Romero Federico - Guerra fredda e decolonizzazione

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STORIA CONTEMPORANEA
XIX. Guerra fredda e decolonizzazione
di Federico Romero
SOMMARIO: I «due blocchi» e il Terzo Mondo - Un nuovo equilibrio di potenze - Da alleati a nemici:
nascita della «guerra fredda» - La strategia americana in Europa: aiuti economici e «contenimento» - Le
elezioni del '48 in Italia - Il blocco di Berlino e la divisione della Germania - L'Europa occidentale e la
garanzia americana - II blocco comunista e la sovietizzazione dell'Est europeo - La Jugoslavia e l'«eresia» di Tito - Le due Europe: equilibrio e stabilità - L'Urss potenza nucleare e la rivoluzione comunista in
Cina - La guerra di Corea - Riarmo e alleanze militari: la Nato e il Patto di Varsavia - Antagonismo
ideologico - Il 1956: la rivolta polacca e l'insurrezione ungherese - Un nuovo protagonista: il mondo non
industrializzato - Gli anni quaranta e la definitiva decolonizzazione del continente asiatico - La questione
palestinese: ritiro inglese e nascita dello Stato di Israele - La logica bipolare conquista il Medio Oriente Fine dei colonialismo inglese e francese - La guerra di liberazione algerina - L'Africa sub-sahariana: una
decolonizzazione convulsa - Nehru, Sukarno e Nasser: nascita del «terzomondismo» - II movimento dei
paesi «non allineati» - Un nuovo terreno di contesa tra le superpotenze - L'orbita sovietica - L'ambito
dell'egemonia americana - Il «muro» di Berlino e la repressione della «primavera di Praga» - Chruščëv e
la «coesistenza pacifica» - Kennedy e la «nuova frontiera» - La crisi di Cuba: nascita della «deterrenza» II modello americano: modernizzazione e democratizzazione - La guerra del Vietnam e lo scacco americano - Due giganti indeboliti - Gli accordi per il disarmo bilaterale e controllato - Uno scontro di ideolo ­
gie o un conflitto di interessi? - La guerra fredda dal cuore europeo allo scenario mondiale - Fine del
bipolarismo e fine del Terzo Mondo.
1. Il problema
Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale il sistema intemazionale si polarizzò intorno ai due grandi vincitori. Stati Uniti e Unione Sovietica.
Tra il 1945 e il 1947 essi passarono dalla cooperazione antinazista a un reciproco
antagonismo che divise l'Europa e altre parti del mondo in due blocchi di allean­
ze reciprocamente impermeabili, via via sempre più armati e aspramente contrap­
posti in un conflitto ideologico e geopolitico che si fermò solo sulla soglia dello
scontro militare diretto.
Gli equilibri strategici e le contrapposizioni ideologiche in Europa, sin dal do­
poguerra, furono dunque profondamente segnati dalla preponderanza di questi
due poli, americano e sovietico (bipolarismo). Sorge il problema se tale bipolari­
smo sia stato pieno, o asimmetrico e squilibrato a favore degli Usa. La logica bi­
polare si estese progressivamente anche a talune zone extraeuropee, apparendo ai
contemporanei come uno scontro planetario tra Democrazia occidentale e Comu­
nismo. È esatta questa percezione? O l'affermarsi di nuove nazioni indipendenti,
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I «due blocchi»
e il Te rz o Mon do
Storia contemporanea
e la loro ricerca di vie autonome allo sviluppo danno invece un senso autonomo ai
conflitti extraeuropei, e delineano molti e diversi protagonisti in quello che si co­
mincia a chiamare il Terzo Mondo, per distinguerlo dal Primo Mondo rappresentato dall'Occidente e dal Secondo Mondo dell'Est europeo? Composito e diversifica­
to, il Terzo Mondo non riuscì mai a costituire una vera alternativa all'antagonismo
bipolare, ma la sua stessa esistenza, e il suo complesso rapporto con un'economia
internazionale in espansione, resero evidente che il sistema della guerra fredda non
comprendeva, e tanto meno esauriva, l'intero scenario mondiale.
2. Il dopoguerra.
Un nu ovo
e qu ilibrio
di pote nz e
Nel 1945, dopo aver sconfitto le armate tedesche, l'Unione Sovietica era la
principale potenza europea. Gli Stati Uniti avevano vinto la guerra in Europa
occidentale e in Estremo Oriente, dominavano gli oceani, detenevano la bomba
atomica* e disponevano di una soverchiante forza produttiva e finanziaria. La
Germania e il Giappone, distrutti e occupati, non appartenevano più al novero
delle potenze. La Gran Bretagna sedeva tra i vincitori ma aveva esaurito gran
parte delle sue risorse imperiali, e doveva affidarsi all'aiuto americano; ancor
più indebolita e ridimensionata appariva la Francia. L'Italia e gli altri paesi eu­
ropei, travolti da una guerra più grande di loro, potevano solo concentrarsi su
una difficile ricostruzione.
Sia gli Usa che l'Urss auspicavano un dopoguerra di reciproca collaborazione,
e nella Conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945) istituirono l'Organizza­
zione delle Nazioni Unite (Onu) per creare, e dirigere, un sistema internazionale
pacifico e cooperativo. Ma gli interessi vitali degli uni e dell'altra non erano facil­
mente conciliabili; e le loro diverse visioni del mondo, per molti versi incompati­
bili, resero ogni mediazione via via più difficile. Mosca intendeva garantirsi da
un'eventuale rinascita di una Germania forte e nuovamente minacciosa, e voleva
assicurarsi il controllo su un'Europa orientale riorganizzata da governi «amici»
(cfr. la lezione XVI). I dirigenti sovietici, inoltre, diffidavano della superiore po­
tenza americana e ritenevano necessario sviluppare un sistema socialista chiuso e
il più possibile autosufficiente. Le élites* politiche ed economiche americane vo­
levano invece un mondo di mercati* aperti, interconnessi e organizzati intorno al
ruolo cardinale del dollaro. Washington, infatti, concepiva la sicurezza e la pro­
sperità della democrazia americana solo in un ambito internazionale di democra­
zie capitalistiche. Voleva perciò che le altre maggiori aree industriali del mondo Europa occidentale e Giappone - risorgessero come parte integrante di tale sistema e non rischiassero invece di chiudersi nel nazionalismo* economico o di pie­
garsi a una qualche forma di influenza sovietica. Quest'ultima si era già imposta
in Europa orientale, e non vi era modo di contrastarla direttamente, ma il presi­
dente Harry Truman e il suo governo non erano disposti a vederla ulteriormente
estesa, ritenendo che la preminenza economica e strategica americana desse loro
le leve per realizzare un simile, ambizioso disegno.
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Guerra fredda e decolonizzazione
Nell'immediato dopoguerra gli ex alleati si ritrovarono presto in disaccordo su
tutte le principali materie di negoziato. Gli Usa e la Gran Bretagna contestavano la
rigidità di un controllo sovietico sui governi dell'Europa orientale che a Mosca appariva a invece legittimo e vitale per la propria sicurezza. La divisione in zone d'occupazione militare della Germania - che ciascuno temeva di veder rinascere come
soggetto indipendente e magari ostile, ma che gli occidentali non volevano neppure vedere sempre debole, e magari protagonista in futuro di un avvicinamento a
Mosca - si trasformò gradualmente in vera e propria divisione amministrativa e
poi politica tra una zona occidentale e una zona orientale; Berlino, che per quanto
fosse situata all'interno di questa seconda parte era stata a sua volta divisa in zone
assegnate agli occidentali e ai sovietici, divenne un punto di frizione tra gli uni e
gli altri. Già nel 1946 Winston Churchill proponeva un'immagine di grande forza
evocativa, quella della «cortina di ferro» fatta di tirannide e oppressione che stava
scendendo a separare l'Europa dell'Est da quella dell'Ovest. In altre aree, come
l'Iran e la Turchia, emersero nello stesso periodo contrasti che videro sovietici e
americani impegnati in aspri dissidi diplomatici. Nella prima metà del 1947, mentre i sovietici paventavano il rischio di un accerchiamento ostile, gli americani eri­
gevano a pericolo centrale del dopoguerra quello di un'espansione dell'influenza
sovietica, e si risolvevano a contrastarla con una ferma strategia di contenimento.
Fu proprio quello l'anno in cui il termine guerra fredda fu introdotto dal giornalista americano Walter Lippmann, per stigmatizzare la condizione a cui avrebbe
condotto l'emergente dottrina statunitense del contenimento: uno stato di tensione
permanente tra Usa e Urss basato sul rifiuto di riconoscere la legittimità dell'av­
versario e negoziare le divergenze di interessi per via diplomatica.
Risulta oggi poco credibile l'idea che i sovietici, intransigenti ma anche assai
cauti, perseguissero un deliberato progetto di espansione. Ma i dirigenti americani
contemplavano preoccupati l'accavallarsi di numerosi punti di crisi e instabilità,
che essi temevano offrissero grandi opportunità potenziali per la diplomazia so­
vietica. Invece della potenza tedesca, al centro dell'Europa vi era adesso un vuoto
fatto di povertà, incertezza e possibile risentimento nazionalistico. In Francia e in
Italia i conflitti politici ed economici della fase della ricostruzione potevano ac­
crescere il ruolo di forti partiti comunisti (cfr. la lezione XX). La Grecia era attra­
versata dalla guerra civile tra comunisti e destra monarchica. In tutta l'Europa oc­
cidentale la carenza di valuta estera poteva soffocare la ripresa e indurre alla chiu­
sura protezionista* delle economie nazionali. I capisaldi della visione internazio­
nale americana potevano dunque essere salvaguardati solo con una forte mobilita­
zione delle proprie risorse, politiche ed economiche, che consentisse di arginare e
invertire queste tendenze disgregataci.
3. Il sistema della guerra fredda.
Il 12 marzo 1947 Truman annunciò che gli Usa sarebbero subentrati all'esausta Gran Bretagna nel fornire aiuti alla Grecia e alla Turchia, e motivò tale scelta
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Da alle ati
a ne m ici:
n ascita de lla
«gu e rra fre dda»
Storia contemporanea
La strate gia
am e rican a
in Eu ropa:
aiuti e con om ici
e «con te nim e n to»
Le e le z ioni
de l '48 in Italia
Il blocco
di Be rlino
e la divisione
de lla Ge rm ania
in termini di principio. Nel mondo si confrontavano - egli disse - «due sistemi di
vita alternativi». In Grecia, in Europa e nel Mediterraneo il comunismo andava
fermato: gli Stati Uniti si impegnavano a «sostenere i popoli liberi che intendono
resistere a tentativi di assoggettamento da parte di minoranze armate o di pres­
sioni esterne». Tre mesi dopo venne l'annuncio di un progetto di imponenti aiuti
americani ai paesi dell'Europa occidentale, l'European Recovery Program (Erp),
più comunemente noto come Piano Marshall (cfr. la lezione XVIII). Esso si pre­
figgeva di: 1) fornire i capitali e le materie necessarie ad alimentare la ripresa
delle economie europee; 2) accrescere di conseguenza i livelli di produttività, di
reddito e di occupazione; 3) integrare l'economia tedesca in un'area di scambi
europea; 4) determinare una duratura interdipendenza dei mercati mondiali, in
primo luogo di quelli euro-americani. Si trattava di una strategia del tutto inno­
vativa se paragonata al precedente dopoguerra, quando gli Stati Uniti avevano
scelto di ritrarsi dall'Europa e avevano svolto in modo parziale e insufficiente il
loro compito di grande banchiere mondiale. Gli scopi economici del Piano Mar­
shall si intrecciavano con quelli strategici del contenimento: il consolidamento di
una robusta crescita economica avrebbe stabilizzato le nazioni europee, raffor­
zando il consenso sociale e marginalizzando le opposizioni comuniste, cosi da
contrapporre all'Urss la solidità di un'Europa prospera e fiduciosa sotto la lea­
dership statunitense.
All'Ovest i governi, i maggiori gruppi economici e sindacali e le forze politiche non comuniste (sia conservatrici che democristiane o socialdemocratiche)
accolsero l'iniziativa americana come un utilissimo sostegno finanziario, politi­
co e psicologico alle proprie strategie di espansione economica e di consolida­
mento nazionale. Alla polarizzazione internazionale tra due potenze e due siste­
mi ideologici sempre più apertamente ostili corrispose a partire da quel momento anche una rigida partizione della geografia politica europea e della stessa vita
interna delle società nazionali. Le elezioni italiane dell'aprile 1948, ad esempio,
furono largamente giocate intorno alla scelta dell'adesione al Piano Marshall e
al nascente blocco occidentale. La divisione dell'Europa stava prendendo corpo
e i sovietici erano ora decisamente sulla difensiva: essi denunciarono il Piano
come un tentativo di asservimento dell'Europa al capitale americano, e, nel­
l'impossibilità di frenarlo, tentarono un'ultima carta per impedire almeno che le
aree più ricche della Germania venissero integrate nell'Europa occidentale co­
me nuovo Stato indipendente, e quindi per eliminare il perno del disegno ameri­
cano. Il 24 giugno 1948 i sovietici bloccarono gli accessi alle zone occidentali
di Berlino, aprendo la prima grande crisi della guerra fredda. Truman valutò
che un ritiro da Berlino avrebbe reso vani i piani per la creazione di una repub­
blica tedesca occidentale, indebolendo drammaticamente la strategia economica
e politica del contenimento. Convinto che la preponderante forza americana
avrebbe dissuaso i sovietici dal precipitare uno scontro militare, egli accettò la
sfida e avviò un gigantesco ponte aereo per rifornire Berlino, aggirando il bloc­
co terrestre dei sovietici. Undici mesi dopo l'Urss dovette cedere, togliendo il
blocco. Il 23 maggio 1949 nasceva la Repubblica federale tedesca, che sarebbe
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Guerra fredda e decolonizzazione
divenuta il motore e l'epicentro del grande boom economico dell'Europa occi­
dentale. Come contropartita, il 30 maggio l'Unione Sovietica costituì nella sua
zona la Repubblica democratica tedesca. La divisione della Germania era un
fatto compiuto.
La crisi di Berlino mostrò comunque i pericoli insiti in un antagonismo bi­
polare sempre più acuto. Sia i governi europei che quello americano erano
preoccupati della forza militare sovietica accampata nel centro dell'Europa. E
anche la rinascita della Germania suscitava inquietudine tra i suoi vicini, a co­
minciare dalla Francia. In un continente diviso e incerto, una garanzia americana per la sicurezza dell'Europa occidentale parve l'unica soluzione all'enorme
divario di potenza tra l'Urss e gli altri paesi europei. Il 4 aprile 1949 fu siglato
il Patto Atlantico, che impegnava i firmatari (Usa, Canada, Gran Bretagna,
Francia, Italia e altri paesi europei: Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia,
Danimarca, Islanda e Portogallo) alla difesa reciproca. L'alleanza compattava lo
schieramento occidentale assicurandogli la protezione militare americana, e
completava l'architettura del contenimento installando gli Usa nel ruolo di po­
tenza egemone in un'Europa occidentale politicamente stabilizzata e avviata a
una robusta ripresa economica.
L'Urss, per parte sua, reagì al dispiegarsi del contenimento americano in Oc­
cidente con la brusca trasformazione della sua sfera d'influenza in un vero e pro­
prio blocco di regimi comunisti tra loro sostanzialmente omogenei. Già nel marzo del 1948 un colpo di stato comunista aveva eliminato ogni pluralismo politico
in Cecoslovacchia, dove il partito comunista aveva soltanto una maggioranza re­
lativa dei consensi. Uguale sorte toccò peraltro alla Romania, all'Ungheria, alla
Polonia, dove i comunisti rappresentavano solo delle minoranze. Quasi ovunque
si procedette a unificazioni coatte tra questi e i partiti socialdemocratici. I sovietici potevano contare su alcune favorevoli correnti d'opinione* in ambienti non
comunisti: la paura per un'eventuale ripresa tedesca sostenuta dagli occidentali,
molto forte nei paesi come la Polonia o la Cecoslovacchia che avevano subito gli
orrori dell'occupazione nazista, induceva a guardare all'Urss come a un naturale
protettore attorno all'idea della solidarietà dei popoli slavi, diffusa anche in paesi
come la Bulgaria. Ma l'elemento della coercizione fu assai forte. Anche l'Europa orientale - come l'Urss degli anni trenta - conobbe la stagione delle grandi
purghe fuori dai partiti comunisti e all'interno di essi, delle massicce repressioni
basate su fantasiose accuse di tradimento costruite dai servizi segreti. L'intento
era quello della sovietizzazione dei partiti comunisti da poco collocati al potere, cioè
della loro reciproca omologazione, e della garanzia della loro piena subordi­
nazione agli interessi di Mosca. Si procedette anche a un'integrazione delle eco­
nomie dell'Europa orientale, la quale venne trasformata in un'area economica
chiusa in cui fu avviata una rapida, massiccia industrializzazione. L'unica espe­
rienza comunista a sottrarsi alla rigida obbedienza sovietica fu quella della Jugo­
slavia guidata da Josip Broz, detto Tito, non a caso l'unico paese nell'Europa
orientale a essersi liberato dall'occupazione nazista non per l'intervento dell'Armata rossa ma in forza di una propria vittoriosa guerra partigiana. Tito avviò una
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L'Europa
occide ntale
e la garan z ia
am e ricana
Il blocco
com un ista e la
sovie tiz z az ion e
de ll'Est e urope o
La Ju goslavia
e l'«e re sia»
di Tito
Storia contemporanea
Le due Europe :
e quilibrio
e stabilità
L'Urss
pote n z a n ucle are
e la rivolu z ione
com u nista in cina
La gue rra
di C ore a
efficace opera di mediazione istituzionale tra le varie nazionalità che compone­
vano la nuova Federazione jugoslava, e soprattutto tra le maggiori di esse, la serba e la croata (in passato divise da feroci antagonismi), e si mostrò sempre più
sospettoso nei confronti dell'egemonia sovietica. Seguì una clamorosa rottura
con l'Urss (1948) che portò 1'«eresia» titoista a un'originalissima scelta neutralista nel cuore dell'Europa.
Si trattava dunque di un'eccezione, cui va aggiunta quella dell'Austria e della
Svizzera e, all'altro opposto del continente, della Finlandia e della Svezia. Alle
soglie degli anni cinquanta l'Europa era rigidamente divisa in due aree separate
e ostili, caratterizzate da strutture socio-economiche e sistemi politico-ideologici
alternativi, e legate all'egemonia delle due grandi potenze. La guerra fredda era
questo antagonismo tra due mondi, Est e Ovest, che si scrutavano diffidenti e si
negavano ogni reciproca legittimità, percependo l'avversario come un'inconci­
liabile minaccia per il proprio sistema di valori e, forse, per la propria sopravvi­
venza: era una guerra simbolica totale. Per quanto antagonistica, la divisione
della Germania e del continente aveva però reciso drasticamente i dilemmi geo­
politici lasciati dalla seconda guerra mondiale. Nel sistema delle due Europe
contrapposte, che nessuno avrebbe più davvero provato ad alterare, vi era perciò
un'intrinseca stabilità. Era tuttavia un equilibrio delicato, esposto alle ripercus­
sioni dei mutamenti che scuotevano il resto del mondo e delle modifiche che in­
sorgevano nei rapporti di potenza tra Usa e Urss. Fu quindi un equilibrio che do­
vette essere costantemente aggiornato e adeguato, con nuovi momenti di accre­
sciuta tensione.
Il primo arrivò di lì a poco. Nell'agosto del 1949 l'Urss fece esplodere la sua
prima bomba atomica, e il 1° ottobre i comunisti cinesi guidati da Mao Dzedong
vinsero la lunga guerra civile, instaurando la Repubblica popolare cinese (cfr. la
lezione XVII). Ai dirigenti americani ciò poneva una duplice, complessa sfida.
L'Urss, grazie alla bomba atomica, poteva ora essere meno intimorita dalla pre­
ponderanza militare americana, mentre il comunismo si affermava nel paese più
popoloso del mondo ed estendeva la sua influenza negli immensi spazi del conti­
nente asiatico. In realtà c'era una varietà di motivazioni nazionaliste e anticolo­
nialiste nei comunisti asiatici che difficilmente poteva conciliarsi con gli interessi sovietici; e si ponevano i presupposti di un secondo e maggiore conflitto infracomunista (dopo quello jugoslavo) tra Cina e Urss, per ora potenziale ma desti­
nato ad emergere chiaramente dopo un decennio. Gli Stati Uniti credettero invece al pericolo di un unico movimento comunista di scala planetaria, e sin dal pe­
riodo della guerra civile si contrapposero ai maoisti appoggiando il governo del
Guomindang (il Partito nazionalista cinese), guidato da Chiang Kai-shek, anche
quando questi - perduta la guerra - si ritirò nell'isola di Formosa (o, in cinese,
Taiwan), sempre minacciando di ritornare in armi sul continente con l'appoggio
dei suoi protettori americani. Fu la guerra di Corea a materializzare il pericolo di
un'avanzata comunista sul nuovo grande fronte asiatico della rivalità bipolare.
Il 25 giugno 1950 il governo comunista della Corea del Nord, con il consenso
di Stalin e Mao, attaccò il regime filo-occidentale del Sud contando su di una ra480
Guerra fredda e decolonizzazione
pida vittoria, e le sue truppe avanzarono con facilità. Gli Stati Uniti ritennero che
una vittoria del Nord avrebbe distrutto la loro credibilità quale garante di governi
amici e alleati, incrinando il contenimento in tutto il mondo. Truman ottenne dalle
Nazioni Unite il mandato di respingere l'invasione e inviò subito un corpo di spe­
dizione americano a combattere in Corea. Nel giro di pochi mesi poté poi passare
all'offensiva, e l'esercito americano penetrò nel territorio del Nord con l'ambizio­
ne di «liberarlo» dal comunismo. Ma ciò fece precipitare lo scontro con la Cina,
che rovesciò contro gli americani un gran numero di «volontari» della sua Armata
rossa. Qui si ebbe un clamoroso scontro interno allo stesso establishment statuni­
tense: il comandante delle forze in campo, il generale Mac Arthur, voleva portare
la guerra (aerea e terrestre) direttamente contro la Cina; più moderatamente il pre­
sidente Truman voleva evitare un ulteriore allargamento del conflitto. Alla fine,
nel 1951, il generale fu esonerato. Il fronte intanto ridiscese di nuovo verso il
Sud, e dopo scontri sanguinosi la guerra si stabilizzò: nel 1953 si giunse final­
mente a un armistizio che congelò - ancora fino ad oggi - la precedente divisione
tra le due Coree.
La vicenda coreana ebbe profonde ripercussioni. In primo luogo essa estese
definitivamente il conflitto bipolare al di fuori dell'Europa. Il contenimento di­
venne una strategia anche asiatica, e comportò innanzitutto la ricostruzione acce­
lerata del Giappone come baluardo occidentale. In secondo luogo divenne chiaro
a tutti i protagonisti quanto grande fosse il pericolo di uno scontro diretto tra le
superpotenze: nessuno avrebbe più cercato di valicare i confini delle sfere d'in­
fluenza determinatesi nel 1945. Infine, la rivalità bipolare assunse un aspetto sem­
pre più militarizzato. Gli Stati Uniti avviarono un riarmo massiccio per mantenere
una netta superiorità nucleare sull'Urss e schierare grandi forze convenzionali in
Europa e in Asia. L'Alleanza atlantica formò una sua organizzazione militare in­
tegrata (la Nato, Organizzazione del trattato del Nord Atlantico), si estese al Me­
diterraneo orientale con l'ingresso della Grecia e della Turchia (1951), e nel 1955
inglobò anche la Germania occidentale, che si dotava nuovamente di proprie forze armate. Il blocco sovietico diede vita, a sua volta, a una propria alleanza mili­
tare: il Patto di Varsavia (1955).
Questa militarizzazione della guerra fredda portò entrambe le superpotenze a
sviluppare poderosi apparati militar-industriali che ne condizionarono la vita in­
terna in modi assai diversi ma comunque profondi. La spesa per gli armamenti di­
venne una voce assai cospicua nei loro bilanci e, anche se su scala minore, in
quelli dei loro principali alleati. Soprattutto, tra Usa e Urss si innescò una conti­
nua corsa e rincorsa per la moltiplicazione e l'innovazione tecnologica degli ar­
mamenti. A partire dalla metà degli anni cinquanta la crescita degli arsenali nu­
cleari divenne impetuosa, dando presto vita a un sistema di deterrenza reciproca
sempre più complesso e ambivalente: esso infatti dissuadeva dal ricorso alla guerra diretta proprio perché moltiplicava esponenzialmente gli effetti distruttivi che
questa poteva comportare.
Gli anni del conflitto coreano furono quelli più «caldi» dell'intero arco
della guerra fredda, e non solo per i combattimenti che devastarono la peni481
Riarm o e alle anz e
m ilitari: la Nato
e il Patto
di Varsavia
Antagonismo
ideologico
Storia contemporanea
Il 1956:
la rivolta
polacca
e l'insurrezione
ungherese
sola asiatica. Con il timore che il conflitto potesse generalizzarsi, i due bloc­
chi furono attraversati da un clima di mobilitazione e preparazione alla guer­
ra. L'antagonismo ideologico e simbolico divenne rovente, e la demonizza­
zione dell'avversario raggiunse il suo culmine. L'Urss promosse, con i suoi
alleati e sostenitori, un'ampia campagna contro la volontà di guerra che essa
attribuiva alle ambizioni imperiali del capitalismo americano. E all'interno
del suo blocco esasperò il terrore repressivo contro ogni forma di vero o pre­
sunto dissenso. L'Occidente viceversa si autorappresentò come impegnato in
una lotta mortale per la sopravvivenza della democrazia contro le mire del
totalitarismo comunista, al quale si attribuiva - in una distorta ma suggestiva
analogia - lo stesso intreccio tra struttura dittatoriale e vocazione aggressiva
della Germania nazista. Negli Stati Uniti, in particolare, la mobilitazione
ideologica conobbe la sua stagione più rabbiosa e oscura con le inquisizioni
anticomuniste promosse dal senatore Joseph McCarthy (da qui il termine
maccartismo), che comportarono una circoscritta ma sostanziale limitazione
delle libertà politiche e civili per chi non aderisse al patriottismo della cro­
ciata anticomunista.
Dopo la fine dei combattimenti in Corea, tuttavia, con lo stabilizzarsi di un
bipolarismo militarizzato in Europa e il subentrare di una certa consuetudine a
una rivalità ormai quasi decennale, la tensione venne gradualmente scemando.
Nella seconda metà degli anni cinquanta la guerra fredda non era più l'emer­
genza dovuta al disvelarsi di un pericoloso antagonismo, l'insorgere di una serie di crisi, la costruzione di sistemi di potenza inediti e dalle ripercussioni im­
prevedibili. Divenne anzi gradualmente un dato di fatto, un intreccio ormai ab­
bastanza rodato di relazioni ostili ma anche regolate da tacite norme reciproca­
mente accettate. Insomma un sistema duraturo e stabilizzato che andò incon­
tro, almeno per ciò che riguardava l'Europa, a un'evidente normalizzazione,
per quanto nel campo sovietico persistessero conati di rivolta all'esterno dei
regimi comunisti e tentativi di riforma dall'interno di essi: un intreccio che si
verificò nella Polonia e nell'Ungheria del 1956. Nel caso più clamoroso, quel­
lo ungherese, fu l'esercito sovietico a intervenire direttamente per schiacciare
la ribellione, riportare l'ordine precedente, arrestare il leader comunista rifor­
matore Imre Nagy che sarebbe poi stato impiccato. In Occidente grandi furono
le proteste, mentre i fatti mettevano radicalmente in discussione anche presso
l'opinione di sinistra l'idea di un'Urss liberatrice dei popoli, che si era affer­
mata nel corso della seconda guerra mondiale. In pratica però nessuna reazio­
ne si ebbe dalle potenze occidentali, perché le sfere d'influenza erano ricono­
sciute, la divisione del continente accettata, e nessuno pensava di contestarne
la sostanziale intangibilità.
Fuori dall'Europa tutto era invece in movimento, ed era sugli altri continenti l'Asia in particolare - che si andava concentrando l'attenzione delle superpotenze. Sullo scenario mondiale irrompevano infatti grandi trasformazioni che apri­
vano un nuovo fronte, assai mutevole e composito, per il loro sedimentato anta­
gonismo.
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Guerra fredda e decolonizzazione
4. La decolonizzazione.
In una carta dei primi anni sessanta la geografia politica del mondo appariva
irriconoscibilmente mutata rispetto a quella del 1945. Allora le nazioni sovrane
rappresentate all'Onu erano state 51, e tra queste solo 9 asiatiche e appena 3 afri­
cane: gran parte dell'Asia meridionale, varie zone del Medio Oriente e quasi tutta
l'Africa erano ancora sotto il dominio dei grandi imperi coloniali della Gran Bretagna e della Francia, o di quelli minori di Olanda, Belgio e Portogallo (cfr. la le­
zione X). Ma nel 1965 solo quest'ultimo resisteva ancora, quelli belga e olandese
erano scomparsi e degli imperi francese e britannico rimanevano solo alcune mi­
nuscole, simboliche vestigia come Hong Kong, restituita poi alla Cina nel luglio
1997. Dal loro sgretolarsi erano emerse grandi e piccole nazioni indipendenti: gli
Stati sovrani membri dell'Onu erano già divenuti 120, e di questi ben 70 in rap­
presentanza di nazioni asiatiche o africane.
In meno di due decenni, il mondo non industrializzato era cioè emerso sulla
scena mondiale come inedito protagonista, e sotto diversi profili. Un crollo dei
tassi di mortalità - dovuto alle migliori condizioni economiche, igieniche e sani­
tarie - aveva innanzitutto innescato un imponente boom demografico* che au­
mentava il peso relativo delle popolazioni dell'Asia, dell'America Latina e del­
l'Africa. In diversi casi, queste aree conoscevano processi di industrializzazione e
urbanizzazione che le allontanavano dalla tradizionale economia rurale. Soprat­
tutto, si trattava di paesi che emergevano come attori politici indipendenti, in se­
guito alla decolonizzazione, nel sistema mondiale. In Asia la crisi degli imperi co­
loniali si era manifestata con chiarezza già nel corso della seconda guerra mon­
diale, quando la cacciata di tutti gli europei dal Sud-est asiatico, ad opera del
Giappone, aveva evidenziato la vulnerabilità del colonialismo europeo. I principi
di libertà e autodeterminazione democratica esaltati dalla coalizione bellica delle
Nazioni Unite, inoltre, ne avevano grandemente diminuito il precedente alone di
legittimità. Soprattutto, le forze nazionaliste e indipendentiste uscivano rafforzate
vuoi dalla resistenza ai giapponesi, come in Malesia o in Indocina, vuoi dall'irro­
bustirsi di borghesie commerciali in quelle aree, come l'India o il Medio Oriente,
dove le esigenze di mobilitazione bellica dell'impero britannico avevano stimolato la crescita della produzione e dell'attività commerciale locale.
Al termine del conflitto mondiale, le rivendicazioni d'indipendenza si trasfor­
mavano in pressante azione politica proprio mentre le potenze imperiali dovevano
ridefinire il proprio futuro in un contesto di drastico ridimensionamento delle loro
risorse finanziarie, militari e politiche. Già nel 1946 divenivano indipendenti la
Siria e il Libano francesi, mentre in Indocina il dominio di Parigi veniva sfidato
da una guerra d'indipendenza che sarebbe poi giunta alla vittoria nel 1954. Tra il
1945 e il 1949 fallivano i tentativi olandesi di resistere all'indipendenza dell'In­
donesia. E nel 1947 la decolonizzazione conosceva la sua più cospicua e emble­
matica vittoria sull'impero britannico, quando il movimento nazionale guidato da
Gandhi sfociava nell'indipendenza dell'India e del Pakistan, cui seguirono quella
di Ceylon e della Birmania nel 1948. Nel 1950 - con la sola eccezione dell'Indo483
Un n uovo
protagonista:
il m ondo non
in dustrializ z ato
Gli an ni quaranta
e la de fin itiva
de coloniz z az ion e
de l con tine n te
asiatico
Storia contemporanea
La que stione
pale stin e se :
ritiro in gle se
e nascita
de llo Stato
di Israe le
La logica bipolare
conqu ista
il Me dio O rie nte
cina francese ancora in guerra - l'Asia intera era ormai libera dal dominio colo­
niale europeo, e due grandi nazioni, la Cina comunista e la democrazia indiana, si
affacciavano come nuovi, importanti protagonisti sulla scena internazionale.
Negli anni cinquanta lo scenario principale del processo di decolonizzazione
si spostava nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Qui, il variegato ma vigoroso
nazionalismo delle popolazioni musulmane, dall'Iran al Marocco, si scontrava
con le residue, e ultime, resistenze franco-britanniche. Ma la rilevanza strategica
ed economica di questa zona ricca di petrolio, e cosi vicina all'epicentro della ri­
valità bipolare, attivava anche una complessa interazione con il crescente attivi­
smo delle due superpotenze. In Palestina gli inglesi, che detenevano il potere in
forza di un «mandato» della Società delle Nazioni, avevano grande difficoltà a
controllare il conflitto tra popolazioni arabe autoctone ed ebrei stabilitisi in quelle
terre secondo i dettami del nazionalismo ebraico (o sionismo) per il quale gli
ebrei di tutto il mondo dovevano rientrare nella «terra promessa», la Palestina ap­
punto; tra essi, numerosi i sopravvissuti dell'orrendo genocidio* nazista, che ave­
vano una ragione di più per cercare una nuova patria. Allorché l'Onu decretò la
spartizione della Palestina in due entità statuali separate (ebraica e araba), i britan­
nici si ritirarono e gli ebrei - dopo aver proclamato lo Stato di Israele - riuscirono
a battere sul campo un'eterogenea coalizione araba, ottenendo cosi una sistema­
zione territoriale assai più favorevole di quella prevista dall'Onu (1948-49). Que­
sta soluzione, con la conseguente espulsione di quasi un milione di arabi palesti­
nesi autoctoni, fu sentita come una grande ingiustizia dal risorgente nazionalismo
arabo - che si sarebbe affermato nel 1953 in Egitto, con la proclamazione della
repubblica ad opera dei militari capeggiati da Gamal Abdel Nasser - e lo radicalizzò in senso antioccidentale, sovrapponendo un conflitto regionale quasi insolu­
bile a quello globale tra le superpotenze.
Se l'Urss cercava, con parziale successo, di diventare un interlocutore privile­
giato del nazionalismo arabo, gli Stati Uniti erano invece mossi da impulsi contraddittori. Culturalmente propensi a sostenere l'emancipazione dal retaggio colo­
niale e le ambizioni di modernizzazione* dei nuovi regimi, essi tuttavia ne teme­
vano il radicalismo, che poteva danneggiare gli interessi economici occidentali e
offrire nuovi spazi all'antagonista sovietico. In Iran, ad esempio, la nazionalizza­
zione dell'industria petrolifera decisa nel 1952 dal governo riformatore di Mossadeq suscitava l'ostilità non solo dei suoi proprietari britannici, ma anche degli
americani che, temendo un neutralismo suscettibile di offrire spazi all'Urss, face­
vano intervenire i servizi segreti (la Cia) per riportare il controllo del paese, e del
petrolio, nelle mani della monarchia filo-occidentale dello scià Muhammad Reza
Pahlavi. Ancor più intricata la situazione del mondo arabo. Nel 1956, quando
Londra e Parigi, d'intesa con Israele, risposero con l'intervento militare alla deci­
sione di Nasser di nazionalizzare il canale di Suez, gli Stati Uniti condannarono i
propri alleati europei, facendone fallire l'impresa tardo-coloniale. Ma da allora in
poi essi assunsero un ruolo di guardiani della stabilità in un Medio Oriente sem­
pre più visto attraverso le lenti della rivalità bipolare. Insieme a Israele, le monarchie tradizionaliste (Giordania e Arabia Saudita) divenivano il pilastro della pre484
Guerra fredda e decolonizzazione
senza occidentale, mentre i regimi radicali di Siria, Egitto ed Iraq si appoggiava­
no vieppiù all'Urss per un sostegno tecnico e militare.
La spedizione di Suez segnava comunque la fine del colonialismo europeo e
del ruolo imperiale di Francia e Gran Bretagna, da allora definitivamente ridotte
alla funzione di medie potenze nella sola area europea. L'adattamento era però
tutt'altro che indolore, in particolare per la Francia. Suez giungeva a ridosso della
sconfitta militare subita nel 1954 a Dien Bien Phu, che la estrometteva dall'Indo­
cina, e intorno ai dilemmi della decolonizzazione la repubblica francese conosce­
va una profonda crisi. Parigi riusciva a negoziare una transizione relativamente
indolore delle sue colonie africane, che negli anni sessanta divenivano Stati so­
vrani connessi alla metropoli in un'area economica e culturale francofona. Nel
1956 anche il Marocco e la Tunisia erano divenuti indipendenti. Ma nel principa­
le possedimento coloniale, l'Algeria, l'intransigenza dei numerosi coloni europei
e dell'esercito francese diedero vita a una sanguinosa guerra di repressione del
movimento di liberazione nazionale.
La durezza della guerra di Algeria merita una riflessione a parte: conquistata
nel 1830 da Carlo X (cfr. la lezione II), l'Algeria aveva successivamente accolto
anche numerosi profughi dell'Alsazia e Lorena, le due regioni di confine strappate alla Francia dalla Prussia con la guerra del 1870 (cfr. le lezioni V e VI). L'Alge­
ria rappresentava dunque molto di più di una colonia: per il milione di coloni,
molti dei quali vi avevano impiantato importanti attività economiche, era una pro­
vincia francese, un pezzo di «madrepatria», e per loro l'emancipazione degli otto
milioni di algerini era inaccettabile. La «battaglia di Algeri» (1957) rappresentò
lo scontro culminante del conflitto: la resistenza degli algerini fu piegata solo do­
po nove mesi, con l'impiego di forze speciali che ricorsero ai metodi più brutali
per sedare la rivolta.
Dal 1954 al 1962, anno dell'indipendenza, l'Algeria fu cosi teatro dell'ultimo,
cruento conflitto della decolonizzazione: esso assurse a emblema di un processo
mondiale ormai trionfante. Nei primi anni sessanta, infatti, anche quasi tutta l'A­
frica sub-sahariana giungeva all'indipendenza. Oltre a quelle francesi, anche le
colonie britanniche divennero Stati sovrani con una transizione relativamente pa­
cifica. Spesso rimasero all'interno del sistema del Commonwealth, anche se con
maggiori aperture, rispetto agli Stati francofoni, ai mercati mondiali e ai capitali
americani. Le eccezioni furono il Kenya, la cui indipendenza (1963) venne dopo
la sanguinosa repressione britannica della rivolta contadina dei Mau-Mau (195256), e la Rhodesia del Sud, dove i coloni bianchi si separarono da Londra nel
1964 per instaurare un sistema di apartheid razziale (simile a quello sudafricano)
che si sarebbe protratto fino al 1979. Convulsa e violenta fu invece la fine del­
l'impero belga: la nascita della nuova Repubblica del Congo (1959) fu infatti ac­
compagnata da conflitti interni nei quali agirono i rimanenti interessi europei, ma
anche le rivalità globali tra le due superpotenze. A metà degli anni sessanta del
mondo coloniale restavano i soli possedimenti portoghesi in Africa (Angola, Mo­
zambico e Guinea Bissau), dove comunque operavano forti movimenti di guerri­
glia che avrebbero conquistato l'indipendenza dieci anni più tardi.
485
Fine
de l colonialism o
ingle se e fran ce se
La gue rra
di libe raz ione
alge rin a
L'Africa
sub-sahariana: un a
de coloniz z az ion e
convulsa
Storia contemporanea
5. Il Terzo Mondo.
Ne h ru , Su karno
e Nasse r:
n ascita de l
«te rz om on dism o»
Il m ovim e n to
de i pae si
«non allin e ati»
L'arrivo di nuovi attori indipendenti - dalla Cina all'Egitto, dall'Indonesia al­
l'India - in un sistema internazionale che fino a vent'anni prima era stato plasmato e dominato dagli imperi europei, e che era adesso definito dall'antagonismo tra
Est e Ovest, innescava ovviamente dinamiche inedite. I protagonisti delle rivoluzioni anticoloniali volevano in primo luogo affermare la propria legittimità e
combattere la cultura - ancora preminente negli organismi internazionali - della
tutela delle nazioni più «avanzate», ovvero più ricche, sulle popolazioni «meno
progredite». Nella gran parte dei casi, essi intendevano inoltre costruire la propria
autonomia dai due grandi blocchi politico-militari e sottrarsi al rischio di venire
coinvolti in una guerra. Riunitisi a Bandung, in Indonesia, nell'aprile 1955, i go­
verni di 29 paesi asiatici e africani condannarono ogni forma di oppressione colo­
niale e contrapposero alla rivalità bipolare il principio di una cooperazione pacifica tra i popoli (cfr. la lezione XXI). Ispirati soprattutto dal leader indiano Jawaharlal Nehru, dall'indonesiano Akmed Sukarno e da Nasser questi paesi delinearono
quindi uno schieramento, ancorché molto diversificato e informale, di nazioni ac­
comunate dalla necessità di tradurre la propria recente indipendenza in effettiva
autonomia e, soprattutto, capacità di sviluppo economico.
Sorgeva cosi l'immagine di un Terzo Mondo che riusciva a far sentire la sua
voce quanto più avanzava la decolonizzazione. Nel 1960 l'Onu condannava uffi­
cialmente il colonialismo e negli anni seguenti, con il consolidarsi di una mag­
gioranza numerica di nazioni del Terzo Mondo, essa divenne un ambito vieppiù
importante di discussione dei problemi del sottosviluppo e della disparità di ri­
sorse tra Nord e Sud del mondo. La carenza di risorse finanziarie, produttive,
tecnologiche ed educative era infatti il problema centrale che guidava l'azione di
quei paesi. Ma essa erigeva anche un limite essenziale alla loro influenza e alla
loro autonomia.
I paesi del Terzo Mondo potevano infatti dichiararsi estranei ai blocchi: taluni,
come l'India, riuscirono ad attuare un'effettiva equidistanza. A partire dalla con­
ferenza di Belgrado del 1961 lo schieramento sorto a Bandung (cui si era aggiunta la Jugoslavia di Tito) si presentò come un vero e proprio movimento di paesi
«non allineati», che alla logica della rivalità tra Est ed Ovest opponevano l'auspicio di una collaborazione pacifica tra Nord e Sud per lo sviluppo economico e so­
ciale. Ma molti di essi, come il Pakistan filo-occidentale, si posizionavano co­
munque nell'orbita economica e militare di una delle superpotenze. Altri, come la
Cina comunista (che pure negli anni sessanta si allontanava decisamente da Mo­
sca) vedevano il non-allineamento come uno strumento per contrastare l'Occi­
dente e gli Stati Uniti. Soprattutto, ogni paese doveva contemperare il desiderio di
autonomia con il bisogno di accedere ai mercati, ai capitali, alle tecnologie e, in
molti casi, agli armamenti che solo le potenze industrializzate potevano fornire.
La denuncia della dipendenza economica* che era subentrata al dominio coloniale del recente passato connotò perciò negli anni sessanta la cultura dei movimenti
e dei governi più radicali del Terzo Mondo. Ma raramente essa riusci ad alterare
486
Guerra fredda e decolonizzazione
la realtà del divario di risorse e della conseguente subordinazione ai meccanismi
dei mercati internazionali o a quelli degli aiuti, ovviamente condizionati, che po­
tevano provenire dalle superpotenze.
Negli anni sessanta diversi governi del Terzo Mondo perseguirono delle strate­
gie per uno sviluppo pianificato del proprio potenziale agricolo e la costruzione di
un apparato industriale capace di sostituire le importazioni dai paesi più ricchi.
Essi tentarono di negoziare collettivamente sia crediti e aiuti internazionali a bas­
so costo, sia un accesso più libero ai mercati avanzati, ma ottennero assai meno di
quanto avessero bisogno. Solo i produttori di una risorsa strategica come il petro­
lio riuscirono, nei primi anni settanta, a riunirsi in un organismo (l'Opec) capace
di alzarne sensibilmente il prezzo, garantendosi cosi un forte afflusso di capitali.
Tra gli esperimenti di industrializzazione e modernizzazione ebbero ben maggioree efficacia quelli, realizzati in particolare da alcuni paesi asiatici legati all'Occi­
dente, come la Corea del Sud o Taiwan, che miravano non tanto a sostituire le im­
portazioni quanto a bilanciarle con forti esportazioni industriali sui mercati più
ricchi. In entrambi i casi la fuoriuscita dal sottosviluppo, avviatasi negli anni set­
tanta, sarebbe avvenuta non tanto grazie all'autonomia economica quanto a un'in­
terdipendenza via via più stretta con i capitali e i mercati del ricco Occidente. Nel
corso degli anni sessanta, ad ogni modo, la sfida posta dall'emergere del Terzo
Mondo condizionò e trasformò la rivalità tra le due superpotenze, che intraprese­
ro una vera e propria gara - incentrata sui diversi percorsi di sviluppo che l'una e
l'altra potevano offrire - per ancorare alla propria orbita strategica ed economica
le nuove nazioni indipendenti. L'irrompere della decolonizzazione parve inizial­
mente aprire un terreno più favorevole all'Urss: fin dai tempi di Lenin la sua
ideologia rivoluzionaria predicava l'autodeterminazione anticoloniale; il suo mo­
dello di economia pianificata* sembrava allora potesse ottenere notevoli successi.
L'affacciarsi prepotente dei sovietici nel campo tecnologico con la realizzazione
della prima navicella spaziale (lo Sputnik, nel 1957) e con il lancio del primo uo­
mo nello spazio nel 1961 (Jurij Gagarin), parve un fatto simbolico del riequilibrio
tra Occidente e Oriente. Più concretamente, le forniture sovietiche di armamenti
potevano risultare essenziali per i regimi antioccidentali, come quelli nazionalisti
arabi di Siria ed Egitto, o come quello rivoluzionario guidato da Fidel Castro che
si impose a Cuba, nel 1959, contro una corrotta dittatura militare sostenuta dagli
americani.
Gli Stati Uniti, d'altro canto, apparivano spesso alle nuove nazioni, in partico­
lare quelle sorte attraverso una rivoluzione, come gli eredi della tradizione impe­
riale europea, e non solo per affinità culturale. Sostituitisi agli europei come po­
tenza egemone, garanti della stabilità dei mercati mondiali, e guidati dalla priorità
del contenimento antisovietico, essi osteggiavano i movimenti indipendentisti
quando questi comprendevano rilevanti componenti comuniste o comunque mi­
nacciavano, per il loro radicalismo socio-economico, gli interessi finanziari e
commerciali dell'Occidente. Tra il 1949 e il 1954, ad esempio, Washington aveva
sostenuto la guerra francese in Indocina, e si rifiutò poi di riconoscere il movi­
mento vittorioso del Viet-minh, a guida comunista, e di accettare l'accordo inter487
Un n uovo te rre n o
di con te sa tra
le su pe rpote n z e
L'orbita sovie tica
L'am bito
de ll'e ge m on ia
am e ricana
Storia contemporanea
nazionale di Ginevra che prevedeva la riunificazione del Vietnam attraverso libe­
re elezioni, preferendo invece appoggiare il regime anticomunista insediatosi nel
Vietnam del Sud. L'indiscussa egemonia statunitense sull'America centrale e lati­
na, inoltre, pareva sintomatica della dipendenza neo-coloniale dei paesi meno svi­
luppati dal sistema capitalistico delle imprese multinazionali. L'ostilità di Wa­
shington alla rivoluzione cubana, in particolare, cristallizzò per tutti gli anni ses­
santa l'immagine antagonistica di un ordine imperiale statunitense contrapposto
all'aspirazione terzomondista a uno sviluppo indipendente.
L'ascesa di un Terzo Mondo composito, diversificato e anche sostanzialmente
diviso al suo interno, ma che tentava di costituire un'alternativa di non allinea­
mento e di sviluppo autonomo, apriva cosi nuovi terreni alla rivalità bipolare e
schiudeva una nuova dimensione per una guerra fredda in cui insorgevano, intan­
to, anche significative mutazioni strategiche e culturali.
6. Rivalità globale e distensione.
Il «m uro»
di Be rlin o
e la re pre ssion e
de lla «prim ave ra
di Praga»
C hru ščë v
e la «coe siste n z a
pacifica»
Nel 1961 Berlino fu teatro dell'ultima crisi europea della guerra fredda. Dopo
un minaccioso confronto tra i due blocchi, la costruzione del «muro di Berlino»
sigillò ermeticamente l'area di influenza sovietica, ma chiarì anche che l'esisten­
za di due Germanie e due Europe era ormai riconosciuta da tutti. Dieci anni dopo
i due governi tedeschi si sarebbero legittimati reciprocamente, e nel 1975 i due
blocchi avrebbero siglato gli accordi di Helsinki, che sanzionavano gli assetti eu­
ropei sedimentatisi nel trentennio precedente. Era il culmine di un processo di di­
stensione* tra Est ed Ovest che si era lentamente evoluto per oltre un decennio:
da epicentro della guerra fredda l'Europa si era tramutata in area di coesistenza
(armata, ma pacifica e stabile) tra i due blocchi. Se le forze della Nato e del Patto
di Varsavia si fronteggiavano sempre in minacciosa allerta, a cavallo della «corti­
na di ferro» erano iniziati contatti e limitati scambi commerciali. All'apice di un
eccezionale boom economico, i governi occidentali erano saldi e fiduciosi. All'Est
il controllo sovietico era rigoroso. Sembrò per un attimo incrinare questo stato di
cose la «primavera di Praga», esperimento anticonformista e riformatore guidato
nel 1968 dal segretario del partito comunista cecoslovacco Aleksander Dubcek.
Ma l'aggressione delle truppe del Patto di Varsavia portò alla drammatica ever­
sione dei governo di quel paese e a un ritorno alla situazione precedente, nono­
stante le poco convinte proteste occidentali. Anche la raffigurazione pubblica del­
l'antagonismo era profondamente mutata. Al posto della terrorizzante propaganda
sulla calata dei cosacchi in San Pietro vi erano adesso le fantasmagoriche avven­
ture di James Bond, che trasponevano in innocuo spettacolo l'unico aspetto anco­
ra bellicoso che sopravviveva della guerra fredda europea, la battaglia clandestina
tra gli apparati di spionaggio.
La rivalità tra le due superpotenze non era affatto scomparsa, si era però diver­
sificata, trasferendo le sue più aspre frizioni in aree extraeuropee, e si era simultaneamente concentrata in una massiccia corsa agli armamenti nucleari che la di488
Guerra fredda e decolonizzazione
stensione cercò di regolamentare e, magari, di rallentare. Lo scenario strategico
aveva iniziato a mutare dalla fine degli anni cinquanta, quando la costruzione dei
primi missili intercontinentali, insieme alla continua moltiplicazione delle testate
nucleari disponibili, aveva delineato la possibilità della distruzione rapida e mas­
siccia del territorio delle due superpotenze. L'Urss aveva ormai abbandonato la
dottrina della «guerra inevitabile» tra capitalismo e comunismo, e il suo leader
Nikita Chruščëv invocava una «coesistenza pacifica» che evitasse il pericolo di
guerra; ma che al tempo stesso prospettava una nuova, più estesa sfida sul piano
dei sistemi socio-economici. Nell'offrire il modello sovietico dello sviluppo pia­
nificato ai paesi emergenti del Terzo Mondo, e nel vantare i successi industriali e
tecnologici dell'Urss, Chruščëv prometteva di superare e «seppellire» il capitali­
smo nell'arco di vent'anni. La Cina comunista stava inoltre entrando in competi­
zione con Mosca per proporsi come guida di una rivoluzione radicalmente antica­
pitalistica nel Terzo Mondo.
La convinzione di essere di fronte a una sfida di portata mondiale, incentrata
sui problemi dello sviluppo e delle risposte che ad essi venivano date, era vivissima nella presidenza di John Kennedy (1960-63), che additava l'obiettivo di una
«nuova frontiera» di crescita a cui l'America doveva guidare l'intera economia
mondiale per ancorare le nuove nazioni asiatiche e africane all'Occidente. Il con­
tenimento diveniva cosi compiutamente globale: lo si perseguiva con nuovi pro­
grammi di aiuti per lo sviluppo (come l'«Alleanza per il progresso», rivolta all'A­
merica Latina, e i «Corpi della pace» che inviavano giovani tecnici nel Terzo
Mondo); con l'impegno militare a sconfiggere la guerriglia rivoluzionaria; e, infi­
ne, con un massiccio ampliamento e ammodernamento dell'apparato nucleare in­
teso a perpetuare la superiorità americana sull'Urss.
In questo contesto giunse la crisi dei missili a Cuba, nell'ottobre del 1962.
Ostili fin dall'inizio alla rivoluzione cubana (che ritenevano emblematica di un
indipendentismo anticapitalista passibile di estendersi ad altri paesi latino-ameri­
cani) gli Stati Uniti avevano tentato di isolarla e poi di rovesciarla organizzando
un fallito sbarco di esuli anticastristi alla Baia dei Porci, nel 1961. Castro si era le­
gato sempre più all'Urss, da cui otteneva forniture commerciali e garanzie difen­
sive. Nell'estate del 1962 i sovietici iniziarono a installare nell'isola anche missili
capaci di bombardare gli Stati Uniti con ordigni atomici. La crisi scoppiò quando
Kennedy intimò all'Urss di ritirare quei missili, impose un blocco navale intorno
all'isola e allertò le forze americane per un'invasione di Cuba che avrebbe potuto
scatenare lo scontro tra le superpotenze. Dopo giorni di grandi tensione, in cui il
mondo davvero temette di precipitare in una guerra nucleare, Chruščëv accettò di
smantellare i missili in cambio dell'impegno americano a non invadere Cuba e a
ritirare alcuni missili della Nato dall'Italia e dalla Turchia.
La risoluzione della crisi parve premiare la fermezza americana, resa credibile
da una superiorità strategica ancora cospicua, e convinse l'Urss ad avviare un
programma decennale di riarmo per giungere a un'effettiva parità. Ma fu evidente
che lo sviluppo degli arsenali nucleari svuotava di ogni razionalità strategica l'i­
potesi di una guerra: ognuna delle superpotenze poteva infatti devastare il territo489
Ke n ne dy
e la «n uova
frontie ra»
La crisi
di C u ba: n ascita
de lla «de te rre n z a»
Storia contemporanea
Il m ode llo
am e ricano:
m ode rniz z az ion e e
de m ocratiz z az ione
La gu e rra
de l Vie tn am
e lo scacco
am e rican o
rio avversario anche dopo aver subito un attacco nucleare di sorpresa. Prendeva
cosi forma una deterrenza basata sulla capacità di «distruzione reciproca assicura­
ta». Dal 1963 Washington e Mosca iniziarono a negoziare norme di controllo sul­
le armi nucleari volte a stabilizzare questo precario «equilibrio del terrore».
I rapporti tra le due superpotenze perdevano l'asprezza del decennio preceden­
te e iniziavano a contemplare anche il riconoscimento di alcuni essenziali interes­
si reciproci: il dialogo diplomatico avviava la ricerca di un modus vivendi che sa­
rebbe sfociato nella distensione dei primi anni settanta. Ciò non escludeva, co­
munque, una persistente rivalità, in particolare per l'influenza nelle aree del Terzo
Mondo in rapida trasformazione. Negli anni di Kennedy e poi di Lyndon Johnson
(1963-68) gli Stati Uniti elaboravano una vera e propria teoria dello sviluppo che
postulava, per ogni paese, un'evoluzione non solo economica - attraverso l'indu­
strializzazione e il rapporto con i mercati mondiali - ma anche politica, sociale e
culturale verso una struttura democratica di tipo occidentale. Questo percorso di
modernizzazione avrebbe dovuto condurre le nuove nazioni indipendenti a inte­
grarsi positivamente nella continua espansione del capitalismo su scala mondiale,
dando cosi forza e fondamento a un contenimento globale che pareva tanto più
impellente quanto più le rivoluzioni indipendentiste sembravano aprire spazi di
influenza per i rivali sovietici e cinesi.
Ma per affermare questo disegno di nation building e di modernizzazione oc­
cidentale bisognava contrastare, ed eliminare, le componenti radicali, se non di­
rettamente comuniste, che potevano guidare le nuove nazioni e i movimenti di li­
berazione verso sbocchi ben diversi. In taluni paesi ciò fu fatto da regimi naziona­
li, spesso dominati dai militari: in Indonesia, nel 1965, il generale Suharto ster­
minò un forte movimento comunista; in Brasile e in altri paesi dell'America Lati­
na le tensioni della modernizzazione furono governate autoritariamente da regimi
militari. Vi erano situazioni, però, in cui solo l'intervento americano pareva capa­
ce di garantire la sopravvivenza di regimi filo-occidentali deboli e scarsamente
radicati nella società nazionale. Fu questo intreccio di fiducia in una modernizza­
zione anche guidata dall'esterno e di ansia per le sorti del contenimento globale a
condurre gli Stati Uniti alla lunga guerra in Vietnam.
L'inefficace e impopolare governo del Vietnam del Sud era sfidato, nei primi
anni sessanta, da molte opposizioni e da un forte movimento di guerriglia (Viet­
cong) sostenuto dal governo comunista del Nord Vietnam. Kennedy e Johnson vi­
dero il conflitto come un test della «credibilità» internazionale della potenza ame­
ricana. Interpretarono l'aspirazione alla riunificazione di un Vietnam indipenden­
te non come un moto nazionalistico ma come un disegno d'espansione del comu­
nismo, diretto da Cina e Urss, che avrebbe potuto poi estendersi a tutto il Sud-est
asiatico. Essi impegnarono quindi gli Usa a difesa del regime del Sud. A partire
dal 1964-65, quando iniziarono i bombardamenti del Nord Vietnam e l'uso mas­
siccio di truppe statunitensi nel Sud, il conflitto divenne una devastante guerra su
larga scala in cui l'America arrivò a schierare oltre mezzo milione di soldati.
L'imponente presenza americana non riusciva però a consolidare (e tanto me­
no a «modernizzare») uno stato sudvietnamita privo di solide basi autonome, né a
490
Guerra fredda e decolonizzazione
sconfiggere militarmente una guerriglia di vaste proporzioni. Invece di venir riaf­
fermata, la credibilità americana si logorava in un conflitto prolungato che persino gli alleati europei ritenevano inutile. In America, il costo umano e finanziario
di una guerra che pareva negare il suo stesso scopo (per «salvare» il paese dal co­
munismo se ne distruggeva il territorio, il tessuto sociale e parte della popolazio­
ne) suscitava un'opposizione crescente. All'inizio del 1968 - in occasione del capodanno cinese, il Tet - la guerriglia e i nordvietnamiti lanciarono un'offensiva
generale che ridicolizzò l'ostentato ottimismo dei generali americani, e il consen­
so interno alla guerra di Johnson evaporò. Il suo successore Richard Nixon
(1969-74) prese atto dell'impossibilità politica di perseguire la vittoria e adottò
una strategia di «vietnamizzazione» del conflitto, volta a districare gli Usa dalla
guerra ma a garantire la sopravvivenza del regime anticomunista del Sud. Dopo
massicci bombardamenti (estesi anche alla Cambogia e al Laos) e difficili nego­
ziati con Hanoi, nel 1973 gli Stati Uniti ritirarono le proprie truppe. La debolezza
del Vietnam del Sud non poteva però venire ovviata neppure dagli aiuti economi­
ci e militari di Washington, e nel 1975 l'esercito di Hanoi dilagò nel Sud, riunifi­
cando il paese sotto il governo comunista del Nord.
Nei primi anni settanta gli Stati Uniti mostravano parecchi segni di una dimi­
nuita capacità di egemonia mondiale: la sconfitta vietnamita; la lacerante crisi in­
terna ad essa collegata; il discredito che circondava la potenza americana; la sva­
lutazione del dollaro (1971-73) dovuta anche alle spese belliche, e la ridefinizione
di un sistema economico mondiale in cui Europa e Giappone erano ormai forti
concorrenti; l'emergere di un cartello di produttori (l'Opec) che rialzava il prezzo
del petrolio. L'Urss, dal canto suo, incoraggiata dalla debolezza americana, stava
ormai raggiungendo la parità strategica in campo nucleare, vedeva finalmente le­
gittimata la divisione dell'Europa e si arricchiva di valuta con il rialzo dei prezzi
petroliferi. Ma anche la sua potenza sperimentava limiti consistenti. Il suo model­
lo economico incentrato sull'industria pesante si mostrava scarsamente capace di
innovazione. Il dissidio con la Cina (ora dotata di armi nucleari) era divenuto
aperta ostilità, con scontri di frontiera nel 1969; e il dialogo avviato tra Pechino e
Washington nel 1972 esponeva il Cremlino al rischio di un pericoloso accerchia­
mento. Al di fuori dei suoi confini tradizionali, poi, l'influenza sovietica si rivela­
va assai flebile: le sconfitte dei suoi principali interlocutori arabi, Siria ed Egitto,
durante le guerre con Israele nel 1967 e nel 1973 la estromettevano da un Medio
Oriente dove gli Usa continuavano a essere arbitri della scena diplomatica.
Per entrambe le superpotenze, l'urgenza di stabilizzare il sistema della reci­
proca deterrenza nucleare si intrecciava perciò con le crescenti difficoltà di un
bipolarismo sempre più eroso da mutamenti storici che ne riducevano la cen­
tralità, moltiplicando il numero e il peso di altri attori internazionali. Persegui­
re una effettiva distensione poteva quindi facilitare, in modi diversi ma specu­
lari sia per Washington che per Mosca, la ricerca di nuove soluzioni che rinsal­
dassero in chiave aggiornata il loro potere internazionale. Sulla base di questa
parziale convergenza di interessi le due superpotenze inaugurarono, con il ver­
tice di Mosca tra Nixon e Brežnev (1972), una breve stagione di collaborazio491
Due giganti
inde boliti
Gli accordi
pe r il disarm o
bilate rale
e con trollato
Storia contemporanea
ne che non eliminava la rivalità, ma tentava di contenerla, incanalandola in una
definizione della stabilità mondiale d'interesse comune. Gli accordi SALT e ABM
sugli armamenti strategici sanzionavano una sostanziale parità ponendo un tetto
al tipo e al numero (comunque altissimo) di missili dispiegati: si consolidava la
deterrenza reciproca e la competizione militare si concentrava sulla qualità del­
l'innovazione tecnologica. Alcuni accordi commerciali aprivano la strada a forti
importazioni russe di grano americano e prefiguravano un cointeresse a scambi,
anche tecnici e culturali, più ampi. Gli accordi di Helsinki del 1975, che sanci­
vano lo status quo dell'Europa divisa, offrivano poi al blocco sovietico il rico­
noscimento a lungo cercato e delineavano una prospettiva di potenziale coope­
razione per la sicurezza. Peraltro, la dinamica della rivalità nelle aree extraeuro­
pee non veniva in alcun modo regolamentata o depotenziata, anche se gli Stati
Uniti si attendevano una sorta di autocontenimento dei sovietici. E sarà proprio
questa grande area lasciata scoperta dagli accordi di distensione a riaccendere,
alla fine degli anni settanta, una nuova stagione di aspro antagonismo.
Ma a metà del decennio il sistema mondiale parve per un momento imboccare
una strada che contemplava un inedito intreccio di mutamento e stabilizzazione. Per
un verso, il bipolarismo formalmente paritario e meno antagonistico codificato dalla
distensione sembrò rimpiazzare la guerra fredda con una cooperazione fondata sul
mutuo riconoscimento di sfere d'influenza inviolabili (in Europa). Per un altro, il
relativo indebolimento delle superpotenze, l'emergere di nuovi forti poli economici
e l'imporsi di un Terzo Mondo che ancora agiva in modo relativamente unitario nei
consessi internazionali parve dischiudere l'orizzonte di un sistema mondiale multipolare, in cui l'asse Est-Ovest avrebbe potuto essere sostituito dalla collaborazione o dall'antagonismo - tra Nord e Sud sui problemi dello sviluppo globale.
7. Conclusioni.
Uno scontro
di ide ologie
o u n con flitto
di inte re ssi?
La controversia sulle origini e la dinamica della guerra fredda è del tutto aper­
ta. Alcuni storici la riconducono alla inconciliabilità tra due sistemi ideologici
d'ambizione universale, quello del comunismo sovietico affermatosi nel 1917 e
quello del liberal-capitalismo americano, che vedevano nell'altro una minaccia
storica alla propria sopravvivenza. Altri, invece, la imputano soprattutto al contra­
sto d'interessi geopolitici in relazione al futuro di una Germania distrutta e di
un'Europa indebolita e sconvolta. Ci sono studiosi che, con maggiore precisione,
propongono di riferire il termine solo al periodo 1947-63, poiché nei decenni suc­
cessivi il sistema bipolare perse quel connotato di intensa bellicosità - sia pure
non spinta fino allo scontro militare diretto - che l'aveva caratterizzato in prece­
denza. In questa chiave, il successivo processo di distensione costituirebbe allora
un superamento di quel rapporto di negazione simbolica reciproca, tipico appunto
di una condizione di guerra, che costituiva l'essenza della guerra fredda.
All'interno della cultura liberal (radicale e progressista) statunitense, soprattut­
to sotto lo stimolo intellettuale dei movimenti di opposizione alla guerra del Viet492
Guerra fredda e decolonizzazione
nam, si è sviluppata dagli anni sessanta una storiografia revisionista, che ha indivi­
duato nell'espansionismo economico americano - volto ad aprire i mercati interna­
zionali alle proprie esportazioni di merci e capitali - il responsabile o il correspon­
sabile della guerra fredda; i più insistono invece sul ruolo della strategia staliniana,
che affidava la sicurezza dell'Urss al ferreo dominio sull'Europa orientale e alla
debolezza dell'Europa occidentale. E se l'antagonismo tra due potenze nucleari at­
tribuì alla guerra fredda un carattere potenzialmente apocalittico, alcuni sottolinea­
no invece quanto fu proprio la reciproca capacità di infliggere distruzioni massicce
che dissuase dal ricorso alle armi, facendo così della guerra fredda un lungo perio­
do di tensione ma anche di pace per l'Europa e tra le due superpotenze.
L'antagonismo della guerra fredda era nato nell'Europa dell'immediato
dopoguerra perché là, nel vuoto lasciato dal tracollo delle potenze europee,
si confrontavano due ipotesi di sicurezza internazionale incompatibili. Quel­
la di Stalin si fondava sull'estensione di una influenza sovietica non negozia­
bile fino al centro del continente: essa comportava il dominio sui paesi del­
l'Est e un notevole grado di insicurezza per quelli dell'Ovest, data l'assenza
di ogni efficace contrappeso. Quella statunitense affidava invece alla «pre­
ponderanza» della potenza americana (Leffler) la riorganizzazione di un si­
stema capitalistico mondiale che integrasse i principali poli industriali iso­
lando il blocco sovietico nell'arco dei suoi confini. La rivalità geopolitica e
la reciproca negazione ideologica erano quindi fattori inestricabili di un an­
tagonismo che si assestò intorno alla partizione dell'Europa. In tono assai
ostile per un decennio, e più moderato negli anni successivi, questo bipolari­
smo stabilizzò l'Europa divisa in una «lunga pace» (Gaddis) che la deterrenza
nucleare rese tanto pericolosa quanto indispensabile. Le superpotenze estesero
presto la logica del confronto bipolare anche in altre aree, tentando di control­
lare e incanalare le trasformazioni innescate dalla decolonizzazione e dalla lotta delle nuove nazioni indipendenti per un proprio autonomo sviluppo. Tanti
conflitti locali furono cosi inaspriti e ampliati fino a divenire guerre devastan­
ti: alla «lunga pace» europea corrisposero molte guerre che. in trent'anni, cau­
sarono quasi 20 milioni di vittime, per lo più in Asia. L'allargamento su scala
mondiale della guerra fredda ne ampliò il carattere fortemente militarizzato, e
rivelò i fondamentali squilibri insiti in un bipolarismo decisamente asimmetri­
co. L'Urss poteva dominare l'Europa orientale e giungere negli anni settanta,
dopo un ventennio di costosa rincorsa, a una sorta di parità nucleare con gli
Usa. Ma gli Stati Uniti godettero in tutto il periodo della preminenza politica
mondiale, di un'influenza assai più estesa e articolata nei continenti extraeuro­
pei e di una robusta superiorità militare. Soprattutto, essi ebbero sempre un incolmabile vantaggio economico. Le economie pianificate del blocco sovietico
crebbero velocemente fino a metà degli anni sessanta, ma restando sempre
un'area chiusa e sostanzialmente isolata. Gli Stati Uniti invece, oltre a essere
più ricchi e tecnologicamente avanzati, erano al centro di un'economia mon­
diale di mercato* che comprendeva le aree più sviluppate del globo (il Nord
America, l'Europa occidentale e il Giappone: in questo trentennio essi crebbe493
La gue rra fre dda
dal cuore e u rope o
allo sce n ario
m ondiale
Storia contemporanea
Fine
de l bipolarism o
e fin e
de l Te rz o Mon do
ro a ritmi straordinari) e che integrava, pur in modo assai disuguale, anche l'A­
merica Latina, il Medio Oriente, l'Africa e l'Asia meridionale.
Era a fronte di questa ben più ramificata influenza degli Usa e dell'Occidente
che le rivoluzioni del Terzo Mondo e il movimento dei non allineati parvero assu­
mere, fino ai primi anni settanta, un carattere di alternativa al sistema bipolare.
Esse chiedevano uno spostamento di risorse dall'antagonismo militarizzato EstOvest al sostegno allo sviluppo lungo l'asse Nord-Sud; e spesso si scontravano
con quell'interdipendenza dei mercati di cui gli Stati Uniti erano i garanti. Ma
proprio le domande di sviluppo si mostrarono quelle a cui l'Urss era meno capace
di dare risposte positive. Il suo modello di industrializzazione pianificata e auto­
sufficiente, pur inizialmente efficace in termini quantitativi, cominciava proprio
nei primi anni settanta a mostrare quell'atrofia che ne avrebbe poi segnato il de­
clino. Viceversa l'Occidente finì per essere l'interlocutore principale - anche se
spesso, come si è visto, dopo passaggi aspramente conflittuali - dei processi di
crescita delle economie e delle nazioni del Terzo Mondo: a causa della schiac­
ciante superiorità delle sue risorse produttive e finanziarie (ancora alla fine degli
anni sessanta circa il 70% del prodotto mondiale era concentrato in Europa occi­
dentale e negli Stati Uniti); per la ramificazione dei suoi legami commerciali, fi­
nanziari e anche socio-culturali con le élites sia dell'America Latina che dell'Asia
e dell'Africa post-coloniali; e per il maggior dinamismo dei suoi sistemi di produ­
zione, di consumo e di innovazione tecnologica.
Nell'interazione con questo diffuso vigore della civiltà dei consumi di matrice
occidentale, dell'innovazione tecnologica e della globalizzazione* produttiva e fi­
nanziaria, alcuni poli di un Terzo Mondo che si andava ormai rapidamente diver­
sificando costruirono a partire dagli anni settanta dei loro imprevisti percorsi di
crescita e di inserimento nel mercato mondiale. E proprio questa dinamica (che
coinvolge protagonisti cosi diversi come l'India o l'Opec, la Cina comunista o
l'Indonesia) a portare nell'arco di quindici anni alla fine della guerra fredda. Alla
fine del bipolarismo si giunge, tra il 1989 e il 1991, non tanto per una «vittoria»
degli Usa sull'Urss, quanto per la globalizzazione di un'economia di mercato par­
ticolarmente dinamica proprio in zone cruciali di quello che fino ad allora era sta­
to il «sottosviluppo». Se gli Usa, insieme al Giappone e all'Europa occidentale,
sono stati gli interlocutori cruciali di tale processo, l'Urss viceversa si è trovata
vieppiù relegata in un isolamento stagnante che ha finito per vanificarne le ambi­
zioni di potenza e per portare il suo stesso sistema ideologico e geopolitico alla
dissoluzione. Guerra fredda e decolonizzazione sono cioè stati due fili di un com­
plesso intreccio storico che ha trasformato il mondo contemporaneo in modo ben
diverso da quanto l'una e l'altra di quelle dinamiche potesse singolarmente fare.
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