Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 179-185 Frontiere Il contributo della genetica alla comprensione delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1 Maristella Pitzalis1, Magdalena Zoledziewska1, Francesco Cucca1,2 1 2 Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica (IRGB) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Monserrato Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari, Sassari Riassunto Il diabete di tipo 1 (DT1) è causato dalla distruzione selettiva delle β cellule pancreatiche producenti l’ormone insulina da parte di linfociti T autoreattivi. Il processo autoimmune alla base della malattia dipende dalla complessa correlazione tra numerose varianti genetiche di suscettibilità distribuite nell’intero genoma e fattori ambientali di rischio ancora sconosciuti. La ricerca dei fattori genetici coinvolti nella malattia è iniziata nei primi anni ’70 attraverso una lunga serie di studi di associazione, che hanno portato all’identificazione di varianti di rischio nel complesso maggiore di istocompatibilità (MHC-HLA) e, nei 30 anni successivi, a livello dei geni INS, CTLA4, PTPN22 e IL2RA. Tali studi si basavano sul disegno sperimentale del gene candidato e sul successivo mappaggio fine, un laborioso approccio genetico-statistico volto ad identificare le varianti casuali – ovvero quei polimorfismi genici il cui prodotto proteico è direttamente implicato nella patogenesi della malattia. A partire dal 2007, gli studi di associazione su tutto il genoma (GWAS) hanno rivoluzionato la ricerca delle basi genetiche della malattia. Tali studi, attraverso un approccio più sistematico in grado di analizzare centinaia di migliaia di varianti in casistiche di decine di migliaia d’individui, hanno finora svelato oltre 50 loci di suscettibilità per la malattia. Nel loro complesso, questi risultati delineano con sempre maggiore chiarezza i complessi meccanismi alla base della patogenesi della malattia. Summary Type 1 diabetes (T1D) results from the T lymphocytes’ attack on the insulin-producing beta cells. This autoimmune process depends on the complex interplay between several co-inherited susceptibility alleles interspersed throughout the genome and still unknown environmental factors. The role of specific variants within the MHC/HLA region, in the insulin gene (INS) promoter region and at the CTLA4, PTPN22 and IL2RA genes have been clarified through a long series of association studies which began in the early ’70s. These studies were largely based on a candidate gene approach with subsequent fine mapping to reduce the associated regions to the essential elements, whose protein products are directly involved in disease pathogenesis. Since 2007, Genome Wide Association Studies (GWAS), based on the analyses of tens of housands of individuals and interrogating hundreds of thousands of variants, have revolutionized the analysis of the genetic component of T1D, leading to the discovery of over 50 susceptibility loci. Overall these results have highlighted mechanisms and pathways involved in disease pathogenesis. Parole chiave: diabete di tipo 1, studi di associazione su tutto il genoma, varianti genetiche Key words: type 1 diabetes, genome wide association study, genetic variants Metodologia della ricerca bibliografica effettuata La ricerca bibliografica effettuata su PubMed ha preso in esame la letteratura scientifica recente sulla genetica del diabete di tipo 1 (DT1) e qualche richiamo su lavori scientifici antecedenti utili per inserire le nuove acquisizioni in un contesto storico. Introduzione Il DT1 è un esempio paradigmatico di malattia multifattoriale causata dal concorso di numerosi fattori di rischio genetici in presenza di fattori ambientali permissivi ancora sconosciuti. Che i geni abbiano un ruolo importante nel conferire suscettibilità al DT1 è noto da molto tempo, come dimostrato dall’osservazione elementare che il rischio di malattia aumenta quanto più vicino è il grado di parentela con una persona affetta. Il rischio di malattia in un fratello e in un gemello monozigote di un paziente con DT1 è per esempio, rispettivamente circa 15 e 100 volte più alto rispetto a quello della popolazione generale. Negli ultimi decenni quest’osservazione epidemiologica è stata corroborata da risultati sperimentali, a cominciare da quelli accumulati a partire dai primi anni ’70 che hanno mostrato con risoluzione via via maggiore l’associazione di varianti nella regione del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC-HLA) con la malattia. Successivamente sono stati identificati altri fattori di rischio, in particolare alcune varianti polimorfiche nella regione promotrice del gene che codifica per l’insulina (INS) (Bell et al., 1984), nel gene codificante per la proteina Cytotoxic T-Lymphocyte Antigen 4 (CTLA-4) (Ueda et al., 2003), nella proteina tirosina fosfatasi N22 espressa nei linfociti (PTPN22) (Bottini et al., 2004) e nel recettore alfa dell’interleuchina-2 (IL2RA, CD25) (Vella et al., 2005). A fronte di questi successi la ricerca delle basi genetiche del DT1, così come quella di altre malattie multifattoriali, è stata per lungo tempo caratterizzata da una lunga serie di studi contrassegnati da evidenze deboli e mai replicate. Lo studio delle componenti genetiche del DT1 e di altre malattie a trasmissione ereditaria multifattoriale, ha subito finalmente una rapida accelerazione nel corso degli ultimi anni grazie all’avvento degli studi di associazione sull’intero genoma (GWAS). Questo metodo d’analisi ad alta risoluzione, grazie ad un incremento considerevole del potere statistico, ha consentito l’identificazione di oltre 50 associazioni inequivocabili tra specifiche varianti polimorfiche ed aumento di rischio di malattia (Figg. 1 e 2). Tali studi si basano su ampie casistiche di diverse migliaia e in molti casi decine di migliaia di individui nei quali viene stabilito il profilo genetico a livello di diverse centinaia di migliaia e più recentemente di mi- 179 M. Pitzalis, M. Zoledziewska, F. Cucca Figura 1. In tabella sono stati riportati tutti i loci inequivocabilmente associati al diabete di tipo 1 - ovvero con significatività statistica (Pvalue) <5x10-8 o con più moderata evidenza (Pvalue <10-4) se la stessa regione è già un locus confermato in altre malattie autoimmuni (www.t1dbase.org modificata). Chiave di lettura per i nomi delle malattie. BD- Disordine Bipolare, Celiac- Celiachia, Crohn- Malattia di Crohn, Graves- Malattia di Graves, IBD- malattia infiammatoria intestinale, JRA- Artrite Reumatoide giovanile, MS- Sclerosi Multipla, PBC- Cirrosi Primaria Biliare, Psoriasis- Psoriasi, RA- Artrite Reumatoide, SLE- Lupus Eritematosus Sistemico, SS- Sclerodermia sistemica, Sjogren- Sindroma di Sjogren , Spondylitis- spondilite anchilosante, T1D- Diabete di tipo 1, T2D- Diabete di tipo 2, UC- Colite Ulcerativa, Vitiligo- Vitiligine 180 Il contributo della genetica alla comprensione delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1 lioni di varianti polimorfiche a singolo nucleotide (SNP). Tutto ciò è reso possibile dagli avanzamenti tecnologici ed analitici legati all’avvento dei microchip, al completamento del sequenziamento dell’intero genoma umano e successivi sforzi volti a caratterizzare con una risoluzione sempre maggiore la variabilità genetica in differenti popolazioni. Appare anche evidente che la componente genetica del DT1 non spiega interamente l’eziopatogenesi della malattia. La sua incidenza è infatti costantemente aumentata nei paesi sviluppati a partire dal dopoguerra e previsioni allarmanti prospettano che, entro il 2020, l’incidenza potrebbe raddoppiare nei bambini sotto i 5 anni di età (Patterson et al., 2009). Questo aumento di incidenza sta avvenendo in un arco di tempo troppo breve – corrispondente a poche generazioni – per poter essere causato da cambiamenti nell’assetto genetico, che per insorgere e fissarsi nella popolazione richiede tempi evoluzionistici. È molto verosimile che modifiche del contesto ambientale nel corso degli ultimi ’60 anni abbiano giocato un ruolo nell’aumento dell’incidenza. La ricerca dei fattori ambientali è peraltro complicata dalla lunga latenza tra l’inizio del processo alla base della malattia e il suo esordio clinico quando oltre l’85% delle cellule beta pancreatiche sono andate progressivamente distrutte. Un’altra difficoltà nella ricerca dei fattori ambientali predisponenti deriva dalla natura sostanzialmente non rigenerativa dell’organo bersaglio dell’attacco autoimmune: le cellule beta pancreatiche. Questi fattori impediscono l’introduzione di test basati sulla somministrazione e rimozione di potenziali fattori ambientali scatenanti, che hanno consentito l’identificazione del glutine come fattore ambientale casuale della celiachia. A dispetto di tali difficoltà è stato da lungo tempo proposto un ruolo predisponente per specifici RNA virus, in particolare specifici sierotipi di virus Coxsackie, il cui coinvolgimento nella malattia è supportato anche da evidenza più recente (Dotta et al. 2007). Ma lo spettro dei fattori ambientali coinvolti sia in senso predisponente che protettivo potrebbe essere più ampio. Nei paesi sviluppati, tra gli anni ’40 e ’50 c’è stato un netto miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie che ha ridotto l’incidenza di alcune malattie, specie batteriche e parassitarie. È stato quindi ipotizzato, in base alla cosiddetta “teoria igienica” che l’aumentata incidenza di malattia sia legata alla scomparsa o comunque riduzione d’infezioni protettive. Inoltre, durante i ~200.000 anni trascorsi dalla comparsa della nostra specie (Francalacci et al., 2013) il nostro sistema immunitario si è evoluto per far fronte ad infezioni di vario tipo. Questo meccanismo potrebbe aver contribuito alla selezione di varianti genetiche utili per le nostre difese contro i patogeni ma attualmente, in un ambiente molto meno settico, potenzialmente dannose in quanto in grado di determinare una condizione di iper-attivazione del sistema immune predisponente nei confronti dell’autoimmunità. Tale modello potrebbe essere supportato da alcune nuove associazioni, come quella tra Figura 2. Rappresentazione grafica dei meccanismi di immunotolleranza coinvolti nell’eziopatogenesi del diabete di tipo 1. Le molecole in nero parteciperebbero all’attivazione delle cellule T mediante il loro recettore (TCR) o con eventi di segnalazione a valle, mentre le molecole in rosso agirebbero da inibitori di questi processi. 181 M. Pitzalis, M. Zoledziewska, F. Cucca Figura 3. Rappresentazione grafica dei loci noti per il diabete di tipo 1 (www.t1dbase.org modificata). In rosso i loci identificati mediante studi di associazione su tutto il genoma (GWAS). In nero sono stati invece indicati i geni svelati mediante approcci di associazione del gene-candidato. il DT1 e una specifica variante puntiforme rs3184504, Arg262Trp, del gene SH2B3, la cui fissazione nelle popolazioni occidentali sembra il risultato di una forte selezione positiva legata all’incremento di specifiche cellule del sistema immune (Orrù et al. 2013). Si dovrà comunque tener presente che l’effetto dei geni, anche sommato a quello dei fattori ambientali, non potrà spiegare completamente la malattia, come testimoniato dal fatto che gemelli monozigoti (MZ), geneticamente identici, e che spesso condividono anche l’ambiente in cui crescono dal concepimento fino all’esordio della malattia, sono concordanti rispetto alla malattia in circa il 50% dei casi. Anche considerando modelli murini di malattia, in particolare il topo diabetico non-obeso (NOD), animali geneticamente identici, che condividono negli stabulari lo stesso ambiente, hanno una condivisione della malattia inferiore al 100%. Deve esistere quindi anche una componente stocastica e/o epigenetica in grado di influenzare l’insorgenza della malattia. Dai geni ai meccanismi Coerentemente con la natura autoimmune della malattia, la maggior parte dei loci di suscettibilità per il DT1, fino ad ora identificati, mappa in geni che influenzano la risposta immunitaria. Tali varianti identificano una seria di vie patogenetiche implicate nello sviluppo della malattia. La via patogenetica di maggior rilievo che emerge dagli studi genetici fin qui effettuati riguarda i meccanismi di presentazione antigenica a livello centrale (timo) e periferico (isole pancreatiche e linfo- 182 nodi satelliti) mediata da specifiche varianti alleliche e aplotipiche codificate a livello della regione HLA-MHC. In particolare, durante l’induzione intra-timica dell’immunotolleranza le molecole MHC partecipano alla selezione positiva e negativa dei linfociti T attraverso la presentazione di auto-antigeni espressi nel timo. Il coinvolgimento della regione HLA nella predisposizione al DT1 fu dimostrato inizialmente nei primi anni ’70 utilizzando un approccio del tipo gene candidato e un disegno sperimentale caso-controllo (Cudworth e Woodrow, 1974). L’elevato grado di correlazione genetica (linkage disequilibrium) delle varianti presenti nella regione che tende a mantenere insieme nella popolazione specifiche combinazioni di alleli di classe I, III e II ha reso difficoltosa l’attribuzione della suscettibilità a specifici loci e varianti. Appare ora evidente che specifici aplotipi codificati dai loci di classe II HLA-DQB1 e -DRB1 e dai loro ortologhi murini IA e IE, sono primariamente associati con la malattia e rappresentano la principale componente genetica di predisposizione nella regione. Un ulteriore contributo è apportato da una combinazione di geni di suscettibilità, cosiddetti “modificatori”, localizzati a livello del locus di classe II HLA-DPB1 (Cucca et al., 2001a) e della classe I (Nejentsev et al., 2007). L’associazione della regione HLA con la malattia mostra un continuum che va da aplotipi predisponenti ad aplotipi fortemente protettivi. Uno degli aspetti distintivi del DT1 è rappresentato dai gradi estremi di resistenza alla malattia conferiti da specifiche varianti alleliche e aplotipiche, cosiddette protettive (Cucca et al., 1995, Cucca et al., 2001b). Risultati simili sono stati ottenuti sperimentalmente anche nel modello murino di DT1: il topo NOD. Il contributo della genetica alla comprensione delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1 L’analisi della struttura proteica codificata dagli alleli MHC di suscettibilità per il DT1 nell’uomo e nel topo ha mostrato rimarchevoli gradi d’identità. Marcate similitudini sono state osservate anche fra gli alleli di protezione umani e murini. I meccanismi patogenetici alla base della resistenza e della suscettibilità alla malattia sono quindi verosimilmente conservati in specie diverse (Cucca et al., 2001b). Nel loro insieme i dati suggeriscono un modello patogenetico in cui la protezione dalla malattia sarebbe direttamente proporzionale all’affinità ed efficienza del legame fra le molecole MHC, il peptide diabetogenico e il recettore dei linfociti T (TCR) nel timo (Ridgway et al., 1998). Le molecole MHC protettive esibirebbero grande affinità per il peptide diabetogenico e per questa ragione determinerebbero una selezione negativa, o delezione timica, dei linfociti in quanto se questi dovessero uscire dal timo sarebbero ad altissimo rischio di autoreattività (Cucca et al., 2001b). Al contrario, in presenza delle molecole predisponenti, i linfociti T diabetogenici sfuggirebbero alla delezione intratimica, in quanto presenterebbero una minore affinità per il peptide diabetogenico. Le molecole predisponenti sarebbero comunque in grado di presentare un autoantigene diabetogenico ai linfociti T autoreattivi circolanti a livello nell’organo bersaglio: le cellule beta pancreatiche. Le evidenze sperimentali indicano che esisterebbero, inoltre, altri meccanismi mediati da molecole MHC protettive quali la selezione positiva di linfociti T con funzioni di tipo soppressivo/regolatorio (Luhder et al., 1998). Esisterebbe quindi un sistema sofisticato con molteplici punti di controllo dell’autoimmunità: delezione clonale dei linfociti T autoreattivi nel timo e generazione di risposte regolatorie/soppressive in grado di intercettare eventuali linfociti T autoreattivi presenti nel sangue periferico. Il DT1 può essere considerato quindi come una malattia causata da un difetto di questo complesso meccanismo volto al mantenimento della tolleranza verso uno specifico autoantigene pancreatico. Numerose evidenze indicano che l’insulina e i suoi precursori rappresentano gli autoantigeni primari nel DT1. Tale modello è supportato anche dai dati genetici. Il gene INS rappresenta il locus di suscettibilità con più alto effetto dopo la regione HLA e la sua associazione è nota fin dal 1984 attraverso uno studio del tipo gene-candidato (Bell et al., 1984). Studi successivi hanno evidenziato che tre varianti, rappresentate da una sequenza ripetuta VNTR e dagli SNP -23HphI (rs689) e +1140A/C (rs3842753) localizzate a livello del gene INS e in forte linkage disequilibrium tra di loro, sono le più associate con il DT1 nella regione (Barratt et al., 2004). Sebbene il VNTR rimanga per i suoi potenziali effetti sulla trascrizione del gene il polimorfismo causale più plausibile – con gli alleli “corti” (di classe I con 26-63 ripetizioni) predisponenti e gli alleli “lunghi” (di classe III con 140-200 ripetizioni) protettivi – è stato recentemente proposto che anche la variante rs689 abbia importanti effetti sulla trascrizione del gene INS e possa rappresentare anch’essa la variante causale (Kralovicova e Vorechovsky, 2010). A prescindere dall’identificazione della specifica variante responsabile dell’associazione con la malattia, esiste una chiara evidenza a supporto del fatto che le tre varianti predisponenti nei confronti del DT1 correlino con una ridotta espressione della preproinsulina nel timo, che favorirebbe la selezione positiva di linfociti T autoreattivi, mentre gli alleli protettivi correlerebbero con una sua incrementata espressione timica che faciliterebbe i meccanismi di induzione della tolleranza immunologica nei suoi confronti (Pugliese et al., 1997, Vafiadis et al., 1997). Altre associazioni genetiche con il DT1 evidenziano ulteriori meccanismi coinvolti nell’eziologia del DT1. In particolare, è stata descritta (Bottini et al., 2004) e mappata finemente (Zoledziewska et al., 2008) la variante 1858 C>T del gene PTPN22. Questo ultimo codifica per una tirosina fosfatasi specifica delle cellule linfoidi (Lymphoid Phosphatase, Lyp) implicata nella regolazione negativa dell’attivazione T cellulare. La variante 1858 C>T, che rappresenta il terzo segnale di associazione più forte nel DT1 dopo l’HLA e il gene INS, causa una sostituzione dell’amminoacido arginina in triptofano nel codone 620 della proteina Lyp (Vang et al., 2005, Bottini et al., 2006), che dà luogo a una mutazione con acquisizione di funzione con effetto negativo nei confronti dell’attivazione dei linfociti T. Come PTPN22 anche i geni CTLA4 e UBASH3A sono importanti regolatori negativi dell’attivazione delle cellule T. CTLA4 codifica per un corecettore transmembrana espresso sulla superficie dei linfociti T CD4 e CD8 attivati. Esso ha la funzione d’inibire la proliferazione dei linfociti T, promuovendone l’apoptosi attraverso l’incremento della produzione di IL-2. UBASH3A è specificamente espresso nei linfociti e codifica per una fosfatasi che regola negativamente l’attivazione del TCR. L’allele di rischio per il DT1 (Concannon et al., 2008) è associato ad acquisizione di funzione e studi sperimentali indicano che esso incrementi l’espressione di UBASH3A (Dixon et al., 2007). Appare quindi evidente che nel loro insieme le varianti di rischio per il DT1 dei geni PTPN22, UBASH3A e CTLA4, determinano, attraverso un’acquisizione di funzione di un segnale inibitorio, una ridotta attivazione del TCR (Fig. 3). Una possibile spiegazione per questi risultati complicati è legata al ruolo chiave del timo nell’induzione della tolleranza – dove una ridotta attivazione delle cellule T determinerebbe la maturazione e fuoriuscita dal timo di linfociti autoreattivi e viceversa un’incrementata attivazione delle cellule T risulterebbe in una deplezione dei linfociti T autoreattivi --e/o a livello di cellule con funzioni regolatorie – dove l’iperattivazione si accompagnerebbe ad un incremento del loro effetto protettivo (Fig. 4). Tra i loci più recentemente descritti in associazione al DT1 sono presenti geni legati alla produzione di citochine e dei loro recettori: IL2, IL10, IL27,CCR5, IL2RA e IL2RB (Barrett et al., 2009, Smyth et al., 2008, Cooper et al., 2008). Uno dei meccanismi principali nell’eziopatogenesi del DT1 è la regolazione genetica della produzione di IL-2 e del legame con il suo recettore, codificato da tre geni; IL2RA(CD25), IL2RB, IL2G. Il maggiore effetto genetico è del locus IL2RA (rischio relativo >3.5) che codifica per la subunità alfa del recettore dell’IL-2. Le varianti alleliche di suscettibilità al DT1 a livello di IL2RA determinano una riduzione di una particolare sottoclasse di cellule T memoria caratterizzate da una marcata espressione della molecola CD25 e dalla mancata espressione del fattore trascrizionale FOXP3 (CD45-, CD25hi non-regulatory T cells) (Dendrou et al., 2009; Orrù et al. 2013). Queste cellule eserciterebbero il loro ruolo protettivo grazie alla loro capacità di produrre localmente IL-2 che è a sua volta essenziale per la sopravvivenza e la proliferazione delle cellule T regolatorie. La carenza di IL-2 causa una ridotta attivazione delle cellule Treg e conseguente alterazione della tolleranza periferica. Sono attualmente in corso trial clinici di fase I e II allo scopo di valutare i rischi e benefici della somministrazione di basse dosi di IL-2 per indurre/stimolare le cellule Treg nei pazienti DT1 (clinicaltrials.gov/ct2/show/NCT01353833). Coerentemente con l’ipotesi che gli RNA virus giochino un ruolo scatenante nella patogenesi del processo autoimmune, un’altra categoria di loci recentemente associati alla malattia comprende geni che svolgono un ruolo nella risposta immunitaria antivirale: IFIH1 (Interferon Induced with helicase C domain 1) ed EBI2 (Ebstein Barr Virus induced 2) (Barrett et al. 2009, Heinig et al 2010). Di particolare interesse l’associazione con IFIH1 che codifica per una proteina citoplasmatica in grado di riconoscere l’RNA dei picornavirus e di mediare l’attivazione della risposta immune anche attraverso l’incremento dell’espressione delle molecole MHC di classe I a loro volta essenziali per il riconoscimento e la distruzione, da parte delle cellule T Citotossiche CD8+, delle cellule infettate dai virus. In parti- 183 M. Pitzalis, M. Zoledziewska, F. Cucca colare è stata riportata un’associazione negativa con il DT1, e quindi un effetto protettivo nei confronti della malattia, da parte di varianti rare di IFIH1 associate ad una perdita di funzione del gene (Nejentsev et al., 2009). Questo indicherebbe che l’iperattivazione di questo sistema di risposte agli RNA virus, scatenato dalle stesse infezioni virali, è predisponente nei confronti del DT1. Conclusioni e prospettive future Nel corso degli ultimi anni gli studi GWAS hanno migliorato considerevolmente le nostre conoscenze sulle basi genetiche del DT1 dimostrando inequivocabilmente il coinvolgimento di numerosi geni associati con questa e altre malattie autoimmuni. I prodotti proteici dei geni associati suggeriscono inoltre alcune delle principali vie patogenetiche implicate nella patogenesi della malattia e confermano una complessa disregolazione del sistema immune. Nonostante questi successi, una parte della componente genetica della malattia rimane ancora inspiegata ed è probabilmente legata a varianti rare per le quali gli studi fin qui effettuati non possedevano adeguato potere statistico. La dissezione delle componenti genetiche della malattia potrà essere completata grazie ad un’ancora più elevata “estrazione” dell’informazione genetica dovuta ai nuovi approcci di sequenziamento dell’intero genoma, accoppiati ad un ulteriore aumento della casistica esaminata, nell’ordine di >50.000 pazienti e >50.000 controlli. Infine, nonostante gli evidenti progressi degli ultimi anni, la nostra visione dei meccanismi implicati nel DT1 è ancora parziale, con molti e importanti dettagli ancora da delucidare. Infatti, alcune delle varianti associate con la malattia risultano criptiche, ovvero senza una chiara correlazione con i meccanismi alla base della patologia in esame. Da ciò deriva la necessità di integrare i disegni sperimentali esistenti con nuovi approcci metodologici. Particolarmente promettente appare in tal senso lo studio combinato di un tratto dicotomico quale il DT1 e di endo-fenotipi potenzialmente correlati, rappresentati da tratti quantitativi misurabili, quali i livelli delle cellule e delle molecole circolanti del sistema immune. Figura 4. Rappresentazione grafica del meccanismo di immunotolleranza nel timo. A livello della corticale timica vengono selezionati i linfociti T in base al grado di affinità tra il loro recettore (TCR) ed il complesso HLA – autoantigene. I linfociti T con bassa affinità andranno incontro a morte per mancata stimolazione, mentre quelli che esibiscono media o alta affinità verranno selezionati positivamente. Nella midollare timica avviene una seconda fase di selezione; in questo processo i linfociti T che esibiscono alta affinità per il complesso HLA – auto antigene moriranno per delezione clonale. I soli linfociti T che esibiscono media o bassa affinità completeranno il processo di maturazione ed usciranno dal timo. 184 Il contributo della genetica alla comprensione delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1 L’identificazione di associazioni genetiche coincidenti, ovvero la stessa variante implicata sia nel rischio di malattia che nell’influenzare i livelli di una cellula o molecola, non solo rivelerà meccanismi e vie patogenetiche alla base del DT1 ma consentirà anche l’individuazione di nuovi bersagli terapeutici per futuri programmi di prevenzione della malattia. Ringraziamenti Questo lavoro e dedicato alla memoria del Prof. Antonio Cao e del Prof. Renzo Galanello. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima Il diabete di tipo 1 è una patologia autoimmune multifattoriale complessa. L’eziopatogenesi è definita dall’interazione della componente genetica e della componente ambientale. Fin dal 1970 è noto il forte contributo di varianti alleliche e aplotipiche codificate a livello della regione HLA e definite nel corso degli anni successivi con sempre maggiore risoluzione, insieme ad alcune altre varianti a livelli dei geni INS, PTPN22, CTLA4 e IL2RA localizzate al di fuori della regione HLA. Cosa sappiamo adesso Gli studi recenti di associazione su tutto il genoma hanno notevolmente incrementato le conoscenze sui fattori genetici implicati nel diabete di tipo 1. Attualmente sono noti oltre 50 loci (www.t1dbase.org) di predisposizione alla malattia. Nel loro insieme, i dati genetici esistenti suggeriscono alcuni dei principali meccanismi coinvolti nella predisposizione e protezione nei confronti del DT1, che sono in parte supportati anche da studi funzionali mirati sulle cellule primarie (in particolare linfociti T) dei pazienti e su opportuni modelli murini di malattia. Quali ricadute sulla pratica clinica La conoscenza approfondita delle basi genetiche del diabete di tipo 1 rappresenta la chiave d’accesso per la definizione dei meccanismi e delle vie coinvolte nell’eziopatogenesi della malattia. Sebbene sia già possibile selezionare in fase preclinica bambini a forte rischio genetico di sviluppare la malattia, in assenza di una terapia preventiva efficace le ricadute sulla pratica clinica rimangono ancora limitate. Le future ricadute cliniche includeranno la selezione di bersagli terapeutici sempre più numerosi e sempre più specifici per la terapia preventiva e la stessa stratificazione degli individui a rischio in base all’assetto genetico individuale. Bibliografia Barratt BJ, Payne F, Lowe CE, et al. Remapping the Insulin Gene/IDDM2 Locus in Type 1 Diabetes. Diabetes 2004;53:1884-9. Barrett JC, Clayton DG, Concannon P, et al. Genome-wide association study and metaanalysis find that over 40 loci affect risk of type 1 diabetes. 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