il massacro della pasqua del 1944 ed i suoi riverberi. il

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CAPITOLO TERZO
IL MASSACRO DELLA PASQUA DEL 1944
ED I SUOI RIVERBERI. IL SUCCESSIVO ECCIDIO
DEL TURCHINO
SOMMARIO: Le ragioni che indussero il Comando tedesco ad intraprendere l’operazione di rastrellamento. – La disperata resistenza. La cattura dei combattenti e le fucilazioni. – L’“insegnamento” offerto dal sacrificio della Benedicta e le successive operazioni partigiane. –
Un’ulteriore scia di sangue. La fucilazione al Turchino di alcuni partigiani catturati alla
Benedicta. La deportazione di altri sopravvissuti nei campi di concentramento tedeschi. – Le
cause della rappresaglia operata mediante l’eccidio del Turchino.
Le ragioni che indussero il Comando tedesco ad intraprendere l’operazione
di rastrellamento
Appare difficilmente comprensibile la sottovalutazione, presso i Comandi partigiani, del pericolo di un massiccio rastrellamento da parte delle forze nazifasciste,
sottovalutazione che giunse al punto da non far prendere in seria considerazioni
neppure le indicazioni che davano per imminente una grande operazione nell’area 1.
Eppure sarebbero bastate poche considerazioni per evidenziare la fondatezza di
queste indicazioni.
La zona della Benedicta dominava un territorio di fondo valle che appariva di
fondamentale importanza dal punto di vista strategico. Perdere quest’area avrebbe
significato, per le forze nazifasciste, privarsi della possibilità di mantenere i collegamenti tra una serie di punti nevralgici.
1
Sul punto v. la significativa narrazione di DON BERTO, Prete e partigiano, II Ed., Sagep Editrice,
Genova, 1993, pag. 53: «so per certo da persona testimone che, una settimana prima del rastrellamento,
un autista ebbe modo di ascoltare una conversazione in prefettura … parlavano dell’arrivo di truppe
tedesche … Sarebbero state impiegate in gran numero e con grandi mezzi per attaccare i partigiani del
Tobbio e dei Laghi della Lavagnina. L’autista riferì la cosa a chi poteva avvertire i partigiani. La notizia giunse anche a Genova. Mi si dice che fu risposto che era un falso allarme. Erano fantasie. Nessuno
fece tesoro di quella preziosa informazione». Don Berto riferisce nel libro che anche un sacerdote si recò
dai partigiani per avvertirli del pericolo di un’imminente operazione di “bonifica”; venne peraltro così
risposto: «sul Tobbio ci sono tante pietre da seppellire tutti i tedeschi che verranno».
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Capitolo terzo
In particolare, tutto il comprensorio dell’Alessandrino posto a ridosso dell’entroterra ligure veniva giudicato di vitale importanza, qualora si fosse verificato,
come temuto ed ipotizzato dai comandi tedeschi, uno sbarco delle forze Alleate in
Liguria.
Infatti in tal caso se anche questa zona avesse ceduto sarebbe venuto meno ogni
contatto, dal punto di vista delle comunicazioni, tra i territori meridionali del Reich
e quelli della Francia del Sud, e le truppe Alleate avrebbero potuto facilmente dilagare nella Pianura Padana, con tutte le conseguenze, non solo strategiche, da ciò
derivanti, tra cui in particolare, oltre all’avvicinamento al cuore del Reich, la perdita della produzione bellica fino a quel momento fornita dalle fabbriche del “triangolo industriale” e, parimenti, la privazione della possibilità di fruire ancora degli
apporti della produzione agricola proveniente dai territori dell’Italia settentrionale.
Ovviamente, la tenuta del fronte, da parte delle forze tedesche, sarebbe risultata irrimediabilmente compromessa da una forte presenza partigiana nell’area, che doveva
quindi essere “bonificata” per evitare eventuali attacchi ai principali nodi stradali
e ferroviari, e dunque per garantire la funzionalità delle vie di comunicazione.
Secondo i piani difensivi elaborati dal Comando tedesco, in caso di sbarco nella
zona di Genova (essa veniva ritenuta una possibile meta per detto sbarco Alleato,
data la presenza del porto, la cui attrezzatura avrebbe potuto essere immediatamente
utilizzata dagli Anglo-Americani) le forze tedesche avrebbero sferrato un immediato contrattacco alle teste di ponte nemiche, mediante due Divisioni provenienti
rispettivamente dal Novese e dall’Acquese, che si sarebbero dovute muovere lungo
i percorsi Acqui-Cairo Montenotte-Savona; Acqui-Sassello-Albissola; Ovada-Voltri;
Novi Ligure-Genova.
Tale controffensiva avrebbe potuto avere un buon esito solo qualora i passi
appenninici fossero risultati sicuri per il transito.
Queste esigenze tattiche rimasero attuali fino all’agosto del 1944, e cioè fino allo
sbarco Alleato in Provenza avvenuto il 15 agosto di quell’anno, tra Lavandou e
Thèoule Sur Mer, ed alla conseguente, successiva rapida avanzata delle colonne
angloamericane verso il Nord della Francia, che condusse al congiungimento con
le truppe sbarcate in Normandia il 6 giugno ed alla totale liberazione dell’intero
Paese 2.
Fino a quel momento infatti la Liguria rappresentava, come detto, una delle possibili aree di effettuazione di uno sbarco da parte degli Alleati; se ciò fosse avvenuto, l’Alesandrino avrebbe costituito l’immediato retrovia del fronte, che non
poteva certo essere lasciato nelle mani dei “ribelli”.
2
Come osservato da B. MANTELLI, Il terzo Reich in Provincia di Alessandria. Wehrmacht, SS, polizia ed amministrazione tedesche nel periodo di Salò, in Alessandria dal fascismo alla Repubblica, cit.,
pag. 75, a seguito dello sbarco alleato in Provenza «il Piemonte (e l’Alessandrino al suo interno) si trasforma … in immediata retrovia del fronte, la cui linea corre ora sul crinale delle Alpi occidentali».
Il massacro della Pasqua del 1944 ed i suoi riverberi
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Proprio per questo nella primavera del 1944 vennero poste in essere dalle forze
nazifasciste due grandi operazioni in queste zone, dapprima, nel marzo del 1944,
in val Casotto, quindi, nell’aprile, intorno al monte Tobbio.
La necessità di un’opera di “bonifica” veniva del resto avvalorata dall’incremento delle azioni partigiane poste in essere dalle formazioni ivi installatesi e dall’esigenza di porre termine al loro costante accrescimento in termini numerici.
Al fine di giustificare, nella memorialistica, l’incredibile sottovalutazione del
pericolo incombente sulle forze partigiane, sottovalutazione che fu una delle principali cause della tragedia, si cercò di operare una sovrastima delle forze nazifasciste che operarono il rastrellamento della Benedicta.
Si giunse a parlare di oltre ventimila uomini, cifra assolutamente spropositata,
tenuto conto del fatto che in quel momento i nazisti disponevano di forze limitate
per combattere le “bande” partigiane e che l’intero organico della Trecentocinquantaseiesima Divisione di Fanteria non ammontava ad esempio a più di quindicimila
uomini, con una forza combattente inferiore alle quattromila unità.
Si volle cioè sostenere, mediante tale sovrastima, che, di fronte ad un numero
così elevato, nessuna adeguata resistenza avrebbe potuto essere posta in essere 3.
Nella realtà la cifra dei “rastrellatori” fu, come vedremo, di gran lunga inferiore. Si
trattò di circa duemila unità.
Abbiamo detto che v’erano tutti i segnali per rendere assolutamente inequivocabile l’incombere della minaccia. Basterebbe ricordare che una specifica unità
d’attacco (Kampfgruppe) costituita nell’ambito della Trecentocinquantaseiesima
Divisione, e chiamata Unità d’Attacco Rohr, in quanto posta sotto la direzione del
colonnello Rohr, Comandante dell’871° Reggimento granatieri, tra il 12 ed il 20
marzo del 1944, e cioè pochissimi giorni prima del rastrellamento della Benedicta,
aveva già effettuato un’analoga operazione in Val Casotto, costringendo le formazioni autonome che erano ivi presenti, forti di oltre seicento uomini, e poste sotto
la guida del comandante Enrico Martini, noto con il nome di battaglia di Mauri, a
ritirarsi nelle Langhe, subendo gravi perdite in uomini e mezzi.
Appariva inoltre logico ritenere che i Comandi nazifascisti, ben sapendo che le
forze partigiane operanti nell’area del monte Tobbio necessitavano ancora di un
periodo di addestramento, onde poter amalgamare con il nucleo originario le nuovi
componenti, rappresentate dalla massa di giovani che si erano sottratti alla chiamata alle armi dei vari bandi della RSI, non avrebbero atteso che questa fase di riassestamento fosse terminata, ma al contrario avrebbero invece cercato di anticipare
3
Anche secondo C. MANGANELLI-B. MANTELLI, Antifascisti, partigiani, ebrei, cit., pag. 63, questo
computo in eccesso delle forze nazifasciste venne effettuato per «dar ragione sia della sconfitta e del
prezzo, in caduti e deportati, pagato, sia delle sue modalità, che vedono entrambe le formazioni partigiane attive nella zona incapaci tanto di organizzare uno schieramento difensivo quanto di procedere ad
uno sganciamento il più possibile ordinato».
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Capitolo terzo
i tempi, per colpire le formazioni della Resistenza in un momento in cui esse risultavano ancora lontane dal raggiungimento di una piena efficienza operativa.
Va osservato come da tempo si stessero preparando i dettagli dell’operazione di
rastrellamento. Le truppe tedesche erano in grado di avere un quadro della dislocazione dei vari distaccamenti delle formazioni partigiane, anche grazie ad una serie
di segnalazioni, provenienti da informatori che erano riusciti ad infiltrarsi nei ranghi di queste formazioni, ed avevano poi fornito prezioni indicazioni ai Comandi
della GNR e della SS.
Nei resoconti della GNR le forze partigiane risultavano superiori alla realtà (del
resto anche gli informatori, per accrescere l’importanza delle notizie fornite, tendevano inevitabilmente ad una sovrastima del numero dei partigiani).
Ciò forse era dovuto sia al fatto che in tal modo si cercava di spingere i tedeschi
ad accelerare la decisione in ordine all’effettuazione della “bonifica” del territorio,
sia alla volontà di giustificare una serie di insuccessi subiti in alcune precedenti operazioni di rastrellamento.
Ad esempio in una relazione del 25 marzo, proveniente dalla GNR di
Alessandria, comandata dal Tenente Colonnello Togni, si parlava di un organico
superiore alle duemila unità «mille dei quali sarebbero molto ben armati», e nella
descrizione degli armamenti si faceva anche riferimento ad artiglierie ed armi
pesanti, di cui in realtà i partigiani del luogo risultavano assolutamente sprovvisti.
A sua volta l’agente della GNR Giovanni Battista Moretti aveva trasmesso al
suo Comando, il 15 marzo 1944, le notizie fornitegli dalla spia Giorgio Delitala,
che, pur indicando con notevole precisione l’ubicazione delle varie unità partigiane,
aveva affermato che i partigiani operanti nell’area della Benedicta, con gli ultimi
arrivi, si aggiravano intorno alle tremila unità.
Fra i vari documenti facenti parte del carteggio che precedette l’inizio dell’operazione di accerchiamento, appare particolarmente significativo un documento,
datato 27 marzo 1944 e firmato dal già citato Tenente Colonnello della GNR
Giuseppe Togni, avente ad oggetto: “Situazione dei ribelli nella Provincia di
Alessandria”. Da esso si deduce con immediata evidenza come la decisione di effettuare il rastrellamento sia partita dalla Casa dello Studente di Genova, e cioè dal
Quartier Generale della SS di tale città. In tale documento si legge infatti quanto
segue: «Il Comando Germanico delle SS della Liguria, nell’intento di cooperare
con questo Comando per una radicale operazione nella zona, ha già preso contatto
con noi per concretare un piano ben preparato e con forze adeguate … Data la natura
del terreno e l’armamento di cui i ribelli dispongono, l’operazione assumerà carattere assai importante».
I compiti assegnati agli uomini della SS durante il rastrellamento non avrebbero
dovuto tanto concernere l’effettuazione della vera e propria azione militare di accerchiamento, quanto piuttosto la fase successiva, relativa alla decisione circa la sorte
dei partigiani catturati; si previde tuttavia anche la presenza di un gruppo operativo
della SS già nel corso del rastrellamento.
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Si trattò del Kommando Andorfer, dal nome dell’ufficiale austriaco che ne era a capo
(trattavasi dell’SS Obersturmführer Herbert Andorfer, nato a Linz il 3 marzo 1911);
tale Reparto altro non era se non un distaccamento mobile della Sicherheitspolizei,
spesso utilizzato nelle operazioni antipartigiane di rastrellamento 4.
Sembrerebbe, da alcuni documenti rinvenuti 5, che i Comandi germanici si fossero opposti all’intenzione, da parte della GNR, di effettuare autonomamente un’azione di rastrellamento; essi infatti ritenevano necessaria una maggiore pianificazione dell’operazione, e soprattutto volevano che essa fosse condotta dalle truppe
tedesche, sia pur con l’ausilio di qualche unità italiana.
Al rastrellamento parteciparono, oltre ad alcune unità della GNR e della SS di
Genova, gli effettivi della 356 Divisione di fanteria, e più precisamente gli uomini
del I Battaglione dell’869° Reggimento granatieri ed alcuni organici delle unità di
pronto impiego dell’871° Reggimento granatieri. Vi è invece profondo contrasto
sulla presenza o meno all’operazione degli Alpenjäger. Detta presenza, menzionata
da Pansa 6 e da alcuni autori che si richiamano al Pansa nella descrizione del rastrellamento, è stata peraltro smentita, sulla base di affermazioni di indubbia consistenza.
Si è infatti affermato che la presenza di tali truppe non risulta riportata in alcun
documento ufficiale e neppure nei resoconti partigiani dell’accaduto, sostenendosi
conseguentemente che «per quanto riguarda la questione dei presunti Alpenjäger ci
troviamo forse di fronte ad un tipico caso di sovrapposizione, nella memoria, di
eventi fra loro assai simili: tra la fine di maggio e l’inizio di agosto, infatti, lo schieramento difensivo tedesco lungo la costa ligure fu più volte rimaneggiato e, sempre in previsione di un possibile sbarco alleato, considerevolmente rafforzato; nella
zona di Genova presero il posto della 356. Divisione di fanteria la 42. Divisione
cacciatori ed alcuni battaglioni di addestramento da montagna (HochgebirgsSchulen). Queste unità, assieme alle truppe repubblichine, operarono consistenti
4
Herbert Andorfer, che nella primavera del 1944 era a disposizione dell’Aussenkommando di Genova, quale incaricato della direzione degli Aussenposten di Savona ed Imperia, in precedenza, nel 1942
e per una parte del 1943, era stato comandante del campo di concentramento di Semlin in Serbia, ove
vennero uccisi con i gas migliaia di ebrei. Dopo l’operazione della Benedicta il Kommando Andorfer
venne dislocato, verso il mese di luglio del 1944, a Parma, ove fu impiegato nell’ambito delle azioni di
rastrellamento denominate Wallenstein.
5
In particolare, come rilevato da C. MANGANELLI-B. MANTELLI, Antifascisti, partigiani, ebrei. I
deportati alessandrini nei campi di sterminio nazisti. 1943-1945,cit., pag. 56, nota 73, appare interessante la consultazione di: National Archives, Washington, Joint Allied Intelligence Agency, Personal
Papers of Benito Mussolini, fondo T 586/12, Segreteria particolare del Duce, Job 240, Attività ribelli
per province, Relazione inviata il 19 marzo 1944 dalla prefettura di Alessandria, protocollo Gab. 215,
fotogrammi nn. 064261-262 del microfilm. Si tratta di una relazione del Tenente Colonnello Togni, ove
si dice che una proposta della GNR volta all’effettuazione di un’autonoma azione di rastrellamento nell’area della Benedicta era stata sospesa per ordine del Comando Germanico, che evidentemente si fidava
assai poco delle capacità organizzative e militari delle forze della RSI.
6
G. PANSA, Guerra partigiana tra Genova e il Po, cit., 108.
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Capitolo terzo
rastrellamenti, la cui ombra è possibile si sia proiettata, nel ricordo dei testimoni,
all’indietro fino a coprire anche la più tragica delle azioni antipartigiane, quella del
Tobbio» 7.
La disperata resistenza. La cattura dei partigiani e le fucilazioni
Il rastrellamento della Benedicta venne effettuato nella settimana di Pasqua del
1944, nel periodo compreso tra il 6 e l’11 aprile 8. Le organizzazioni della Resistenza, pur avendo avuto qualche sentore di quanto si andava preparando, non vi
diedero soverchio peso, e non ritennero necessaria un’evacuazione della zona 9.
Eppure, come già detto, la sicurezza così dimostrata era davvero mal riposta,
anche in considerazione della concreta struttura delle due Brigate partigiane, scarsamente armate, con molti uomini ma con pochi elementi davvero avvezzi all’uso
delle armi. Ci si trovava in presenza di una struttura “appesantita” dal numero elevato dei componenti, che finivano per costituire una zavorra, e la privavano di quella
rapidità di spostamento che avrebbe potuto permettere una maggiore facilità di
sganciamento di fronte ad un’improvvisa comparsa del nemico.
Oltretutto non erano stati elaborati piani dettagliati volti a tener conto dell’ipotesi di un attacco di ampie proporzioni nei confronti delle due formazioni. Non vi
erano neppure precisi accordi in ordine a come avrebbe dovuto funzionare il coordinamento tra le due Brigate, in caso di un rastrellamento nazifascista.
Si era solo convenuto che gli uomini di Odino, la cui carenza di armi era ancora
più drammatica di quella che affliggeva la Brigata “Liguria”, giacché buona parte
di essi non possedeva neppure una pistola, avrebbero dovuto ripiegare alla
Benedicta, al fine di prendere i moschetti che si trovavano depositati presso
l’Intendenza della Brigata garibaldina.
7
C. MANGANELLI-B. MANTELLI, Antifascisti, partigiani, ebrei, cit., pag. 63. Nel testo citato si osserva
anche (ivi, pag. 63, nota 89) che «nessun corpo militare tedesco si è mai denominato “Alpenjäger”; anche
nell’esercito germanico esistono formazioni specializzate per la guerra in montagna, analoghe quindi ai
nostri Alpini, che sono però sempre state denominate “Gebirgsjäger”, ovverossia “Cacciatori di montagna”».
8
Per una descrizione di tale eccidio v., oltre a R. BACCINO, Contributo alla storia della Resistenza
di Genova, cit.; D. BORIOLI-R. BOTTA-F. CASTELLI, Benedicta 1944. L’evento – la memoria, Edizioni
dell’Orso, Alessandria, 1984; M. FRANZONE, Vento del Tobbio, cit.; G. PANSA, Guerra partigiana tra
Genova e il Po, cit.; G. GIMELLI, Cronache militari della Resistenza in Liguria, vol. I, Genova, Istituto
storico della Resistenza in Liguria, 1965; G.B. LAZAGNA, Ponte rotto, Milano-Roma, Edizioni Sapere,
1975; B. MANTELLI, Aprile 1944. Il grande rastrellamento della Benedicta. Una rilettura attraverso le
fonti tedesche, in Italia Contemporanea, marzo 1990, n. 178, pag. 83 ss.; C. ULANOWSKI, Dala Benedicta
alla fossa del Turchino, Genova, Istituto Grafico Basile, 1965; M. ZINO, Piombo a Campomorone, a cura
dell’Istituto Storico della Resistenza in Liguria, Genova, 1965.
9
Giustamente G. PANSA, Trent’anni dopo, cit., pag. 555, rileva che furono proprio gli «errori partigiani» a rendere particolarmente pesanti le conseguenze del rastrellamento della Benedicta.
Il massacro della Pasqua del 1944 ed i suoi riverberi
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La tranquillità dei partigiani si basava su considerazioni che vennero smentite
dai fatti. Si riteneva infatti che, data la natura dei luoghi, solo un grandissimo schieramento di forze avrebbe potuto seriamente impensierire le formazioni della
Resistenza ivi operanti, e si osservava che, nell’attuale frangente, le forze nazifasciste, duramente impegnate sui fronti di guerra, non potevano disporre né degli
uomini né dei mezzi necessari per un’imponente azione di rastrellamento.
Così, anche quando la sera del 5 aprile Odino fu avvertito dell’arrivo a Voltaggio
di forti contingenti tedeschi, egli non ritenne che i suoi uomini corressero alcun serio
pericolo. Addirittura, il giorno 6 aprile, alle ore tre del mattino, quando le sentinelle
partigiane della Brigata “Alessandria” segnalarono che sulla rotabile per Voltaggio
si scorgevano i fari delle colonne motorizzate tedesche, il comandante continuò a
giudicare inutile il trasferimento immediato dei vari reparti, come invece gli veniva
suggerito da Giuseppe Merlo, ritenendo che comunque i tedeschi non avrebbero
potuto giungere fino alle cime del monte Tobbio (montagna peraltro non certo altissima in quanto la vetta è posta a m. 1092), ma si sarebbero fermati più a valle.
Era dunque la conformazione della zona a far escludere la sussistenza di una
reale minaccia. Si può dire, operando un raffronto con un’emblematica vicenda del
passato, che il Comando partigiano operava sulla base degli stessi schemi mentali
che avevano indotto i Romani a ritenere impossibile un attacco di Annibale realizzato mediante l’attraversamento delle Alpi; non ci si rendeva conto, in altri termini,
che un disegno strategico scrupolosamente predisposto è in grado di raggiungere
risultati all’apparenza irrealizzabili.
Del resto un analogo esempio di mancata previsione di quanto in effetti sarebbe
potuto accadere si ritrova anche in un famosissimo episodio della lotta resistenziale
transalpina, culminato in uno dei più epici e sanguinosi scontri sostenuti dal partigianato francese, e cioè la cosiddetta battaglia del Vercors, avvenuta tra il 13 giugno ed il 23 luglio del 1944.
I partigiani francesi, i cosiddetti maquis, all’indomani dello sbarco Alleato in
Normandia, si erano asserragliati, a partire dal 6 giugno 1944, in un altopiano montagnoso, sito nei pressi di Grenoble, intendendo farne, nell’attesa dell’arrivo degli
Alleati, un primo lembo della Francia liberata. Essi giudicavano il Vercors praticamente inespugnabile, commettendo peraltro l’errore di non pensare alla possibilità
di uno sbarco aereo (che venne invece operato da parte tedesca, con l’ausilio degli
alianti) e soprattutto all’ipotesi che truppe alpine altamente specializzate penetrassero nel Vercors scalando le pareti rocciose.
La sicurezza di Odino giunse al punto che questi prima dell’alba del 6 aprile propose di inviare all’esterno, come ogni giorno, le consuete squadre di corvée per la
raccolta della legna.
Nella realtà, da lì a pochi minuti, si sarebbe scatenato l’inferno; gli avvenimenti
che seguirono trovarono una delle loro più drammatiche descrizioni nel resoconto
redatto dal martire Walter Ulanowsky, che, dopo aver partecipato a questa disperata resistenza, venne infine catturato nel rastrellamento, per essere poi trasferito al
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Capitolo terzo
carcere genovese di Marassi e fucilato, insieme ad altri sopravvissuti all’eccidio
della Benedicta, nel corso della strage del Turchino, il 19 maggio 1944.
L’operazione tedesca era studiata in ogni dettaglio; il grosso della forza tedesca,
con l’appoggio di alcune compagnie della GNR e di un reparto del reggimento di
bersaglieri stanziato a Bolzaneto, percorrendo varie rotabili, tra cui la strada della
Bocchetta, quella del Turchino, la Gavi-Ovada e la Pontedecimo-Isoverde, avrebbe
dovuto stringere in una morsa d’acciaio tutte le località di fondovalle, nella zona
tra la valle Stura e la valle Scrivia,“ingabbiando” la totalità dei distaccamenti partigiani dislocati nell’area circostante il monte Tobbio e le capanne di Marcarolo, ed
impedendo in tal modo ogni via di fuga all’accerchiamento (proprio per la data del
giorno 6 aprile era stato inoltre fissato il coprifuoco nel comune di Voltaggio e negli
altri comuni viciniori, dalle ore 18.30 alle ore 7, da parte del Capo della Provincia
di Alessandria “per disposizione del Comando Militare germanico”; nello stesso
provvedimento si disponeva altresì che le porte d’accesso ai fabbricati avrebbero
dovuto rimanere «aperte anche di notte», evidentemente perché si voleva impedire
ai partigiani che si fossero sottratti al rastrellamento di poter trovare ivi rifugio senza
essere scoperti dai nazifascisti.
Chiuse così le vie di fuga, alcune formazioni tedesche si sarebbero inerpicate
sull’altopiano ed avrebbero posto in essere l’azione di “bonifica”.
Le truppe germaniche, che si coordinarono efficacemente, in un’azione volta ad
intreressare i settori di Lerma, Carrosio, Voltaggio, Masone, Rossiglione e
Campomorone, erano fornite di un armamento e di mezzi più che adeguati, con
autoblindo, cingolati, mortai, lanciafiamme, mitragliatrici pesanti, molte armi automatiche e vari pezzi di artiglieria da montagna.
Vi erano poi, per rendere più agevole questa “caccia all’uomo”, dei cani lupo
addestrati, appartenenti a speciali gruppi cinofili. Risulta confermata, dalla narrazione fatta da coloro che vissero quei momenti, la presenza di un aereo Cicogna,
che segnalava alle truppe che avanzavano la presenza dei distaccamenti partigiani.
Verso le ore otto del 6 aprile da parte delle sentinelle dell’“Alessandria”, o meglio
di un presidio avanzato posto presso il monte Lanzone, venne segnalato che la
colonna tedesca partita da Voltaggio era ormai vicinissima.
A quel punto Odino, non rendendosi conto che da parte tedesca era stata posta
in essere una manovra concentrica che interessava l’intera zona, e pensando invece
di trovarsi di fronte a semplici colonne nazifasciste isolate, ordinò un ripiegamento
alla Benedicta, anche sulla base degli accordi a suo tempo presi con il Comando
della Brigata “Liguria” ed in base ai quali in caso di attacco gli uomini della Brigata
“Alesandria”, per lo più privi di armi, avrebbero potuto rifornirsi dei moschetti che
si trovavano depositati appunto alla Benedicta.
La manovra di ripiegamento della Brigata “Alessandria” doveva essere protetta
dalla resistenza degli uomini comandati da Merlo e Pestarino. Intanto peraltro un’altra colonna tedesca si stava dirigendo verso le capanne di Mercarolo. L’effetto sorpresa connesso a questo ulteriore attacco provocò effetti devstanti, dando luogo,
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almeno inizialmente, ad uno stato di completo disorientamento, anche a causa di
alcune disposizioni impartite che non tenevano conto dell’effettiva evoluzione della
situazione 10, ed alle quali non fecero seguito nuove, più puntuali indicazioni da
parte dei responsabili del Comando della III Liguria.
In mancanza di adeguati collegamenti e di un coordinato piano di difesa 11, nonostante l’eroica rsistenza opposta da alcuni distaccamenti e da alcune squadre (con
armamenti peraltro impari, giacché mentre le forze germaniche disponevano di armi
pesanti, i partigiani potevano efettuare solo un fuoco ravvicinato), verso le ore 13 le
truppe germaniche poterono raggiungere le capanne di Marcarolo, da dove venne
iniziato un cannoneggiamento, con mortai e mitragliere, in direzione della Benedicta.
Vista l’assenza di reazione, dopo circa mezz’ora i tedeschi si impadronirono
anche dell’Intendenza garibaldina, ove trovarono peraltro solo alcuni uomini privi
di armi. Di questa situazione, e cioè del fatto che la Benedicta era ormai caduta in
mano nemica, non erano tuttavia a conoscenza gli uomini della Brigata
“Alessandria”, che si stavano invece recando in tale area, convinti di trovare ivi le
armi che avrebbero loro consentito di proseguire la lotta.
I vari componenti di questa Brigata si erano distanziati nel corso della marcia; i
più giovani, con alla loro guida Pestarino, avevano infatti potuto procedere più
celermente rispetto al gruppo ove c’era il comandante Odino, che a causa della sua
età non poteva tenere lo stesso passo. Era poi stata segnalata la presenza di un’ulteriore colonna tedesca, partita da Lerma al fine di spezzare i collegamenti fra le
due formazioni partigiane della “Liguria” e dell’“Alessandria”.
10
V. al riguardo la già ricordata “Relazione sugli avvenimenti della Brigata Ligure”, datata Genova,
4 maggio 1944: «il giorno dell’attacco da parte delle truppe tedeche il compagno Toscano si recava
all’Intendenza per prendere ordini in merito. L’ordine fu dato nel modo seguente: “in caso di attacco, gli
armati del distaccamento N° 1 si ritireranno sul monte adiacente al distaccamento stesso, i disarmati ripiegano subito al distaccamento N° 5 e si mettano sotto la protezione dello stesso”. L’ordine non fu eseguito
altrimenti avrebbe portato a morte sicura di quaranta uomini. Come mai il comando trasmise quest’ordine? FORSE NON ERA AL CORRENTE DELLA SITUAZIONE DELLA PROPRIA BRIGATA».
11
V. la “Relazione del giorno 6/4/44” redatta dal partigiano noto col nome di battaglia di
“Giacomino”: «nel campo militare, riassumendo, ho notato molta disorganizzazione da parte del
Comando di Brigata che non è intervenuto affatto, inoltre, nel momento più critico dela situazione, dopo
aver stabilito in precedenza i luoghi di ritrovo in caso di ritirata. L’autonomia mai prima concessa ai singoli Distaccamenti, per tragica ironia, è stata elargita proprio nel momento più grave attraversato dalla
Brigata “Liguria”. È mia convinzione che abbia enormememnte partecipato al collasso, la mancanza
diretta dei collegamenti tra il Comando principale e tutti noi». Lo stesso partigiano, nel descrivere il
momento iniziale del rastrellamento, quando si ebbe notizia del sopraggiungere delle forze nazifasciste,
così afferma: «attendo disposizioni da parte del Comando di Brigata onde attuare i piani studiati durante
l’ultima riunione dei Comandanti militari, ma nessun ordine giungerà in proposito». Tra le convulse
vicende del giorno 6 aprile, vengono ricordati, oltre a sublimi gesti di eroismo, quale quello del partigiano che, gravemente ferito ad una gamba ed incurante del dolore, chiese ed ottenne un’arma esclamando: «se è vero che ho una gamba bucata, ho le mani sane e posso far fuoco», anche episodi di tradimento; nella narrazione sovracitata si rivela infatti che alcuni partigiani fuggirono abbandonando le
armi e che addirittura uno «poi vestita la divisa repubblicana, servirà da guida ai nazifascisti».
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Capitolo terzo
Pestarino con i suoi uomini, giunto rapidamente alla Benedicta, non si rese conto
di essere caduto nelle fauci del nemico e dovette immediatamente arrendersi. Gli
spari provenienti dall’Intendenza misero peraltro sull’avviso gli altri partigiani
dell’“Alessandria” che stavano sopraggiungendo, e che decisero allora di deviare
e di nascondersi in una grotta, detta “tana del lupo”.
Qui rimasero nascosti per molte ore, senza esser scoperti. Furono peraltro catturati verso sera, in quanto il cane che era con loro cominciò ad abbaiare; per farlo
smettere, qualcuno pensò di colpirlo con un calcio; la bestia accrebbe allora il
numero dei latrati, che vennero così avvertiti dai tedeschi alla ricerca dei partigiani
ancora sfuggiti alla cattura 12.
Anche nella notte, alla luce dei razzi illuminanti e dei riflettori, questa “caccia
all’uomo”continuò, e proseguì poi tutto il successivo giorno 7 aprile, fino a notte
inoltrata.
Riteniamo importante fornire la descizione di questa drammatica vicenda, come
riportata nel diario del partigiano Walter Ulianowski, a cui abbiamo già fatto riferimento, e che con una prosa dai tratti descrittivi a volte convulsi offre un reportage
unico, in quanto proveniente direttamente da uno dei combattenti (e sottoposto
quindi anche agli errori dovuti alla concitazione del momento, come quando viene
riferito che gli assalitori erano circa ventimila), della Benedicta: «stamane alle
prime ore del giorno truppe germaniche, SS tedesche e italiane, truppe regolari italiane (bersaglieri, milizia, ecc.) per un complesso di circa 20.000 uomini, con artiglierie medie (149 mm.), carri armati ed autoblinde, hanno iniziato i combattimenti
contro le prime postazioni partigiane. Subito appare che la manovra di accerchiamento è in atto. Forti colonne avanzano in zona occupata dalle forze partigiane,
aerei da osservazione tedeschi sorvolano ininterrottamente la zona, mentre le artiglierie martellano senza posa le postazioni partigiane.
Primi combattimenti: il 4° ed il 5° distaccamento ripiegano su posizioni retrostanti, abbandonando gli scarsi viveri in loro dotazione, non senza avere minato
prima i posti di obbligato passaggio.
Superiorità tedesca in quanto dispongono di armi il cui tiro è più lungo di quello
delle armi partigiane.
Verso le ore 9 il distaccamento GAP è investito da violento fuoco di artiglieria e
di mitragliatrici pesanti. La GAP scende incontro al nemico. Il nemico bisogna attaccarlo da vicino perché, solo allora, l’armamento nemico è meno rapido e potente.
Combattimenti in tutta la zona: colpi di mano di pattuglie. Le posizioni partigiane
debbono essere a mano a mano sgomberate a causa del fuoco di artiglieria nemica.
Il 1° ed il 3° distaccamento resistono per tutta la giornata, ricacciando il nemico
che subisce perdite sanguinose.
12
Per una descrizione di questa vicenda v. G. AMELOTTI, In memoria di una sinfonia di Martiri: la
“Benedicta”, in La Provincia di Alessandria, Rivista mensile dell’Amministrazione provinciale, 1966,
n. 4, pag. 20.
Il massacro della Pasqua del 1944 ed i suoi riverberi
129
Verso le 11 truppe tedesche entrano in contatto con pattuglie dell’Intendenza.
Breve e rapido scambio di fucileria. I tedeschi iniziano un violento fuoco di mitragliatrici pesanti mentre la fanteria nemica avanza. Scambio di bombe a mano. I partigiani si ritirano su posizioni retrostanti, senza subire gravi perdite.
Il 4° ed il 5° distaccamento ripiegano in forze verso l’Intendenza.
Verso le 13 una colonna tedesca, marciante a mezza costa in località Capanne
di Marcarolo, è posta in fuga dal fuoco concentrico di armi automatiche e dal nutritissimo lancio di bombe a mano. Abbandona sul terreno tre mitragliatrici senza
munizioni. Le mitragliatrici sono immediatamente distrutte.
Alle 14 circa elementi del 4° e del 5° distaccamento raggiungono l’Intendenza,
dopo avere forzato l’anello che li rinchiudeva e li circondava.
Nel pomeriggio, dalle 15 alle 20, aspri e violenti combattimenti a distanza ravvicinata, tra elementi tedeschi ed elementi nostri dell’Intendenza, del 4°, 5° e 6°
distaccamento.
In serata giunge notizia che la GAP ha dovuto abbandonare la propria posizione
perché di gran lunga inferiore per numero di uomini, di armi e di munizioni.
Il Comando viene abbandonato. Il 1° ed il 3° distaccamento attaccano per tutta
la notte le posizioni del nemico. Un autocarro cingolato viene distrutto. Si catturano prigionieri, che vengono immediatamente giustiziati sul posto e ciò perché i
tedeschi lo fanno.
Alle ore 23 tutti i distaccamenti entrano in azione con bombe al fosforo. I tedeschi abbandonano armi e vettovagliamento.
L’artiglieria nemica batte senza tregua le posizioni partigiane. Attacchi tedeschi all’arma bianca vengono respinti con il fuoco micidiale degli sten e con bombe a mano.
Si rileva che i tedeschi sono sufficientemente allenati ed addestrati nella guerriglia in montagna. Tutti i monti circostanti sono in fiamme. È l’alba del 7 aprile.
Violentissimo fuoco delle artiglierie di piccolo e di medio calibro. Stamane 7 aprile
i tedeschi riattaccheranno.
I prigionieri catturati da ambo le parti sono fucilati.
Le quote già occupate dal 1° e dal 3° distaccamento vengono attaccate in forza.
L’Intendenza viene sgomberata. Violenti combattimenti tra le rocce, con lancio di
bombe a mano offensive ed incendiarie.
I tedeschi usano lanciafiamme. Tutto brucia. I tedeschi hanno pane. Da 48 ore
non dormiamo, non mangiamo, non beviamo. Resistiamo. Alcuni scappano, abbandonano le armi. Vigliacchi.
Ore 7,30: guardo l’orologio per l’ultima volta! I combattimenti si fanno più aspri:
indietreggiamo!
Il fumo è tale che sembra notte. Stiamo facendo cadere una colonna tedesca in
un’imboscata; purtroppo siamo scambiati per tedeschi, data la scarsa visibilità e saltiamo all’aria a causa di una nostra mina fatta esplodere. Sono fatto prigioniero e
condotto all’Intendenza ove trovo altri 98 prigionieri, tra i quali il Capitano Odino
del distaccamento Bosio. Trascorriamo la giornata.
130
Capitolo terzo
Nel pomeriggio l’Intendenza, già in mano tedesca, viene attaccata da una pattuglia partigiana. Due partigiani rimangono uccisi. Dei 98 veniamo scelti 20, tra cui
il capitano Odino.
Gli altri furono separati da noi. Venne la notte: la più terribile notte della mia
vita. Credevo fermamente di essere fucilato alla mattina.
Walter Ulanowski» 13.
Lo stesso 7 aprile, giorno del Venerdì Santo, vennero iniziate le uccisioni dei
partigiani catturati. Spesso in assenza di un qualsivoglia simulacro di interrogatorio, dopo la semplice formalità rappresentata dall’annotazione dei loro nomi, ad
opera del fattore della Benedicta, si procedette alla strage; i fucilandi, con cadenze
regolari, venivano spinti a gruppi di cinque, lungo un sentiero che avrebbe dovuto
portare al torrente Gorzente ma che in questo caso conduceva verso il plotone di
esecuzione. Uno dei fucilati, Ernesto Traverso, era un alunno del Seminario, e chiese
(come poi riferito nel diario di Don Pietro Zuccarino, parroco di Voltaggio) di poter
morire in ginocchio con il crocifisso in mano.
In alcuni casi vi fu invece una sorta di “processo” ad opera di un improvvisato
“tribunale” tedesco, che dopo poche domande rivolte ai catturati procedeva a comminare loro la condanna a morte.
Numerosi altri partigiani erano già caduti in combattimento; alcuni erano stati massacrati subito dopo la cattura, quando non avrebbero più potuto opporre resistenza,
come nel caso di un partigiano ammalato, trovato a letto e ferito mortalmente con due
colpi di pistola sparatigli negli occhi e poi, agonizzante, fatto bruciare vivo 14.
In un resoconto di fonte tedesca, redatto l’11 aprile 1944, all’esito dell’azione
antipartigiana del monte Tobbio (trattasi di appunti, conservati presso l’Archivio
Federale di Friburgo, provenienti dai diari di guerra del 75° C.d.A. e Armata von
Zangen), si parla di circa 150 morti tra i partigiani e di 368 prigionieri, oltre all’impossessamento come bottino di 120 fucili da caccia, 9 revolver, 9 pistole, una baionetta, otto fucili mitragliatori; in base a queste fonti tedeschi le perdite delle forze
nazifasciste sarebbero state ridottissime, e cioè soli quattro morti, fra cui un milite
della RSI, undici feriti gravi e tredici feriti leggeri, tra cui otto militi della RSI.
13
Chi volesse fare alcune considerazioni su questa descrizione dovrebbe in primo luogo rilevare
come essa faccia riferimento alla fucilazione di alcuni soldati tedeschi, effettuata dai partigiani che in
tal modo intendevano seguire l’esempio accolto dai loro nemici. Inoltre, a differenza di quanto emerge
in altre descizioni, fatte da uomini della Brigata “Alessandria”, secondo cui non vi fu praticamente resistenza all’Intendenza sede della Brigata “Liguria”, tanto che i primi raggruppamenti dell’“Alessandria”,
giunti alla Benedicta, furono immediatamente catturati dai tedeschi ormai padroni dell’edificio, qui il
racconto di un componente della Brigata “Liguria” fa al contrario riferimento ad una resistenza di notevole spessore anche da parte degli uomini che si trovavano all’Intendenza. Viene poi dato atto di alcune
defezioni di partigiani, che fuggirono abbandonando la lotta. Appare infine significativo notare che la
formazione comandata da Odino sia definita come un mero distaccamento della Brigata “Liguria”, anziché come una Brigata Autonoma.
14
V. sul punto DON BERTO, Sulla montagna con i partigiani, cit., pag. 34.
Il massacro della Pasqua del 1944 ed i suoi riverberi
131
Va osservato che tali dati non coincidono affatto con quelli riportati da vari diari
resistenziali, ove si parla invece di pesanti perdite subìte dalle forze germaniche nel
corso dell’operazione di rastrellamento.
Non tutti i partigiani furono presi (il numero maggiore di catturati provenne dalla
Brigata “Alessandria”, a causa dell’esito infelice del ripiegamento operato alla
Benedicta). Alcuni, che erano riusciti a sottrarsi alla cattura, filtrarono attraverso
gli sbarramenti e raggiunsero località non coinvolte dall’accerchiamento e dunque
di relativa sicurezza, poste al di là del passo della Bocchetta; altri però, cercando di
sfuggire sfruttando le ore notturne o le nebbie della prima mattina, finirono per
imbattersi nuovamente nelle truppe germaniche (tra questi una trentina di uomini
appartenenti al V Distaccamento della Brigata “Liguria”, che sotto il comando di
Emilio Casalini “Cini”, dopo essersi allontanati dalla Cascina Grilla, sede del loro
distaccamento, vennero sorpresi mentre marciavano nei pressi del monte Figne) e
caddero in cambattimento o furono immediatamente fucilati dopo essersi arresi. In
particolare tredici furono fucilati a Villa Bagnara, quattrodici a Passo Mezzano, otto
(tra cui Emilio Casalini) a Voltaggio.
I tedeschi volevano anche fucilare il parroco della chiesa delle Capanne di
Marcarolo, accusandolo di aver fatto suonare le campane per avvertire i partigiani
dell’inizio dell’operazione di rastrellamento. Il parroco si difese peraltro, osservando che le campane avevano suonato perché era il Giovedì Santo.
Terminata l’operazione di rastrellamento, dopo aver saccheggiato e distrutto i
vari casolari e le relative stalle, ad ulteriore scempio e per rendere ancora più marcato il ricordo di quanto era avvenuto, i tedeschi decisero di minare e di far saltare
in aria l’intero edificio della Benedicta, che rappresentava il simbolo di questi mesi
di lotta partigiana.
I fascisti poi impedirono ai parenti delle vittime di recarsi a cercare i loro morti,
respingendoli con violenza e con accenti di scherno (al canto dell’inno
“Giovinezza”) dal luogo ove era avvenuto il massacro, tanto che si dovette attendere qualche giorno prima che i corpi dei martiri potessero essere raccolti, avvolti
in teli portati da alcune donne del luogo e rinchiusi poi in una serie di bare zincate,
acquistate grazie ad una colletta fra tutta la popolazione.
Solo a guerra finita, trainate da carri agricoli, le salme poterono essere portate a
valle per essere finalmente tumulate, e ricevere degna sepoltura, con funerali a cui
parteciparono tutte le popolazioni locali.
L’insegnamento offerto dal sacrificio della Benedicta e le successive operazioni partigiane
È stato osservato che l’episodio della Benedicta costituì un’ideale linea di demarcazione tra due diverse “fasi” della Resistenza, in quanto questo eccidio impose una
rimeditazione delle scelte fino a quel momento adottate.
132
Capitolo terzo
Proprio questo porsi della Benedicta quale vicenda storica che spronò il mondo
resistenziale ad una diversa organizzazione della lotta evidenzia come essa non vada
etichettata, riduttivamente, solo come un momento di sconfitta del partigianato, in
quanto, al contrario, dal sangue di quei giorni maturarono le premesse per una
grande ripresa della lotta.
I fatti della Benedicta vanno dunque considerati, nella linea di sviluppo del movimento resistenziale «come spartiacque tra un PRIMA (fase organizzativa e “ingenua” delle “bande” di renitenti o ribelli) e un DOPO (fase della riflessione e della
maturità partigiana, che portò alla riscossa e alla vittoria finale)» 15; conseguentemente l’insegnamento proveniente da questi martiri costituisce il «simbolo di una
sconfitta che muta di segno, diventa vittoria morale dapprima, riscossa e vittoria
reale infine» 16.
Solo apparentemente i nazisti realizzarono lo scopo perseguito con il rastrellamento, e cioè quello di terrorizzare le popolazioni locali, onde scoraggiare nuove
adesioni alla Resistenza e far cessare, per il timore delle possibili conseguenze, i
rapporti di colleganza esistenti tra gli abitanti del luogo ed i partigiani, creando
“terra bruciata” intorno alle formazioni combattenti.
Nella realtà le organizzazioni partigiane tornarono ben presto ad ingrossarsi e le
popolazioni contadine, dopo alcuni mesi in cui il terribile ricordo di quanto era avvenuto li indusse a negare ulteriori aiuti ai gruppi della Resistenza, trovarono poi il
coraggio e la forza di riaprire nuovamente le porte delle loro umili case ai partigiani, costituendo così, come in precedenza, un valido, indispensabile supporto alle
varie formazioni, soprattutto per quanto concerneva le richieste di cibo.
Certo, almeno nei mesi immediatamente successivi, il contraccolpo fu terribile.
Con l’eccidio della Benedicta erano svanite le tante attese legate alle due formazioni partigiane distrutte, ed in particolare il sogno di vedere ben presto il movimento partigiano in grado di controllare un’area che era giudicata fondamentale,
strategicamente, da parte di entrambi gli schieramenti.
Per un certo periodo di tempo, questo territorio risultò invece del tutto privo di
formazioni della Resistenza, con limitate eccezioni, tra cui quella della banda di
Franco Anselmi, operante nella zona della Val Borbera, ma di consistenza alquanto
ridotta. Erano inoltre state completamente distrutte tutte quelle basi e postazioni che
avevano reso possibile l’insediamento dei gruppi partigiani nei mesi precedenti.
Abbiamo peraltro ricordato che l’esperienza della Benedicta risultò istruttiva per
l’intero mondo partigiano, inducendolo ad una profonda riflessione e rimeditazione
delle sue impostazioni di lotta.
L’adozione di nuovi criteri di addestramento e di nuove metodologie tattiche è
confermata dal fatto che a seguito di questa strage si ritenne necessario emanare
delle disposizioni volte a scongiurare il ripetersi degli sbagli del passato.
15
16
D. BORIOLI-R. BOTTA-F. CASTELLI, Benedicta 1944, cit., pag. 5.
D. BORIOLI-R. BOTTA-F. CASTELLI, Benedicta 1944, cit., pag. 6.
Il massacro della Pasqua del 1944 ed i suoi riverberi
133
Infatti, con riferimento all’insegnamento, dal punto di vista “strategico”, offerto
dall’eccidio della Benedicta, va osservato che il 20 maggio 1944, proprio sulla base
di questo e di analoghi episodi, la Sezione Operazioni del Comando Generale del
Corpo volontari per la libertà inviò alle delegazioni, alle brigate ed ai distaccamenti
delle «istruzioni tattiche da seguire contro i rastrellamenti», nelle quali si stigmatizzavano gli errori commessi, rilevando che «ancora troppo spesso le nostre formazioni sono “sorprese” dai rastrellamenti e non conoscono l’importanza delle
forze nemiche, le loro direttive d’azione, né hanno preparato nulla per farvi seriamente fronte o per ritirarsi con sicurezza e rapidità, senza gravi perdite di uomini e
materiali» 17.
Tutto ciò, se non valse ad evitare ulteriori eccidi (per quanto riguarda l’Alessandrino, basterebbe purtroppo menzionare la strage di Orbicella, nell’Acquese,
della Banda Lenti, a Camagna, e della Banda Tom, a Casale Monferrato) servì
comunque a limitare le perdite.
Ad esempio, nel pur sanguinoso rastrellamento operato tra il 25 ed il 31 dicembre 1944 nelle valli Borbera e Curone, tali perdite vennero contenute grazie allo
sganciamento di molti partigiani, che riuscirono ad infilarsi tra le maglie del rastrellamento, o comunque a salvarsi grazie alla tattica dell’“imbucamento”, consistente
nel rifugiarsi in nascondigli sotterranei precedentemente preparati e dotati di cibo
sufficiente per sopravvivere alcuni giorni .
Fu inoltre limitata, proprio per impedire il ripetersi di quanto era avvenuto alla
Benedicta, la concentrazione di un numero eccessivo di truppe partigiane nella
stessa zona, essendosi compreso che essa avrebbe diminuito le possibilità di effettuare manovre di sganciamento e di diversione, e si preferì invece mantenere le formazioni separate in vari distaccamenti, tra loro strettamente coordinati.
Dalle ceneri della Benedicta si sviluppò con nuovo vigore il movimento resistenziale, conscio della necessità di raccogliere il testimone morale lasciato da questi martiri; ciò è del resto concretamente testimoniato dal fatto che furono proprio
alcuni scampati alla Benedicta a dar vita alla Divisione partigiana “Mingo”, operante nell’Ovadese.
Sempre in chiave di diretta continuità, va ricordato come la Brigata Garibaldi
“Buranello” sia stata costituita da Commissari di distaccamento e da partigiani della
III Brigata “Liguria”, e si sia trovata ad operare proprio in un’area ove i cascinali
incendiati ed ormai ridotti a macerie rappresentavano il visibile ricordo dell’eccidio dell’aprile precedente.
Né bisogna dimenticare che alcuni superstiti appartenenti alla formazione del
capitano Odino diedero a loro volta vita ad una nuova, risorta Brigata Autonoma,
che vollero appunto intitolare al nome del loro vecchio comandante, e cioè II Brigata
Autonoma “Gian Carlo Odino”, e che operò nell’area di Voltaggio.
17
Per la lettura del testo di queste Istruzioni v. Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti,
Volume primo, Agosto 1943-maggio 1944, a cura di G. Carocci e G. Grassi, Istituto Nazionale per la
Storia del Movimento di Liberazione in Italia – Istituto Gramsci, Milano, 1979, pag. 422 ss.
134
Capitolo terzo
Figura 3.1. – Prima Messa alla Benedicta sulle macerie del vecchio Convento (1946).
Il comandante Giuseppe Merlo, uno dei fondatori di quella che era stata la “banda
di Voltaggio”, costituì invece, con una quarantina di altri giovani, dei quali molti
provenivano dalla zona di Bosio, un’altra formazione militare autonoma, il cui
nome fu non meno evocativo, in quanto venne appellata “martiri della Benedicta”.
Si cercò poi di meglio definire e ripartire, con riferimento a questi territori di
confine tra Piemonte e Liguria, le competenze del Comando militare regionale
ligure nelle aree che formalmente sarebbero invece risultate di pertinenza del
Comando militare regionale piemontese.
Il Comando militare regionale ligure aveva infatti a più riprese sottolineato come
dovesse essere riconosciuta a tutti gli effetti una zona di influenza, nell’ambito del
territorio di Alessandria, alle unità partigiane liguri che ivi concretamente operavano.
Il problema venne risolto, dopo una serie di divergenze tra il Comando ligure e
quello piemontese, con la costituzione, avvenuta il 27 settembre 1944, della II
Divisione unificata Ligure-Alessandrina.
Va peraltro riconosciuto che anche in tal caso si riproposero le difficoltà, già
insorte ai tempi della “banda di Voltaggio” e poi della “Brigata Alesandria”, connesse alla diffidenza degli “autonomi” a confluire in strutture partigiane maggiormente “irregimentate”. Ed in effetti Giuseppe Merlo, rispecchiando quella che
molto probabilmente sarebbe stata l’impostazione del suo vecchio Comandante, e
cioè del martire Gian Carlo Odino, decise che i suoi uomini non sarebbero entrati
Il massacro della Pasqua del 1944 ed i suoi riverberi
135
a far parte di tale Divisione, preferendo essi mantenere la loro totale automia, anche
dal punto di vista operativo.
Nel frattempo molte cose era mutate, sul versante nazifascista. La rottura del
fronte avvenuta a Montecassino aveva obbligato a trasferire d’urgenza, sulla nuova
linea difensiva ricostituita tra Livorno e Macerata, la Trecentocinquantaseiesima
Divisione. Per non lasciare scoperto il territorio prima presidiato da tale Divisione,
venne inviata la Quarantaduesima Divisione cacciatori, posta sotto il comando del
generale Walter Jost. Furono poi mandati in rinforzo dei reparti del 38° reggimento
cacciatori, in forza presso la Diciannovesima Divisione da campagna della
Lufwaffe, e che si posizionarono lungo un perimetro compreso tra Novi Ligure,
Alessandria e Tortona. Verso la fine di giugno del 1944, giunse anche la Trentaquattresima Divisione di fanteria, posta agli ordini del generale Theo-Helmut Lieb.
Il momento di maggior presenza di truppe nazifasciste nell’area fu raggiunto
poco tempo dopo, con l’arrivo di due Divisioni dell’esercito della RSI formate ed
addestrate in Germania, e cioè la San Marco e la Monterosa.
L’insieme di tutte queste truppe diede vita ad un’unica grande unità mista, e cioè
l’Armata Liguria, posta, a partire dal 1° agosto del 1944, sotto il comando del generale Rodolfo Graziani, che stabilì il suo Quartier Generale a Novi Ligure.
A seguito dello sbarco alleato nella Francia meridionale, il quadro complessivo
subì un nuovo sconvolgimento. Occorreva infatti, da parte tedesca, rinforzare il
nuovo fronte che si era venuto a creare intorno al confine italo-francese, e per far
ciò si rese necessario sguarnire parzialmente il territorio confinante fra la Liguria
ed il Piemonte.
Nell’area che va dalla costa ligure all’Alesandrino furono lasciate le Divisioni
repubblichine San Marco e Monterosa, alle quali venne aggiunta la Duecentotrentaduesima Divisione tedesca di fanteria. Tale divisioni andarono a far parte del
neocostituito Corpo d’Armata Lombardia, ricompreso nell’Armata Liguria e posto
sotto la direzione del generale Curt Jahn.
Questa riduzione di forze favorì una sempre più intensa ripresa del movimento
partigiano, rinvigorito anche da una serie di brillanti successi in varie operazioni.
A contrastare sanguinosamente, ed almeno per un certo tempo con indubbia efficacia, il movimento resistenziale nell’area ligure ed in quella alessandrina fu peraltro inviato, verso l’ottobre del 1944, il 39° reggimento contrareo (Flak), per volontà
del colonnello Nast-Kolb, al quale era stato affidato il compito di istituire un apposito Comando destinato al coordinamento delle operazioni antiguerriglia in questo
settore di retrovia rispetto all’area delle operazioni.
Il 39° reggimento Flak effettuò il tristemente famoso rastrellamento dell’Olbicella, operò la cattura della banda Lenti e proseguì la sua attività con i rastrellamenti di Spinetta, Roccagrimalda e Castelferro.
L’inverno 1944-1945 fu un inverno durissimo per il partigianato ligure ed alessandrino, così come in generale lo fu per tutto il partigianato italiano, anche per l’effetto psicologico fortemente negativo derivante dal proclama emesso dal generale
Alexander.
136
Capitolo terzo
Era inoltre giunta, nell’area geografica che costituisce oggetto della nostra anali,
la Centosessantaduesima Divisione di fanteria Turk – così chiamata in quanto composta da azerbagiani e turchestani –, posta agli ordini del generale Ralph von
Heygendorff e già ben nota per le violenze di cui si era resa protagonista.
Fu tale Divisione, unitamente a Reparti italiani della GNR, delle Brigate Nere,
della Monterosa e della S.Marco, ad operare, tra la fine del mese di novembre e l’inizio di dicembre, il rastrellamento delle valli Borbera e Curone, noto come
Operazione Aachen-Acquisgrana.
Fu questo l’ultimo grande rastrellamento. Da lì a poco, le forze della libertà
avrebbero finalmente prevalso in via definitiva.
Un’ulteriore scia di sangue. La fucilazione al Turchino di alcuni partigiani
catturati alla Benedicta. La deportazione di altri sopravvissuti nei campi
di concentramento tedeschi
Le fucilazioni del 7 aprile 1944 non segnarono il momento finale di quella catena
dell’orrore che si era iniziata con le prime uccisioni dei partigiani nell’area del
monte Tobbio, e che aveva comportato, almeno per alcuni paesi della zona, l’eliminazione fisica della quasi totalità della componente maschile giovanile (basti
pensare che nel comune di Voltaggio su trentasei giovani appartenenti alle classi
1923,1924 e 1924 solo tre sopravvissero alla strage).
L’8 aprile, e cioè il Sabato Santo di Pasqua, furono fucilati a Voltaggio altri otto
partigiani, tra cui Emilio Casalini. Essi morirono cadendo al grido di «viva l’Italia!».
Altri tredici furono fucilati lo stesso giorno a Villa Bagnara. Infine il giorno 11
aprile, quando ormai le truppe tedesche avevano ricevuto l’ordine di rientrare in
sede, e tutti ritenevano che non si sarebbe assistito ad ulteriori fucilazioni, vennero
giustiziati otto prigionieri, quasi tutti appartenenti alla Brigata “Alessandria”.
Secondo alcuni testimoni alla strage, essa fu considerata dai suoi esecutori come
una sorta di passatempo, per cancellare la noia della truppa nella mezz’ora di attesa
prima del rientro in sede.
I nazifascisti si rendevano peraltro conto che una serie consistente di giovani era
riuscita a sottrarsi all’operazione di “bonifica”. Venne allora emanato un bando, da
parte del Comando tedesco, nel quale si garantiva l’impunità a quanti si fossero presentati 18, affermandosi che essi non avrebbero subìto alcuna conseguenza negativa,
ed in particolare non avrebbero rischiato la successiva deportazione in Germania,
potendo scegliere tra l’arruolamento nell’esercito della RSI o l’immissione nelle
compagnie di lavoro in Italia.
18
Sull’emanazione di detto bando v. DON PIETRO ZUCCARINO, in 41° Anniversario dei caduti di
Voltaggio, s.e.; s.d. (ma 1985), pag. 4 ss.
Il massacro della Pasqua del 1944 ed i suoi riverberi
137
Il bando era firmato da Rothenpieler, uno strano personaggio, già maggiore dell’esercito tedesco, da tempo trasferitosi a Voltaggio, probabilmente inviato per lo
svolgimento di operazioni di controllo del territorio italiano e poi attivo, dopo l’8
settembre, anche nell’attività di individuazione dei partigiani e degli antifascisti.
Detto provvedimento suscitò una serie di angosciosi interrogativi presso molte
famiglie della zona. Alcuni genitori, ritenendo che la presentazione costituisse l’unico mezzo che avrebbe permesso ai loro figli, nascostisi per evitare la cattura, di
sottrarsi ad una morte altrimenti quasi certa, vollero consigliarli in tal senso.
Questo consiglio, orientato a favore della scelta apparentemente più “sicura”
– ma che in realtà, come subito vedremo, si sarebbe tradotta in una scelta di morte –,
costituì per tutti coloro che l’avevano dato un incubo destinato a perseguitarli durante il resto della loro vita.
Era comunque difficile prevedere quanto in realtà sarebbe avvenuto. I giovani
che si presentarono, ammontanti ad oltre quattrocento, e provenienti dai comuni di
Mornese, Lerma, Bosio, Voltaggio, S. Martino, vennero riuniti dapprima a
Voltaggio, ove lo stesso maggiore Rothenpieler, nel corso di un discorso dai toni
apparentemente molto benevoli, assicurò loro, dando la sua parola d’onore, che non
sarebbero stati deportati in Germania.
Da Voltaggio furono peraltro ben presto trasferiti a Novi Ligure, ed ivi rinchiusi
a Villa Rosa, un edificio che in precedenza era stato sede di una casa di tolleranza.
Lo schieramento di sentinelle che li circondava rese evidente che nella realtà si stavano completando i preparativi per la deportazione in Germania; in effetti tutti questi giovani vennero inviati, con vari convogli, rispettivamente i giorni 10, 11 e 12
aprile, verso i terribili campi di sterminio di Gusen e di Mauthausen.
Un documento di fonte tedesca appare estremamente significativo per quanto
concerne l’indicazione numerica dei deportati. Si tratta di un messaggio rinvenuto tra le carte della Militärkommandantur, già custodite nel Bundesarchiv/
Militärarchiv di Friburgo 19. I Comandi di distretto, e cioè, appunto, le Militärkommandanturen, dovevano infatti inoltrare ogni mese delle relazioni concernenti
la situazione delle zone di loro competenza (Lageberichte). Dette relazioni venivano trasmesse al generale Toussaint, Plenipotenziario delle Forze Armate tedesche
operanti sul nostro territorio, ed al Segretario di Stato Landfried, capo dell’Amministrazione militare tedesca in Italia (Militärverwaltung). Ebbene, nel citato messaggio si parla di 366 persone atte al lavoro (Arbeitskräfte), rastrellate o comunque
presenti nell’area della Benedicta, ed inviate nel territorio del Reich per essere utilizzate come lavoratori coatti.
19
Bundesarchiv/Militärarchiv, Freiburg i.B., BRD, Carte della Militärkommandantur 1014
Alessandria, dal fondo RH 36, busta 486, Relazione del 13 aprile 1944, paragrafo II Allgemeine
Verwaltung, capoverso 4, citato anche da C. MANGANELLI-B. MANTELLI, Antifascisti, partigiani, ebrei. I
deportati alessandrini nei campi di sterminio nazisti 1943-1945, cit., pag. 32, nota 20.
138
Capitolo terzo
Peraltro un numero consistente (qualcuno parla di circa duecento individui) di
coloro che partirono con il primo convoglio (vi furono infatti, come già detto, numerosi convogli, su carri-bestiame) riuscirono a fuggire, lungo il percorso ferroviario,
in quanto, durante una fermata alla stazione di Sesto San Giovanni, dovuta al timore
di un bombardamento, abbandonarono i vagoni sui quali si trovavano, e da lì si dileguarono, anche con l’aiuto di alcuni abitanti della zona 20.
Fra quanti giunsero invece in Germania solo sette riuscirono a sopravvivere e a
ritornare in Patria dopo la guerra.
Furono condotti in Germania anche alcuni gruppi di partigiani catturati alla
Benedicta e non immediatamente fucilati, che vennero inviati con dei convogli
diversi (e con modalità caratterizzate da maggiore durezza e crudeltà) rispetto a
quelli utilizzati per il trasporto dei giovani presentatisi “spontaneamente” al Comando tedesco.
Tra questi partigiani ritroviamo, ad esempio, Giuseppe Odino, della cui straordinaria vicenda umanda daremo conto nel prosieguo della trattazione. Giuseppe
Odino, che apparteneva alla Brigata Autonoma “Alessandria”, guidata dall’omonimo capitano Odino, era incredibilmente sopravvissuto alla fucilazione, nella
quale venne ferito in modo non grave, ma fu ricatturato successivamente e condotto
nel campo di Mauthausen (insieme ai compagni Marco Guareschi e Guglielmo
Guglielmino, poi trasferiti nel sottocampo di Peggau, ove morirono, proprio verso
la fine della guerra, rispettivamente il 12 aprile ed il 21 marzo 1945), da cui venne
poi inviato al sottocampo di Gusen.
Ma il rastrellamento della Benedicta era destinato ad avere un’ulteriore, funesta
appendice. Alcuni degli scampati, che si trovavano comunque in mano delle forze
nazifasciste, furono infatti trucidati, la mattina del 19 maggio 1944, al passo del
Turchino 21, nell’ambito di una fucilazione, operata da soldati della Kriegsmarine
e della SS, nella quale trovarono complessivamente la morte 59 martiri, tra cui 17
erano stati catturati nella zona del monte Tobbio.
Tra i soggetti presi durante il rastrellamento della Benedicta e fucilati al Turchino
vi fu il comandante della Brigata Autonoma “Alessandria”, Giancarlo Odino, insieme ad Isidoro Pestarino e, come già detto, al Commissario della III Brigata “Liguria”, Rino Mandoli.
20
C. MANGANELLI-G. MANTELLI, Antifascisti, partigiani, ebrei, cit., pag. 43, riferiscono, sulla base
delle dichiarazioni racolte da Rinaldo Bottaro, noto con il nome di battaglia di “Franco” e la cui registrazione, insieme ad altre, costituisce il “Fondo Demenech”, che vi fu inoltre la fuga isolata di due prigionieri di Mornese; la scorta tedesca però in questo caso reagì immediatamente, ferendo mortalmente
uno dei due e catturando l’altro, poco dopo.
21
Sull’eccidio del Turchino v. R. BACCINO, L’eccidio del Turchino, Genova, a cura dell’Istituto storico della Resistenza in Liguria, s.d.; C. Ulanowsky, Dalla Benedicta alla fossa del Turchino, Genova,
1964 (va segnalato che l’Autore era il padre di Walter, uno dei martiri del Turchino, che fu poi per tutta
la sua vita uno dei più gelosi custodi della memoria di quel martirio, vegliando costantemente sul sacrario eretto appunto al Turchino).
Il massacro della Pasqua del 1944 ed i suoi riverberi
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Le cause della rappresaglia operata con l’eccidio del Turchino
Il 14 maggio 1944 era stato organizzato dai GAP un’attentato nel centro di
Genova, e più precisamente contro il cinema Odeon, all’epoca riservato in via esclusiva ai militari tedeschi. Un gappista, che per sembianze poteva rassomigliare ad
un tedesco, indossata l’uniforme di un ufficiale germanico riuscì ad entrare nel
cinema ed ivi depositò una borsa nella quale era contenuta una bomba con accensione a tempo. L’esplosione avvenne alle ore 19.45, non appena il gappista si allontanò dal locale, e provocò la morte di cinque militari (si trattava di cinque marinai,
e più precisamente di un militare della Hafenschutztruppe, di uno della 1. Transport
– Flottille e di tre della 22 U – Jagd – Flottille) ed il ferimento di altri quindici.
La rappresaglia, immediata, fu voluta dal comando della SS di Genova, come
confermato dal fonogramma inviato il 17 maggio 1944 dal LXXV Corpo d’Armata,
responsabile della difesa delle coste dell’Italia Nord-Occidentale, all’Armeegruppe
von Zangen, e di cui forniamo il testo tradotto in italiano: «il numero delle vittime
dell’attentato dinamitardo al cinema riservato ai militari di Genova è salito a 5 morti
e 15 feriti. Rappresaglia in preparazione, da parte dello SD».
I soggetti destinati alla fucilazione furono prelevati dalla IV sezione del carcere
di Marassi, e cioè dalla sezione posta alle dirette dipendenze della SS .
Essi erano 59; oltre a 42 altri detenuti, in carcere per attività antifascista, vennero presi 17 partigiani catturati nel corso del rastrellamento della Benedicta.
Come vedremo nel seguito della trattazione, un collaborazionista dei tedeschi,
certo Giuseppe Nicoletti, durante un interrogatorio reso dopo la conclusione della
guerra affermò con sicurezza che Engel non solo aveva voluto la rappresaglia, ma
ne aveva curato personalmente l’esecuzione nei dettagli.
La fucilazione ebbe luogo all’alba del 19 maggio 1944, in località Fontanafredda, vicina al Passo del Turchino.
Le modalità dell’eccidio furono indubbiamente efferate (e per questo contestai
poi ad Engel, in sede processuale, la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 4,
c.p., e cioè l’aver agito «con particolare crudeltà contro le persone»).
Infatti i martiri dovettero salire su delle assi che si protendevano in direzione di
un’unica grande fossa che era stata fatta scavare il giorno precedente ad alcuni detenuti ebrei, parimenti detenuti a Marassi, senza peraltro loro rivelare quale sarebbe
stata la sua funzione. I fucilandi venivano condotti a gruppi di sei, legati fra loro,
lungo quei rudimentali “trampolini” dai quali potevano così vedere i corpi straziati
dei compagni che li avevano preceduti, per poi essere eliminati a loro volta.
Ad aggiungere ulteriore raccapriccio, si deve ricordare che alcuni ufficiali tedeschi vollero portate alcoolici e cibi, per assistenre banchettando a questo macabro
spettacolo.
Può stupire il fatto che un eccidio voluto come rappresaglia, e di cui il Comando
tedesco avrebbe dunque dovuto dare grande eco, proprio perché le rappresaglie avevano la finalità di costituire un deterrente rispetto a nuovi episodi di lotta partigiana,
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Capitolo terzo
sia stato invece tenuto quasi nascosto, tanto che il personale del carcere di Marassi
rifiutò addirittura di dire ai parenti delle vittime quale fosse stata la sorte subita dai
loro cari.
Molto probabilment ci si rese conto che una tale notizia, qualora immediatamente diffusa fra la popolazione, avrebbe potuto infiammare ulteriormente gli
animi dei genovesi contro l’oppressione tedesca, e per questo si decise di mantenere il tutto sotto un prudenziale silenzio.
Del resto in quei giorni il clima era molto teso; come lo stesso Engel ebbe ad
affermare, in un suo dispaccio concernente la situazione genovese, la classe operaia appariva «straordinariamente allarmata» per le notizie, che circolavano da qualche tempo, concernenti la possibilità che oltre 1500 dipendenti delle industrie della
zona fossero forzatamente trasferiti in Germania, in una fabbrica addetta alla produzione di Panzer.
Tutta la Liguria era inoltre ancora scossa per una rappresaglia immediatamente
precedente, che aveva condotto alla fucilazione, il 5 aprile 1944, di tredici partigiani, quale “risposta” all’uccisione di un soldato tedesco, Willi Lange (questi nella
realtà era stato ucciso, nel corso di una rissa, da alcuni suoi commilitoni, i quali
peraltro, onde sottrarsi alle conseguenze di quel delitto, ne avevano attribuito la
responsabilità ad un agguato effettuato da membri della resistenza).
In quell’occasione era stata anche prevista una taglia di 100.000 lire nei confronti degli autori dell’omicidio, si era anticipato il coprifuoco alle ore 19.00 ed era
stato emesso, da parte del prefetto di Savona, Mirabelli, un duro comunicato, in data
6 aprile 1944, affisso su tutti i muri della città e distribuito fra la popolazione 22.
22
Si riporta parte del testo di tale comunicato: «Le indagini esperite per stabilire quali siano gli autori
della vile imboscata contro l’appartenente alle Forze Armate Germaniche Wili Lange hanno dato i
seguenti risultati: i colpevoli appartenevano ad una banda di terroristi, i quali, sotto la guida di agenti
stranieri, hanno avuto lo scopo di turbare con un vile assassinio il buon accordo vigente fra tedeschi e
italiani. Tutte le azioni criminose che sono state commesse in questi ultimi tempi vanno ascritte a questa banda, di cui parecchi appartenenti erano già stati catturati e condannati. La condanna era stata sospesa
unicamente con il proposito di offrire a costoro, attraverso un volonteroso atteggiamento della popolazione, la possibilità di essere graziati. Dopo l’ultimo inqualificabile attentato la realizzazione di questo
proposito è stata frustrata per cui i sopraddetti condannati, ed alcuni altri individui appartenenti alla cerchia dei criminali che hanno agito contro il tedesco Willi Lange, tredici persone in totale, ieri, mercoledì all’alba, sono state passate per le armi».
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