25. Le molte definizioni nei secoli del teatro terenziano
«Teatro della bontà», «teatro della giovinezza», «teatro rivoluzionario». Così è stato
variamente definito il teatro di Terenzio e si tratta sempre di definizioni fondate, ma
limitative e parziali. È vero, infatti, che i personaggi terenziani hanno come
caratteristica comune e fondamentale la bontà; essi rispecchiano l’ottimistica visione
della natura umana propria di un autore che non avrebbe mai proposto sulla scena
personaggi totalmente negativi, come Ballione, il cinico lenone dello Pseudolus, o come
Fronesio, la sfrontata meretrix del Truculentus. Ma le tinte forti e i chiaroscuri violenti
sono tecniche tipicamente plaudine: la tronfia e spavalda sicurezza di Ballione serve a
esaltare le mirabolanti trovate del sevo Pseudolo e a ingigantirne il trionfo finale, così
come l’avida e impudica rapacità di Fronesio mette in risalto la totale dabbenaggine dei
suoi tre amanti (un giovane cittadino, un soldato spaccone e un possidente di
campagna), da lei sfruttati e spolpati in contemporanea.
Terenzio ama piuttosto le mezze tinte e i colori smorzati e nelle sue commedie gli errori
del male non esistono: i suoi personaggi sbagliano per umana debolezza, non per scelta
deliberata.
È anche vero che in lui i giovani innamorati sono sempre candidi e sprovveduti, ingenui
e patetici e che rimangono sostanzialmente onesti e leali, anche quando la passione
amorosa fa velo alla ragione e li rende esaltati o egoisti. In questo senso Terenzio è
certamente il poeta della giovinezza; ma come avrebbe potuto non esserlo? Nonostante
gli sforzi dei filologi per definirne meglio i contorni, la sua morte è ancora avvolta nel
mistero; tuttavia dalle biografie antiche sappiamo che quando, nel 159 a.C., di ritorno
dalla Grecia, egli morì (in un naufragio, di malattia, o di dolore) aveva solo 35 anni (se
non addirittura 25!): è dunque del tutto naturale che, giovane com’era, guardasse con
simpatia alla gioventù e ai suoi problemi.
Eppure, a ben considerare, nelle sue commedie i personaggi disegnati con maggior cura,
le figure psicologicamente meglio caratterizzate sono in prevalenza ritratti di vecchi: si
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pensi a Menedemo dell’Hecyra e, soprattutto, ai fratelli Micione e Demea degli
Adelphoe.
Non sarebbe affatto illecito, dunque, definire il teatro di Terenzio «teatro della
vecchiaia». Ma, a voler giocare con le formule, è altrettanto vero, allora, che Terenzio fu
il poeta comico dell’antichità che guardò con maggior simpatia al mondo delle donne,
tratteggiando figure femminili indimenticabili (giovani o vecchie che fossero) per la
loro generosità e la loro nobiltà d’animo: si pensi a Taide nell’Enunchus, a Sostrata e a
Bacchide nell’Hecyra. Ed è innegabile che nel teatro terenziano le donne siano sempre
difese, se non addirittura celebrate o esaltate; un confronto, anche sommario, col teatro
plautino consente di constatare come Terenzio non si limiti a restituire alla donna la
dignità di essere pensante e autonomo al pari dell’uomo che il mos maiorum degli
antichi Romani sembrava averle negato, ma tenda a ritenere che la donna abbia sempre
ragione, o, almeno, che non abbia quasi mai torto.
Per il teatro terenziano sarebbe quindi appropriata anche la definizione di «teatro delle
donne».
Il fatto è che in Terenzio, poeta laico per eccellenza e, nonostante i suoi innegabili
legami con il circolo filellenico degli Scipioni, poco o nulla politicizzato, giunge al
culmine quel processo di revisione dei valori umani e di rispetto complessivo per
l’uomo che è tipicamente e autenticamente romano e che trova la sua sintesi in un
concetto latino di cui è impossibile indicare l’equivalente greco: è il concetto espresso
dal termine humanitas.
(F. Bertini, Terenzio. Le Commedie, Milano, 1989)
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