capo a Norbert Wiener.
Infine l’orientamento più computistico e tecnologico che può essere fatto risalire al matematico
inglese Alan Mathison Turing.
Il concetto di sistema viene tratto dalla capacità e dalla modalità di entrare in relazione che
presentano i corpi viventi in un contesto dato.
Il vecchio corpo passivo e svuotato di conoscenza propone un’immagine nuova di sé esplicitandosi
in quanto sistema capace di operare a molti livelli di regolazione e di apprendimento; le sue
modalità nel dare, ricevere, elaborare e conservare informazioni sono l’universo appena scoperto e
nella cui direzione vengono puntati tutti i tele-microscopi.
Quest’universo è spiato da più versanti e da più discipline, lo indagano le già menzionate Teorie
degli Insiemi e Teoria Generale dei Sistemi, gli ambiti scientifici che si occupano della
formalizzazione dei sistemi, La Cibernetica, La Teoria dei Modelli, la Teoria dell’Informazione, la
Linguistica, la Psicologia e la Psichiatria, l’Antropologia, la Sociologia, l’Etologia…
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Ma quale è la scienza, quale il metodo di questo universo?
-Il corpo intelligente e il mito della dicotomia
Il novecento si è visto costretto a confrontarsi con il tema della complessità, emerso dai tanti
fermenti scientifici, ma senza averne gli strumenti adatti.
Tutte le modalità della ricerca restano vincolate al modello dicotomico e in quello spirito
considerano l’intero-vivente un composto risultante dalla somma semplice di parti rispettivamente
e reciprocamente isolabili.
Il processo conoscitivo si muove ancora sul modello meccanicistico di Galilei; anche se si riesce a
negarlo a parole, di fatto questo schema viene applicato a tutti i processi seguendo la legge
dell’accumulo, legge che li spiega come una somma di tappe, più o meno importanti, disposte
secondo una ‘linea retta’ la quale, partita da zero, o da qualunque altro punto, tende all’infinito.
Questa impostazione comporta che ogni momento del processo deve essere quantitativamente ‘più’
del precedente e ‘meno’ del successivo; comporta che la direzione si debba porre sempre obbligata
in ‘avanti’ pena l’imbarbarimento che è implicito nel ‘tornare indietro’.
Una cultura connotata da forti relazioni simmetriche e contrapposte al proprio interno e quindi da
un carattere rigidamente competitivo, usa i termini ‘più’, ‘avanti’, ‘indietro’ come tabù contro la
‘perdita’, la sconfitta insostenibile.
Allora quale può essere l’atteggiamento scientifico per la complessità, che per sua stessa definizione
non può essere ridotta a niente di semplicemente lineare?
Devo fare un passo ‘indietro’ alla ricerca di un modello utile a formulare la risposta.
Nel settecento il chimico Antonio Lavoisier, sul tavolo degli esperimenti lasciato dai suoi
predecessori, aveva praticamente trovato tutto quello che sarebbe servito alla chimica, ma non c’era
ancora la chimica, in effetti a permanere era solo un impasto alchemico.
Gli enti e i fenomeni erano ordinati secondo un vincolo teorico additivo: la combustione era
attribuita all’aggiungersi di un’altra sostanza, il flogisto.
I problemi che nascevano da un tale punto di partenza erano molti.
Le soluzioni che venivano ipotizzate erano almeno singolari, non ultima quella di dotare il flogisto
della ‘levitas’; dotando questa nuova sostanza di un carattere di alleggerimento si cercava di
spiegare come mai nei materiali combusti, e quindi ‘aumentati’ del flogisto, il peso complessivo
risultava inferiore rispetto al peso misurato prima della combustione.
Lavoisier smonta quella struttura teorica e al suo posto ne crea un’altra completamente nuova; con
l’assioma della ‘conservazione dei pesi’ riordina tutto l’insieme e fa nascere la chimica: nuovo
assioma nuovo sistema assiomatico.
Una situazione siffatta non è definibile come il passo in ‘avanti’ rispetto alla chimica del flogisto
perché non può essere considerata rapportabile ad esso tramite nessuna diretta consequenzialità, è
piuttosto una rivoluzione di sistema, un mutamento strutturale che non deriva da un modo diverso
di sommare le parti, ma da un modo diverso di vedere le parti in relazione tra loro.
Fatte le debite differenze, oggi, sulla questione lineare/complesso è necessario trovare la via per una
rivoluzione strutturale, un grande aiuto può venire dal pensiero di Gregory Bateson.
Antropologo, epistemologo, psichiatra, interessato alla linguistica, alla semiotica e alla cibernetica,
figlio di quell’inglese William Bateson, uno dei fondatori della genetica, ha trovato sul tavolo delle
ricerche della prima parte del novecento un fertilissimo disordine di interessi scientifici, dagli esiti
spesso conflittuali rispetto proprio al quel concetto lineare di scienza ereditato dall’ottocento e
ascritto da sempre nella dicotomia corpo/mente.
Il senso attorno a cui più o meno direttamente tutti questi fermenti si agitano è il senso stesso che
viene conferito all’essere vivente e al suo rapporto con il contesto.
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L’assioma che pesa sulla gongruità formale di questo universo è nascosto proprio nella dicotomia
assiomatica; questa divisione del vivente complesso in due parti contrapposte pesa sulla realtà che si
va a conoscere perché deforma le procedure che vengono usate per conoscere.
La regola lineare ’corpo-separato-dalla-mente’ conduce ad un vero e proprio sistema dalle soluzioni
indecidibili ed è a questo punto che interviene il richiamo di Bateson: per l’organicità complessa
occorre un modello di regole organiche e complesse.
Un modello di sistema è preso dalla cibernetica, nata a sua volta dallo studio critico dell’organicità,
in quanto studio di sistemi capaci di autoregolazione e di apprendimento, integrati in tutte le
proprie parti (nessuna delle quali legittimata a posizioni di controllo sulle altre), dove le
informazioni relazionali si veicolano lungo circuiti di circuiti.
A questo universo fatto di interazioni complesse Bateson dà il nome di ‘Mente’
La scelta di questo termine per liquidare la dicotomia corpo/mente, in un’ottica che voglia
ripristinare l’interezza del vivente rivalutando proprio il corpo sembrerebbe suonare come una
contraddizione.
Ma è proprio qui che si tocca la differenza tra un sistema concettuale lineare (dicotomico) e un
sistema concettuale complesso: i termini che usiamo nei nostri ragionamenti li si trova nel
vocabolario, separati e ordinati per ordine alfabetico, si potrebbe dire in modo a-ideologico e sono
gli stessi per tutti, ma il senso di ogni termine lo si trova solo considerando la sua relazione con il
contesto che lo contiene, cioè la differenza è nella sintassi relazionale del discorso.
Pertanto quella contraddizione esiste come paradosso solo nel contesto teorico che intende la mente
e il corpo come due entità diverse e valorialmente opposte, ma non lo è nell’ambito teorico in cui
l’unità-persona è intesa come un sistema complesso intelligente non scindibile in parti
reciprocamente isolabili e tanto meno contrapponibili.
In questa costruzione di Bateson si possono rintracciare l’influsso struttuturante della Teoria
Generale dei Sistemi, il rigore del modello cibernetico che sottolinea la natura circuitale delle
relazioni con particolare accento alle relazioni retroattive di feed-bak; da queste osservazioni deriva
la configurazione gerarchica dei vari livelli di apprendimento, la complessità di tale gerarchia
attinge dalla Teoria dei Tipi Logici di Russell tanto il carattere logico quanto le regole contro i
rischi di soluzioni indecidibili.
Non è difficile rendersi conto che proprio il nodo delle soluzioni indecidibili è il muro di gomma
contro cui rimbalzano, irrisolti, tutti i problemi contemporanei.
Solo rivoluzionando l’ordine dicotomico, e quindi scongiurando le ricadute paradossali sulla
conoscenza e sul comportamento, si può uscire dalla illusioni di alternative che chiudono la visione
delle nostre scelte; siamo parti integrate di un sistema più vasto, ricco di infinite relazioni congrue e
possibili.
Ogni strategia che permetta ad una parte di esercitare un controllo qualsiasi sull’intero sistema è
antisistemica: l’elemento non può comportansi come se fosse la classe che lo contiene.
Purtroppo la nostra scienza e la sua tecnologia operano ancora secondo questo modello lineare
anche se alcuni singoli ambiti scientifici arrivano sempre più spesso a formulare ipotesi che con
quello configgono.
Il fatto è che la scienza è figlia del sistema culturale che la produce, anche se qualche volta è
disobbediente e arriva a conclusioni che contrastano la volontà del padre, queste conclusioni non
riusciranno mai ad abbattere il modello assiomatico; diceva Freud che ”nessun ragionamento può
contro il sentimento” e le ragioni di quelle regole vengono prima del pensiero, nate da millenni,
sono protette nell’inconscio.
La scienza classica, in genere, e la tecnologia attuale sono molto congrue a quella domanda antica,
cercano i segreti della natura perchè questa possa essere dominata e conferisce l’intero mandato
all’intelletto in quanto precipua istanza della coscienza razionale, che ‘vede’ e controlla,
tranquillizza ; il mondo è visto ancora come il luogo in cui il soggetto-uomo-razionale opera a pieno
diritto sull’oggetto-natura secondo il rapporto alto/basso, io/esso: in definitiva siamo di fronte ad un
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paradosso di congruenza, è un sotto-sotto-elemento (la coscienza razionale) di un sotto-elemento
(soggetto agente uomo) che controlla la classe (il mondo).
L’antinomia di Russell non è un gravissimo problema se rimane un problema di logica sopra un
foglio di carta, in questo caso basta cancellare e ritentare la procedura, ma se diventa
comportamento travasa il danno in fatti concreti e produce apprendimenti a catena, cose che non si
annullano con un segno di matita.
Tutti i vari fermenti scientifici del novecento aspettano una sintesi organica per una rivoluzione
assiomatica. Il pensiero di Bateson fa un salto metaepistemologico mentre fornisce un tipo di retino
che permetta la lettura dei nodi antisistemici, un punto di partenza per lo studio della complessità.
Dunque, almeno sul piano del pensiero teorico, può finalmente ritenersi risolto il problema di una
sintesi non-lineare?
Certo che no, il ragionamento non può contro il sentimento.
E’ decisamente più facile cancellare la teoria della fisica geocentrica dai trattati piuttosto che
eliminare il senso homo-centrico dai nostri punti di riferimento.
La dicotomia mente/corpo, che è poi l’astrazione teorica della contrapposizione maschio/femmina,
anche se affrontata esplicitamente da ogni parte è ancora il vero assioma nascosto della cultura che
quell’uomo ha costruito.
Questo assioma ha ancora la sua rappresentazione congrua nella fisica di Aristotele, in
quell’universo diviso sistematicamente in due aspetti qualitativamente diversi e disposti l’uno in
subordine dell’altro: in ‘alto’ i corpi lunari, fatti di etere, rotondi, puri, eterni; in ‘basso’ i corpi sublunari corruttibili e derivanti dalla composizione e dalla scomposizione della quattro qualità caldosecco-umido-freddo.
La stessa fisica dei corpi sublunari al proprio interno è divisa dicotomicamente: da un lato gli
oggetti che hanno l’’alto’ come loro luogo naturale al quale tendere (aria e fuoco insieme con le
qualità caldo e secco), dall’altro gli oggetti che hanno come luogo naturale il ‘basso’ (terra e acqua
insieme con le qualità freddo e umido).
La categoria ‘alto-incorruttibile-eterno’ e la categoria ‘basso-corruttibile-mortale’sono in rapporto
semplice e diretto con l’ opposizione spirito-mente/materia-corpo.
Il senso del legame perdura protetto nell’incoscio e sopravvive alla fisica aristotelica.
Nell’inconscio i tempi delle mutazioni non sono graduali come per gli apprendimenti coscienti, in
quel dominio vige l’immutabilità e il cambiamento avviene solo per catastrofi.
Neanche lo spazio ricurvo di Einstein ha sfiorate le difese del mito dicotomico; nell’opposizione
mente/corpo è chiusa la separazione ossessiva tra un bene e un male, ancora assoluti.
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