Modelli teorici sull`apprendimento di una L2

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Modelli teorici sull’apprendimento di
una L2
(D00013)
Mauro Pichiassi
Università per Stranieri di Perugia
Pisa, 2009
ISBN: 978-88-6725-016-5
Ultima revisione 24 Settembre 2012
ICoN – Italian Culture on the Net
M. Pichiassi – Modelli teorici sull’apprendimento…
Presentazione del modulo
Uno degli aspetti più significativi del comportamento umano intelligente è la sua capacità di
apprendere. Non dobbiamo fare ogni volta la stessa cosa nello stesso modo: possiamo farla ogni
volta in modo diverso e farla meglio. Il progresso sia dell’umanità sia dei singoli individui si è
caratterizzato per il costante aumento delle conoscenze dovuto al costante scambio e alla continua
interazione che ha portato ciascuno a condividere con gli altri le proprie esperienze e scoperte. Gran
parte di ciò che impariamo ci viene insegnato da altre persone che conoscono quelle cose, le hanno
apprese prima di noi e noi gradualmente le impariamo.
Cos’è l’apprendimento? Come avviene? E per quello che ci interessa, come si ha apprendimento
linguistico?
A queste domande cerca di dare delle risposte la psicologia applicata all’apprendimento linguistico
o psicolinguistica. Le risposte a questi quesiti non sono univoche e concordi. Trattandosi di
fenomeni di natura psichica, non direttamente osservabili, ma inferibili dai comportamenti esterni,
le opinioni e i punti di vista sono diversi. Si registrano teorie diverse sulle interpretazioni della
fenomenologia dell'apprendimento, tuttavia, in questo modulo, ci soffermeremo sulle principali:
quelle comportamentistiche e quelle cognitivistiche.
La conoscenza dei processi generali dell’apprendimento e dei processi più specifici relativi
all’apprendimento linguistico deve rientrare nel bagaglio conoscitivo di un docente di lingua che
voglia rendere il suo insegnamento sempre più efficace. Per insegnare in modo adeguato una
qualsiasi disciplina o scienza può risultare utile conoscere, per quanto sia possibile, i meccanismi e
le variabili coinvolte nell’apprendimento.
Il processo di apprendimento è molto complesso: esso coinvolge diverse strutture fra loro
interagenti attraverso processi di accomodamento, composizione, giustapposizione; fra le più
importanti ricordiamo:
- le strategie cognitive personali, gli stili di apprendimento, le esperienze individuali e collettive;
- il complesso di fenomeni dell'ambiente circostante, le informazioni e gli stimoli provenienti dalla
realtà esterna;
- i modelli, i formalismi, le teorie, le dinamiche delle agenzie educative (famiglia, scuola ecc.);
- i mezzi di comunicazione ed i percorsi che regolano lo scambio delle informazioni.
Il processo di costruzione del sistema di conoscenza è determinato, per ogni individuo, dall'intreccio
fra componenti intuitive, quantitative e qualitative, e avviene sotto l'influenza di condizionamenti
sociali, culturali, emotivi.
In questo modulo vengono descritti in modo sintetico quegli aspetti della psicologia linguistica che
hanno un riflesso sull’apprendimento di una seconda lingua, oltre ai tratti della personalità del
discente che condizionano ed influenzano l’apprendimento di una seconda lingua.
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Guida al modulo
Scopo del modulo
Scopo generale del modulo è fornire un quadro, sia pure non esaustivo, delle varie teorie e delle
diverse riflessioni condotte sulle modalità e sulle caratteristiche dell’apprendimento in genere e di
quello linguistico in particolare. L’attenzione, tuttavia, non si focalizza sulle semplici teorie che
hanno cercato di descrivere cosa è e come avviene l’apprendimento, ma soprattutto su quei fattori
individuali (interni o esterni) che determinano o influenzano l’apprendimento linguistico. Perciò,
oltre a descrivere le più note teorie sull’apprendimento ci si soffermerà su ciò che caratterizza
quello linguistico, come la distinzione tra apprendimento e acquisizione linguistica, la natura
dell’interlingua e il ruolo di funzioni come quella della memoria e di fattori individuali come l’età,
la motivazione, l’attitudine, gli stili cognitivi e le strategie di apprendimento. In altri termini
analizzeremo il fenomeno dell’apprendimento linguistico da un punto di vista glottodidattico, vale a
dire da quella prospettiva che risulta funzionale alla scelta di opzioni didattiche che possono trovare
fondamento nelle teorie psicolinguistiche.
Contenuti del modulo
Il modulo è composto da:
1. il testo delle unità didattiche;
2. una scheda di approfondimento:
- La linguistica strutturalista e tassonomica di Bloomfield;
3. un glossario di linguistica (utile per definire alcuni dei termini utilizzati nel corso del modulo);
4. un’animazione che illustra le “sequenze di apprendimento”.
Attività richieste
Lettura e studio dei materiali che compongono il modulo. Svolgimento degli esercizi.
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Indice delle unità didattiche
UD 1 - L’apprendimento
Si espongono i tratti generali e condivisi sulla natura e sulle caratteristiche di ogni forma di
apprendimento umano.
1.1 - Natura e funzioni dell’apprendimento
1.2 - Apprendimento neuropsichico e razionale
1.3 - Leggi e fasi dell’apprendimento
1.4 - Fattori che facilitano l’apprendimento
1.5 - Livelli di apprendimento
UD 2 - Teorie dell’apprendimento
Si descrivono i due orientamenti principali che hanno caratterizzato gli studi sull’apprendimento
linguistico nel Novecento: il comportamentismo e il cognitivismo.
2.1 - L’ipotesi comportamentista
2.2 - Il condizionamento classico e operante
2.3 - L’ipotesi innatista e Chomsky
2.4 - La Grammatica Universale
2.5 - Il cognitivismo
2.6 - Il costruttivismo
UD 3 - Apprendimento e acquisizione linguistica
Si introduce la distinzione tra acquisizione e apprendimento linguistico descrivendo i tratti peculiari
di ciascun concetto e quelli che li differenziano.
3.1 - La percezione e il linguaggio
3.2 - Fasi della percezione
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3.3 - Apprendimento e acquisizione linguistica
3.4 - Apprendimento di una lingua materna e di una lingua straniera
3.5 - Apprendimento misto
UD 4 - L’interlingua
Nell’unità si dà una sintetica panoramica dell’interlingua, del suo sviluppo nella storia della
glottodidattica e dei suoi riflessi sullo studio dell’apprendimento e dell’acquisizione linguistica.
4.1 - L’analisi contrastiva
4.2 - L’analisi degli errori
4.3 - L’interlingua
4.4 - Fossilizzazione
4.5 - Transfer
4.6 - Sequenze di apprendimento
UD 5 - La memoria
In questa unità si mette a fuoco il ruolo centrale della memoria nell’apprendimento in genere, e se
ne descrivono le forme e le modalità operative.
5.1 - La memoria
5.2 - Struttura e funzionamento della memoria
5.3 - La memoria sensoriale
5.4 - La memoria a breve termine (MBT)
5.5 - Tratti della MBT
5.6 - La memoria a lungo termine (MLT)
5.7 - Memoria implicita o procedurale
5.8 - Memoria esplicita o dichiarativa
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UD 6 - Fattori individuali che influenzano l’apprendimento
Si descrive il ruolo che l’età dell’apprendente, il suo stile cognitivo, le sue attitudini e motivazioni e
le strategie che adotta hanno ai fini dell’apprendimento di una seconda lingua.
6.1 - L’età
6.2 - L’attitudine linguistica
6.3 - Lo stile cognitivo
6.4 - La motivazione
6.5 - Stili e strategie di apprendimento
6.6 - Strategie cognitive
6.7 - Strategie comunicative
6.8 - Strategie metacognitive
6.9 - Strategie sociali e affettive
UD 7 - Fattori esterni che influenzano l’apprendimento
In questa unità si descrivono il ruolo dell’input nell’apprendimento linguistico e le caratteristiche
che questo deve possedere per essere efficace nei processi di acquisizione di una seconda lingua.
7.1 - L’input linguistico
7.2 - Quantità di input
7.3 - Frequenza dell’input
7.4 - Comprensibilità dell’input
7.5 - Interazione e apprendimento
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UD 1 - L’apprendimento
Si espongono i tratti generali e condivisi sulla natura e sulle caratteristiche di ogni forma di
apprendimento umano.
1.1 - Natura e funzioni dell’apprendimento
1.2 - Apprendimento neuropsichico e razionale
1.3 - Leggi e fasi dell’apprendimento
1.4 - Fattori che facilitano l’apprendimento
1.5 - Livelli di apprendimento
1.1 - Natura e funzioni dell’apprendimento
Ogni essere umano, come ogni organismo vivente, ha la capacità di apprendere, vale a dire la
capacità di assimilare e conservare informazioni. L’apprendimento può essere definito come un
processo di acquisizione di nuovi comportamenti e di contenuti rappresentativi che porta al
conseguimento di più ampie conoscenze e di più stabile equilibrio con l’ambiente. L'apprendimento
comporta un cambiamento relativamente permanente e si ha quando, a seguito di una esperienza o
in presenza di determinati stimoli, si diventa capaci o di fare qualcosa che prima non si sapeva fare
oppure di farlo meglio. Attraverso l'apprendimento ha origine o si modifica o si riorganizza il
comportamento. Tuttavia non ogni modificazione di comportamento è segno di apprendimento in
quanto ci sono modificazioni del comportamento dovute a programmi genetici e a circuiti nervosi
sottesi ai riflessi, a condotte istintive e a processi maturativi.
L’apprendimento è un processo in cui intervengono e giocano un ruolo decisivo fattori come la
percezione di modelli, l'organizzazione cognitiva, l'esercizio, la personalità, la motivazione, la
memoria e i meccanismi neuropsicologici. Nella sua nozione, come si evidenzia dalle definizioni
date, sono impliciti i tratti di “durata” e di “interiorità”: l'apprendimento, infatti, si caratterizza come
un processo che avviene soprattutto all'interno dell'individuo ed è relativamente stabile e duraturo
nel tempo. Come osserva Titone, l’apprendimento
implica un cambiamento entro la struttura psichica del soggetto, si caratterizza come un'acquisizione di tipo
assimilativo, per cui determinati contenuti mentali o forme operative vengono interiorizzati determinando una
ristrutturazione o riorganizzazione degli assetti dinamici del soggetto stesso (Titone 1977: 29).
Si apprendono insomma concetti ed abilità, procedimenti logico-cognitivi e capacità pratiche di
manipolazione e questi durano nel tempo e non sono osservabili direttamente ma deducibili dal
cambiamento di comportamento che i nuovi apprendimenti hanno determinato. Queste
caratteristiche dell'apprendimento sono riassunte da Mednick nei seguenti punti (Mednick 1964):
- l'apprendimento provoca sempre un cambiamento nel comportamento;
- esso è il risultato di una esperienza o di una pratica;
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- il cambiamento prodotto dall'apprendimento è permanente;
- l'apprendimento non è osservabile direttamente, ma lo si può inferire dall'osservazione del
comportamento.
La capacità di apprendere permette di accumulare e tramandare le conoscenze da una generazione
all’altra, non biologicamente, ma attraverso la cultura.
1.2 - Apprendimento neuropsichico e razionale
Non è agevole dare una esauriente classificazione dei processi e delle forme di apprendimento
nell'uomo. Tuttavia, si può fare una distinzione tra le due forme generali in cui si distingue
l'apprendimento, soprattutto in relazione alle teorie psicolinguistiche che hanno maggiormente
influenzato la didattica linguistica: l'apprendimento neuropsichico e l'apprendimento razionale.
L'apprendimento neuropsichico ha come fine l'acquisizione di automatismi, è legato a basi di natura
neurologica e comporta modificazioni a livello del tessuto neuro-corticale. Esso avviene attraverso
tre processi:
- associazione: secondo le classiche leggi della psicologia comportamentista le informazioni e le
immagini vengono apprese meglio attraverso procedure di associazioni basate sulla somiglianza, sul
contrasto e sulla contiguità spaziale o temporale;
- condizionamento: sia di tipo classico o riflessologico (Pavlov, vedi 2.2) che di tipo operante
(Skinner, vedi 2.2);
- tentativo-errore, determinato dalla scoperta della soluzione giusta dopo una serie di tentativi falliti,
come negli esperimenti condotti da Thorndike sulle scimmie.
L'apprendimento razionale è tipico dell'uomo, e può essere definito come “un processo (volontario)
dominato dalla coscienza psicologica che opera come agente di direzione e di controllo regolativo
e caratterizzato dalla presenza essenziale del pensiero soprattutto formale” (Titone 1977: 31).
Visto nella sua fase finale l'apprendimento razionale può esser definito come la capacità di astrarre
e generalizzare le conoscenze.
Tra le principali operazioni tipicamente cognitive si possono indicare:
- la comprensione del significato di una nozione o di un fatto;
- la soluzione di un problema logico;
- l'analisi di un tutto nelle parti che lo compongono;
- la sintesi delle parti in un tutto;
- l'induzione o generalizzazione basata su una molteplicità di dati;
- la deduzione che partendo da un principio universale o generale lo applica a casi particolari.
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L’apprendimento può avvenire in modo implicito, come quello proprio di certe pratiche sportive o
quello relativo al gradimento di un certo genere musicale, che si manifesta con il miglioramento
delle prestazioni o con una modificazione del giudizio, oppure in modo esplicito, qual è quello
perseguito per accrescere le proprie conoscenze semantiche e per arricchire la propria memoria
episodica.
Nell’apprendimento si fa anche una distinzione fra “apprendimento individuale” (la capacità di
acquisire nuove informazioni attraverso l’esperienza personale nell’ambiente e i vari meccanismi
propri dell’apprendimento psichico e razionale) e “apprendimento sociale” (la capacità di acquisire
nuove conoscenze e pratiche attraverso l’interazione con gli altri). In genere in ambienti stabili,
l’apprendimento sociale risulta più vantaggioso in quanto più affidabile grazie all’interazione e al
confronto con gli altri.
1.3 - Leggi e fasi dell’apprendimento
La psicologia individua quattro regole, o leggi, che presiedono all'apprendimento:
- legge della totalità: tutto l'uomo partecipa allo sforzo dell'apprendimento (sensi, intelligenza,
volontà, memoria, immaginazione) con la sua personalità e cultura;
- legge della globalità: la percezione e la comprensione riguardano sempre una totalità significativa,
un dato complesso: si coglie l'oggetto nella sua totalità e successivamente lo si analizza;
- legge della motivazione: l'apprendimento esige che l'obiettivo sia intuito come corrispondente e
idoneo alla soddisfazione di un bisogno; solo ciò può assicurare un interesse per l'obiettivo da parte
del soggetto umano;
- legge dello sviluppo e della riorganizzazione: ogni nuova conoscenza non si pone semplicemente
accanto alle precedenti, ma si inserisce e si correla al bagaglio di conoscenze già possedute
interagendo con esse o modificandole. Ogni nuova conoscenza diventa parte di un tutto. Non vi è
opposizione tra comportamento ereditario e comportamento acquisito: il secondo è il naturale e
logico sviluppo del primo. Lo sviluppo della conoscenza si ha attraverso un processo di
differenziazione, integrazione e affinamento. Come osserva Titone, “l'apprendimento non è fine a
se stesso, ma mezzo per giungere all'arricchimento e alla maturazione sia del pensiero riflesso che
delle potenzialità di autorealizzazione della persona, in senso individuale e sociale” (Titone 1977:
32).
In ogni processo di apprendimento si possono individuare dei momenti o fasi caratterizzanti:
- lo stadio preliminare: indica la disposizione a imparare (readiness);
- la presa di posizione: è l’atteggiamento che si assume di fronte all'oggetto da conoscere o alla
situazione da affrontare o al problema da risolvere;
- la selezione: la scelta relativa al percorso da seguire e al mezzo più idoneo da adottare;
- l’eliminazione: individuazione e rimozione di ostacoli e possibili errori;
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- la fissazione: consolidamento di quanto appreso in base alle leggi dell'apprendimento in modo da
poterlo più agevolmente recuperare;
- l’integrazione e organizzazione di quanto appreso.
Per le finalità e i compiti didattici richiesti all'insegnante di lingua, anche se nel processo di
apprendimento tutte le operazioni sono importanti, una particolare attenzione va posta al primo
stadio dell'apprendimento, la cosiddetta disposizione ad apprendere o prontezza: essa consiste nel
possesso ad ogni stadio di una sufficiente maturazione bio-psicologica e di una esperienza cognitiva
e socio-affettiva adeguata ai compiti di apprendimento dell’allievo. Generalmente lo stato di
idoneità, “prontezza” viene accertato attraverso opportuni test di intelligenza, di profitto, e
attraverso scale di interessi e di emotività ecc. L'insegnante di una seconda lingua dovrà essere
consapevole dell'interesse e dell'attitudine dell'allievo ad apprendere la lingua, così come dovrà
essere consapevole che la maturità necessaria può essere accelerata o promossa.
1.4 - Fattori che facilitano l’apprendimento
Ogni apprendimento, compreso quello di un’altra lingua, può essere facilitato da diversi fattori. Ne
indichiamo alcuni di seguito.
Un primo fattore è il livello di elaborazione: quanto più un’informazione o stimolo vengono ripresi
e praticati in modo costante, tanto meglio vengono appresi. Nell’apprendimento è, quindi,
importante la pratica. Come ha dimostrato Ebbinghaus, in generale, è meglio frazionare un compito
o un esercizio nel tempo piuttosto che concentrarlo in una singola sessione sia pure lunga
(“distribuzione dell’esercizio”).
Un secondo fattore è costituito dall’attenzione: è difficile ritenere il contenuto di un argomento se
non ci concentriamo su di esso. Quanto più la nostra attenzione è divisa fra compiti diversi tanto
minore sarà il nostro apprendimento. Un buon apprendimento richiede un’attenzione focalizzata.
Anche la motivazione rappresenta un fattore decisivo in ogni apprendimento: se si è motivati ad
apprendere, si dedica anche più attenzione. Noi ricordiamo più facilmente quei fatti o quelle nozioni
che hanno un particolare interesse per noi, mentre dimentichiamo ciò che per noi ha scarso
interesse.
Infine l’organizzazione del materiale: ognuno per meglio imparare e ricordare quanto appreso
adotta dei metodi e delle strategie che facilitano il ricordo e il recupero delle informazioni. Ad
esempio se ad un apprendente si chiede di imparare una lista di parole in cui sono presenti nomi di
animali, fiori ed oggetti, questi tenderà ad organizzarli per generi per poterli meglio ricordare.
Anche nella vita quotidiana ci si organizza per quanto riguarda il lavoro e gli impegni da ricordare
in base alle loro caratteristiche.
1.5 - Livelli di apprendimento
L’apprendimento può avvenire facendo e sperimentando (apprendimento attraverso operazioni) o
osservando gli altri (apprendimento osservativo). Alla base di questo apprendimento vi sono due
meccanismi distinti: l’emulazione e l’imitazione. Quando si riproduce in modo meccanico,
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stereotipato, il comportamento di un altro individuo senza una valutazione dello scopo e
dell’efficacia dell’azione si ha emulazione. Quando invece un individuo riproduce in modo
consapevole l’azione di un altro per conseguire lo stesso scopo si ha imitazione.
L’apprendimento non è un processo lineare (una semplice accumulazione progressiva), ma ricorsivo
e circolare: quello che si è appreso fino ad un dato momento costituisce il presupposto di quanto
verrà appreso successivamente. L’apprendimento, quindi, procede per livelli successivi. Bateson
(1972) ha distinto i vari livelli secondo una scala gerarchica: fra concetti, predicati e simboli c’è una
gerarchia crescente di livello. Così per gli apprendimenti abbiamo, ad esempio, quelli di tipo zero
che indicano gli individui, quelli di tipo uno che indicano le proprietà degli individui, quelli di tipo
due che indicano le proprietà delle proprietà.
Secondo Bateson si ha “apprendimento zero” quando si è arrivati alla soglia massima di
apprendimento di una certa competenza e l’organismo non è più in grado di acquisire nuove
informazioni pertinenti. A questo livello non si ha modificazione del comportamento ma solo
ripetizione degli apprendimenti acquisiti (abitudine).
Si ha “apprendimento uno” (apprendimento di primo livello) quando si ha una modificazione o
miglioramento di un comportamento. Una classica osservazione dell’apprendimento di livello uno è
che gli apprendimenti iniziali di una data competenza sono piuttosto lenti, a volte incerti, con la
presenza di frequenti errori. Poi via via che si prosegue nell’apprendimento di quella competenza le
prestazioni diventano più efficienti e corrette. Il soggetto “impara a imparare” (o apprendimento di
secondo livello). Per arrivare a questo livello occorre che le situazioni di un certo apprendimento
uno siano simili e comparabili fra di loro, occorre cioè che il contesto di apprendimento sia
mantenuto stabile, regolare e prevedibile. In tal modo il soggetto non solo apprende i contenuti
proposti, ma anche i contesti in cui tali contenuti sono appresi.
L’“apprendimento tre” (o apprendimento di terzo livello) è un cambiamento nel processo di
apprendimento due e consiste nella applicazione di quanto appreso ai nuovi contesti in cui avviene
l’apprendimento. Tipico esempio di questo livello è la “conversione” (un esempio di conversione
potrebbe essere rappresentato da chi scopre casualmente un percorso più breve per raggiungere il
posto di lavoro e da allora cambia le proprie abitudini, alzandosi magari più tardi la mattina) che
comporta una ristrutturazione profonda e globale degli apprendimenti fino ad allora conseguiti; un
tale apprendimento porta a modificare il sistema delle credenze e dei valori, delle pratiche, delle
consuetudini ecc.
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UD 2 - Teorie dell’apprendimento
Si descrivono i due orientamenti principali che hanno caratterizzato gli studi sull’apprendimento
linguistico nel Novecento: il comportamentismo e il cognitivismo.
2.1 - L’ipotesi comportamentista
2.2 - Il condizionamento classico e operante
2.3 - L’ipotesi innatista e Chomsky
2.4 - La Grammatica Universale
2.5 - Il cognitivismo
2.6 - Il costruttivismo
2.1 - L’ipotesi comportamentista
Il “comportamentismo” è un orientamento della psicologia moderna che, nell'intento di dare alla
psicologia uno statuto simile a quello delle scienze esatte, circoscrive il campo della ricerca
all'osservazione del comportamento animale e umano, rifiutando ogni forma di introspezione che,
per sua natura, sfugge alla verifica oggettiva.
I comportamentisti (o behavioristi) diedero particolare impulso allo studio dell’apprendimento e
della conseguente modificazione del comportamento, applicandosi soprattutto nell’esame degli
animali, nella convinzione che i processi di apprendimento fossero uguali negli animali e negli
esseri umani.
Il postulato fondamentale del comportamentismo è che la psicologia studia il comportamento e non
la mente, e che le fonti del comportamento sono esterne, nell'ambiente, e non interne, nella mente.
Nelle sue formulazioni più radicali, viene anche sostenuta la posizione che non esiste (e non solo
che non è direttamente studiabile) altra attività mentale al di fuori dei comportamenti. Attribuendo
maggiore importanza agli effetti prodotti dall’ambiente e dall’esperienza, il comportamentismo si
interessa delle modificazioni che si verificano nelle abitudini e nei modi di pensare. I
comportamenti dipendono, secondo tale teoria, sia dall’imitazione dei modelli presenti
nell’ambiente che dall’apprendimento di nuovi schemi, mentali e comportamentali.
L’apprendimento, infatti, è il processo attraverso il quale il comportamento viene modificato
dall’esperienza e dall’ambiente e si riferisce all’acquisizione di risposte totalmente nuove e
all’incremento della frequenza di un comportamento già appreso. Sulla scia di queste premesse, tutti
i teorici dell’apprendimento, convinti della possibilità di creare una società migliore semplicemente
adottando una stimolazione adeguata sugli individui, hanno sviluppato la “teoria del
condizionamento”conosciuta anche come “psicologia stimolo-risposta”,secondo cui ad una
determinata stimolazione dovrebbe corrispondere un’unica risposta condizionata dal rinforzo
positivo o negativo (vedi 2.2).
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2.2 - Il condizionamento classico e operante
Il condizionamento è un sistema di apprendimento, umano o animale, che si basa sulla formazione
di un'associazione (o concatenamento) di eventi fra loro dipendenti.
Il condizionamento può essere di due tipi: classico ed operante, il primo risale al modello del
fisiologo russo Ivan Pavlov (1849-1936), il secondo allo psicologo americano Burrhus F. Skinner
(1904-1990).
Nel condizionamento classico la risposta ad uno stimolo è riflessa, come l’atto del chiudere le
palpebre in risposta ad una luce molto intensa; in altri termini la relazione stimolo-risposta è
conseguenza di una risposta automatica o di un riflesso inscritto geneticamente nel sistema nervoso
dell’animale. Ma Pavlov si accorse attraverso i suoi esperimenti che lo stimolo può essere
condizionato, ad esempio, facendo precedere alla luce intensa un determinato suono: il rapporto tra
luce e suono determinerebbe il battito delle palpebre prima ancora dell’accensione della luce
accecante. Si tratterrebbe, cioè, di un condizionamento stabilito semplicemente dalla contiguità
temporale tra lo stimolo e la risposta: si tratta quindi di un riflesso condizionato o appreso.
Nel condizionamento operante una persona impara a compiere una nuova associazione tra uno
stimolo ed una risposta già appresa non riflessa. Skinner, proseguendo le ricerche di Edward L.
Thorndike e dello stesso Pavlov, mantenne un punto di vista rigorosamente comportamentista, ma
introdusse la distinzione tra due comportamenti, quelli “rispondenti” derivanti da riflessi innati o
appresi attraverso il condizionamento classico, e quelli “operanti” appresi dall’organismo a seguito
di un rinforzo. I comportamenti operanti crescono o diminuiscono in funzione del rinforzo che
l’organismo riceve. I rinforzi possono essere “positivi”, consistenti nella presentazione di uno
stimolo che soddisfa un bisogno (un premio o una gratificazione qualsiasi) o “negativi” consistenti
nella cessazione o eliminazione di uno stimolo “aversivo” (una situazione spiacevole o dolorosa). In
entrambi i casi il rinforzo rende più probabile il verificarsi del comportamento. I rinforzi possono
ulteriormente essere distinti in primari e secondari. I primi soddisfano bisogni fondamentali
dell’organismo (come la fame, la sete, il sonno ecc.) i secondi si riferiscono a cose piacevoli quali il
denaro, la lode l’approvazione ecc.
Fondamentali per l’apprendimento di comportamenti desiderati sono pertanto le ricompense, gli
incoraggiamenti ed i rinforzi nei confronti di atteggiamenti giudicati positivi, mentre comportamenti
indesiderati si estinguerebbero perché ignorati a causa della mancanza di rinforzo da parte
dell’ambiente.
Per Skinner anche il linguaggio può essere studiato in termini comportamentistici, come un insieme
complesso di risposte operanti. Il bambino impara, ad esempio, a usare un termine come “cane” in
modo discriminativo e associativo. Quando usa in modo corretto la parola “cane”, è rinforzato dagli
adulti di riferimento, se invece la usa in modo sbagliato (ad esempio con un gatto) allora viene
corretto dai genitori. Grazie all’interazione fra stimoli discriminativi e rinforzi il bambino apprende
ad associare il termine giusto ai singoli oggetti.
Significativo di questa concezione è l’atteggiamento di Fries, il quale afferma che “la lingua è vista
come un insieme di segnali i quali, quando sono emessi coscientemente da un individuo producono
risposte prevedibili di riconoscimento o di azione in un altro individuo o in altri individui” (Fries
1951: 6).
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2.3 - L’ipotesi innatista e Chomsky
L’ipotesi innatista delineata alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso da Noam Chomsky
(Chomsky 1959) è sorta in opposizione al comportamentismo (vedi 2.1). I comportamentisti
avevano cercato di ridurre anche comportamenti complessi come la produzione e la comprensione
del linguaggio alle leggi del condizionamento classico e operante che governano l’apprendimento in
generale. La critica distruttiva di Chomsky segnò l’inizio del tramonto del movimento
comportamentista e l’inizio di quella che è stata chiamata la “rivoluzione cognitivista”. L’influenza
del lavoro di Chomsky sarà molto profonda e andrà oltre la semplice critica al modello skinneriano
del linguaggio (vedi 2.2) perché legittimerà un approccio allo studio della mente come sistema
dotato di regole.
Chomsky dimostrò come una catena appresa di associazioni di stimoli e risposte non fosse un
modello così potente da rendere conto della capacità di comprendere e produrre il linguaggio anche
in modo creativo. Per Chomsky gli esseri umani sono programmati biologicamente per il linguaggio
e questa predisposizione si sviluppa allo stesso modo in cui altri organi e funzioni del corpo umano
si sviluppano.
Secondo questa ipotesi l’esperienza fa sì che questo meccanismo naturale ad apprendere si inneschi.
I principi e le regole che sono alla base del linguaggio sono così astratti che se il bambino avesse a
disposizione solo esempi o stimoli grammaticalmente corretti, difficilmente riuscirebbe ad estrarli.
La lingua è un insieme aperto ed è costituita da tutte le frasi possibili mentre l’insieme delle frasi
effettivamente pronunciate rappresenta soltanto un piccolo sotto-insieme della lingua. Questa
osservazione è molto importante perché significa che ci deve essere un insieme di regole, ovvero
una grammatica, che i parlanti usano per generare le frasi della loro lingua. Imparare la grammatica
di una lingua significa imparare a distinguere le sequenze che per quella grammatica sono corrette
da quelle che non lo sono. Una grammatica consiste, quindi, in un meccanismo che genera, cioè
produce, tutte le sequenze grammaticali della lingua e nessuna sequenza non grammaticale.
Generare una frase significa saper specificare l’insieme delle regole attraverso le quali si ottiene la
struttura della frase stessa. Ma come si impara una grammatica? Chomsky mette a confronto due
modelli: quello associazionista della grammatica a stati finiti di matrice skinneriana e il suo modello
della grammatica generativa. Se il meccanismo di apprendimento fosse associativo,
l’apprendimento consisterebbe nella conoscenza della struttura probabilistica di una lingua
attraverso una continua esposizione a stimoli linguistici. Il modello associazionista non riesce a
spiegare la struttura gerarchica delle lingue naturali come ad esempio l’italiano o l’inglese. In altri
termini, le grammatiche a stati finiti sono troppo semplici per rendere conto della complessità di una
lingua naturale. Questa complessità può essere illustrata facendo riferimento alle frasi che
contengono al loro interno delle proposizioni subordinate.
2.4 - La Grammatica Universale
Per spiegare la natura specie-specifica del linguaggio (con questo concetto, mutuato dall’etologia, si
vuole indicare che il linguaggio, come anche le facoltà cognitive, è una caratteristica specifica della
specie umana, non presente in altri esseri animali viventi), Chomsky ha sviluppato la teoria della
Grammatica Universale (GU) o Generativa.
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La grammatica generativa si spiega con l’esistenza di una facoltà innata della mente umana, uno
specifico “meccanismo di acquisizione linguistica” (Language Acquisition Device o LAD) che è
all’origine della Grammatica Universale, la quale “può essere considerata come una teoria dei
meccanismi innati, una matrice biologica sottostante che fornisce un quadro all’interno del quale si
sviluppa la crescita della lingua” (Chomsky 1981: 178). Questa è un sottosistema di principi e tratti
comuni a tutte le lingue naturali. Tale meccanismo innato permette al bambino di formulare regole
sulla lingua che apprende e di produrre espressioni originali che non possono essere ricondotte a un
semplice condizionamento da parte dell’input: anzi lo stimolo linguistico esterno sarebbe
insufficiente qualitativamente (argomento della “povertà dello stimolo”), e quantitativamente
inadeguato (frammentario, con errori, false partenze ecc.) dato che mancano, ad esempio, correzioni
e indicazioni su ciò che non è grammaticale.
La Grammatica Universale guiderebbe lo sviluppo del dispositivo di acquisizione linguistica
(Chomsky 1975). Principi innati invarianti, i cosiddetti “universali linguistici”, costituiscono
l'essenza della G.U. Gli universali linguistici sono distinti in “universali sostanziali” (tratti
fonologici distintivi, categorie sintattiche ricorrenti nelle lingue umane) e “universali formali”,
comprendenti “principi” e “parametri”. I principi rappresentano delle leggi assolute, universali, che
si manifestano in modo essenzialmente negativo: non esisterebbe, cioè, alcuna lingua che violi i
principi della Grammatica Universale. I parametri, invece, rappresentano le scelte o i valori che
nelle diverse lingue assumono certi tratti della lingua. I parametri spiegherebbero le variazioni
sintattiche fra le lingue. I valori dei parametri verrebbero posizionati durante l’acquisizione di una
specifica lingua. Un esempio di parametro è quello relativo all’omissibilità o meno del pronome
soggetto (il cosiddetto carattere pro-drop di una lingua): in alcune lingue (come l'italiano, lo
spagnolo e il greco moderno) tale pronome può essere omesso, mentre in altre (come l'inglese, il
francese o il tedesco) deve essere sempre espresso.
Secondo tale modello l'apprendimento di una lingua si configurerebbe essenzialmente come
settaggio dei diversi parametri della GU (parameter setting) sulla base delle caratteristiche della
specifica lingua appresa nell'ambiente in cui si vive. Quindi i parametri, come serie di opzioni, sono
innati, mentre ciò che deve venire appreso è la selezione di un’opzione piuttosto di un’altra.
All’interno di questa impostazione Chomsky introduce, rifacendosi in qualche modo a Ferdinand de
Saussure, la distinzione tra competenza linguistica ed esecuzione linguistica. La prima (detta anche
“lingua internalizzata”) indica la capacità generale di usare una data lingua e implica la conoscenza
perfetta della lingua stessa da parte di un parlante ideale. La seconda riguarda invece l’uso concreto
e contingente di tale lingua in una data situazione. La competenza linguistica non è sempre riflessa
nell’uso che viene effettivamente fatto della lingua. L’esecuzione linguistica, infatti, non è
determinata soltanto dalla competenza linguistica di base ma, secondo Chomsky, anche da fattori
cognitivi come, per esempio, la memoria e la comprensione che un individuo possiede della
situazione in cui si trova.
2.5 - Il cognitivismo
Il “cognitivismo” è una corrente della psicologia che, in opposizione al comportamentismo (vedi
2.1), concepisce la mente non come un recettore passivo delle informazioni che giungono dai sensi,
ma come un elaboratore attivo che opera sui dati che ha a disposizione e secondo delle complesse
serie di sequenze, i processi cognitivi, che sono in parte innati e in parte appresi attraverso
l’esperienza. Mentre il comportamentismo assimila gli atteggiamenti intellettivi a stimoli fisiologici,
il cognitivismo dà rilievo alla componente mentalistica, alle capacità cognitive, all’intelligenza. Il
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comportamento dell’individuo non è spiegabile semplicemente mediante lo schema stimolorisposta, ma si organizza attraverso la creazione di schemi concettuali entro cui collocare le
informazioni. Gli individui quindi, secondo le teorie cognitiviste, non reagiscono nello stesso modo
agli stimoli ambientali, poiché sono differenti le strutture cognitive di riferimento e quindi diversa è
anche l’interpretazione degli stimoli stessi.
Sorto negli anni Sessanta con le ricerche di Urlich Neisser che ne ha dato la prima formulazione
teorica in Psicologia cognitivista (1967), il cognitivismo ha visto un fiorire di ricerche con G. A.
Miller, D. Norman, G. Mandler, D. E. Rumelhart, J. S. Bruner. In realtà il cognitivismo non è una
scuola psicologica, ma un orientamento che rivisita le varie correnti e scuole psicologiche.
Come afferma Neisser “la psicologia cognitiva si occupa di tutti quei processi per mezzo dei quali
l'input sensoriale viene trasformato, ridotto, elaborato, immagazzinato, recuperato ed infine
utilizzato” (Neisser 1976).
Questa definizione porta a importanti considerazioni. Innanzitutto, il riferimento ad un input
sensoriale implica che i processi cognitivi inizino nel momento stesso in cui si viene a contatto con
il mondo esterno. Il concetto di trasformazione dell'input sensoriale suggerisce che la nostra
rappresentazione del mondo esterno non è frutto di una semplice registrazione passiva dell'ambiente
fisico, ma il risultato di una costruzione attiva che può comprendere sia una riduzione, poiché è
possibile che una parte dell'informazione vada perduta, sia una elaborazione, che avviene quando
l'input sensoriale viene integrato. L'immagazzinamento ed il recupero dell'informazione
naturalmente hanno a che fare entrambi con la memoria, ma è necessario tenerli distinti, anche
perché l'immagazzinamento non garantisce necessariamente il recupero dell'informazione. L'ultima
parte della definizione fa riferimento all'utilizzazione con profitto dell'informazione.
Secondo il cognitivismo l’attività principale della mente umana è quella di mettere in atto un
processo di rielaborazione in base a strutture e schemi che vengono ricreati di volta in volta in
relazione all’esperienza. L’approccio cognitivo sottolinea l’importanza dei processi interni, degli
atteggiamenti e degli stati mentali e tiene conto dei fattori cognitivi che favoriscono il
raggiungimento degli obiettivi didattici. In altri termini, la mente, così come fa un computer,
elabora e trasforma i dati immessi.
2.6 - Il costruttivismo
Una particolare prospettiva teorica e pratica del cognitivismo, quasi un suo corollario, è il
costruttivismo secondo cui l’apprendimento viene visto come un impegno attivo da parte dei
discenti a costruire la propria conoscenza piuttosto che come semplice passaggio di nozioni dalla
mente del docente a quella dello studente. “Il costruttivismo considera la realtà come il prodotto
stesso dell'esperienza di chi apprende; la mente è costruttrice di significati, strumenti usati per
rappresentare la realtà di chi apprende” (Varisco 1999: 141).
Alla base del costruttivismo c’è l’idea che l’apprendimento ha luogo all’interno dell’esperienza
personale più che provenire interamente da una realtà esterna. La conoscenza è costruita all’interno
degli individui ed il significato assume forma solo all’interno della sfera mentale di ognuno. Gli
apprendenti possono acquisire conoscenza solo se sono parte attiva della manipolazione,
reinvenzione e ricostruzione dell’esperienza, che solo così diviene significativa, organizzata e
permanente.
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Jean Piaget, con il suo lavoro sugli stadi dello sviluppo cognitivo e sull'importanza dei conflitti
cognitivi per la costruzione/ristrutturazione della conoscenza, può essere sicuramente considerato
uno dei padri del costruttivismo.
Il costruttivismo vede la conoscenza umana, l'esperienza, l'adattamento come prodotti di una
costruzione attiva del soggetto. La realtà non viene considerata come qualcosa di oggettivo,
indipendente dal soggetto che ne fa esperienza, poiché è il soggetto stesso che la crea, partecipando
in maniera attiva alla sua costruzione. Egli è al tempo stesso costruttore e ordinatore della realtà,
colui che stabilisce un ordine tra i tanti possibili; non un ordine qualsiasi, bensì quello a lui più utile
e funzionale alle proprie attività.
Schematicamente gli aspetti salienti del costruttivismo possono essere indicati in cinque punti:
- sapere come costruzione personale;
- apprendimento attivo;
- apprendimento collaborativo;
- importanza del contesto;
- valutazione intrinseca.
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UD 3 - Apprendimento e acquisizione linguistica
Si introduce la distinzione tra acquisizione e apprendimento linguistico descrivendo i tratti peculiari
di ciascun concetto e quelli che li differenziano.
3.1 - La percezione e il linguaggio
3.2 - Fasi della percezione
3.3 - Apprendimento e acquisizione linguistica
3.4 - Apprendimento di una lingua materna e di una lingua straniera
3.5 - Apprendimento misto
3.1 - La percezione e il linguaggio
All'origine e alla base di ogni apprendimento c'è sempre la percezione dell'oggetto (cosa o concetto)
da apprendere.
La percezione è definita dalla psicologia come l'esperienza di oggetti e fatti capaci di stimolare i
nostri organi di senso. La percezione in realtà consiste nell’assegnazione di un significato agli
stimoli provenienti dagli organi di senso e nell’attribuzione ad essi di proprietà fisiche (come, ad
esempio, nitidezza ad un’immagine, grandezza ad un oggetto, chiarezza ad un suono ecc.), grazie ad
una caratteristica della percezione, vale a dire la costanza percettiva.
Per la psicologia, quindi, la percezione è frutto di una elaborazione mentale, una complessa
interpretazione della realtà; è un processo cognitivo e non solo puramente sensoriale. Una conferma
di questa interpretazione psicologica è rintracciabile nelle “illusioni”, cioè in quelle percezioni di
oggetti costruiti mentalmente e non esistenti nella realtà.
Nel caso dell’apprendimento linguistico la percezione si manifesta sia come ascolto (percezione
uditiva), sia come lettura o percezione di segni grafici (percezione visiva).
La capacità di percepire in modo preciso i segnali linguistici è fondamentale per l'apprendimento di
una lingua. Nel discorso reale le frasi sono fisicamente dei flussi ininterrotti di suoni, non
raggruppati nelle comode unità discrete che chiamiamo parole. Se ascoltiamo uno che parla una
lingua che non conosciamo, quello che percepiamo è solo una sequenza indistinta di suoni e di
cambiamenti di tono che non significano niente per noi. Quando, invece, ascoltiamo qualcuno che
parla la nostra stessa lingua, allora percepiamo qualcosa di strutturato e di comprensibile: cogliamo
nel flusso del discorso le differenze tra gli indici significativi e costanti e riusciamo a raggruppare i
suoni in strutture dotate di senso. Abbiamo tutti l'impressione di udire effettivamente parole distinte
e ordinate linearmente, ma solo perché, conoscendo quella lingua, discriminiamo nel continuum
fisico singoli suoni o gruppi di suoni al di là di quelli effettivamente prodotti. Questo indica che
nella percezione influisce notevolmente il contesto.
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Nella percezione linguistica ha un ruolo decisivo anche il significato: si riconoscono più facilmente
le parole di un discorso quando se ne comprende il significato. La percezione del linguaggio orale è
un processo attivo in cui il soggetto compensa le insufficienze di quello che sente con quello che già
conosce. Il ruolo attivo dell’ascoltatore è analogo a quello del lettore che integra le informazioni
provenienti dalla pagina con quelle immagazzinate nella mente relative alle esperienze dirette o
indirette fatte in precedenza e attivate dalla lettura. Per questo non è strettamente necessario
discriminare ogni suono che percepiamo, ma è sufficiente afferrarne alcuni che vengono integrati
con le informazioni che possediamo in memoria.
3.2 - Fasi della percezione
Un aspetto significativo della percezione è costituito dalla capacità di selezione delle percezioni. Il
nostro cervello è in grado di concentrarsi su certi aspetti di uno stimolo uditivo complessivo
ignorandone altri: è il fenomeno dell’attenzione uditiva.
L’attenzione uditiva è strettamente legata al processo di ascolto selettivo. Ad esempio, se
partecipiamo ad una discussione in cui più persone parlano insieme, siamo in grado di sintonizzarci
su una sola di esse o su diverse alternativamente, ignorando le altre.
In qualsiasi modello di percezione linguistica vi sono delle componenti operazionali costanti che
interagiscono fra di loro:
- il riconoscimento di indici significativi e costanti sulla base di schemi percettivi o di proiezione,
per cui i suoni in input sono confrontati con i modelli linguistici immagazzinati nella memoria;
- l'integrazione, ossia la componente che permette di raggruppare i suoni in unità maggiori (fonemi,
sintagmi, frasi ecc.) e che consente, tra l'altro, di ricostruire, o completare messaggi interrotti o
imprecisi;
- l'interpretazione, cioè la fase in cui alla sequenza dei suoni percepiti viene attribuito un significato
relativo sia all'intero messaggio che alle sue componenti;
- l'immagazzinamento di quanto è stato percepito e interpretato nella memoria sotto forma di
immagini e concetti per essere recuperato in un qualsiasi momento successivo.
La percezione di un messaggio linguistico (o decodificazione) è strettamente connessa alla
produzione del linguaggio: l'una e l'altra si presuppongono, non è possibile l'una senza l'altra. Anzi
nella “teoria motoria” di Lieberman (1972) si arriva a sostenere che nella percezione del linguaggio
l'ascoltatore riproduce mentalmente, in silenzio, i segnali linguistici facendo un uso attivo della
conoscenza interna dell'apparato di produzione del linguaggio.
3.3 - Apprendimento e acquisizione linguistica
Un modo per studiare i processi psicologici che si attivano quando si producono o si comprendono
enunciati linguistici è quello di analizzare come si impara una lingua, sia essa materna o straniera. E
per capire questo è importante fare la distinzione proposta da Krashen (1981) fra acquisizione e
apprendimento linguistico. Con “acquisizione” si intende il processo naturale e spontaneo attraverso
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il quale il neonato o il bambino apprendono la lingua materna insieme alle molte altre abilità che
accompagnano la sua crescita e sviluppo; con “apprendimento” si fa riferimento ai processi che
portano ad imparare una seconda lingua.
L’acquisizione della lingua materna è un processo primario, sia perché anteriore nel tempo, sia
perché è la base per lo studio di altre lingue.
L'apprendimento linguistico avviene solitamente più tardi rispetto all'acquisizione linguistica, e
comunque quasi sempre quando l'esecuzione linguistica è abbastanza sviluppata e quando molti
altri processi di maturazione fisica e psichica sono stati completati o quasi.
Per Krashen i due processi “acquisizione” e “apprendimento” sono nettamente distinti, senza
nessuna possibilità di passaggio dal conscio al subconscio o viceversa; la sua posizione sembra
sostenere che il tempo dedicato in classe all'“apprendimento” è tempo sprecato in quanto è tempo
rubato all'“acquisizione”.
L'acquisizione non è una caratteristica esclusiva del processo di appropriazione della lingua
materna, ma si ha anche quando ci si appropria di una seconda lingua. In questo caso si parla più
spesso di apprendimento spontaneo (Naturalistic Second Language Acquisition). È il processo
“naturale” che caratterizza l'apprendimento di una seconda lingua in un contesto caratterizzato da
situazioni comunicative autentiche. Ad esempio, i bambini che si trasferiscono con i genitori
all'estero imparano la lingua locale attraverso il contatto diretto con i bambini del posto. L’input
linguistico cui il bambino è esposto e in base al quale costruisce le proprie ipotesi sulla linguaobiettivo riguarda una grande parte della vita quotidiana e rimane per lo più costante.
In situazione di apprendimento spontaneo l’input viene fornito a velocità normale e da parlanti
diversi. Apprendere una L2 in modo naturale significa che l’input non si presenta sempre in modo
chiaro e distinto e, dal punto di vista del contenuto, calibrato sulle specifiche capacità linguistiche
dell’interlocutore, ma è dettato più spesso dallo scopo comunicativo del parlante.
L’apprendimento fa invece pensare alle situazioni, più o meno istituzionali, in cui viene appresa una
seconda lingua. Si tratta dell’apprendimento solitamente impartito nelle scuole di lingua pubbliche
o private, in spazi a ciò deputati (le aule) e in tempi (le ore di lezione) prefissati. In queste situazioni
l’input linguistico è solitamente controllato e scandito secondo una progressione lineare. Esso si
incentra su un limitato numero di situazioni comunicative intese come significative ed
esemplificative delle situazioni nelle quali più frequentemente un apprendente potrà venirsi a
trovare nel Paese straniero. L’insegnamento è svolto per lo più da persone specializzate o comunque
formate per svolgere questo compito. L’insegnamento mira innanzitutto alla correttezza degli
enunciati. Si tratta dunque di un insegnamento esplicito, con lo scopo di trasmettere regole e
modelli linguistici utili all’apprendente per costruire i suoi discorsi. Le conoscenze linguistiche
vengono trasmesse e approfondite con l’aiuto di spiegazioni (regole grammaticali), di procedimenti
metacomunicativi, di specifici esercizi orali o scritti e anche con l’aiuto della lettura e scrittura. Si
cerca di limitare le interferenze prevenendo gli errori. L’aspetto pragmatico dell’apprendimento di
una seconda lingua è solo presentato, ma non è vissuto, e inoltre non si ha un'acculturazione diretta.
L’apprendimento è, quindi, il risultato dell’interazione di soggetti diversi (insegnanti e allievi) in
cui diversi fattori e variabili influiscono determinando l’esito finale.
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3.4 - Apprendimento di una lingua materna e di una lingua straniera
Tra i due processi, quello di acquisizione della lingua materna e l’apprendimento di una seconda
lingua, ci sono somiglianze e analogie, ma anche notevoli e significative differenze. Queste
differenze hanno la loro ragione fondamentale nel fatto che l’apprendimento di una seconda lingua
si ha, di norma, in una fase in cui l’apprendente conosce già e usa la lingua materna, ha consolidato
le nozioni fondamentali del funzionamento di una lingua e, se ha superato l’infanzia, sa compiere
quelle operazioni logico-formali che gli permettono di analizzare le frasi e di capire i meccanismi
logici sottesi a certe strutture sintattiche. Mentre il bambino imparando la lingua materna impara
anche alcuni meccanismi fondamentali del linguaggio, l’adolescente e l’adulto che apprendono una
seconda lingua imparano per lo più quegli aspetti, in massima parte formali e superficiali, che
distinguono una lingua da un’altra. Imparerà nuove parole ma pochi nuovi concetti: ad esempio,
imparerà i nomi dei numeri in un’altra lingua ma non il concetto di numero, imparerà i termini
equivalenti delle determinazioni spaziali e temporali e non già i concetti di spazio e tempo.
“Apprendere una seconda lingua, insomma, non è lo stesso che acquisire di nuovo il linguaggio”
(Corder 1983: 135).
I bambini acquisiscono la lingua attraverso l’esposizione a campioni linguistici vari e disomogenei
proposti in modo disorganico e casuale. Gli input linguistici che il bambino riceve non sono sempre
ed esclusivamente diretti a lui, ma sono costituiti da qualsiasi tipo di lingua con cui egli viene a
contatto diretto. Anche se talora alcuni adulti si rivolgono a lui usando forme linguistiche ritenute
più semplici (il cosiddetto baby talk), tuttavia, egli non è esposto ad un insieme di dati linguistici
attentamente programmato e calibrato sulle sue conoscenze e capacità intellettive. Se esiste un
“programma”, questo sarà interno allo sviluppo cognitivo del bambino, il quale dei dati che ascolta
ne memorizzerà e rielaborerà alcuni tralasciandone altri. L'apprendimento di una seconda lingua,
invece, avviene solitamente in modo organico e organizzato e, per lo più, in ambienti a ciò
finalizzati.
Diversa è anche la motivazione ad apprendere: nel bambino l'acquisizione avviene in modo
naturale, come una risposta al bisogno di comunicare, senza una compiuta consapevolezza
dell'utilità pratica e sociale del parlare una lingua come si ha nel caso dell'apprendimento di una
seconda lingua. Nella fase di acquisizione linguistica hanno un ruolo rilevante la ripetitività e la
ritualità, sia dei gesti, sia delle situazioni, sia degli enunciati linguistici che li accompagnano. Ogni
nuova esperienza concorre a strutturare la mente del bambino e la strutturazione si stabilizza solo se
vengono fatte esperienze simili. La ripetizione di esperienze permette la formazione di strutture
cognitive stabili. E ciò, come vale per qualsiasi esperienza, vale anche per quella linguistica:
l’acquisizione del linguaggio è resa più semplice se si ripetono le esperienze linguistiche.
Diverso è, infine, il ruolo dell'imitazione e dell'esercizio. In ambito scolastico l'imitazione si
giustifica come mezzo per far acquisire una risposta, mentre l'esercizio ha la funzione di rinforzarla.
Nella fase di acquisizione della lingua materna il bambino non imita tutti gli enunciati che ascolta,
ma solo quelli che sceglie di imitare. Inoltre, né i genitori, né gli adulti in genere, si preoccupano di
far imitare al bambino certe frasi o di farlo esercitare in alcune strutture linguistiche perché impari
ad usarle.
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3.5 - Apprendimento misto
Si ha un apprendimento misto quando entrambe le modalità, quella dell’acquisizione spontanea e
quella dell’apprendimento guidato, sono attivate. In teoria si tratta della forma di apprendimento più
efficace perché dovrebbe avvantaggiarsi di ciò che di meglio le due modalità offrono. Ad esempio
per quanto riguarda l’input, che rappresenta un fattore decisivo ai fini dell’apprendimento, questo
non solo investe quasi tutte le dimensioni pragmatiche, ma è potenziato e facilitato dal ricorso a tipi
di input come la lettura e la scrittura che nell’apprendimento spontaneo vengono trascurati. Anche
le modalità di elaborazione dell’input vengono facilitate dall’insegnamento esplicito, proprio perché
la combinazione di processi imitativi e deduttivi migliora l’efficacia delle strategie
dell’apprendimento spontaneo. Quindi se l’apprendimento guidato porta alla conoscenza e alla
consapevole applicazione delle regole linguistiche, e l’apprendimento naturale favorisce la
comunicazione spontanea spesso non corretta dal punto di vista grammaticale, l’apprendimento
misto integrando le due forme promuove una migliore competenza comunicativa.
Un apprendimento misto è proprio di contesti di immigrazione o immersione nella lingua 2 nei
quali l’apprendente vive e studia nel Paese di cui impara la lingua. La normale interazione
comunicativa con i parlanti nativi è intervallata da fasi di studio in un ambito istituzionale. Per
questo l’allievo ha un atteggiamento più positivo verso la lingua che impara a scuola, perché non si
tratta più semplicemente di una lingua astratta fuori contesto, ma dello strumento che gli consente di
interagire nella realtà sociale. Tale atteggiamento è rinforzato anche dal fatto che una buona
conoscenza di questa lingua è mezzo di migliore integrazione e accettazione sociale e di riflesso un
modo per migliorare le stesse condizioni di vita.
La maggiore efficacia di un apprendimento misto, si è detto, è teorica, proprio perché le variabili
che possono intervenire nel processo di apprendimento sono diverse e non tutte naturalmente
facilitanti. Il contesto o ambiente sociale con il quale l’allievo è in contatto può essere vivace e
interessante o anche culturalmente deprivato e povero. Le motivazioni ad apprendere possono
essere puramente strumentali oppure interne ad un processo di integrazione sociale e culturale nel
nuovo Paese. Inoltre, altri fattori come le capacità individuali, l’attitudine linguistica, gli stili di
apprendimento e i bisogni comunicativi variano da individuo a individuo e influenzano sia
l’acquisizione spontanea sia l’apprendimento formale.
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UD 4 - L’interlingua
Nell’unità si dà una sintetica panoramica dell’interlingua, del suo sviluppo nella storia della
glottodidattica e dei suoi riflessi sullo studio dell’apprendimento e dell’acquisizione linguistica.
4.1 - L’analisi contrastiva
4.2 - L’analisi degli errori
4.3 - L’interlingua
4.4 - Fossilizzazione
4.5 - Transfer
4.6 - Sequenze di apprendimento
4.1 - L’analisi contrastiva
Negli anni Cinquanta del Novecento, in una temperie culturale condizionata dalla psicologia
comportamentista (vedi 2.1), e dalla linguistica strutturalista e tassonomica di Bloomfield (vedi la
scheda La linguistica strutturalista e tassonomica di Bloomfield) si riteneva che la lingua fosse un
insieme di abitudini automatizzate e per questo doveva essere appresa attraverso meccanismi di
stimolo-risposta-rinforzo e di imitazione (Skinner 1957). L'indirizzo più seguito da chi si occupava
di insegnamento/apprendimento di una seconda lingua era l’analisi contrastiva (Lado 1957,
Weinreich 1953). Con l'analisi contrastiva venivano messe a confronto nelle loro strutture
(fonologiche, morfosintattiche, lessicali) la lingua materna dell'allievo e la lingua seconda, al fine di
determinare i potenziali errori dell’apprendente. Ciò sulla base del presupposto che maggiori
difficoltà e fonti di errori fossero più probabili laddove vi erano differenze fra le due lingue.
Soggiacente a tale posizione c'era l’assunto comportamentista secondo cui apprendere una L2
significava superare abitudini legate alla lingua materna; nell’insegnamento si insisteva su quelle
strutture della L2 che, in quanto diverse da quelle della L1, erano ritenute più difficili.
Le finalità dell’analisi contrastiva sono esplicitamente didattiche. L’analisi contrastiva ha un valore
predittivo: ossia può essere sfruttata per predire gli errori che il parlante di lingua commetterà
nell’apprendimento di una seconda lingua e, pertanto, può essere usata direttamente nella
realizzazione di materiale didattico.
Ma, c’è un altro modo di considerare l’analisi contrastiva, ossia, come la disamina, il consuntivo
degli errori osservati partendo dai dati di classe e usando le differenze tra i due sistemi linguistici –
L1 e L2 – per spiegare buona parte degli errori. Nessuna teoria può, però, spiegare la causa di tutti
gli errori commessi. È provato, infatti, che molti errori rappresentano una devianza dalla norma
della lingua-obiettivo, perché, causati dalla situazione della classe, non possono considerarsi in
funzione della esecuzione (disattenzione, amnesia, interferenze esterne ecc.).
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4.2 - L’analisi degli errori
La verifica “sul campo” delle ipotesi contrastive ha portato alla loro parziale smentita. Come
conseguenza dei limiti dell’analisi contrastiva a spiegare adeguatamente gli errori del discente, si fa
strada in glottodidattica l’analisi degli errori da alcuni proposta quale alternativa all’analisi
contrastiva (posizione americana) o complemento della stessa (posizione britannica). Quando infatti
ci si è volti allo studio del comportamento linguistico effettivo degli apprendenti, si sono trovati
errori anche in ambiti non previsti dall’analisi contrastiva, addirittura in contesti di identità fra L1 e
L2. Risultò allora chiaro che, oltre alla diversità fra L1 e L2, altri fattori incidono sul processo e
sull’esito dell’apprendimento.
Fin dal principio, infatti, l’analisi degli errori comprende una vasta gamma di punti di vista in
ordine ai suoi scopi ed al suo valore nel campo dell’insegnamento e dell’apprendimento linguistico.
In realtà, l’analisi degli errori è nata dalla teoria della linguistica trasformazionale e dalla nozione di
lingua quale sistema di norme. Un problema serio, ricorrente in buona parte delle analisi
contrastive, è che queste concentravano l’attenzione su differenze superficiali tra la L1 e la L2,
mentre la ricerca linguistica ha indicato che le strutture superficiali rivelano poco della natura della
lingua, e che una maggiore consapevolezza della struttura si colloca ad un livello più astratto, nel
quale le differenze e le somiglianze rilevate dall’analisi contrastiva potrebbero dimostrarsi
irrilevanti o inesistenti.
Importante è stato il saggio di Pit Corder del 1967, The significance of learners’ errors, che
proponeva di interpretare gli errori non in un’ottica comportamentista, come frutto di imitazione o
di abitudini legate alla lingua materna, ma come segnale di un sistema linguistico in formazione,
analogamente a quanto già si faceva per le forme devianti presenti nel linguaggio infantile. La
messa in evidenza di punti di contatto fra apprendimento di L1 e di L2 ha avuto importanti
conseguenze teoriche e metodologiche. Un allievo, quando apprende una seconda lingua, si
costruisce gradualmente un sistema di regole e gli errori che commette danno informazioni sullo
stadio che sta attraversando. La sistematicità e regolarità di questa lingua legittima i tentativi di
indagarla scientificamente.
Con riferimento al noto binomio chomskiano, Corder ha distinto gli errori legati alla competence
(errors), sistematici e utili per ricostruire la grammatica soggiacente e per evidenziare le strategie di
acquisizione, dagli errori o sbagli a livello di performance (mistakes), fra cui i lapsus, in un primo
momento trascurati (Corder 1983: 10-66).
4.3 - L’interlingua
Un allievo, quando apprende una seconda lingua, si costruisce gradualmente un sistema di regole,
una sua lingua caratterizzata da sistematicità e regolarità: l’interlingua.
L’interlingua (o lingua dell’apprendente) è il sistema linguistico che un discente di L2 sviluppa
durante l’apprendimento. È il “sistema linguistico a sé stante [...] che risulta dal tentativo di
produzione da parte dell’apprendente di una norma della LO” [lingua-obiettivo o target] (Selinker
1984: 29).
Si tratta di un sistema linguistico:
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- dinamico, in continuo sviluppo (si parla infatti di “continuum evolutivo”), quindi instabile e
transitorio, che tende ad avvicinarsi al sistema della L2 per stadi successivi;
- strutturato, in quanto presenta una organizzazione e coerenza interne identificabili con
l’applicazione di regole indipendentemente dal loro grado di conformità con quelle usate dai nativi
della L2;
- individuale, poiché appartiene ad un individuo o a un gruppo di individui e non ad una comunità;
- intermedio, in quanto comprende delle componenti (o tracce) della L1 e della lingua straniera in
apprendimento, e tuttavia si distingue da entrambe.
I tratti caratteristici dell'interlingua, come indicati da Selinker, sono riconducibili ad uno dei cinque
processi seguenti:
1. il transfer linguistico, cioè l’influsso della lingua materna sull’interlingua: il discente subisce
l'interferenza della L1 e tende a trasferire nella L2 i modelli fonologici, grammaticali, sintattici e
semantici della lingua materna;
2. il transfer da insegnamento, ovvero il “risultato di elementi identificabili delle procedure di
insegnamento” (Selinker 1984:32): il discente tende a usare in modo esagerato strutture ed elementi
lessicali della L2 nei quali è stato esercitato intensivamente, trasferendoli in contesti in cui risultano
inappropriati;
3. le strategie dell'apprendimento di una seconda lingua, “risultato di un modo in cui l’apprendente
affronta il materiale da apprendere” (ibidem), che variano da individuo a individuo e dipendono da
fattori quali l'età dei discenti, le modalità di esposizione alla lingua e le circostanze in cui si verifica
l'apprendimento;
4. le strategie di comunicazione di una seconda lingua, “risultato di un modo identificabile in cui
l’apprendente affronta la comunicazione con parlanti nativi” della L2 (ibidem): si tratta di quelle
strategie che il discente può attivare quando ha urgenza di comunicare in L2, un processo che si
traduce in un uso semplificato e ridotto del codice e nella messa in gioco di tutti i mezzi con i quali
il discente sfrutta le conoscenze linguistiche di cui è in possesso per raggiungere i suoi scopi
comunicativi; tale fenomeno tende a scomparire quando il discente raggiunge stadi successivi di
competenza;
5. l’ipergeneralizzazione del materiale linguistico della LO, un fenomeno che risulta dalla tendenza
del discente a stabilire false analogie fra elementi della L2 che solo in apparenza sono simili,
ignorando i limiti imposti dalle regole. Tale fenomeno viene indicato anche come “interferenza
interna”.
4.4 - Fossilizzazione
La “fossilizzazione” è definita da Selinker come un meccanismo attraverso il quale i parlanti
mantengono invariati certi elementi, regole e sottosistemi linguistici della propria interlingua,
indipendentemente dalla quantità di lingua d’arrivo che viene loro insegnata. Il discente continua ad
elaborare la lingua di arrivo fin quando è motivato a farlo. Quando si rende conto che la grammatica
della sua interlingua gli consente di comunicare con i parlanti nativi in modo adeguato agli scopi
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prefissi, viene meno la motivazione ad elaborare ulteriormente il suo sistema approssimativo e
s'instaura il fenomeno della fossilizzazione: a questo punto l'interlingua dell'apprendente cessa di
svilupparsi nonostante egli continui ad essere esposto a dati autentici della lingua di arrivo.
Esaminando il tipo di errori commessi da apprendenti giunti alla fossilizzazione della loro
interlingua, si rileva comunque che generalmente riguardano i cosiddetti “tratti ridondanti” della
lingua, cioè quegli elementi che contengono meno informazione oppure hanno un valore solo
formale. Tipici esempi di fossilizzazione riportati da Selinker sono ad esempio la r uvulare dei
francesi che apprendono l'inglese o l'intonazione inglese degli apprendenti inglesi che imparano lo
spagnolo. Tipici errori di fossilizzazione in parlanti di italiano L2 sono, ad esempio, l’omissione di
articoli, di preposizioni o della copula, parole funzionali la cui assenza non comporta quasi mai
notevoli conseguenze sul piano dell’efficacia comunicativa.
Fenomeni di fossilizzazione riemergono nella produzione dell’interlingua quando l'attenzione del
discente è focalizzata su un nuovo argomento o quando egli si trova in uno stato di stress o di ansia,
a anche quando è in uno stato di totale rilassamento. In questo caso si parla anche di backsliding o
ricaduta: si tratta di un fenomeno di retrocessione dalla norma della lingua-obiettivo, ma non
significa ritorno ad una norma della L1 quanto invece di un ritorno ad una norma dell'interlingua
che si considerava superata.
Sono state fatte diverse congetture sul perché si verifichi questo fenomeno, di volta in volta
attribuito alla diminuita motivazione ad apprendere, alla resistenza nei confronti dell’integrazione
sociale, alla paura di perdere la propria identità culturale, alla scarsa sensibilità linguistica, all’età,
alla pressione comunicativa, al tipo di feedback che l’apprendente riceve quando usa la seconda
lingua.
4.5 - Transfer
Dei processi riconducibili all'interlingua indicati da Selinker quello su cui si è appuntata
maggiormente l'attenzione dei ricercatori è stato quello del “transfer”. Il termine transfer è usato
nella didattica della lingua straniera e in psicolinguistica per indicare gli errori commessi nella L2
che si suppongono dovuti al contatto con la L1 o altre lingue; è sinonimo di interferenza negativa. Il
concetto di transfer quindi fa riferimento tanto all'influenza della lingua materna sull'apprendimento
di una seconda lingua, quanto a quella di qualsiasi altra lingua straniera appresa prima di quella che
si sta apprendendo in un dato momento. Dal punto di vista concettuale il transfer non viene
considerato semplicemente come una strategia di trasferimento di forme e funzioni dalla L1 alla
seconda lingua, ma come una sorta di filtro sulle ipotesi che l’apprendente costruisce circa il
sistema della lingua in apprendimento.
Il concetto di transfer non può essere inteso riduttivamente come influenza della sola L1. Così
inteso esso pone, come osserva Pallotti (Pallotti 1998), due problemi: il primo è legato ad una
concezione comportamentista dell’apprendimento linguistico, il secondo al fatto che il termine fa
pensare che qualcosa venga trasferito da una lingua all’altra, ma se questo è vero per alcuni casi in
altri si presentano fenomeni che non sono caratterizzabili come trasferimenti. Il termine transfer
quindi va inteso in senso molto più ampio:
È meglio considerare il transfer linguistico un termine generico per un’intera classe di comportamenti, processi e
condizionamenti, ciascuno dei quali ha a che fare con l’influenza translinguistica, cioè con l’influenza e l’uso di
conoscenze linguistiche precedenti, solitamente ma non esclusivamente della lingua materna. Questa conoscenza
contribuisce alla costruzione dell’interlingua interagendo in modo selettivo con l’input della lingua d’arrivo e con
proprietà universali di vario genere (Selinker 1992: 208; traduzione nostra).
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Il transfer linguistico opera a tutti i livelli della lingua: fonologico, lessicale, morfologico e
sintattico.
Quello fonologico è sicuramente il livello in cui l'influenza della L1 è più evidente e più difficile da
rimuovere. Molti apprendenti, ad esempio, imparano bene la morfologia e la sintassi della lingua
straniera e la usano con proprietà, ma continuano a parlare con accento nativo. A livello lessicale un
evidente segno di transfer sono i “falsi amici”, cioè quelle parole di una data lingua che hanno una
forma grafica o fonica uguale o simile a quella di un’altra lingua, ma significati diversi: ad esempio
parents inglese non corrisponde a “parenti” dell'italiano, ma a “genitori” e to pretend non è
“pretendere” ma “fingere”, il francese robe significa “vestito” e non “roba”, e il primo spagnolo non
significa “primo”, ma “cugino”.
A livello sintattico l'interferenza agisce soprattutto sull'ordine delle parole: apprendenti
germanofoni d'italiano producono enunciati come “ho la macchina anche preso” o “quando tu vuoi
queste cose guardare”, riproducendo l'ordine che le parole hanno in tedesco.
Il transfer però non è solo negativo. In molti casi, anzi, esso svolge un ruolo positivo
nell'acquisizione di una L2. Esso può avere infatti un ruolo di facilitazione quando l’ipotesi
formulata trova riscontro nell’uso effettivo della L2. In tal senso esso può agire da rinforzo
dell’ipotesi formulata o da acceleratore dell’apprendimento.
4.6 - Sequenze di apprendimento
Indipendentemente dalla L1 dell’apprendente si notano, tuttavia, nelle produzioni in L2 sequenze di
apprendimento costanti o ricorrenti. Ciò che varia è la velocità nei passaggi tra i vari stadi di
interlingua, più che le caratteristiche degli stessi. Sono state individuate tre fasi principali di
interlingua che sono (Vedovelli 2000):
- la fase pre-basica;
- la fase basica;
- la fase post-basica (vedi l’animazione Sequenze di apprendimento).
Nella fase iniziale, o pre-basica, l’apprendente tende a usare soprattutto parole chiave e la sua
modalità comunicativa è essenzialmente pragmatica. Apprende le parole per il loro valore
semantico, ma si tratta di parole prive di specializzazione funzionale. Ricorre spesso alla deissi per
indicare oggetti e situazioni (questo, quello ecc.) e si aiuta con gesti, cenni, linguaggio del corpo. Fa
appello alla collaborazione dei parlanti nativi che, per capirlo, devono assumere un atteggiamento di
cooperazione comunicativa. In questa fase la morfologia è assente o del tutto casuale e la sintassi è
rudimentale e accennata: prima tende a porre, in genere, ciò che è già noto (il topic) e poi il nuovo,
cioè l’informazione aggiuntiva.
Nella fase basica, o basic variety, si comincia a sviluppare la morfologia, che nella fase iniziale non
era stata al centro dell’attenzione, sia perché poco trasparente, sia perché complessa (come in
italiano) e affidata a elementi poco salienti: desinenze, suoni terminali delle parole e così via (Klein,
Perdue 1992: 311-314). Vengono usate ancora di frequente le strategie lessicali per rendere la
morfologia (ad esempio l’anteposizione dell’aggettivo indefinito “tanti” a sostantivi singolari, l’uso
di avverbi al posto dei tempi verbali appropriati per esprimere la temporalità). Se una regola è stata
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appresa, l’apprendente tende a sovraestenderla e a usarla anche in situazioni e contesti non
appropriati. A livello sintattico, accanto alla diffusa presenza di coordinate (introdotte da “e...”
“poi...”, “e allora...”) compaiono le prime forme di subordinazione, per lo più con valore temporale
o causale. A livello semantico-lessicale può comparire un uso sovresteso o sottesteso delle parole.
In alcuni casi tale varietà basica (quasi un pidgin) può fossilizzarsi, costituendo l’esito ultimo
dell’apprendimento, anziché esserne una tappa.
Nella fase post-basica si producono frasi con verbo flesso e compare la morfologia più regolare;
nelle produzioni dell’apprendente sono presenti più spesso articoli, copule e ausiliari, desinenze
nominali e verbali, forme di accordo sintattico (fra soggetto e verbo, fra aggettivo e nome). A
livello sintattico si ha un ricorso a strutture complesse: compaiono le prime subordinate avverbiali,
(di causa, fine, tempo), quindi le relative, le oggettive e le soggettive o completive (Giacalone
Ramat 1993).
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UD 5 - La memoria
In questa unità si mette a fuoco il ruolo centrale della memoria nell’apprendimento in genere, e se
ne descrivono le forme e le modalità operative.
5.1 - La memoria
5.2 - Struttura e funzionamento della memoria
5.3 - La memoria sensoriale
5.4 - La memoria a breve termine (MBT)
5.5 - Tratti della MBT
5.6 - La memoria a lungo termine (MLT)
5.7 - Memoria implicita o procedurale
5.8 - Memoria esplicita o dichiarativa
5.1 - La memoria
L’apprendimento sarebbe inutile se non si avesse la capacità di conservare nella mente ciò che si è
appreso, in modo da poterlo utilizzare in seguito quando serve. In altri termini l’apprendimento non
ha senso senza memoria.
Per “memoria” si intende la capacità di conservare nel tempo, in una qualche parte del nostro
cervello, le precedenti conoscenze apprese ed esperienze fatte, per poi recuperarle. La memoria è un
processo plastico e dinamico, ma in parte è anche automatico e non cosciente.
La memoria non si limita ad immagazzinare le nuove esperienze, ma le elabora e le collega alle
esperienze passate. La memoria non è la fotocopia della realtà, né la fotografia della storia
personale e non. Essendo una elaborazione, ricostruzione e conservazione attiva delle informazioni,
essa implica necessariamente un certo grado di distorsione rispetto alla realtà percepita e
conosciuta.
La memoria non è la stessa cosa dell'apprendimento. Quest'ultimo presuppone la capacità di
conservare una precedente esperienza e indica la capacità di modificare un comportamento in
rapporto a quanto si è appreso. Se ad esempio un insegnante chiede agli studenti di memorizzare le
forme flessive di un verbo irregolare li impegna in un compito di memoria; se poi propone
l’esecuzione di un esercizio grammaticale sulle forme verbali apprese esige l'intervento di un
apprendimento. Quindi l'apprendimento serve per scoprire o applicare delle leggi generali a fatti
particolari. Si potrebbe anche dire che la memoria rende testimonianza al passato, mentre
l'apprendimento dà un valore al passato, per comprendere e organizzare il presente e progettare il
futuro.
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5.2 - Struttura e funzionamento della memoria
La memoria si presenta in una forma strutturata in livelli, preposti alle operazioni di codifica ed
elaborazione dell'informazione che proviene dal mondo esterno. Le principali componenti del
modello della “elaborazione dell’informazione da parte della mente umana” (HIP, ossia Human
Information Processing) sono:
- uno stimolo esterno al soggetto, o input: ad esempio la frase “sta arrivando l’autobus” è descritta
sotto forma di onde sonore che vanno a colpire la membrana auricolare dell'individuo;
- una trasduzione sensoriale: la frase ascoltata comincia ad esistere come evento fisico per il
soggetto solo quando le onde sonore vengono convertite dal sistema uditivo in impulsi elettrici che
vengono ricevuti ed elaborati dal cervello;
- un “magazzino” dell'informazione o memoria immediata (IM) nel quale l'informazione viene
conservata un tempo brevissimo con le sue caratteristiche, anche se lo stimolo fisico può essere già
in parte venuto meno; dopo di che l'informazione può essere conservata nella memoria a breve o a
lungo termine.
Quello della memoria è un processo di elaborazione delle informazioni che implica quattro fasi
distinte:
1. Percezione e selezione - L'informazione per essere ricordata deve prima essere percepita dai
sensi. La percezione e selezione dipendono in particolare dal grado di attenzione allo stimolo e dallo
stato emotivo in cui si trova l’organismo. Attraverso il processo di attenzione vengono selezionati
solo gli stimoli che siamo in grado di percepire e tra questi quelli più importanti per la
sopravvivenza e la riproduzione dell'organismo umano.
2. Codifica o elaborazione - Le informazioni percepite sono elaborate, confrontate ed associate con
immagini, suoni, odori simili ed altre percezioni già presenti nella nostra memoria. Associare in
modo cosciente nuove parole o immagini a quello che già si conosce aiuta il ricordo.
3. Ritenzione - L'informazione è conservata solo per un breve periodo di tempo attraverso
l'eccitazione di una rete di neuroni. Con la ripetizione dello stimolo, anche attraverso il suo ricordo,
i neuroni stimolati possono potenziare i loro collegamenti formando nuove sinapsi ed una traccia
mnemonica più stabile.
4. Recupero - Ricordare significa recuperare le informazioni memorizzate. L'informazione può
essere ricordata spontaneamente o essere facilitata da tecniche mnemoniche, da suggerimenti o
dall'ordine e dalla sequenza delle informazioni immagazzinate precedentemente. Il recupero non è
un processo immediato come potrebbe essere il prelievo di un volume da uno scaffale o di un file
dal computer. Il recupero si serve spesso di indizi e suggerimenti forniti dall’ambiente e dalla
situazione (cues) e deve esserci una compatibilità fra traccia mnestica e indizio perché si abbia un
recupero agevole.
A seconda del sistema di memoria coinvolto, la codifica, l’immagazzinamento e il recupero
avvengono in modo diverso ed hanno una rilevanza differente. In base a questo modello classico si
distinguono la memoria sensoriale, la memoria a breve termine e la memoria a lungo termine.
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5.3 - La memoria sensoriale
La memoria sensoriale è la capacità di mantenere in modo sostanzialmente fedele (senza ancora
un’azione di particolare elaborazione) le informazioni provenienti dall’ambiente percepite
attraverso i sensi.
Le informazioni provenienti dagli organi di senso vengono attraverso dei “ricettori” portate a un
“registro sensoriale” del sistema nervoso centrale. Esistono registri sensoriali diversi per ogni senso,
ma tutti mantengono nel sistema nervoso centrale una rappresentazione abbastanza fedele delle
informazioni sensoriali per un periodo di tempo estremamente breve – un quarto di secondo –, dopo
di che, se non interviene un’ulteriore elaborazione, queste informazioni decadono naturalmente.
Una piccola frazione della rappresentazione delle informazioni sensoriali viene trattenuta per essere
rappresentata in seguito nella “memoria a breve termine”, mentre il resto è perduto dal sistema.
La memoria sensoriale è quindi un magazzino di elevata capienza e bassa permanenza, ospita molte
informazioni visive e uditive destinate a perdersi rapidamente. Vi persistono il tempo necessario a
fornire al soggetto un orientamento nello spazio, una panoramica completa dell’ambiente.
All’interno della memoria sensoriale si distinguono la memoria visiva, quella uditiva, olfattiva,
tattile e gustativa. Di queste la memoria sensoriale visiva (o iconica) e la memoria sensoriale uditiva
(o ecoica) sono direttamente coinvolte nei processi di apprendimento linguistico.
La memoria iconica ha la funzione di assicurare al sistema percettivo il tempo minimo necessario
ad una prima elaborazione dell’informazione in entrata (Baddeley 1990). C'è dunque una prima fase
di conservazione dell’informazione sensoriale che prolunga la permanenza dello stimolo di circa
mezzo secondo. L’informazione passa successivamente ad un magazzino di memoria cuscinetto
(buffer) più stabile, che conserva le informazioni per un tempo più lungo (circa due secondi). Ciò
permette di tradurre fonologicamente l’input e di attivare la ripetizione (rehearsal) del materiale
trasmesso dal registro sensoriale, evitando che la traccia decada.
Un processo simile accade per la memoria uditiva, deputata a trattenere per breve tempo i suoni.
Senza il perdurare della traccia uditiva non saremmo in grado di riconoscere la fonte di un rumore
improvviso e non potremmo nemmeno ricordare una sequenza di numeri che ci vengono detti a
voce. Anche la memoria ecoica ha lo scopo di prolungare la durata dello stimolo, al fine di
consentirne l’ulteriore elaborazione. Tuttavia, rispetto alla memoria iconica, quella ecoica ha una
maggiore durata: però, mentre la prima ha un’ampiezza di circa 250-500 millisecondi, la seconda
può raggiungere i 2-3 secondi.
Per quanto riguarda il processo di apprendimento linguistico, particolarmente nell’apprendimento di
nuove parole del lessico di una L2, una sola modalità di accesso (uditiva o visiva) non sarà
sufficiente a creare una traccia duratura.
5.4 - La memoria a breve termine
La memoria a breve termine (MBT) è un magazzino di limitata capacità e di limitata permanenza
(30 secondi), prolungabile però attraverso la reiterazione. La MBT è detta anche “memoria di
lavoro” (working memory), ma mentre con memoria “a breve termine” si sottolinea la durata delle
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informazioni, con memoria “di lavoro” si sottolinea la funzione. La memoria a breve termine,
infatti, è più uno spazio di lavoro che un ponte tra le informazioni ricevute e la memoria a lungo
termine.
Dal punto di vista neurofisiologico la MBT è associata ad una attivazione elettrica di alcuni neuroni
senza però modificazioni durature. Essa svolge un ruolo fondamentale in tutti i nostri processi
cognitivi: semplici operazioni come tenere a mente un numero di telefono mentre ci spostiamo alla
ricerca di una penna per trascrivere quel numero, o ragionamenti complessi legati
all’apprendimento scolastico. Ma la MBT ha anche la funzione di elaborare i dati fisici in rapporto
alle conoscenze acquisite e depositate nella memoria a lungo termine.
Le caratteristiche della MBT sono:
- capacità e durata limitate;
- codifica prevalentemente fonologica;
- mantenimento dell’informazione possibile attraverso la ripetizione (rehearsal);
- perdita (oblio) dovuta principalmente all’interferenza.
La capacità della memoria a breve termine è indicata con il termine span. L’ampiezza dello span è
indicata con la formula:
7 +/- 2,
Gli elementi che occupano lo span della nostra memoria a breve termine non vanno intesi come
singoli elementi discreti, ma possono essere anche raggruppamenti di unità superiori di significato o
chunks. L’organizzazione in chunks, implica che quanto maggiore o migliore è l’organizzazione
dell’informazione tanto maggiore è la possibilità di trattenere più informazione. In altre parole, la
MBT ha una capacità limitata di conservare dei chunks, ma non si può determinare la quantità di
informazione che ciascuno di questi può contenere.
Di fatto, come molte ricerche in campo psicolinguistico hanno dimostrato, la memorizzazione e
l’elaborazione di enunciati non dipende tanto dal numero di parole che li compongono, quanto dalla
loro organizzazione sintattica e semantica.
Ovviamente, lo span può variare anche in base alle modalità di presentazione dell’input. La
memoria uditiva a breve termine offre una prestazione migliore di quella visiva, quindi avremo uno
span più ampio se dobbiamo ricordare subito un numero di telefono che ci viene dettato a voce,
piuttosto che se ci viene presentato per iscritto.
5.5 - Tratti della MBT
Tra le caratteristiche della MBT ricordiamo, per la loro rilevanza anche nell’apprendimento di una
L2, il carattere prevalentemente fonologico della codifica e il ruolo della ripetizione e dell’oblio.
Nella memoria a breve termine la codifica avverrebbe a livello fonologico, mentre per la memoria a
lungo termine a livello semantico (Conrad 1964, Baddeley 1966). Baddeley e Hitch (1974), come
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abbiamo visto in 5.4, hanno proposto un modello di memoria a breve termine basato su diversi
sottosistemi controllati da un sistema esecutivo a capacità limitata (Baddeley 1990). Il modello
prevede un esecutivo centrale che, simile a un sistema attentivo (detto anche sistema attenzionale
supervisore, è quella attenzione che presiede all’attività di pianificazione, programmazione e
selezione di schemi in situazioni inusuali o di problem solving), fa fronte ai compiti cognitivi
richiesti dalla situazione, orienta le risorse mentali in modo selettivo, è in grado di modificare i
piani di reiterazione, organizza la codifica delle informazioni e attiva momentaneamente la
memoria a lungo termine, coordina alcuni sottosistemi, due dei quali sono i più importanti o i più
analizzati: il “ciclo fonologico”, preposto alla manipolazione dell’informazione basata sul
linguaggio, ed il “taccuino visuo-spaziale” coinvolto nell’elaborazione delle immagini visive.
Il loop (circuito) fonologico, a sua volta, sarebbe diviso in due componenti: un magazzino
fonologico responsabile di trattenere l’informazione di tipo linguistico per 1,5-2 secondi e un loop
articolatorio, che attraverso il processo di controllo articolatorio (e per mezzo del rehearsal; vedi
5.3), rinfresca l’input e lo rimanda al magazzino fonologico, consentendo in tal modo di recuperare
l’informazione che altrimenti andrebbe perduta. Il circuito articolatorio è in grado di trasformare un
input linguistico dal codice scritto al codice fonologico per trasferirlo quindi al magazzino.
Il ripasso o reiterazione (rehearsal), come abbiamo visto in 5.3, è un processo attraverso cui
l’informazione viene mantenuta nella MBT.
La memoria a breve termine è tale perché subentrano fattori di oblio che portano a cancellare dalla
memoria i dati immessi. Tra questi fattori di oblio si indicano il “decadimento della traccia
mnestica” e l’“interferenza proattiva e retroattiva”. Questi fattori influiscono variamente:
certamente l’oblio è dovuto al vario concorso di questi fattori.
Il decadimento della traccia mnestica è un processo naturale per cui anche senza il concorso di altre
cause molti dei dati depositati nella memoria si perdono: trascorso un certo tempo la traccia
svanisce o viene sostituita da una nuova traccia.
L’interferenza è l’influenza esercitata da eventi successivi all’apprendimento sulla capacità di
rievocazione. Il decadimento della traccia può essere dovuto all’intervento dello stimolo successivo
(interferenza retroattiva) o per effetto del materiale immagazzinato precedentemente
all’apprendimento (interferenza proattiva).
La teoria dell’oblio basata sull’interferenza (Murdock 1987) fa dipendere la decadenza dei ricordi
non solo dal tempo, ma anche dal fatto che ricordi simili interferiscono l’uno con l’altro:
la rievocazione di un certo materiale può essere più difficile se prima o dopo l’apprendimento viene appreso del
materiale simile. L’idea è che uno degli insiemi interferisca con la rievocazione dell’altro e questo è tanto più vero
quanto più i due insiemi sono simili» (Bower e Mann 1992: 131; traduzione nostra).
Questo tipo di interferenza spiega perché spesso sia più difficile, quando ci presentano due persone,
ricordare i loro cognomi se sono simili o perché per uno studente sia meglio studiare storia dopo
una pagina di scienze piuttosto che continuare con un’altra pagina di scienze: il simile tende a
cancellare il simile. Tutto ciò suggerisce che per ridurre l’interferenza occorre far sì che il materiale
da apprendere sia il più possibile dissimile da quello appreso precedentemente.
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5.6 - La memoria a lungo termine (MLT)
La memoria a lungo termine (MLT) è l’archivio in cui vengono trattenuti in modo duraturo ed a
volte permanente, episodi, fatti, dati e tutto ciò che costituisce il nostro sapere e la nostra
conoscenza del mondo (enciclopedia). Si tratta di un magazzino di elevata capienza e di elevata
permanenza.
Uno degli aspetti centrali di cui diversi studiosi della memoria si sono occupati, è stato quello della
descrizione del modo in cui le informazioni vengono rappresentate nella memoria a lungo termine,
come vi siano organizzate e conservate, che tipo di relazione esista tra le varie tracce mnestiche e se
vi siano dei set di informazioni, dei pacchetti di tracce che assumono in qualche modo delle
configurazioni particolari, in riferimento specificamente all’esistenza di schemi.
Per quanto riguarda invece i processi di rievocazione, diviene fondamentale definire le possibili
modalità di accesso alle informazioni, ma bisogna tener presente che le tracce depositate possono
riferirsi a dati afferenti ad un livello più personale, e rientrare quindi in un tipo di memoria definita
episodica, inerente ad eventi, o a concetti e dati più generali e rientrare pertanto in un tipo di
memoria in cui si organizzano conoscenze ad un livello più astratto e che dunque riguarda i
concetti.
Un ulteriore aspetto preso in considerazione dalle teorie sull’organizzazione delle informazioni
nella memoria semantica riguarda le modalità in base alle quali un’informazione in entrata si integra
con il sistema delle conoscenze già acquisite modificandolo, in un processo dinamico che Piaget
definisce di accomodamento. È un dato acquisito che le nuove conoscenze non si integrano alle
precedenti in modo sommativo, ma ridefiniscono il sapere in base ad un processo che presume un
ruolo attivo della memoria. Rumelhart e Norman (1978) hanno suddiviso in tre fasi tale processo:
accrescimento (accretion), strutturazione (structuring) e aggiustamento (tuning).
Appare chiaro, tuttavia, che ci troviamo di fronte a problematiche che coinvolgono sia le modalità
di apprendimento che quelle di organizzazione e recupero della conoscenza. Di conseguenza, esse
investono un’area di ricerca interdisciplinare in cui confluiscono sia le teorie sull’apprendimento,
nelle sue implicazioni psicologiche e pedagogiche, che le scienze del linguaggio, così come la
filosofia e l’informatica.
5.7 - Memoria implicita o procedurale
Il vasto archivio di informazioni acquisite e consolidate nella MLT è suddiviso in due sistemi
distinti: la memoria implicita (non dichiarativa) detta anche procedurale che riguarda le capacità
motorie, verbali o cognitive, e la memoria esplicita o dichiarativa che contiene informazioni che
possono essere rievocate consapevolmente.
La memoria procedurale o implicita è il sistema di memoria soggiacente alle esecuzioni che
richiedono destrezza (Anderson 1976); essa è coinvolta nelle abitudini, nelle memorie automatiche
di tipo motorio e nei condizionamenti. Le memorie automatiche interessano abilità come
camminare, andare in bicicletta, guidare un’automobile, muovere il mouse del computer, nuotare
ecc. Le memorie del condizionamento sono delle reazioni automatiche a stimoli condizionati e
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riguardano molti stimoli emotivi e motivazionali. Gusti e preferenze sono spesso legate a memorie
condizionate di piaceri o desideri.
Per ritenere informazioni nella memoria procedurale occorre moltissimo esercizio. Tuttavia, una
volta che le informazioni sono state registrate nella memoria procedurale, una qualsiasi perdita
permanente di dati è un fenomeno molto raro. Ad esempio, la gente recupera spesso capacità
rimaste inutilizzate per anni. Generalmente all'inizio si osserva un “ritardo da riscaldamento”, per
cui per i primi 5 o 10 minuti ci può essere un deficit nella performance. Ma dopo 10 o 15 minuti di
tentativi, le persone si ritrovano generalmente quasi allo stesso livello, se non proprio il medesimo,
di qualche anno prima. Ciò vale non soltanto per attività di tipo motorio, come andare in bicicletta o
sui pattini dopo anni di inattività, ma anche per attività di tipo intellettivo o linguistico. Strutture ed
espressioni di una lingua straniera che si padroneggiavano con una certa facilità in anni passati,
dopo un periodo di non impiego si recuperano in un tempo più o meno lungo e con minore o
maggiore sforzo in relazione alla durata del tempo trascorso. Il recupero è possibile perché quelle
conoscenze si collegano anche a una memoria procedurale.
5.8 - Memoria esplicita o dichiarativa
La memoria dichiarativa o esplicita è quella che contiene informazioni che si sono acquisite in un
unico tentativo e che possono essere rievocate consapevolmente, ovvero “dichiarabili” verbalmente.
Diversamente da quanto accade con la memoria procedurale, le informazioni della memoria
dichiarativa si dimenticano molto rapidamente, se non vengono utilizzate. La probabilità di ritenere
un'informazione nella memoria dichiarativa dipende, infatti, sia dal tempo passato da quando
l'abbiamo incontrata per la prima volta, sia dalla frequenza con cui la usiamo. Fondamentalmente la
probabilità e la velocità di accesso a un ricordo sono funzione sia della frequenza che dell'attualità
dell'utilizzo di tale ricordo.
La memoria dichiarativa esplicita è a sua volta suddivisa in memoria episodica e memoria
semantica. Tale distinzione si deve allo psicologo canadese Elvis Tulving (Tulving 1972).
La memoria episodica si riferisce all’immagazzinamento e al recupero di eventi ed episodi
temporalmente databili, localizzabili spazialmente ed esperiti personalmente.
Della memoria episodica fa parte anche la memoria autobiografica, che può essere definita
semplicemente come la capacità di rievocare gli eventi della propria vita. Nella memoria episodica
esiste un rapporto ben saldo tra chi ricorda e ciò che viene ricordato, cosicché chi ricorda ritiene di
trovarsi di fronte a una sorta di replica del passato e compie un viaggio mentale per rivivere quella
situazione, anche se essa può apparire un mosaico formato da poche tessere o una fotografia molto
sbiadita. Tuttavia, per quanto appannato possa essere il ricordo di un lontano episodio, chi ricorda o
tenta di ricordare compie sempre un viaggio a ritroso senza vincoli col presente: per un momento ci
si può distaccare dalla realtà in cui si è immersi e rivivere situazioni lontane. Gli episodi del passato
possono essere rievocati o secondo un ordine cronologico (gli anni trascorsi) o secondo un ordine
connotativo (si ricorda ciò che ci ha colpito particolarmente).
La memoria semantica si riferisce all’“immagazzinamento e all’utilizzazione di conoscenze che
riguardano le parole e i concetti, le loro proprietà e relazioni reciproche” (Tulving e Thomson
1973: 354; traduzione nostra). Secondo alcuni studiosi essa ha sede nei lobi temporali medi della
neo-corteccia secondo altri è distribuita nel cervello. Essa costituisce un patrimonio mentale che
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riguarda le conoscenze sul mondo in forma organizzata, i significati delle parole ed i concetti e
viene descritta da Tulving come
una memoria necessaria al linguaggio. La memoria semantica può essere considerata come un lessico mentale che
organizza le conoscenze che una persona possiede circa le parole e gli altri simboli verbali, i loro significati e referenti,
le relazioni esistenti tra essi, le leggi, le formule e gli algoritmi relativi alla manipolazione di questi simboli, concetti e
relazioni […]. La memoria semantica non registra le proprietà percettibili degli stimoli, ma piuttosto i loro referenti
cognitivi (Tulving 1972: 386).
La memoria semantica è alla base del linguaggio, rappresenta una conoscenza permanente generale
ed astratta, indipendente dalle coordinate spazio-temporali del soggetto, degli oggetti, del mondo e
degli avvenimenti. La memoria semantica lavora per categorie semantiche e campi semantici, ossia
collegando una parola con altre parole sulla base di relazioni associative. Non si può ricordare la
parola “gatto” senza ricordare anche una serie di proprietà inerenti (coda, pelo, miagolare) oppure
altri concetti ad esse associabili (topo, cane ecc.).
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UD 6 - Fattori individuali che influenzano l’apprendimento
Si descrive il ruolo che l’età dell’apprendente, il suo stile cognitivo, le sue attitudini e motivazioni e
le strategie che adotta hanno ai fini dell’apprendimento di una seconda lingua.
6.1 - L’età
6.2 - L’attitudine linguistica
6.3 - Lo stile cognitivo
6.4 - La motivazione
6.5 - Stili e strategie di apprendimento
6.6 - Strategie cognitive
6.7 - Strategie comunicative
6.8 - Strategie metacognitive
6.9 - Strategie sociali e affettive
6.1 - L’età
Se è generalmente diffusa l’idea che i bambini apprendono le lingue straniere più facilmente degli
adulti, diverse sono le opinioni sulla questione relativa all’età in cui è preferibile iniziare
l’apprendimento di una seconda lingua. Le ricerche in questo ambito, pur numerose, non hanno
provato con assoluta certezza che i bambini sono avvantaggiati rispetto agli adolescenti e agli
adulti. Infatti, se da una parte si è notato che i bambini raggiungono livelli di pronuncia migliori
rispetto agli adolescenti e agli adulti, questi ultimi imparano, in genere, più rapidamente una lingua
straniera, grazie alle superiori capacità cognitive.
Ci sono tuttavia differenze nell’apprendimento di una lingua riconducibili al fattore età. Aspetti di
ordine neurologico, cognitivo, psicologico, affettivo e sociale distinguono il modo di apprendimento
di un bambino da quello di un adulto o di un adolescente. Distinguendo percorso, velocità ed esito
finale dell’apprendimento l’età degli apprendenti gioca ruoli diversi.
Dal punto di vista neurologico tre sono le ipotesi che cercano di spiegare il processo di acquisizione
linguistica: l’ipotesi della plasticità cerebrale, del periodo critico e dell’emisfericità.
Con “plasticità cerebrale” si intende la cooperazione in età pre-puberale tra i due emisferi del
cervello, per cui, ad esempio, in caso di lesioni in una parte le funzioni svolte dalla zona lesa
vengono ridistribuite tra i due emisferi.
Con “periodo critico” (che alcuni preferiscono indicare piuttosto come “periodo sensibile”), si
intende la fase o le fasi in cui il cervello umano sembra essere particolarmente predisposto ad un
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dato apprendimento. Tale periodo coincide con i primi dieci anni di vita; successivamente il
cervello perderebbe quella plasticità ritenuta responsabile della facilità di acquisizione cognitiva.
Con “emisfericità” si intende la specializzazione in ruoli tra loro complementari dei due emisferi del
cervello.
Circa il periodo critico diverse sono le ipotesi che si confrontano: quella dell’esistenza di un solo
periodo e quella dell’esistenza di più periodi critici nell’apprendimento di una lingua.
Fu Eric Lenneberg, nel 1967, a parlare per primo di periodo critico e a dare una sintesi dei principi
biologici che sono alla base del linguaggio umano.
Per Lenneberg alla base del concetto di periodo critico c’è il processo di maturazione
neurofisiologica del cervello che raggiunge il suo massimo attorno ai 12 anni quando si conclude il
processo di lateralizzazione cerebrale, quando cioè i due emisferi cerebrali hanno raggiunto la piena
specializzazione in funzioni diverse e complementari fra loro. Il periodo critico, si ha fra i due anni
di vita (assenza di maturazione) e i dodici anni (piena maturazione), quando il cervello ha raggiunto
il massimo del suo peso, perdendo però in plasticità ed adattabilità.
I risultati delle ricerche nel campo neurologico, tuttavia, non sembrano offrire solidi appigli per una
teoria generale dell’apprendimento.
Ai bambini la lingua interessa più per quello che fa che per quello che è. Nei bambini
l’apprendimento avviene in modo immediato e automatico: per le loro caratteristiche cognitive, essi
non hanno coscienza del loro apprendimento. Infatti i bambini sono egocentrici, si basano sulle
somiglianze, non pensano in modo flessibile, non possiedono capacità metacognitive, inoltre sono
aperti a qualsiasi lingua perché non hanno ancora assimilato molti dei valori culturali e degli
atteggiamenti sociali collegati alla lingua. Harley e Hart (1997) hanno dimostrato che gli aspetti
dell’attitudine linguistica che meglio illustrano il successo nella seconda lingua da parte dei bambini
sono quelli legati alla capacità di memorizzazione. In altri termini l’approccio dei bambini alla L2
sarebbe basato sulla memoria, sulla capacità di ricordare formule ed espressioni imparate a
memoria, mentre quello degli adulti dipenderebbe di più dalla capacità di analizzare il linguaggio.
Gli adolescenti e gli adulti, infatti, hanno una maggiore consapevolezza del loro apprendimento: le
loro capacità cognitive sono più sviluppate, riescono a fare astrazioni e generalizzazioni, sanno
individuare le differenze e le somiglianze tra due o più sistemi linguistici, sono flessibili nel loro
modo di pensare. Ma d’altro canto, le capacità di un apprendimento automatico e meccanico sono
più ridotte. Ciò spinge il discente adulto ad adottare strategie di tipo logico deduttivo.
La migliore prestazione dei bambini a livello di pronuncia è spiegabile con il fatto che tale abilità
meno si presta alla manipolazione consapevole.
Dal punto di vista didattico le riflessioni sul ruolo dell’età portano a ritenere che un’esposizione
precoce alla seconda lingua in età infantile sia, alla lunga, favorevole al conseguimento di una
competenza (quasi) nativa in L2, specie in ambito fonologico, ma che buoni risultati si possano
ottenere anche se si è esposti alla L2 entro i 15 anni, in condizioni adeguate, con input abbondante.
Con gli adulti pare invece opportuno far leva soprattutto sull’apprendimento esplicito con
focalizzazione sulla forma per ottenere buoni risultati.
Nella pratica didattica il tener conto dell’età come uno dei fattori che incidono sull’apprendimento
determina l’organizzazione del curricolo attraverso la fissazione degli obiettivi, la selezione dei
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contenuti, il disegno del sillabo, i tipi di attività e la loro sequenza; inoltre incide sulla selezione e
produzione dei materiali didattici, sulle modalità d’esame e su altri aspetti didattici.
6.2 - L’attitudine linguistica
Altro fattore individuale che può esercitare un suo ruolo nel processo di apprendimento di una
seconda lingua è l’attitudine. L’attitudine è la particolare predisposizione o “talento personale”
specifico ad acquisire una lingua ed è indipendente dalle capacità in altri campi; è piuttosto stabile
nel suo operare e non è insegnabile. L’attitudine rimanda a qualità cognitive e ad un complesso di
fattori specifici. Non va intesa come una caratteristica globale, ma può essere vista come più
attitudini relative alle varie abilità linguistiche, come quella fonetica, quella lessicale, quella
grammaticale ecc. Vediamo, infatti, persone che hanno una buona pronuncia nella lingua straniera,
ma sono imprecise o scorrette sul piano grammaticale, mentre altre, pur pronunciando la lingua
straniera con un marcato accento nativo, si esprimono sul piano morfosintattico in maniera accurata
e apprezzabile. Parliamo allora di attitudini distinte, evidenziando i tratti che ci portano ad
affermare che si tratta di una vera predisposizione per quei tratti della lingua straniera.
L’attitudine fonetica, che consente di padroneggiare i suoni della lingua straniera, comprende la
sensibilità uditiva o capacità di distinguere i suoni, la sensibilità motoria che permette di riprodurli
con precisione, l’abilità di percepire e riprodurre le particolarità di intonazione della L2.
L’attitudine lessicale si identifica con la memoria delle immagini verbali, con la capacità di
distinguere con precisione e rapidità le parole simili, la capacità di cogliere le differenze semantiche
fra le parole della lingua straniera e fra quelle della propria lingua materna e quelle della lingua
straniera, la capacità di cogliere con una certa rapidità il significato di una parola straniera nuova.
L’attitudine grammaticale si esplica nella capacità di riconoscere la natura morfologica delle parole,
le loro relazioni e funzioni sintattiche nella frase.
L’attitudine stilistica permette di generalizzare le regole grammaticali, lessicali e semantiche della
lingua in apprendimento.
6.3 - Lo stile cognitivo
Altro fattore che è alla base delle differenze individuali nell’apprendimento di una lingua è lo stile
cognitivo, o stile di apprendimento. Gli studenti si differenziano non solo per il diverso grado di
abilità cognitive di base, ma anche per il modo preferenziale con cui le utilizzano, cioè per il loro
stile cognitivo. Con stile cognitivo si indica il modo in cui una persona percepisce, concettualizza,
organizza e successivamente richiama alla memoria le informazioni apprese. Esso viene anche
definito come quella inclinazione, evidente e resistente nel tempo, ad usare un determinato insieme
di strategie nel processo di apprendimento. La resistenza e la stabilità nel tempo costituiscono
un’importante caratteristica dello stile cognitivo: un apprendente tende ad usare a lungo un
determinato stile e la durata è dettata dal maggior numero di successi legati all’adozione di quelle
strategie.
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Il concetto di stile cognitivo è strettamente legato a quello di metacognizione, perché mette in luce
quanto sia importante che un apprendente acquisisca maggiore consapevolezza delle proprie
caratteristiche e delle strategie che utilizza preferenzialmente.
I tentativi di descrivere lo stile cognitivo si sono distinti per l’uso di una terminologia dicotomica
che sottolinea le opposizioni e le differenze viste come poli estremi di un continuum. Vediamo
sommariamente alcune di queste coppie tipologiche.
La prima è quella rappresentata dalla contrapposizione tra stile dipendente dal campo e stile
indipendente dal campo. È il modello di stile più studiato e individua due diversi modi di guardare e
comprendere la realtà.
I discenti dipendenti dal campo (detti anche olistici) procedono a grandi linee, riescono a conoscere
un oggetto solo nel suo contesto (che sia visuale, sociale, scientifico ecc.), preferiscono avere
un’idea globale prima di scendere nei dettagli, amano gli esempi e gli aneddoti. I discenti
indipendenti dal campo hanno più facilità all’analisi, a separare visivamente le figure dallo sfondo e
sono in grado di accostarsi all’apprendimento partendo da un quadro interno e ignorando gli stimoli
che non fanno parte di ciò su cui si stanno concentrando. Procedono linearmente, sono metodici e
precisi,
isolano
i
problemi
e
li
analizzano
nei
loro
aspetti.
Ken Willing (1987) propone un modello bidimensionale degli stili cognitivi: una dimensione è
quella di dipendenza / indipendenza dal campo, l’altra quella di attivi e passivi. Il modello può
essere visualizzato con una tabella che individua quattro tipi di stile derivanti dalla combinazione
delle due dimensioni:
Indipendenti dal campo
Conformisti
Convergenti
Studenti orientati verso l’autorità, dipendenti Studenti analitici, solitari, non dipendenti dalla
dalla classe, attivati da stimoli visivi
classe, stimolati da discorsi sulla lingua
Passivi
Attivi
Concreti
Comunicativi
studenti orientati verso la classe, favorevoli a studenti orientati fuori della classe, favorevoli
giochi e gruppi, socievoli
a situazioni reali, forniti di molte abilità
Dipendenti dal campo
Altro stile cognitivo è quello che distingue gli allievi tra quelli che includono in una categoria più
elementi di quelli che le appartengono e quelli che invece escludono da una categoria elementi che
le sono propri. Nel processo di categorizzazione alcuni tendono a costruire categorie ampie, altri
categorie più ristrette e settoriali. I primi possono commettere errori di ipergeneralizzazione, i
secondi tendono a costruire più regole di quelle che sarebbero necessarie.
Altre dicotomie di stili cognitivi sono le seguenti:
- riflessivo/impulsivo (o intraprendente): il riflessivo pensa e pondera prima di prendere una
decisione, l’impulsivo tende a prendere decisioni immediate; lo stile impulsivo cerca di ottenere
risultati rapidi e mira ad un apprendimento veloce, il riflessivo si caratterizza per la procedura a
piccoli passi e la presa in considerazione di tutti i dettagli;
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- uditivo/visivo (o verbale/visuale): distingue chi impara meglio ascoltando da chi invece ha
bisogno del supporto di immagini e figure; l’uditivo (o verbale) preferisce lavorare con le parole e
sulle parole, mentre un visivo predilige il codice visivo-spaziale e ricorda meglio immagini,
diagrammi, tabelle, mappe concettuali;
- analitico/gestaltico: è analogo al campo-indipendente e campo-dipendente; l’analitico tende a
scomporre la lingua nei suoi elementi, impara singole regole e parole, è più preciso nella
produzione; il gestaltico, o olistico, si costruisce regole generali, impara la seconda lingua a blocchi,
è più immediato e fluente nel parlare, ma fa più errori;
- convergente/creativo: la persona con stile convergente nello svolgimento di un compito tende a
seguire strategie consolidate e percorsi standard di apprendimento che siano già risultati vincenti,
mentre i divergenti cercano soluzioni nuove, sviluppano percorsi diversi e originali di
apprendimento. Molto spesso gli allievi con stile divergente risultano penalizzati dalla
strutturazione delle classi e dai modi rigidi imposti dalla scuola per l’esecuzione dei compiti.
- intuitivo/sistematico: una persona intuitiva coglie immediatamente il nocciolo di un problema e
l’aspetto centrale di una questione, ama le situazioni complesse e tende a fare delle ipotesi che cerca
di verificare sulla base dei dati disponibili anche se spesso tende a saltare alle conclusioni senza una
accurata analisi e programmazione. Una persona sistematica, invece procede a piccoli passi, parte
dai dati e dagli elementi che ha a disposizione: ama programmare le attività.
6.4 - La motivazione
La motivazione è, notoriamente, la molla più importante all’apprendimento ed è un fattore
complesso che si compone di aspetti affettivi e cognitivi. Gardner la definisce come: “la misura
dell’impegno o sforzo che un individuo mette nell’apprendere una lingua a causa di un suo
desiderio e della soddisfazione provata in tale attività” (Gardner 1985: 10; traduzione nostra). Nella
motivazione rientrano, quindi, un obiettivo, un desiderio di raggiungerlo, uno sforzo e la
soddisfazione. A differenza degli altri fattori sopra descritti, la motivazione può cambiare nel tempo
a seguito delle nuove esperienze e al sorgere di nuovi interessi.
L’attenzione degli studiosi si è appuntata maggiormente sugli aspetti che contraddistinguono i modi
in cui la motivazione agisce negli apprendenti. Sono state offerte descrizioni diverse, per lo più
bipolari, che sottolineano differenze tra forme tra loro antitetiche.
Motivazione primaria/motivazione secondaria - La motivazione primaria è un incentivo che
proviene dall’interno dell’organismo, ha un’origine biologica o endogena. Essa si collega con la
conservazione dell’organismo-persona e con il suo sviluppo. Tale è la motivazione che nell’infante
e nel bambino obbedisce a esigenze di comunicazione per la sopravvivenza. Alla base di una
motivazione primaria in adulti o adolescenti ci sono i bisogni, le convinzioni profonde, le emozioni
che determinano interessi, atteggiamenti, intenzioni, decisioni relative al compito da eseguire. La
motivazione secondaria, invece, obbedisce a pressioni esterne, come l’istruzione e la professione: si
impara una lingua per superare un esame, per evitare una punizione, o per compiacere i genitori o
gli insegnanti. Molto spesso le motivazioni scolastiche si riducono a pressioni di ordine secondario,
e ciò spiega la loro minor forza nell’economia dell’apprendimento.
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Motivazione iniziale e motivazione permanente - La prima è l’impulso o incentivo che spinge ad
intraprendere un processo di acquisizione, e può ridursi anche a mezzi assai superficiali, mentre la
motivazione permanente è il motivo che riesce a mantenere costante lo sforzo del discente.
Motivazione intrinseca e motivazione estrinseca - La motivazione intrinseca si manifesta come
esigenza di usare la lingua per il suo scopo specifico: quello di comunicare messaggi e significati.
Oltre al bisogno di comunicare la lingua serve per integrarsi in un gruppo e per sentirsi parte di un
gruppo linguistico e culturale, ma alla sua base ci può essere anche l’interesse, la curiosità, il
piacere che una data attività può di per se stessa comportare. La motivazione estrinseca obbedisce
invece a fattori esterni come la riuscita nello studio, il successo professionale, una gratificazione o
ricompensa immediata o gli atteggiamenti favorevoli verso un determinato gruppo etnico
(Titone 1993: 125-126).
Motivazione integrativa e motivazione strumentale - La motivazione integrativa è quella che nasce
dal desiderio di integrarsi nella comunità che parla la lingua che si apprende, di socializzare con i
suoi membri: è quella che porta ad acquisire una familiarità con la cultura bersaglio. Si tratta di una
motivazione integrativa specifica, riscontrabile, ad esempio, nelle situazioni di contatto migratorio,
di bilinguismo sociale o in contesti di lingua straniera in cui gli apprendenti provano una forte
attrazione verso il Paese e la cultura straniera. Accanto a questa si può vedere anche una
motivazione integrativa generale, propria di chi vede nella conoscenza di una lingua straniera la
possibilità di comunicare con persone di altre culture e di altre realtà sociali. La motivazione
strumentale è quella che spinge ad imparare una lingua per scopi utilitaristici (come adempiere un
requisito del curriculum di studio, soddisfare un bisogno occupazionale ecc.). Tale motivazione
strumentale può essere di lungo periodo, se l’obiettivo dello studio linguistico è il miglioramento
della propria posizione sociale o lavorativa, oppure di breve periodo se finalizzata ad un obiettivo
limitato e specifico come il superamento di un test o il conseguimento di un buon voto. In questo
secondo caso si tratta di una motivazione analoga a quella estrinseca.
Anche se i due tipi di motivazione possono portare ad una pari volontà ed impegno nello studio
della seconda lingua, solo chi è motivato “integrativamente” può ottenere, nei tempi lunghi, risultati
migliori rispetto a chi è mosso solo strumentalmente allo studio della seconda lingua. Tuttavia le
motivazioni strumentale e integrativa non vanno sempre viste in opposizione: talora i motivi
strumentali e integrativi possono essere complementari, non si escludono ma si sommano.
6.5 - Stili e strategie di apprendimento
Lo stile di apprendimento è l’insieme delle strategie ed operazioni mentali che il discente mette in
atto, in modo più o meno consapevole, per apprendere i vari aspetti della lingua. Le strategie di
apprendimento linguistico, invece, come le definisce Oxford, sono le “azioni specifiche messe in
atto da un discente per rendere l’apprendimento più facile, veloce, piacevole, autodiretto, efficace e
trasferibile a nuove situazioni” (Oxford 1990: 8).
Si sono proposte diverse tipologie di strategie. La più diffusa è quella che le riunisce in quattro tipi:
strategie cognitive, strategie di comunicazione, strategie metacognitive e strategie socio-affettive.
Per l’apprendimento delle seconde lingue Rebecca Oxford distingue le strategie di apprendimento
in due categorie: dirette e indirette e ciascuna di queste è distinta in tre tipi.
Sono strategie dirette le strategie della memoria, le strategie cognitive e quelle compensative,
mentre sono strategie indirette quelle metacognitive, quelle sociali e quelle affettive.
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Le strategie della memoria aiutano a ricordare le nuove informazioni acquisite.
Le strategie cognitive mettono il discente in grado di capire, manipolare e trasformare la L2 in
modo da produrre messaggi originali. Sono strategie cognitive la ripetizione, l’uso di strutture e
formule, la comprensione immediata di un messaggio, l’analisi, il ragionamento deduttivo, il
riassunto, la presa di appunti ecc.
Le strategie compensative sono quelle che il discente mette in atto per sopperire alle incomprensioni
derivanti dalla limitata conoscenza della lingua e che permettono di capire e produrre comunque
nuovi messaggi.
Le strategie indirette sono più generali e riguardano comportamenti e atteggiamenti che si
riferiscono a tratti affettivi e sociali.
Le strategie metacognitive sono quelle che il discente mette in atto quando controlla il proprio
processo di apprendimento ponendosi degli obiettivi, focalizzando ciò che vuole imparare e
autovalutando il proprio apprendimento.
Le strategie affettive sono quelle tecniche con cui l’allievo controlla la propria emotività quando si
esprime in L2. Strategie affettive sono l’autostima, gli atteggiamenti verso la lingua e la cultura
straniera, la motivazione ecc.
Le strategie sociali aiutano il discente ad apprendere interagendo con gli altri.
6.6 - Strategie cognitive
Le strategie cognitive consistono in quelle attività e processi mentali che gli apprendenti mettono in
atto, in modo consapevole o inconscio, per migliorare la comprensione della lingua, la sua
assimilazione, il suo immagazzinamento, il suo recupero e la sua successiva utilizzazione.
Esempi di strategie cognitive possono essere:
- il confronto tra una struttura della nuova lingua con quella equivalente della propria lingua;
- l’elaborazione di uno schema di ciò che si è appreso;
- la sottolineatura dei passi più importanti di un testo;
- l’elaborazione della conoscenza precedente: collegare le nuove informazioni con quelle precedenti
mediante associazioni o analogie;
- compiere inferenze: usare il contesto linguistico per indovinare il significato delle espressioni
nuove o per predire quali informazioni seguiranno;
- transfer linguistico: usare delle capacità di elaborazione specificamente linguistiche (ad esempio
vocaboli affini nelle due lingue) per aiutare la comprensione e la produzione;
- il raggruppamento: classificare le parole, la terminologia o i concetti a seconda dei loro attributi;
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- deduzione / induzione: applicare o inventare delle regole per aiutare l’apprendimento linguistico;
- riassumere: fare un riassunto orale, scritto o mentale di un testo.
6.7 - Strategie comunicative
Le strategie comunicative sono costituite da tutti quei meccanismi di cui si servono gli apprendenti
per comunicare efficacemente, superando le difficoltà che derivano da un insufficiente controllo o
dominio della lingua in apprendimento.
Queste strategie permettono all’allievo di mantenere la comunicazione invece di abbandonarla di
fronte alle difficoltà impreviste, procurandosi così un maggior contatto con la L2 e più occasioni di
pratica e di apprendimento.
Nelle strategie degli apprendenti, alcuni autori distinguono tra le strategie di evitamento e quelle di
compensazione. Le prime portano ad un impoverimento della comunicazione, dal momento che il
parlante per evitare i problemi nell’uso della lingua o per evitare di commettere errori, rinuncia ad
affrontare determinati temi, abbandonando totalmente o parzialmente il tema iniziato o riducendo il
contenuto del suo messaggio. Le seconde consistono nella ricerca di procedimenti alternativi che
permettano al parlante di raggiungere il suo scopo comunicativo: parafrasare, spiegare mediante
esempi, usare un termine inventato che si pensa comprensibile per il ricevente ecc.
6.8 - Strategie metacognitive
Le strategie metacognitive consistono in diversi mezzi di cui si servono gli apprendenti di una
lingua per pianificare, controllare e valutare lo sviluppo del loro apprendimento. Queste strategie
permettono all’apprendente di osservare il proprio processo. Esse sono esterne e allo stesso tempo
comuni ad ogni tipo di apprendimento. Caratterizzano un tipo speciale di conoscenza da parte
dell’apprendente indicato come “tripla conoscenza”: quella riferita al compito di apprendimento,
quella riferita alle strategie di apprendimento e quella riferita al soggetto che apprende. In altre
parole si tratta di sapere in che cosa consiste apprendere, sapere come si impara meglio e sapere
come si è, conoscere cioè le proprie emozioni, i propri sentimenti, atteggiamenti e attitudini.
Esempi di strategie metacognitive possono essere:
- l’individuazione del reale obiettivo: soffermarsi a riconoscere l’obiettivo e la finalità di un
esercizio o compito che si sta per fare (distinguendo, ad esempio tra uno che serve per
l’arricchimento del lessico attraverso la lettura di un testo e un altro che serve per il
perfezionamento della comprensione della lettura);
- la ricerca di occasioni concrete per consolidare l’apprendimento in classe;
- l’attenzione diretta: decidere di fare attenzione e concentrarsi su un compito di apprendimento;
- l’attenzione selettiva: fare attenzione o esaminare parole, espressioni, marcatori linguistici o tipi di
informazioni di particolare importanza;
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- l’organizzazione preliminare: fare una ricognizione preliminare delle idee e dei concetti principali
di un testo e identificarne i principi organizzativi;
- la pianificazione organizzativa: pianificare lo svolgimento del compito di apprendimento;
pianificarne le varie parti e la sequenza di idee da esprimere;
- l’autogestione: comprendere le condizioni che aiutano ad apprendere e disporsi in modo da
favorirle;
- l’auto-osservazione: controllare il proprio livello di comprensione dell’input linguistico e il livello
di comprensibilità del proprio output linguistico;
- l’auto-valutazione: giudicare come è stato svolto il compito di apprendimento.
6.9 - Strategie sociali e affettive
Le strategie socio-affettive consistono nelle decisioni e nei tipi di comportamento che gli
apprendenti di una seconda lingua adottano per rinforzare l’influenza favorevole dei fattori
personali e sociali nell’apprendimento.
L’importanza di queste strategie sta nel fatto che l’apprendimento si sviluppa non solo a partire dai
processi cognitivi, ma anche dal rapporto tra i fattori cognitivi, le emozioni e gli atteggiamenti della
persona. Sul versante sociale, attraverso queste strategie aumenta il contatto dell’apprendente con la
lingua straniera e si potenziano i suoi effetti positivi sull’apprendimento.
Esempi di strategie socio-affettive possono essere:
- compiere attività diverse per superare inibizioni e blocchi nell’uso della lingua (ad esempio,
ridurre l’ansia concentrandosi sugli aspetti positivi della propria competenza di apprendimento
linguistico);
- cooperare con altri apprendenti e con parlanti nativi in pratiche di apprendimento (svolgimento di
compiti) e uso della lingua (fare pratica);
- sviluppare atteggiamenti positivi verso la cultura straniera;
- richiedere ulteriori spiegazioni o conferme a un insegnante o altra persona esperta.
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UD 7 - Fattori esterni che influenzano l’apprendimento
In questa unità si descrivono il ruolo dell’input nell’apprendimento linguistico e le caratteristiche
che questo deve possedere per essere efficace nei processi di acquisizione di una seconda lingua.
7.1 - L’input linguistico
7.2 - Quantità di input
7.3 - Frequenza dell’input
7.4 - Comprensibilità dell’input
7.5 - Interazione e apprendimento
7.1 - L’input linguistico
L’input è il materiale linguistico a cui l’apprendente è esposto: in altri termini, è tutto ciò che viene
detto direttamente a lui, tutto ciò che viene detto in sua presenza e tutto ciò che l’apprendente
incontra per iscritto nella L2. L’input è una componente importante, un fattore indispensabile per
l’apprendimento linguistico. La natura e le caratteristiche dell’input possono facilitarne la
comprensione e l’acquisizione.
L’input in lingua straniera si può avere in un contesto naturale o in un contesto istituzionale e
formale. Il contesto naturale è l’ambiente sociale in cui si trova il parlante non nativo e l’input è
costituito da tutte le varietà e forme di lingua con le quali l’apprendente viene a contatto. Il contesto
formale è quello di una istituzione scolastica: qui l’input è variamente controllato e calibrato in
funzione delle competenze in L2 dell’apprendente e delle scelte fatte dall'insegnante.
Dato che il tipo di input e le occasioni di interazione verbale con parlanti nativi costituiscono
l’unico fattore del processo di apprendimento di una L2 che è pedagogicamente controllabile, lo
studio e l’analisi di tale input costituiscono la sola occasione per fare inferenze circa il processo di
apprendimento di una seconda lingua. Per avere una qualche idea del processo di apprendimento di
una seconda lingua diventa allora importante analizzare le interazioni concrete spontanee di discenti
stranieri con parlanti nativi, individuare quali aggiustamenti o semplificazioni adotta il parlante
nativo quando interagisce con uno straniero, confrontare questo linguaggio con quello usato
dall’insegnante di L2 in classe, studiare, insomma, quali effetti hanno i diversi tipi di input
sull’apprendimento di una seconda lingua.
La comprensione e l’uso dell’input per apprendere una lingua sono i due aspetti che vanno tenuti
presenti nell’analisi del ruolo dell’input nell’apprendimento. La comprensione dell’input è una
condizione necessaria per l’apprendimento, ma non sufficiente.
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7.2 - Quantità di input
Intuitivamente si è portati a pensare che quanto maggiore è l’input a cui si è esposti tanto maggiore
è l’apprendimento. Certamente se le differenze quantitative tra due tipi di input sono
macroscopiche, come ad esempio quella tra un’esposizione alla L2 per due ore la settimana e un
corso intensivo di trenta ore, allora l’equazione
più esposizione = più apprendimento
è vera, ma se le differenze sono poco sensibili allora è difficile determinare il ruolo della maggiore
esposizione.
Il solo fattore quantitativo sembra non bastare. Se alla quantità di esposizione si unisce anche la
varietà di occasioni e quindi di stimoli allora l’apprendimento è più efficace. E questo è facilmente
dimostrabile con l’esperienza di quanti apprendono una lingua straniera frequentando un corso
all’estero, in cui alle lezioni in classe si aggiungono contatti frequenti ed interazioni con parlanti
nativi: in questo caso i livelli che si raggiungono sono indiscutibilmente più alti. È vero che anche
altri fattori concorrono a determinare tali livelli, quali, ad esempio, la motivazione, il desiderio di
integrarsi, l’accettazione da parte dei nativi.
È stato sperimentato, tuttavia, che l’esposizione alla L2 oltre una data soglia è inefficace se non
addirittura svantaggiosa. Una conferma di ciò è rappresentata dai dati emersi in corsi di educazione
bilingue tenuti negli Stati Uniti e in Canada; qui si è notato che nelle classi in cui i bambini
ricevevano lezioni in parte nella loro L1 e in parte nella L2 si sono avuti risultati migliori rispetto
alle classi in cui i bambini ricevevano un’istruzione monolingue nella L2. Cummins (1983) spiega
questo risultato con la sua teoria della competenza bilingue unificata: il bambino che apprende una
lingua sviluppa da una parte varie abilità relative all’uso del lessico e della grammatica, e dall’altra
si costruisce strategie linguistico-cognitive. Il bambino utilizza queste stesse strategie acquisite
nell’uso di una lingua anche nell’apprendimento dell’altra lingua. Quando si ha un’interruzione
dell’uso e dell’apprendimento della L1 si ha anche un’interruzione del trasferimento di queste
strategie da una lingua all’altra. In altri termini le strategie di apprendimento che il bambino si
costruisce per imparare la lingua materna vengono riutilizzate nell’acquisizione della seconda
lingua.
Seliger (1977) ha notato che in una classe di lingue si possono trovare allievi “alti generatori di
input” e “allievi bassi generatori di input”. I primi partecipano attivamente, pongono domande,
intervengono nelle interazioni che si creano nella classe, cercano contatti con parlanti nativi anche
fuori della classe; i secondi invece hanno un atteggiamento passivo e sono in uno stato di attesa
degli stimoli esterni. I primi conseguono, in genere, maggiori progressi nell’apprendimento.
In conclusione, il fattore tempo e la quantità di esposizione sono importanti, ma oltre una certa
soglia, tanto per i bambini quanto per gli adulti, la quantità può divenire inutile, se non dannosa
quando è stressante. Solo che è difficile determinare il limite da non oltrepassare, perché questo
varia da individuo ad individuo ed è correlato a diversi altri fattori. In ultima analisi è l’apprendente
stesso che riesce ad avvertire questa soglia, perché è lui che coglie, seleziona quale e quanto input è
per lui utile.
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7.3 - Frequenza dell’input
Ciò che si ascolta più frequentemente si apprende meglio e prima. L’esperienza diretta degli
insegnanti conferma questa affermazione. Gli immigrati adulti apprendono presto le parole che sono
usate frequentemente nell’ambiente che frequentano (Giacalone Ramat 1986).
Ciò è vero per il lessico, ma per la grammatica si può dire lo stesso? I morfemi grammaticali più
frequenti nell’input si apprendono prima? Le cose sono un po’ più complicate. Alcuni ricercatori
hanno cercato di trovare una correlazione tra frequenza d’uso di certi morfemi e l’ordine naturale di
acquisizione proposto da Krashen, ed hanno rilevato che in alcuni casi c’era una forte
corrispondenza, ma in molti altri una forte distorsione. Analoghe indagini su altri aspetti
morfologici hanno portato a risultati difformi e quindi non significativi. Un esempio emblematico
della difficoltà di stabilire una correlazione tra frequenza di una struttura e suo apprendimento è
rappresentato dall’articolo: l’articolo inglese the ha un alto indice di frequenza, è in assoluto la
parola più frequente dell’inglese, tuttavia viene inserito piuttosto tardi nell’interlingua di un
apprendente. Lo stesso vale per l’articolo tedesco: i lavoratori stranieri in Germania sbagliano di
frequente l’articolo nei loro enunciati, anche se l’articolo die è la parola che appare più
frequentemente nella conversazione in tedesco (Klein 1986: 67).
Andersen (1983) ha proposto una variante al principio della frequenza, che ha chiamato ipotesi
della “distribuzione distorta” (distributional bias). Secondo questa ipotesi una data distribuzione
nell’input induce l’apprendente a generalizzare secondo una direzione esagerata, assegnando una
regolarità assoluta a ciò che nell’input originario è solo una tendenza preferenziale, prototipica. Si
nota, ad esempio, nelle produzioni di stranieri che parlano l’italiano che certi verbi sono coniugati
con certe forme aspettuali piuttosto che con altre. Così i verbi che esprimono un evento puntuale,
come “rompere” e “finire”, sono usati frequentemente al passato (“finito”, “rotto”), mentre i verbi
che esprimono uno stato o una condizione durativa sono, per lo più, usati all’imperfetto (“era”,
“stava” ecc.). L’associazione tra significato del verbo e sua coniugazione prototipica diventa una
regola che si generalizza a tutti i casi anche a quelli in cui più opportuno sarebbe un altro tempo
verbale.
La conclusione che si può trarre è che la frequenza con cui una struttura ricorre nell’input ha un
incidenza sull’apprendimento in correlazione ad altri fattori.
7.4 - Comprensibilità dell’input
Perché l’input si trasformi in intake (il termine indica quanto dell’input viene effettivamente
assimilato dall’apprendente) deve essere, almeno in parte, comprensibile. Diversamente quello che
l’apprendente percepisce sarebbe solo un flusso indistinto di suoni da cui non potrebbe trarre alcun
vantaggio. Imparare una lingua non è solo riconoscimento, memorizzazione e riproduzione di
stringhe di suoni, ma è soprattutto “saper fare” con quelle sequenze di suoni, vale a dire conoscerne
il significato e la funzione.
Il sostenitore più noto dell’input comprensibile è Krashen: per lui, infatti, l’input comprensibile
rappresenta il punto di partenza imprescindibile dell’acquisizione e dell’apprendimento linguistico:
“noi acquisiamo [una seconda lingua] … comprendendo il linguaggio che contiene un input con
delle strutture che sono un po’ oltre il livello attuale di chi apprende” (Krashen 1981: 58). L’input
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comprensibile è qualsiasi discorso o testo che si riesce a comprendere anche se non si è in grado di
produrlo e anche se non si riesce a comprenderlo nella sua interezza. Perché ci sia acquisizione
questo input deve essere “un po’ oltre il livello attuale”; il che vorrebbe dire che deve contenere
elementi nuovi rispetto alle conoscenze possedute in quel momento dall’apprendente, e che le
conoscenze pregresse siano tali da consentire la comprensione del “nuovo” contenuto nell’input. È
quel “nuovo” che è ad un livello di difficoltà i + 1, in cui “i” rappresenta la competenza posseduta
al momento in cui si recepisce l’input.
Klein indica quattro fattori che possono rendere comprensibile l’input:
- la sua contestualizzazione extralinguistica;
- la sua strutturazione linguistica;
- la sua modificabilità;
- la sua negoziabilità.
La “contestualizzazione extralinguistica” fa riferimento ai diversi elementi che compongono la
situazione comunicativa, come ad esempio i partecipanti, le coordinate spazio-temporali, i ruoli dei
partecipanti, l’argomento, gli scopi comunicativi ecc. Questi sono tutti fattori rilevanti ai fini della
decifrazione e comprensione di un messaggio linguistico.
Per cogliere come è strutturata la lingua (ovvero la sua “strutturazione linguistica”), un apprendente
fa riferimento alle conoscenze che possiede circa il funzionamento della lingua. In particolare può
far riferimento alle conoscenze generali del linguaggio, più comunemente indicate come universali
linguistici, alle conoscenze che ha della propria lingua materna, alle conoscenze parziali della L2 in
apprendimento, alle conoscenze, più o meno ampie, di altre lingue straniere.
Solitamente un nativo quando parla con o ad uno straniero modifica il suo modo di parlare, ricorre
cioè ad una lingua semplificata o banalizzata, nella presunzione che lo straniero possa capirlo
meglio o che non conosca certe parole, forme o strutture ritenute più complesse o difficili. Si tratta
di un fenomeno non dissimile da quello adottato dagli adulti quando parlano ad un bambino
(modificabilità dell’input). È quello che solitamente viene indicato come “foreigner talk”. Si tratta
di una varietà semplificata di lingua che i nativi utilizzano per parlare con stranieri (Ferguson 1964).
Un’ultima modalità che rende comprensibile l’input è la sua negoziazione, vale a dire il reciproco
sforzo di apprendente e interlocutore nativo a negoziare l’input. La negoziabilità dell’input può
avvenire in vari modi. Di fronte alla segnalazione di incomprensione del messaggio da parte
dell’apprendente, l’interlocutore nativo adotta varie strategie dialogiche, come la riformulazione
con inserimento di modifiche che semplificano o espandono il concetto, la dislocazione
dell’argomento per renderlo più saliente, la verifica, anche attraverso domande, dell’avvenuta
comprensione da parte dell’interlocutore, la formulazione di una domanda che include la risposta.
Si tratta di strategie che pur non esclusive dell’interazione tra parlante nativo ed apprendente, sono
sicuramente più frequenti in questo tipo di interazioni.
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7.5 - Interazione e apprendimento
L’interazione in L2 rappresenta un altro importante fattore esterno di progresso nell’apprendimento
linguistico. Questa può essere considerata come un input più comprensibile, in quanto ha come
scopo proprio la comprensione che viene facilitata da un processo continuo di negoziazione del
significato. Hatch afferma che “si apprende a conversare, a interagire verbalmente, e da queste
interazioni si sviluppano delle strutture sintattiche” (Hatch 1978: 104; traduzione nostra). Il
bisogno di comunicare spinge l’apprendente a mettere in atto tutte le risorse linguistiche (e non solo
linguistiche) di cui dispone: ricorre alla mimica, ai gesti, alla L1 e alle strutture della L2 che
conosce, è tutto proteso nello sforzo di comunicare, e tutto questo è decisivo per andare “un po’
oltre il livello attuale” indicato da Krashen.
Rispetto all’input controllato e semplificato proprio delle produzioni monodirezionali che si
incontrano di frequente nelle attività scolastiche, e in quelle in cui l’apprendente è totalmente
ricettivo, come ad esempio nel caso di mezzi di comunicazione di massa, quello ottenuto attraverso
l’interazione è più comprensibile e più ricco perché nello scambio interattivo l’apprendente
costringe in qualche modo l’interlocutore a produrre enunciati più ridondanti, a ripetere quando non
ha capito, e questo determina un input ottimale che è estremamente vantaggioso per la
comprensione. Non si tratta di un fatto puramente quantitativo. L’input dell’interazione non è più
efficace perché più ricco e più ridondante, ma perché è più adeguato e calibrato sulle capacità
dell’apprendente e perché l’apprendente è coinvolto attivamente e quindi più motivato. Ciò vale
tanto per i principianti quanto per gli allievi dei livelli più avanzati.
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