Pietro Albertani
a cura di Luigi Mastaglia
Lombro di Corteno Golgi, 7 marzo 2014
Ezio Gulberti ed io vorremmo raccogliere un po’ dei
suoi ricordi legati ad una parte della sua vita, quella
del servizio militare, della guerra, della ritirata dal
fronte russo e del suo ritorno a casa. Cominciamo
dai dati anagrafici?
Sono Albertani Pietro, nato il 10 novembre 1920.
Sono stato due anni impegnato nella campagna di Russia, facevo parte della “Celere” e siamo stati il primo
contingente italiano inviato ed impegnato sul fronte. Ho
fatto tutta la campagna, la battaglia di Nikolajewka, la
ritirata. Siamo partiti da Gomel, nella bassa Ucraina, allora c’erano anche gli Alpini,
(sono stati inviati sul fronte russo dopo un anno che noi eravamo già là sul fronte),
eravamo rimasti tutti senza comandanti a Millerovo. Si è formato un gruppo di
Carabinieri che hanno tentato di verificare com’era la situazione, era grave !, i russi
non volevano lasciar passare più nessuno, ci avevano accerchiati e continuavano a
disturbarci con continui attacchi. In quel periodo ho trovato alcuni del mio paese o dei
paesi vicini: ‘l Galù, ‘l Radici, ‘l por Tambìa [Venturini Giovanni medaglia d’oro alla
memoria], ‘l Marino Bizara, ci eravamo accordati di trovarci una sera per stare tutti
insieme, ma me l’ha ista l’erba [l’abbiamo vista l’erba] ricordando cosa è successo
dopo. Le nostre donne [le mamme] confezionavano calze di lana e ce le spedivano
ma, spesso nel pacchetto invece delle calze trovavamo mattoni o stracci, qualcuno ne
aveva approfittato e noi pativamo il freddo. A Gomel mandavano su gli Alpini, noi
eravamo distanti una ventina di chilometri e verificavamo che non ritornava più
nessuno. Noi preoccupati ci siamo incamminati per capire che fine facevano. Quando
siamo arrivati alla stazione di Gomel, c’era un maresciallo dei carabinieri che ci ha
squadrati ed ha detto “ma come mai, il vecchio CSIR ancora qui”, ci ha riconosciuti
perché portavamo la croce di ghiaccio, concessa a chi fin dal 1941 era impegnato sul
fronte russo. Contemporaneamente dall’Italia continuavano ad arrivare contingenti di
Alpini, roba da matti! Il maresciallo dei carabinieri si è preso a cuore la nostra
situazione e ci ha detto “dopodomani ci sono due tradotte da caricare”, due tradotte...
e noi eravamo in seicentocinquanta eh!...
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Allora non erano sufficienti, non ci siete stati tutti?
Ci siamo stati si, in 75 per vagone, come le sardine in scatola! Ci siamo stati
sopra sei giorni e sei notti. In Germania a... non mi ricordo... c’erano dei
sottopassaggi, noi sul treno e sopra, sulla strada quelle sgherle [epiteto dispregiativo
per signore] tedesche, ci sputavano addosso e gridavano “italiani merda”, questa è
stata la paga che ci hanno riconosciuto dopo due anni a 51° sottozero e al servizio
delle truppe tedesche, allora nostre alleate. Finalmente siamo giunti in Italia, poi
siamo stati in un campo vicino a Gorizia, lì ci hanno scaricato. Eravamo grigi di
pidocchi, qualche buona donna che voleva darci un panino, lo allungava e rimaneva
in punta di piedi, avevano paura ad avvicinarsi. Noi ci chiedevamo “ma siamo
proprio infetti fino a questo punto?”. Ci hanno fatti scendere nelle grotte di
Postumia per la disinfestazione poi a Gorizia dove siamo stati per quaranta giorni. Lì
ci trattavano bene, c’era poco da fare e il rancio era abbondante.
Dopo Gorizia dove siete andato?
Quando sono stati sicuri che non eravamo portatori del tifo petecchiale hanno
iniziato a lasciarci andare dieci o quindici per volta, in licenza. Sono finalmente partito
e quando sono arrivato a Brescia non ho più trovato la coincidenza del treno per la
Vallecamonica e sono dovuto rimanere. Quella sera come viveri di conforto ho
mangiato aringhe affumicate e panini, per quei tempi era già una grazia. Sono arrivato
a Edolo il 26 o il 27 aprile (1943). Poi mi sono dato alla macchia, sono poi dovuto
rientrare nei ranghi, e mi sono trovato a Verona. Qui tramite un Capitano che era del
mio paese e conoscevo, Giulio Stefanini, ho cercato di farmi rilasciare una licenza
agricola. Ma eravamo ormai nel periodo dei grandi sconvolgimenti, l’8 settembre ci
siamo trovati in caserma senza comandi e con i tedeschi che presidiavano le uscite,
ho tentato la fuga, ed un certo Longhi Giuseppe di Precasaglio, mi ha veramente
aiutato a scappare dalla caserma, lui gironzolava fuori vestito in borghese e mi ha
detto, “io fuori ho una morosa e dobbiamo organizzare qualcosa per farti uscire”, I
tedeschi lasciavano durante il giorno entrare dei civili a trovare i militari ma, ad un
certo orario facevano un segnale con un fischietto e tutti i civili dovevano uscire. La
ragazza ha iniziato a venirmi a trovare per qualche giorno, portandomi sempre
qualcosa, o un grappolo d’uva o altro ed insieme un qualche indumento nascosto nella
borsina, mi ricordo ancora un cappellino bianco.
Un giorno ci siamo accordati per tentare. A me dispiaceva dover lasciare molti
amici, anche della Vallecamonica, che erano nelle mie condizioni ma, non si poteva
evadere tutti. Il giorno concordato, io vestito a qualche maniera in borghese coperto
però con il pastrano militare, mi sono preparato in cortile e quando ho sentito il
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fischietto, i miei amici mi hanno tolto il pastrano ed io sono rimasto in borghese, tra gli
amici che mi hanno abbracciato e salutato c’era anche un Pezzotti di Breno che
piangendo mi ha detto, “almeno tu forse ce la puoi fare”. La ragazza mi ha preso
sottobraccio e mi ha invitato ad avvicinarmi alla porta che era guardata da due guardie
tedesche armate di mitra, con il cuore in gola, ho superato la soglia e... Longhi fuori,
mi incitava da lontano ad affrettarmi che alla stazione di Porta Nuova c’era un treno in
procinto di partire. Dalla Caserma di Santa Marta alla stazione non c’è molto e Longhi
mi ha detto fai in fretta che riesci a prendere il treno per Brescia e così è stato.
Sul treno ho trovato preti e suore, ma molti di questi erano dei travestimenti per
sfuggire ai controlli della milizia e dei tedeschi. Prima di arrivare a Brescia, un addetto
al controllo dei biglietti ci ha messi sull’avviso, nel frattempo avevo conosciuto uno di
Gussago che era nelle mie stesse condizioni, che alla stazione di Ospitaletto probabilmente ci sarebbero stati dei controlli. “Il macchinista farà tre fischi e comincerà a
rallentare, al terzo fischio, il treno avrà una velocità abbastanza bassa, arrangiatevi...”.
Era buio e pioveva a dirotto, ma pur di non lasciarci mettere le mani addosso, siamo
saltati dal treno e attraversato un fosso, siamo risaliti sulla sponda ed abbiamo trovato
una strada con il segno di carreggiate, l’abbiamo seguita per un po’. Ad un tratto
sentiamo un rumore di ferramenta, era un uomo in bicicletta, e guarda cosa riserva il
caso, era il marito di una mia cugina che abitava nella zona a Castegnato. Dopo una
lunga camminata ci siamo imbattuti in una casa e lì ho trovato persone che avevo
conosciuto quando avevo otto/dieci anni ed accompagnavo il mio papà, che faceva il
carrettiere, quando portava alla bassa le castagne e le scambiavamo con il “sorgo” (il
mais per fare la polenta), uno di questi era un certo Rossi, mi ha detto che lui aveva
due figli militari e non erano ancora ritornati. Con il Rossi c’erano due ferrovieri, ed è
stata la mia fortuna! Mi hanno chiesto quale era la mia destinazione ed io ho risposto
“Edolo!”, loro si sono appartati ed hanno parlato fra loro poi “ascolta bene! domani
mattina alle 4 precise devi farti trovare davanti a questa porta” dopo sono arrivati altri
ferrovieri e uno mi ha dato i suoi vestiti dicendomi “tu domani mattina quando sei in
stazione e il treno si ferma, sali in macchina e sostituisci il ferroviere addetto a
caricare la caldaia di carbone, non parlare con nessuno e continua a tenere alimentato
il fuoco, vedrai che tutto andrà bene”, così sono arrivato a Edolo. Allora il treno
entrava sotto quell’arco che c’è ancora, e la macchina andava a fermarsi sulla
piattaforma per essere girata. Io appena è iniziata la manovra sono saltato a terra e mi
sono avviato per i prati verso la strada per Santicolo e per casa.
Quando siete tornato che cosa avete fatto di preciso?
Lavoravo in campagna con la mia famiglia e quando c’era in giro qualcuno di
sospetto, scappavo a nascondermi nei boschi.
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Avete avuto rapporti con le formazioni partigiane che erano presenti nel
vostro territorio?
Non ho mai voluto andare con i partigiani.
Ma con Tambìa non vi siete più incontrati? Non avete mai avuto contatti?
Povero Tambìa, lo hanno catturato e torturato, gli hanno strappato le unghie delle
mani e dei piedi, poi lo hanno caricato su un carrettino dei Bricchetti e lo hanno
portato a Edolo. Dove erano i partigiani? E pensare che tutti i giorni erano a stufarmi
“vieni anche tu, vieni anche tu con noi”, ho risposto andate a quel paese! Possibile che
non siano stati capaci di fermare un birucì accompagnato da due angegher tutti questi
che erano certamente nascosti tra i boschi? Strada facendo poi hanno preso anche il
povero Canti Gregorio poi fucilato con Venturini. Mi raccontava uno di Mù che un
pastore proprietario di una cascina poco distante dal cimitero li ha visti quando sono
stati fucilati l’11 aprile del 1945.
Come il mio nipote Bortolo Fioletti, Poldo che aveva 19 anni, morto il primo maggio
1945 a Monno, sembra sia stato abbandonato dai suoi due compagni, ha chiesto aiuto
tutta notte fino a che è morto vicino alla santella di Monno dove era stato ferito.
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