“IL REGNO ANGIOINO -ARAGONESE DI SICILIA PROF

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“IL REGNO ANGIOINO-ARAGONESE DI
SICILIA”
PROF. MARCELLO PACIFICO
Università Telematica Pegaso
Il regno angioino-aragonese di Sicilia
Indice
1
GLI ANGIOINI E IL REGNO DI SICILIA ------------------------------------------------------------------------------ 3
2
L’AVVENTO DEGLI ARAGONESI--------------------------------------------------------------------------------------- 9
3
L’AMMINISTRAZIONE DEL REGNO --------------------------------------------------------------------------------- 12
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 17
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Il regno angioino-aragonese di Sicilia
1 Gli Angioini e il regno di Sicilia
Gli storici sono oggi concordi nell'individuare nella quasi bisecolare dominazione angioina
una svolta nella storia del Mezzogiorno o, quanto meno, il periodo in cui esso venne ad avere una
nuova dislocazione nel quadro politico, economico e culturale dell'Europa mediterranea legandosi
più strettamente, soprattutto al tempo di re Roberto (1309-1343), al resto dell'Italia e assumendo
l'assetto economico e sociale che lo avrebbe contraddistinto per tutta l'età moderna e che può essere
così schematizzato:
-predominio sociale incontrastato della feudalità e delle forze che nelle campagne avevano la
loro base economica;
-assenza di un ceto mercantile dotato di coscienza di classe nonché capace di imprimere un
maggiore dinamismo alle forze produttive e di fornire alla monarchia gli strumenti finanziari per
rafforzare il proprio potere;
-dipendenza di tipo coloniale dai mercanti stranieri per l'esportazione dei prodotti agricoli e
l'importazione di manufatti in generale e di merci di lusso in particolare;
-presenza soffocante della proprietà ecclesiastica e di una pletora di chierici di ogni ordine e
grado nonché dotati di estesissimi privilegi, che li sottraevano in pratica alla giurisdizione ordinaria
dello Stato.
Mentre però per quest'ultimo aspetto è possibile cogliere con sicurezza nell'età angioina, e
già nei primi decenni di essa, una svolta decisiva rispetto al passato, e ciò a causa della volontà
papale di tradurre in dipendenza effettiva il vassallaggio dei re di Sicilia verso la Santa Sede, fino
allora rimasto essenzialmente teorico, per cogliere la genesi degli altri 'caratteri originali' della
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struttura economico-sociale del Mezzogiorno, bisogna risalire indietro nel tempo, anche se essi solo
in età angioina si vennero consolidando in maniera più chiara e definitiva.
Il Regno di Sicilia per la sua posizione strategica nel cuore del Mediterraneo è stato sempre
preso di mira dalle dinastie europee e del papato.
Fu proprio il papa Urbano IV a favorire la conquista del regno al francese Carlo d’Angiò
perché così voleva rendere effettivo il vincolo feudale della monarchia meridionale alla Chiesa e
anche per assicurarsi un sostegno politico-militare nella lotta contro le forze ghibelline dell’Italia
centro-settentrionale.
Urbano IV, offrendo il Regno di Sicilia prima a familiari di Enrico III d'Inghilterra e poi a
Carlo, fratello di Luigi IX di Francia, si era ripromesso non solo di rendere effettivo il vincolo
feudale, che subordinava alla Chiesa romana la Monarchia meridionale e che era diventato
puramente nominale al tempo di Federico II e di Manfredi, ma anche di ricomporre il quadro
politico estremamente frammentato dell'Italia centro-settentrionale realizzando, in unione con la
finanza fiorentina, un saldo inquadramento guelfo della penisola sotto la guida del Papato e con il
sostegno politico-militare del re di Sicilia.
A determinare però un diverso atteggiamento della corte francese verso le sollecitazioni
papali contribuì in maniera decisiva l'ambizione del giovane Carlo, il quale, già titolare della contea
di Angiò e di quella di Provenza, acquistata attraverso il matrimonio con Beatrice, figlia ed erede di
Raimondo Berengario IV, aveva affermato la sua autorità anche su vasti territori dell'odierno
Piemonte, arrivando a controllare i traffici commerciali che attraverso Nizza si svolgevano tra
l'Italia e la Francia. Egli inoltre non nascondeva la sua aspirazione ad un più vasto dominio, per cui
vide nell'offerta papale - intanto a Urbano IV, di nazionalità francese, era succeduto il suo
connazionale Clemente IV - l'occasione per attuare un ampio disegno di egemonia europea e
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mediterranea che, facendo perno sulla Sicilia, sarebbe dovuto culminare nella conquista di
Costantinopoli e quindi nella ricostituzione, con l'aiuto di Venezia, dell'Impero latino d'Oriente.
Così, dopo essere stato nominato senatore dei romani e aver operato una massiccia penetrazione
diplomatica nell'Italia centro-settentrionale, grazie alla quale poté far passare rapidamente attraverso
la penisola un esercito numeroso e agguerrito, penetrò nel Regno attraverso il ponte sul Liri, presso
Ceprano, e sconfisse Manfredi a Benevento (26 febbraio 1266). All'indomani stesso della vittoria
cominciarono però i dissapori con il papa, che aveva sperato di trovare in Carlo un re docilissimo,
disposto a seguire le direttive della Santa Sede. Motivo di grande amarezza per Clemente IV fu
infatti il saccheggio di Benevento, città soggetta alla sovranità pontificia, cui si aggiunsero le
lamentele che cominciavano ad arrivare al papa per i soprusi dei funzionari francese e per
l'imposizione arbitraria della colletta, laddove in base ai patti il sovrano si sarebbe dovuto limitare a
riunire in assemblea baroni, prelati e rappresentanti delle città, per chiedere il loro aiuto finanziario.
I piani del papa però non si realizzarono in pieno visto che Carlo approfittò della situazione
per creare una forte egemonia politica in Europa e nel Mediterraneo; nacquero così dei dissapori
con il papa poiché i funzionari regi avevano compiuto saccheggi e soprusi sulla popolazione gravata
da un enorme carico fiscale.
Il re risolse la questione dei soprusi ma non poté ridurre il carico fiscale visto che il suo
progetto espansionistico richiedeva l’utilizzo di molte risorse finanziarie; il malcontento si diffuse
velocemente e una rivolta esplose in tutto il Regno di Sicilia quando Corradino di Svevia scese in
Italia.
Carlo d’Angiò sconfisse Corradino e prese la decisione di rinnovare la feudalità immettendo
nei territori del Regno cavalieri francesi, francesi furono anche gli alti funzionari della Chiesa, dello
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Stato e dell’amministrazione cosa che fece aumentare ancor di più il malcontento tra la
popolazione.
Il lunedì di Pasqua del 1282 a Palermo scoppiò una rivolta , all’ora del Vespro , tra dei
giovani siciliani e dei soldati francesi accusati di aver molestato una nobildonna palermitana. Alla
rivolta aderirono subito tutti i territori siciliani e calabresi.
Non si sa se questo moto sia stato spontaneo o in qualche modo organizzato e tessuto da
Pietro III d’Aragona il quale, sposatosi con Costanza (la figlia di Manfredi), accampava diritti sul
trono di Sicilia e aveva un preciso progetto di espansione ai danni del regno angioino. Nel suo
progetto Pietro fu appoggiato sia dalla feudalità che dalla borghesia che fornirono flotte, uomini e
mezzi economici; i Siciliani furono ben disposti verso Pietro III tanto che gli offrirono anche la
corona del Regno.
La rivolta del Vespro causò molti problemi e disagi alla dinastia angioina in Italia; alla fine,
anche se persero il controllo sulla Sicilia, gli Angioini riuscirono a riprendere rapidamente il
controllo sulla parte restante del regno sempre grazie all’appoggio papale e al contributo finanziario
degli uomini d’affari toscani che offrirono il loro aiuto in cambio di privilegi, esenzioni doganali,
feudi e cariche pubbliche.
È noto il giudizio di Benedetto Croce sulle conseguenze della guerra del Vespro che,
rompendo l'unità della monarchia normanno-sveva, avrebbe determinato, da un lato, il distacco
della Sicilia dal più generale contesto della civiltà italiana, e dall'altro la nascita del Regno di
Napoli. La tesi crociana, se oggi appare inconsistente sul piano etico-politico, proprio quello sul
quale egli riteneva che dovesse ricomporsi la storia di un popolo, risulta non del tutto priva di
fondamento se, cambiando la prospettiva storica, si passa ad un esame delle strutture economicosociali del Mezzogiorno nei secoli XI·XIII e delle trasformazioni che esse subirono per effetto
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anche della guerra del Vespro. Con ciò non si vuol dire che questa segna una svolta nella storia
meridionale, ma solo richiamare l'attenzione sull'effetto cumulativo che gli eventi ad essa collegati,
saldandosi con l'inizio di una fase di recessione in atto anche nel resto dell'Italia e dell'Europa,
ebbero sull'economia e sulla società delle regioni che ne furono colpite. Il fenomeno è
particolarmente evidente in Calabria.
Il papa Martino IV al contrario appoggiava i francesi poiché non voleva perdere il
vassallaggio del sovrano francese e per sostenerli indisse una crociata contro gli Aragonesi
accusandoli di essere usurpatori.
Bonifacio VIII nel 1295 creò le condizioni per arrivare al Trattato di Anagni col quale il
nuovo re d’Aragona Giacomo II , in cambiò dell’investitura del regno di Sardegna e Corsica,
accettò il ritorno della Sicilia agli Angioini di Napoli ma i Siciliani si ribellarono di nuovo e
offrirono la corona a Federico, il figlio di Giovanni.
Nel 1302 una nuova trattativa diplomatica portò alla stipula del Trattato di Caltabellotta in
base al quale Federico III venne riconosciuto «re di Trinacria» con l’intesa però che alla sua morte
il Regno sarebbe tornato agli Angioini.
Le cose però andarono diversamente visto che alla morte di Federico III il regno restò
saldamente nelle mani degli Aragonesi tanto che nel 1372 agli Angioini non restò che prendere atto
della perdita definitiva del potere sulla Sicilia.
Gli Angioini favorirono il rapido sviluppo dell’economia meridionale e tra tutte le grandi
città emerse Napoli come centro trainante per i suoi traffici commerciali, la sua fiera permanente, i
numerosi uomini di cultura, di Chiesa, di Stato che vi si recavano in visita o la sceglievano come
residenza.
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Questo periodo aureo di Napoli cominciò durante il dominio di Roberto, detto il Saggio il
quale attirò alla sua corte i maggiori esponenti della cultura italiana e della religiosità, specialmente
di quella francescana.
Durante il dominio angioino nell’Italia meridionale si verificò anche lo sviluppo delle
autonomie cittadine: pian piano le amministrazioni locali cominciarono a sottrarsi al controllo dei
funzionari regi a favore di organi cittadini elettivi.
Questo però generò dei contrasti tra le varie classi sociali che volevano in qualche modo
partecipare all’amministrazione comunale.
I motivi di contrasto erano anche legati alla ripartizione fiscale tra i cittadini: i nobili
cercavano modi per non pagare le tasse , sia per distinguersi dal popolo sia perché non volevano
essere colpiti dalla crescente pressione fiscale; i nobili inoltre volevano escludere il popolo dagli
incarichi pubblici.
Le varie contese che nascevano all’interno dei comuni avevano solo l’effetto di far perdere
sempre più autonomia visto che si rendeva necessario l’intervento dei funzionari regi per dirimere i
contrasti tra le classi sociali.
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2 L’avvento degli Aragonesi
Nel 1343 al trono angioino salì Giovanna I, nipote di Roberto.
La successione aveva però creato dei contrasti tra i vari rami della famiglia che regnavano a
Durazzo, Taranto e Ungheria; per tutelare la nipote , Roberto ne aveva combinato il matrimonio con
Andrea, figlio del re d’Ungheria che però nel 1345 venne assassinato.
Nel 1348 il fratello di Andrea, Luigi il Grande d’Ungheria, iniziò la sua marcia verso
Napoli; la sua presenza fece precipitare il Paese nel disordine e nella violenza; solo nel 1352 gli
Ungheresi si ritirarono e Giovanna, col nuovo marito Luigi di Taranto, poté avviare un progetto di
restaurazione del potere.
Un’ulteriore ed importante svolta si ebbe nel 1356 quando il governatore di Messina, Nicolò
Cesareo, in seguito a dissidi con il nobile catalano Artale I Alagona, richiese rinforzi a Ludovico
d’Angiò che inviò un generale. Le truppe assistite dal mare da ben cinque galee angioine
saccheggiarono il territorio di Aci, assediando il castello, proseguirono cosi in direzione di Catania
cingendola d’assedio.
Artale uscì con la flotta e affrontò le galere angioine, sconfiggendone due e requisendone
una terza mettendo in fuga le truppe nemiche.
La battaglia navale che si svolse tra la borgata marinara catanese di Ognina ed il castello di
Aci, ricordata come lo Scacco di Ognina, segnò una svolta definitiva a favore degli aragonesi nella
guerra del vespro.
Dallo scacco di Ognina gli angioni non si sarebbero più ripresi.
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La monarchia si trovava comunque in grande difficoltà sia per la potenza dei feudatari sia
per la successione al trono visto che Giovanna non lasciò eredi diretti; alla fine la scelta cadde su
Luigi d’Angiò al quale si contrappose Carlo (III) di Durazzo che gli sottrasse il potere nel 1381.
Con Carlo III il potere della monarchia stava riprendendosi ma nel 1386 il re fu assassinato
mentre andava a cingere la corona di re d’Ungheria; il figlio Ladislao (1386-1414) cercò di metter
fine alla guerra civile scoppiata nei domini italiani non riuscendo a ottenere risultati favorevoli.
A Ladislao successe Giovanna II che per salvaguardare il suo potere adottò come figlio e
successore il re d’Aragona Alfonso V.
I successori di Federico di Trinacria dovettero tenere costantemente la Sicilia sotto un
controllo difensivo militare contro gli Angioini che tentarono molte volte di riprendere il potere
dell’isola; questo sforzo militare rese i sovrani aragonesi deboli di fronte ai baroni siciliani che
avevano a cuore solo il mantenimento dei privilegi e del loro potere.
I sovrani non seppero sfruttare al meglio l’appoggio delle classi popolari e borghesi e dopo
la crisi demografica ed economica del Trecento, quando la popolazione si ridusse, la monarchia si
trovò completamente in balia del baronaggio.
Nel 1362 Federico IV (1355-1377) acconsentì alla divisione del regno in due parti (orientale
e occidentale) il cui governo fu affidato a due grandi famiglie di nobili ; alla sua morte il regno,
sotto la guida della figlia Maria, fu ulteriormente diviso tra quattro nobili vicari.
Il re Pietro IV d’Aragona fece rapire Maria per destinarla in moglie al nipote Martino il
Giovane (figlio di Martino il Vecchio) che , arrivato nel 1392 in Sicilia, cominciò una lotta contro i
nobili e i baroni ribelli e riorganizzò il regno che fu dotato di un parlamento dove membri del clero,
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della nobiltà e della città potevano proporre anche delle leggi. In questo modo si creò un rapporto
più equilibrato tra monarchia e poteri locali e l’economia tornò a essere attiva.
Nel 1408 Martino morì e il regno passò al padre che era diventato re d’Aragona; la Sicilia
perse così la sua indipendenza divenendo un semplice viceregno dell’Aragona. A Martino il
Vecchio successe Ferdinando di Castiglia (1412-1416) e dopo Alfonso il Magnanimo (1416-1458).
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3 L’amministrazione del Regno
La conquista di Napoli da parte di Alfonso il Magnanimo fu lunga e difficile visto che
Giovanna II aveva preferito come figlio adottivo l’angioino Luigi III.
A fianco dei due pretendenti scesero due famosi condottieri italiani:
- Muzio Attendolo Sforza con gli Angioini ;
- Braccio da Montone con gli Aragonesi.
In un primo momento la sorte fu favorevole a Luigi che nel 1424 si insediò a Napoli a fianco
di Giovanna II; nel 1435 morirono sia Giovanna che Luigi e questo fece tornare alla ribalta il
problema della successione questa volta tra Alfonso e il fratello di Luigi, Renato d’Angiò.
Anche questa seconda battaglia fu persa da Alfonso che fu battuto dai Genovesi e
consegnato come prigioniero agli Sforza di Milano, alleati con gli Angiò; Alfonso durante la
prigionia però riuscì ad ottenere la fiducia degli Sforza che lo liberarono e strinsero con lui
un’alleanza che permise all’aragonese di riprendere la conquista, questa volta con il forte appoggio
dei milanesi.
Nel 1442 si impadronì di Napoli ricostituendo l’antica unita del Regno di Sicilia;
inaspettatamente Alfonso spostò la sua residenza a Napoli e cercò di rivalutarne l’economia
prendendo precise misure:
- i prodotti tessili catalani e aragonesi penetrarono facilmente nei domini italiani e spagnoli
- i sudditi iberici furono obbligati a rifornirsi solo delle derrate agricole italiane.
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Alfonso governò in un’epoca di sviluppo e ricchezza per il meridione ; oltre a favorire lo
sviluppo economico avviò anche un’opera di rinnovamento e di razionalizzazione delle strutture
politiche e amministrative, aprì le porte della capitale ai pensatori umanisti e portò avanti una
discreta politica estera.
Come suo successore al trono napoletano scelse il figlio naturale Ferrante mentre affidò la
Sicilia al fratello Giovanni Ferrante (1458-1494) che continuò l’opera di ammodernamento iniziata
dal padre, favorì i settori dell’industria e del commercio e appoggiò i Comuni per contrastare il
potere della feudalità.
La nobiltà feudale cercò spesso di ostacolare il sovrano arrivando nel 1485 a organizzare la
cosiddetta Congiura dei baroni.
In nessuno dei tre Regni la presenza aragonese passò senza lasciare tracce profonde; e da
questo punto di vista certamente emerge l’azione svolta da Alfonso il Magnanimo, che segnò
ovunque il momento in cui i precedenti rapporti delle terre aragonesi d’Italia assunsero una duratura
fisionomia istituzionale.
Molto cospicua fu l’opera di Alfonso in Sicilia, a cui egli dedicò un’attenzione particolare,
in quanto l’isola fu la sua base strategica nella lunga lotta per la conquista di Napoli. Ciò lo indusse
a un atteggiamento indulgente e compromissorio verso la feudalità siciliana e verso i ceti di governo
delle città, a cui fu largamente delegato il governo del territorio. Il Parlamento siculo divenne il
luogo principale di questa transazione, garantendo al sovrano la legittimazione dell’imposizione
fiscale in cambio delle sue concessioni. Da questo punto di vista l’esperienza siciliana di Alfonso
può essere considerata l’antecedente più diretto del «compromesso storico» con i ceti localmente
prevalenti, che sarebbe stata propria dei sovrani spagnoli nell’età moderna per il governo dei loro
territori italiani. Alfonso proseguì e allargò anche la pratica delle intese con banchieri e finanzieri
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stranieri che aveva nel Mezzogiorno d’Italia tradizioni che risalivano all’epoca sveva ed erano in
rapporto con la gestione del sistema fiscale, nonché con la gestione delle terre e dei redditi del
demanio regio e delle proprietà del sovrano. Questi banchieri spesso si radicavano nelle aristocrazie
locali, e altrettanto spesso entravano a far parte del personale impiegato fino ai maggiori livelli nel
servizio del re. La politica del sovrano ebbe quindi un significato sociale essenzialmente
conservatore favorendo il baronaggio e le élites che avevano in mano il governo delle città, con
ripercussioni evidenti nella accentuazione dei contrasti sociali. Ma ciò non impedì che nel
complesso la politica di Alfonso potesse tendere ad avviare efficacemente la ripresa della vita
economica e sociale dopo la lunga epoca meno favorevole attraversata in Italia e in Europa dalla
metà del secolo XIV in poi. Fu, però, a Napoli che l’azione di Alfonso diede luogo a un
rinnovamento istituzionale e amministrativo particolarmente degno di nota, svolgendovi, peraltro,
una politica che presenta molti punti di ripresa di quella svolta in Sicilia.
Nacque con lui il Sacro regio Consiglio che, posto al vertice delle magistrature del Regno,
conseguì in breve lasso di tempo un’autorità dottrinaria e giurisdizionale apprezzata anche all’estero
e per cui si sarebbe poi detto: auctoritas Sacri Consilii me terret. L’apparato giudiziario napoletano,
che aveva nella Corte della Vicarìa il suo vertice ordinario, prevedeva, peraltro, un ampio esercizio
delle funzioni giurisdizionali anche da parte dei signori feudali. Ma il Re si era messo nella
condizione di disporre di una rete di organi amministrativi centrali e periferici e di una classe di
funzionari e officiali regi più efficaci di quanto già non fosse per le precedenti tradizioni della
monarchia napoletana
, e destinati a costituire sempre più un forte strumento di governo a
disposizione del potere regio.
Ai baroni Alfonso concesse, peraltro, secondo la vulgata storiografica napoletana, il merum
et mixtum imperium, allargandone così ulteriormente la sfera giurisdidizionale.
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Alfonso definì pure il sistema fiscale napoletano, fissandolo intorno ai “pagamenti fiscali”,
l’imposta fondamentale sulle persone fisiche considerate per nuclei familiari
(fuochi),
accompagnata da una tassa particolare per la fornitura del sale, considerata monopolio pubblico. Per
il resto il sistema si fondava sugli appalti dei cespiti fiscali a mercanti e finanzieri, secondo l’uso
comune del tempo che, nel caso di Napoli (come della Sicilia) , erano per lo più forestieri. Sotto
Alfonso si rafforzò, anzi, la manomissione delle entrate pubbliche da parte mercantile e finanziaria,
che avrebbe poi raggiunto un’ampiezza ben maggiore nei due o tre secoli seguenti. Nel Regno egli
diede
pure
una
sistemazione
ugualmente
duratura
alla
Dogana
delle
pecore,
ossia
all’amministrazione dei pascoli invernali del Tavoliere delle Puglie, in cui svernavano le grandi
greggi del montuoso Abruzzo e di altre terre contigue.
L'aver individuato nei quasi due secoli dell'età angioina non pochi tratti destinati a
caratterizzare il Mezzogiorno in età moderna non significa ovviamente che il corso della sua storia è
stato allora condizionato una volta per sempre e che in seguito tutto è rimasto immobile, mentre
altrove maturavano grandi cambiamenti.
In riferimento allo sviluppo delle autonomie locali ed al progresso economico e sociale dei
secoli XI-XIII, G. Galasso ha mostrato quanto sia «infondata e fallace l'immagine di un
Mezzogiorno che, a un determinato momento della storia italiana, si fa da parte e si arresta, mentre
gli altri camminano. In realtà, il Mezzogiorno seguì, partecipandovi attivamente secondo i
condizionamenti imposti dalla formazione di un vasto stato monarchico e dalla feudalizzazione
della società che esso comportò, il moto di crescita e di espansione dell'economia e della civiltà
italiana nei secoli XI-XII acquistandosi giunta fama di paese ricco, e quindi capace di fornire ai suoi
sovrani i mezzi per una politica estera di grande respiro. La particolare congiuntura internazionale,
caratterizzata da un esasperato particolarismo politico nell'Italia centro-settentrionale e da una
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inarrestabile decadenza degli Stati che nel passato avevano avuto il predominio nel Mediterraneo
orientale, consentendo al primo Angioino di esercitare una grande influenza sulle vicende dell'Italia
e del Mediterraneo, avvalorò questa credenza, per cui non ci fu grande compagnia mercantile
italiana ed europea che non avesse a Napoli e nel Regno una filiale o un agente.
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Bibliografia
 Grohmann, Le Fiere Del Regno Di Napoli In Età Aragonese, Napoli, Istituto Italiano per Gli
Studi Storici, 1969
 G, Vitale, Modelli Culturali Nobiliari A Napoli Tra Quattro E Cinquecento, In Archivio
Storico per Le Province Napoletane, 1987
 G. Galasso, Napoli Capitale, Identità Politica e Identità Cittadina, Studi e Ricerche, 1266
1860, Napoli, Electa Napoli, 1998
 G. Luzzatto, Breve Storia Economica dell’Italia Medievale. Dalla Caduta dell’impero
Romano al Principio del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1965
 G. Vitolo, Il Regno Angioino In Storia Del Mezzogiorno, dir da G. Galasso e R. Tomeo Vol
IV, Roma-Napoli, Edizioni Del Sole, 1984
 G. Vitolo, Pellegrinaggi e Itinerari dei Santi nel Mezzogiorno medievale, Napoli, Gisem
Liguori, 1999.
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