Augures - Lares et Urbs

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Augures
Ogni romano aveva la facoltà di consultare Giove prima di intraprendere un’iniziativa; a maggior ragione qualsiasi atto di rilevanza
pubblica (riunioni del Senato e dei comizi, ingresso in carica dei magistrati, fondazione di templi o altri edifici pubblici, campagne militari, operazioni agricole) richiedeva il favore di Giove, espresso attraverso gli au gu r ia .
— a u g u r (dalla radice a u g - , da cui a u g e r e = crescere) perché
pieno di quella forza divina che Giove trasmette agli auguria e ai loro
interpreti ;
— rex perché, secondo il De divinatione di Cicerone, è colui che al
momento della fondazione di Roma d i r e x i t r e g i o n e s = tracciò le
regioni (un atto dichiaratamente augurale).
La funzione augurale pubblica, originariamente esercitata dal reaugure Romolo, fu da Numa delegata ad un collegio di tre membri
(uno per ogni tribù), aumentati a sei dai Tarquinii, poi a nove con la
lex Ogulnia del 300 a.C. (che aprì l’augurato ai plebei), a quindici da
Silla e finalmente a sedici da Cesare; ma a partire dal I secolo a.C. gli
auguri persero d’importanza e la loro arte divenne soggetta all’arbitrio degli imperatori.
La tecnica augurale rimase sempre gelosamente segreta, ma prevedeva anzitutto la definizione di uno spazio sacro (il templum ), che a
Roma era rappresentato dall’auguraculum della rocca capitolina.
Da questo l’augure, indossata la corta trabea listata di porpora, impugnava il lituo e con esso “tracciava le regioni”, sia celesti che terrestri, secondo i quattro punti cardinali e si disponeva a ricevere gli aus pic ia (da aves = uccelli e s p i c e r e = guardare), rivolto a sud; la cerimonia avveniva preferibilmente di notte, nel massimo silenzio. L’augure considerava favorevoli i segni provenienti da sinistra (oriente) e
sfavorevoli quelli da destra (occidente), ma era libero di prenderli o
non prenderli in considerazione (con la formula n o n c o ns ulto), fino
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L’esistenza stessa di Roma nasceva dagli auguria, anzi da un a ugus tum au gu r iu m inviato al suo primo augure e re, Romolo:
a poter rinviare il tutto ad altro giorno se reputava che non vi fossero
le condizioni adatte. Questa libertà, apparentemente illimitata, non era
affidata all’arbitrio del sacerdote ma alla sua esperienza e questa si
poggiava a sua volta sull’alta tradizione dello iu s a ugura le, nonché
sul principio fondamentale che g li auspicia a n n u n c i a v a n o l ’ a v venir e m a n on lo d e te r m in a v a n o .
N u n t i a t i o si chiamava infatti la dichiarazione definitiva con cui
gli auguri confermavano che l’azione per cui Giove era stato consultato era f a s, lecita, conforme alla legge e alla volontà divina; viceversa
con l’ob n u n tia tio essi avevano il potere di invalidare qualsiasi atto
pubblico, ivi compresa l’elezione alle massime magistrature.
Questa facoltà, che fu effettivamente (anche se raramente) esercitata
durante la storia della Repubblica, venne definitivamente abolita nel
58 a.C., quando la disciplina augurale, spesso piegata ad esigenze politiche personali, si era già vistosamente allontanata dalla tradizione
originaria (fra l’altro, per influsso greco, erano stati capovolti i termini
dell’interpretazione degli auspici, considerando fausti quelli da destra
e infausti quelli da sinistra).
Ferma restando la sacrale segretezza dell’arte augurale, sono invece
ben note le diverse classificazioni degli auguria e degli auspicia, chiamati collettivamente signa. Anzitutto essi potevano essere obla tiva
(presagi d’incontro, non richiesti) o im p e tr a t iv a (espressamente
richiesti). Tutti i signa, poi, rientravano in cinque categorie, ognuna
arricchita di ulteriori distinzioni al suo interno:
1. ex c ae lo: folgori, lampi, tuoni;
2. e x a v i b u s : uccelli considerati augurali per il volo (principalmente aquile e avvoltoi) o per il canto (corvo, cornacchia, picchio, gallo,
gufo);
3. ex q u a d r u p e d ib u s o p e d e s t r i a: animali terrestri (soprattutto cani, volpi e serpenti);
4. ex d ir is: eventi accidentali (l’inciampare, lo starnuto improvviso, la rottura dei lacci, ecc.);
5. e x t r i p u d i i s : detti anche a u g u r i a p u l l a r i a , erano i più
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usati nei comizi e sui campi di battaglia. Era di buon auspicio se i
polli, all’apertura delle gabbie in cui erano tenuti a lungo rinchiusi, si
avventavano avidamente sul mangime che veniva loro offerto; al contrario se non uscivano dalle gabbie o si mostravano svogliati o, peggio
ancora, se rifiutavano il cibo.
A differenza dei sacerdoti romani, che esaminavano le viscere sommariamente solo per assicurarsi che tutto fosse in ordine, gli aruspici ne
davano una vera e propria “lettura”, traendone una gran quantità di
informazioni. In epoca tardo-repubblicana e imperiale, di pari passo con
il decadere della propria scienza augurale, i Romani fecero sempre più
ricorso agli aruspici: l’ultima consultazione avvenne addirittura nel 408
d.C., in una città di Roma ormai cristiana, sottoposta alla grave minaccia dell’assedio di Alarico.
Luperci
Antichissima confraternita di “uomini-lupo”, con caratteri simili
agli Hirpi Sorani, istituita secondo Cicerone “prima della civiltà e
delle leggi”, protagonista della festa dei Lupercalia.
Le schiere di Luperci erano due, in ricordo dei due gruppi di compagni di Romolo e Remo, ma erano guidate da un unico m agis te r ;
prendevano il nome da due gentes illustri, i Quinzi (L u pe r ci Quinc t i a l e s, legati a Romolo) e i Fabi (L u p e r c i F a b i an i, legati a Remo).
L’origine del collegio e della festa, che avevano il loro centro sacrale
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Molto diversa dalla disciplina augurale era l’a r u sp i ci na, che consisteva nella minuziosa osservazione delle viscere degli animali sacrificali. Appartenendo alla tradizione etrusca, l’aruspicina non fu mai praticata a Roma ma rimase delegata agli esperti di quel popolo, che non
venivano consultati regolarmente ma solo su espresso ordine del
Senato, ogni qual volta si riteneva che fosse necessario.
nella grotta del Lupercale ai piedi del Palatino, vede i mitici gemelli
impegnati a gareggiare insieme con i loro compagni, nell’attesa di sacrificare a Fauno alcune capre. Depredati delle loro greggi lasciate incustodite da parte di alcuni ladri, prendono ad inseguirli così come si
trovano, senza rivestirsi né armarsi. La schiera di Remo, recuperata la
refurtiva, torna per prima e si nutre delle carni delle vittime; quando
rientrerà anche Romolo, a mani vuote, resterà a “bocca asciutta”. La
vittoria di Remo, che non è destinato al comando ma anzi ad essere
ucciso dal fratello, assume un carattere inquietante, come tutto ciò che
concerne la sua figura.
In ricordo di questi fatti ogni anno, il 15 febbraio, le due schiere di
Luperci si inseguivano tutto intorno al Palatino, nudi o sommariamente coperti di pelli di capra; nella loro corsa sfrenata percuotevano
le donne con una cinta, anch’essa di capra, detta a m i c u l u m I u nonis, distribuendo la fecondità.
Il ritorno alla vita selvaggia, incarnato dai Luperci, non aveva solo
caratteri lustrali e propiziatori ma era anche un ritorno alle fonti magiche della regalità (alle cerimonie iniziali, che avvenivano nella penombra del Lupercale, presenziava il flamen Dialis): durante la festa
del 44 a.C. Marco Antonio, a capo della schiera dei L u p e r c i I u l i i
(recentemente istituita in onore di Giulio Cesare), si staccò dal gruppo
per offrire a Cesare la corona regale. Dal popolo si levò un mormorio
di disapprovazione e Cesare rifiutò la corona; ma esattamente un
mese dopo venne ucciso come liberticida.
© Gregorio Grande - 2009
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