L`utilitarismo come categoria filosofica

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L’utilitarismo come categoria filosofica
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L’utilitarismo come categoria filosofica
Utilitarismo: la concezione greca e quella ottocentesca
La più articolata posizione greca sulla nozione di utile come fondamento del discorso
etico risale a Epicuro, che riconduce lo studio dell’etica al piacere e al dolore, cioè al
fondamento sensibile di ogni impulso all’azione. Viene così abbandonata ogni possibile
etica dei valori, cioè l’idea che il comportamento umano debba conformarsi a principi
validi in sé e intrinsecamente buoni, che l’uomo sia impegnato moralmente a rispettare.
Epicuro semplicemente nega che simili principi esistano e, conseguentemente, che
l’uomo sia soggetto a doveri morali, perché è impossibile trovare il loro fondamento
nell’unica realtà esistente: il movimento degli atomi nello spazio vuoto. Valori e doveri
sono solo un prodotto della mente dell’uomo che fantastica liberamente su realtà inesistenti.
L’uomo è davvero libero, nel senso che non si danno valori oggettivi a cui deve uniformarsi. Nell’universo non c’è alcuna ragione morale, non ci sono un bene e un male
oggettivi. Ci sono soltanto esseri che soffrono ed esseri che godono, e la struttura della
sensibilità spinge ciascun vivente a godere e a fuggire la sofferenza. Non possiamo neppure affermare che si tratti di un principio etico, perché non possiede l’astrazione dei
principi. La dottrina epicurea dell’utile non è altro che il riconoscimento e l’esposizione
filosofica della vera natura dell’uomo: una natura che fugge il dolore e cerca il piacere.
Chiameremo dunque utile ogni azione che favorisca il piacere, non solo nel breve periodo, ma anche nel lungo. Nella Lettera a Meneceo viene proposta una rigorosa distinzione delle azioni dell’uomo con lo scopo di fornire un criterio molto semplice per il
calcolo dell’utile, cioè per la preventiva analisi della convenienza o meno di un’azione.
Utile è allora quell’azione che ha come conseguenza il massimo di piacere compatibile con il minimo di dolore.
Le dottrine utilitariste moderne si sono sviluppate a partire dal Settecento nell’ambito
della riflessione etica degli illuministi inglesi. I rapporti con l’utilitarismo antico sono
stati solo indiretti. A differenza di quest’ultimo, i teorici inglesi hanno sempre tenuto rigorosamente presente il problema politico e sono quindi stati costretti ad affrontare in
termini nuovi l’antico problema del rapporto tra felicità individuale e utilità sociale.
Il contesto socio-politico in cui i filosofi inglesi si muovono è infatti radicalmente
differente da quello antico. L’epicureismo è nato e si è diffuso nell’ambito di grandi imperi (dapprima sotto i regni ellenistici, poi in ambiente romano) e ha optato, al contrario
dello stoicismo, per il rifiuto della politica e la chiusura nel privato. L’Inghilterra del
XVIII e del XIX secolo è invece una nazione in grande espansione, caratterizzata da
traffici sempre più intensi e dal conseguente sviluppo della borghesia, che diverrà inarrestabile con il sorgere e il consolidarsi della rivoluzione industriale. Da un punto di
vista politico-istituzionale si tratta di un Paese ordinato, uscito da una lunga stagione di
lotte interne, rinnovato e con solide istituzioni che godono di grande prestigio internazionale.
Si tratta di guidare il Paese nel corso dell’impetuosa trasformazione sociale imposta
dalle frenetiche attività commerciali, che sempre più divengono internazionali, e dallo
sviluppo industriale, che crea nuove classi e trasforma radicalmente città e campagne,
imponendo a milioni di uomini rapidi cambiamenti nello stile di vita. I filosofi sociali
sono alla ricerca di nuove dottrine capaci di dirigere ordinatamente una società in rapido
movimento senza che essa cada preda di convulsioni rivoluzionarie – di cui gli inglesi
avevano fatto amara esperienza al tempo di Cromwell. La presenza di una forte classe
media, che tende a crescere in potenza e numero, impone la ricerca di strumenti di azio-
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ne sociale e politica nei quali possano riconoscersi non solo pochi individui culturalmente agguerriti, di condizione sociale elevata, bensì masse di uomini comuni, mediamente colti, dediti al lavoro e ai commerci. Si tratta di elaborare nuove idee per la creazione di istituzioni sociali adatte ai problemi del presente. Per questo il filosofo tende ad
assumere la veste del riformatore, dell’ingegnere sociale che progetta una società nuova.
A differenza dell’epicureismo antico, le dottrine utilitariste moderne hanno come obiettivo la definizione di principi etici e politici che possano effettivamente essere applicati
all’interno di una società di massa, senza contrapporre uno spazio privato alla vita collettiva. L’utilitarismo moderno è una dottrina che si propone di essere concretamente
applicabile da parte del comune buon cittadino nella sua normale vita sociale. Esso si
sviluppa in un contesto di ricerche etiche, sociali e politiche che prescindono da una
precisa scelta metafisica.
L’utilitarismo moderno è figlio della cultura illuminista che ha razionalizzato i misteri della religione e ha tentato di ricondurre l’uomo alla piena libertà e autonomia del suo
spirito. Da questo punto di vista la dottrina epicurea è assai vicina all’Illuminismo moderno, per il suo tentativo di completa demitizzazione della natura, della vita e della
morte. Al contrario di quanto è avvenuto con Epicuro, gli esiti dell’illuminismo inglese
hanno condotto a un profondo scetticismo sulla possibilità di costruzione di una
metafisica razionalmente fondata. L’utilitarismo recepisce questa difficoltà teorica
(comune anche agli esiti dell’Illuminismo tedesco con Kant) e rinuncia a una fondazione metafisica del principio dell’utile.
Utilitarismo: egoismo privato e interesse sociale
Poiché l’obiettivo è quello di costruire una società felice, è di primaria importanza lo
studio del rapporto tra l’egoismo individuale e le conseguenze che ne derivano per la
società: l’utilitarismo si propone come dottrina capace di risolvere armonicamente i
problemi di una società di massa in rapida trasformazione.
Il problema è già stato affrontato dagli illuministi inglesi. La loro impostazione fa
perno su una ottimistica concezione della natura umana: l’uomo tende all’egoismo, che
altro non è se non l’impulso di ogni vivente a salvaguardare se stesso e a conservarsi;
ma nello stesso tempo nell’animo dell’uomo vi è un’istintiva simpatia per i suoi simili,
una tendenza sociale innata verso l’altruismo. Egoismo e altruismo possono così conciliarsi perché è interesse di ciascuno che i suoi simili abbiano una vita felice, in modo
che la società in cui tutti i cittadini vivono sia armoniosamente costruita ed equilibrata.
Una diversa applicazione di questo principio ottimistico può essere trovata in un’altra
concezione, diffusa in età illuminista: è interesse della società che ciascuno dei cittadini
persegua il proprio egoistico interesse. La società, infatti, non è che l’insieme degli individui che la compongono; essa non ha interessi propri indipendenti da quelli dei singoli, e il conflitto tra essi farà sempre emergere le energie migliori di ciascuno.
Così in economia la concorrenza tra i produttori, che perseguono un interesse egoistico, è positiva per tutta la società, perché costringe tutti a dare il meglio di se stessi garantendo che i vincitori della competizione siano effettivamente i migliori. L’egoismo è
dunque il migliore stimolo al lavoro e alla produzione, fattori decisivi per il progresso
della società.
L’utilitarismo non sempre e non necessariamente è così ottimista. Il problema deve
essere esaminato da un altro punto di vista. Il principio di utilità, espresso da Epicuro,
dice che l’uomo deve agire calcolando il piacere e il dolore che derivano dalla sua azione. Tuttavia tale calcolo non può riguardare solo il singolo, perché ciascun uomo ha un
forte interesse egoistico che la società in cui vive sia armonica e felicemente strutturata:
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ciascuno trova in essa la soddisfazione della maggior parte delle proprie esigenze e a essa costantemente affida ampie porzioni della propria felicità.
L’utilitarismo ha enunciato allora il principio della massima felicità per il maggior numero possibile di uomini: il calcolo dell’utile non deve riguardare solo se
stessi, ma la società nel suo complesso. In questo modo interesse individuale e interesse collettivo vengono conciliati.
Tuttavia, il principio della massima felicità per il maggior numero di uomini, se non
vuol essere solo una enunciazione di principio priva di effetti concreti, deve poter essere
tradotto in un insieme di procedure razionalmente calcolabili, utili a chi guida la società
o a chiunque debba prendere una decisione da cui dipende la felicità di altri uomini.
Questa traduzione in termini concreti comporta una serie di difficoltà su cui la riflessione filosofica si è soffermata a lungo.
In primo luogo non è affatto facile determinare che cosa si deve intendere per felicità, perché i desideri individuali mutano profondamente col tempo e sono differenti da
individuo a individuo, né esiste un principio superiore che definisca quale felicità sia da
perseguire e quale non lo sia: non si dà infatti altro criterio della felicità che il piacere e
il dolore. Tutto dipende da che cosa si intende con questi termini nella concreta e mutevole esperienza individuale.
Il principio dell’utile, poi, si basa sull’assunto che i piaceri e i dolori siano paragonabili tra loro e si possa compiere un calcolo razionale che definisca l’utilità di un’azione.
Nondimeno l’esperienza umana della coscienza ci pone dinanzi a sensazioni qualitativamente assai differenti, anche nella stessa persona. Il problema del calcolo dell’utile
per il maggior numero possibile di uomini implica la possibilità di porre in paragone il
piacere e il dolore di un numero elevato di persone, cioè di confrontare tra loro realtà
quanto mai eterogenee.
Si pone innanzi tutto il problema della rilevazione dei dati che riguardano grandi
masse umane, compito non semplice per il quale nel primo Ottocento mancano ancora
gli strumenti operativi: la necessità di avere informazioni sugli individui all’interno delle grandi masse delle società moderne ha aperto la via allo sviluppo delle discipline sociologiche, nate in ambiente positivista tanto in Francia che nel mondo anglosassone e
sviluppatesi poi negli Stati Uniti.
Vi è, infine, un problema di più generale portata, che riguarda il concetto stesso di utile.
Rifiutato l’ancoraggio a una superiore norma etica, l’azione deve essere valutata non
in base a un valore, ma alle sue conseguenze: l’utilitarismo è dunque una delle dottrine etico-politiche che sottolineano il principio di responsabilità in etica, perché pongono come criterio dell’azione le sue conseguenze di cui chi agisce è responsabile.
Non è d’altra parte semplice prevedere e calcolare le conseguenze di un’azione, tanto
più se questo calcolo deve coinvolgere la società nel suo complesso e i singoli come sue
componenti. L’uomo, infatti, non possiede mai una conoscenza completa del sistema
nel quale agisce e non è in grado di comprendere esattamente come esso varierà: manca
la piena conoscenza delle condizioni in cui si opera. Inoltre l’azione singola, in sé considerata, è un’astrazione perché essa è sempre compiuta nel contesto di una serie di azioni a loro volta compiute da attori diversi.
Com’è possibile prevedere il comportamento di altre persone, in risposta e in conseguenza di una nostra azione, se si tratta di soggetti liberi nelle loro scelte? Com’è possibile sapere che cosa accadrà nel comportamento delle masse?
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Critica filosofica
Che cos’è l’utilitarismo?
Uno degli approcci tipici allo studio di concetti etici come quello di utile è di tipo logico: i concetti etici, infatti, sono a tutti gli effetti concetti filosofici e devono quindi rispondere a caratteristiche logiche. In particolare nel mondo anglosassone, i rapporti tra
logica ed etica sono stati a lungo molto stretti. Su questa linea è il brano proposto di
Giuliano Pontara, storico della filosofia vicino al mondo anglosassone, che a lungo insegnato in università del nord Europa.
«Il termine utilitarismo viene generalmente usato per indicare un insieme di teorie
etiche teleologiche aventi in comune la tesi per cui lo status morale delle nostre azioni
dipende, direttamente o indirettamente, esclusivamente dal valore delle conseguenze cui
esse (e le alternative a esse) conducono, ossia dalla loro utilità. Per status morale di
un’azione intendo il suo essere o meno moralmente retta o moralmente doverosa. […]
Quando si discutono problemi di etica teorica è estremamente importante avere ben
chiara e tener sempre presente la distinzione tra una teoria etica da una parte e un metodo di deliberazione o decisione dall’altra. [...]
Una teoria etica costituisce una risposta alla domanda centrale dell’etica teorica di
quali siano, in via di principio, le condizioni necessarie e sufficienti dell’agire moralmente retto e doveroso, indicando ciò che rende un’azione moralmente retta o doverosa
(le sue rightmaking characteristics) – ma nulla dice circa il modo in cui, in concrete situazioni di scelta, si deve deliberare se si vuole giungere a una decisione ragionata su
quale sia l’alternativa che è, o vi sono buone ragioni di ritenere essere, conforme ai
principi etici in cui essa teoria si articola. Un metodo di deliberazione o decisione risponde invece proprio a quest’ultima domanda, in quanto si articola in un insieme di
direttive indicanti le operazioni che si debbono fare al fine di individuare, in concrete
situazioni di scelta, quale sia 1’azione moralmente retta e doverosa (o che vi sono buone ragioni di ritenere moralmente retta e doverosa) come precedentemente definita
nell’ambito di una certa teoria etica. La proposta di un metodo di deliberazione o decisione etica presuppone quindi una teoria etica (anche se non sempre essa è espressamente formulata).
Applichiamo ora questa distinzione all’utilitarismo edonistico dell’atto, tenendo presente che nell’ambito di esso la felicità viene concepita esclusivamente in termini di eccedenza del piacere sulla sofferenza, e le azioni come azioni particolari, e non come tipi
di azioni. Interpretato come teoria etica, l’utilitarismo edonistico dell’atto si articola
nei tre seguenti principi:
Pl: Un’azione è moralmente retta se, e solo se, non vi è alcun’altra alternativa che
produce un maggior totale di felicità.
P2: Un’azione è moralmente doverosa (o dovrebbe essere fatta) se, e solo se, essa
produce un totale di felicità maggiore di quello prodotto da ogni altra alternativa.
P3: Un’azione è moralmente errata (e deve quindi non essere fatta) se, e solo se, vi è
una qualche altra alternativa che produce un totale maggiore di felicità. [...]
Inteso come metodo di deliberazione l’utilitarismo edonistico dell’atto si articola
quindi, più precisamente, nelle seguenti direttive da applicare in concrete situazioni di
scelta:
1) si deve, in primo luogo, attentamente appurare quali siano le azioni alternative
tra le quali abbiamo (o riteniamo di avere) in nostro potere di scegliere;
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2) per ciascuna alternativa si debbono appurare tutti i piaceri e le sofferenze cui essa può condurre, se mandata a effetto;
3) si deve quindi procedere a stabilire, per ogni alternativa, la probabilità con cui i
piaceri e le sofferenze cui essa può condurre effettivamente si realizzano, se
quest’alternativa viene mandata a effetto;
4) per ciascuna alternativa si deve quindi calcolare la felicità attesa.
5) Si deve quindi decidere di mandare a effetto l’azione che, tra le alternative aperte
dinanzi a noi, è quella che presenta la maggiore felicità attesa (mentre se due o più alternative hanno la stessa felicità attesa, è indifferente quale si sceglie di mandare a effetto, purché si scelga di mandare a effetto una di esse).» [G. Pontara]1
1
G. Pontara, Utilitarismo e giustizia distributiva, in Utilitarismo oggi, a cura di E. Lecaldano e S. Veca, Laterza,
Roma-Bari 1986, pp. 61-66.
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