CONSEGUENZIALISMO (PRINCIPIO DI) 1. Il criterio del miglior risultato. 2. Cosa è «migliore»? 2.1. Piacere, felicità, bene. 2.2. L’atto e la regola. 3. Conta solo il risultato? 3.1. Tecnica e mentalità tecnicista. 3.2. Fare ed agire. 1. Il criterio del miglior risultato Il termine consequentialism venne creato da E. Anscombe per criticare H. Sidgwick ed altri utilitaristi posteriori, colpevoli – a suo avviso – di negare ogni distinzione di responsabilità tra conseguenze intese e conseguenze solo previste dell’azione.1 Il principio di conseguenzialismo formulato in questa prospettiva di teoria della responsabilità sarebbe dunque il seguente: Un soggetto è responsabile di ciascuna delle conseguenze previste della sua azione. Oggi però si intende per conseguenzialismo essenzialmente una prospettiva metaetica che concerne l’azione giusta (right) o sbagliata (wrong): in base ad essa il principio fondamentale andrebbe formulato così: L’azione è giusta se e solo se da essa consegue il miglior risultato possibile. A partire da questo assunto, si pongono due ordini di problemi: 1. In base a quale criterio giudichiamo migliore o peggiore un risultato? 2. È eticamente sostenibile la prospettiva secondo cui l’unica cosa che conta è il risultato? 2. Cosa è «migliore»? Per quanto riguarda il primo punto, una metaetica conseguenzialista deve necessariamente coniugarsi con una teoria etica del “bene” o una serie di “valori” che non possono essere giustificate in termini conseguenzialisti. Una forma tipica di conseguenzialismo è l’utilitarismo classico di J. Bentham2 e J. S. Mill3, che assume come criterio del «bene» la massimizzazione del piacere o – per usare l’espressione dei suoi fautori – «la maggior felicità per il maggior numero». Il fascino di questa prospettiva sta evidentemente nel carattere filantropico che la anima e, dal punto di vista del metodo, nel suggerimento che vi possa essere una formula matematica in base alla quale calcolare la giustezza delle scelte etiche, moltiplicando la quantità di felicità per il numero dei soggetti coinvolti. I problemi che questa prospettiva suscita, tuttavia, sono essenzialmente legati alla sua identità di utilitarismo edonistico dell’atto. 2.1. Piacere, felicità, bene Usiamo l’aggettivo «edonistico» per indicare che il piacere viene fatto coincidere con la felicità e quindi con il bene stesso. In questa prospettiva la vita buona sarebbe semplicemente la vita piacevole, la «dolce vita». Ma a ciò si possono muovere almeno due tipi di critica. a) S. Kierkegaard ha descritto una vita di questo genere attraverso l’immagine teatrale del Don Giovanni,4 il seduttore che riesce sempre nelle sue imprese libertine e che tuttavia è costretto a compierne sempre di nuove, sempre di diverse, perché appena afferra l’oggetto del suo desiderio, esso gli muore tra le mani lasciandogli un vuoto ancora maggiore da riempire. In effetti il piacere è quanto di più sfuggente ci sia e, quando è ricercato per se stesso, inevitabilmente scompare, lasciando un senso profondo di frustrazione che conduce al «male di vivere» e alla malattia mentale 1 Cfr. G. E. M. Anscombe, Modern Moral Philosophy, in Philosophy, 33, No. 124, Cambridge, January 1958, pp. 1-19. 2 J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1823), Torino, UTET, 1998. 3 J. S. Mill, L’utilitarismo (1863), Bologna, Cappelli, 1981. 4 Cfr. S. Kierkegaard, Aut-Aut (1843), Milano, Mondadori, 1961. 1 – come dimostra anche la psicologia clinica.5 D’altra parte, come è noto, la tecnologia ha oggi reso possibili le «esperienze virtuali» in cui il soggetto è collegato ad una certa macchina che è capace di stimolarlo in modo da trasmettergli tutte le sensazioni che egli desidera, in assenza della realtà che normalmente gliele procura. Immaginiamo che qualcuno ci proponga di trascorrere tutta la nostra esistenza in una «realtà virtuale» sommamente piacevole:6 molto difficilmente troveremo qualcuno disposto ad accettare questo tipo di «felicità». b) Inoltre, l’affermazione che il bene consista nel piacere appare quanto meno discutibile. Vi sono piaceri che ragionevolmente vengono recepiti come eticamente ripugnanti, come ad esempio quello dello stupratore o del sadico. E inoltre vi sono dei beni che vengono valutati moralmente come tali e non sono affatto connessi con il piacere, come tutti quelli relativi agli ambiti dell’abnegazione e del dono di sé. Una correzione al modello edonista dell’utilitarismo classico consiste nel sostituire al criterio del piacere il criterio della «preferenza». In questa prospettiva, nella scelta etica bisognerebbe optare per quel comportamento che massimizza la realizzazione delle aspirazioni del maggior numero di soggetti. Ma anche questo utilitarismo delle preferenze non sfugge ad una delle critiche qui sopra esposte: vi sono preferenze – come quelle espresse nel 1933 in Germania dalla maggioranza elettorale che mandò al potere A. Hitler – che giustamente vengono recepite come eticamente sbagliate. Altre correzioni sostituiscono al piacere il «benessere»: si parla a questo proposito di utilitarismo welfarista.7 In questa prospettiva, però, il problema della definizione del bene è semplicemente spostato: ora si tratta di definire il benessere, e siamo di nuovo al punto di partenza. Altri ancora ricorrono a criteri di ordine diverso, come la promozione di valori ideali quali l’amicizia, la virtù ecc. (utilitarismo ideale)8 o la perfezione del soggetto agente (conseguenzialismo perfezionista o eudemonistico)9. Il problema, in prima battuta, è evidentemente quello di fondare i valori ideali e definire in cosa consista la perfezione. 2.2. L’atto e la regola Dicevamo che uno degli elementi che conferiscono maggior fascino all’utilitarismo è l’idea che vi possa essere una formula matematica grazie alla quale determinare quale sia l’azione giusta. Purtroppo però un calcolo di questo genere è impossibile e la pretesa di utilizzarlo conduce – paradossalmente – a conseguenze indesiderabili. Infatti, per sottoporre a calcolo la «felicità» delle persone, devo attribuirle necessariamente un valore «finito», per cui il bene di due varrebbe più del bene di uno, anche quando questo bene fosse la vita umana, la salute, la libertà: di qui la tendenza ad agire nell’interesse della maggioranza anche quando ciò significasse coartazione delle minoranze. Se proviamo ad esemplificare le «conseguenze del conseguenzialismo» in campo bioetico, notiamo come l’utilitarismo classico sembra una strada in grado di giustificare molte posizioni incompatibili con valori condivisi: la sperimentazione sugli esseri umani potrebbe essere consentita, in nome dell’interesse generale anche se non recasse vantaggio al singolo paziente; il contenimento della spesa sanitaria a danno di segmenti minoritari della popolazione potrebbe essere accettato in nome di benefici maggiori in altri settori; persino gli orrori perpetrati dai medici nazisti nei lager, oppure l’esclusione di qualche minoranza etnica dall’assistenza sanitaria potrebbero risultare 5 Si vedano, a questo proposito, le fondamentali ricerche di V. Frankl, Teoria e terapia delle nevrosi (1975), Brescia, Morcelliana, 1978. 6 L’esperimento mentale della «macchina delle esperienze» venne proposto da R. Nozick in Anarchia, stato e utopia (1974), Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 63-65. 7 Cfr. A. Sen, Utilitarismo e welfarismo (1979), in Saggi di filosofia della scienza economica, a cura di S. Zamagni, Firenze, Nuova Italia Scientifica, 1982, pp. 179-205. 8 Cfr. G. E. Moore, Principia Ethica (1903), Milano, Bompiani, 1972. 9 Cfr. T. Hurka, Perfectionism, New York, Oxford University Press, 1993. 2 matematicamente giustificabili in nome di vantaggi per la maggioranza della popolazione10. Per far fronte a queste incongruenze, recentemente è stato proposto l’utilitarismo della norma. L’utilitarismo classico, infatti, si configura come utilitarismo dell’atto, ossia pretende di giustificare direttamente le azioni e i giudizi in base al principio suddetto. L’utilitarismo della norma, invece, giustifica i giudizi e le azioni in base alle norme, e le norme in base al principio di utilità. Pertanto, in una prospettiva utilitaristica della norma, una sperimentazione su soggetto umano che non recasse alcun vantaggio al paziente, anche quando fosse di vantaggio per la collettività, non sarebbe giustificabile, in quanto l’esistenza di una norma che la giustificasse sarebbe essa stessa gravemente svantaggiosa per la collettività stessa. Dunque la maggiore utilità potrebbe conseguire dal rispetto di un insieme di regole prefissate, fermo restando che dovrebbe essere possibile fare eccezione a ciascuna di queste regole quando l’utilità lo richiedesse. Questa opzione rende senz’altro meglio applicabile il principio conseguenzialista, tuttavia non risolve un problema centrale: determinate convinzioni morali, per esempio che la schiavitù sia inaccettabile, non derivano dalla persuasione che una norma che proibisce la schiavitù sia più utile, ma dal fatto che si vede nella schiavitù una ingiustizia11. Nella prospettiva dell’utilitarismo, in forza del quale il bene sarebbe ciò che torna a vantaggio del maggior numero di persone creando il minimo svantaggio, la schiavitù sarebbe invece ingiusta solo in quanto socialmente «dannosa»; ora, non è impossibile immaginare alcune circostanze in cui tenere in stato di schiavitù una minoranza (magari composta da persone che hanno dimostrato scarsa capacità di deliberazione razionale, come voleva Aristotele12) potrebbe portare consistenti vantaggi sociali. Ma nondimeno noi riteniamo che ciò sia ingiusto. Gli utilitaristi contemporanei rispondono che la loro è un’etica per il mondo come attualmente è, e che rispetta in modo uguale tutti gli individui: nelle circostanze attuali il ragionamento etico non giustificherebbe la schiavitù13. Ma l’obiezione resta in piedi: ammesso (e non concesso) che il calcolo utilitarista impedisca di giustificare la schiavitù nelle circostanze attuali, nulla esclude che esso la giustifichi per circostanze diverse, e giacché le circostanze sociali cambiano continuamente, domani potremmo ritrovarci a legittimare quel che oggi condanniamo. Eppure ciò ci ripugna. 3. Conta solo il risultato? Una risposta più sofisticata rimanda alla motivazione etica più profonda del conseguenzialismo stesso. La tesi teoretica implicita in ogni conseguenzialismo, infatti, è che, quali che siano i valori a cui un individuo o un’istituzione si richiamino, la risposta adeguata a questi valori consiste non nel 10 Cfr. R. M. Veatch, A Theory of Medical Ethics, Basic Books, New York 1981, p. 175. Il giudizio comune contemporaneo sulla schiavitù è che si tratta di una pratica intrinsecamente malvagia. Poche affermazioni di carattere morale registrano consensi così vasti come quelle della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 10.12.1948), in cui all’art. 1 si afferma: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti», e all’art. 4. si stabilisce: «Nessun individuo potrà esser tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma». Siamo di fronte a uno dei pochi assoluti morali ammessi dalla cultura contemporanea, che potrebbe essere in grado di costituire – anche da solo – una valida confutazione del relativismo etico e del nichilismo. Le affermazioni sopra menzionate, infatti, intendono essere riconosciute come verità assolutamente certe. Non si dice: «Noi siamo dell’opinione che gli esseri umani nascano liberi ed eguali in dignità e diritti, pertanto consigliamo di non tenere nessuno in schiavitù». Si parte da un asserto veritativo forte (a. 1) e se ne trae una conseguenza etico-giuridica vincolante (a. 4). Ora, se possediamo almeno una verità di ordine antropologico e se c’è almeno un assoluto morale, ciò vuol dire che non tutto è relativo. Cfr. A. Vendemiati, Présupposés anthropologiques de l’esclavage et de son abolition, in Mémoire Spiritane, 9, Paris, 1er sem. 1999, pp. 16-26. 12 Cfr. Aristotele, Politica, I, 3, 1253 b 20 ss. 13 Cfr. R. M. Hare, What is Wrong with Slavery, in Philosophy and Public Affairs, 8, Princeton, N.J.,1979, pp. 103-121. 11 3 «rispettarli», ma nel «promuoverli», e che ha senso rispettarli solo se ciò è parte del processo che conduce a promuoverli o è necessario a tal fine.14 Pertanto la relazione tra i valori e il soggetto agente sarebbe di tipo strumentale: l’unico compito del soggetto sarebbe quello di produrre conseguenze atte a promuovere un dato valore. L’azione giusta sarebbe quella che ha come conseguenza la promozione del valore, anche nel caso in cui l’azione stessa, nella sua struttura oggettiva, contrastasse con il valore in questione. Poniamo, ad esempio, che il valore sia quello della vita umana: in prospettiva conseguenzialista non si dovrebbe esitare ad uccidere un innocente qualora ciò fosse prevedibilmente utile per salvare la vita di più persone. Si comprende dunque che il conseguenzialismo si oppone al deontologismo, ossia alla convinzione che vi siano delle azioni che vanno evitate sempre e in ogni circostanza. 3.1. Tecnica e mentalità tecnicista Il successo delle teorie conseguenzialiste dipende in gran parte dalla mentalità tecnicista. La tecnica, infatti, valuta la correttezza delle azioni sulla base della loro capacità di produrre determinate conseguenze. Ora, giacché nella letteratura bioetica un gran numero di questioni è stato sollevato ed impostato da parte di tecnici, non suscita meraviglia il clima conseguenzialistico che avvolge tanti contributi, al punto che molti autori assumono il termine «buono» sempre e soltanto in riferimento alle conseguenze dell’azione, creando così una grande confusione, giacché nella filosofia classica il «bene» è il «fine». Ma appare evidente già dal linguaggio che il concetto di «conseguenza» non coincide con quello di «fine». Si può parlare di fine o scopo quando c’è un’intenzionalità più o meno cosciente, ma sempre, almeno in certa misura, razionale. La conseguenza si colloca, invece, nel mero ordine dei fatti. Le scienze empiriche moderne non vedono – non possono vedere – fini o scopi: vedono solo conseguenze (e questo è il frutto del livello molto alto di astrazione con cui esse si avvicinano alla realtà)15. Così la normatività tecnica che su essa si basa non può che riguardare le conseguenze. E questo finisce col produrre un’impostazione decisamente impersonale delle problematiche bioetiche, inducendo una procedura «di protocolli» che tende a scavalcare il lavoro della coscienza morale delle persone. Certamente la correttezza dell’agire tecnico è necessaria per la bontà dell’azione, giacché se ci si propone un fine, il mezzo che si sceglie deve provocare conseguenze congruenti con il conseguimento del fine. Questo approccio, però, è di per sé incapace di elevarsi alla considerazione della bontà etica, che implica un discernimento non solo dei mezzi e delle loro conseguenze, ma anche e soprattutto dei fini. In questa prospettiva la norma giuridica stessa tende a configurarsi in modo meramente pragmatico: così, se pure si afferma che essa deve difendere la dignità umana, tale difesa non è però intesa come fine in sé, bensì come strumento (relativizzabile, pertanto) che possa tornare utilitaristicamente vantaggioso per la collettività. Ma cosa significa «vantaggioso»? Il criterio dell’utilità, in mancanza di una riflessione più profonda, tende a riferirsi unicamente a ciò che corrisponde alla volontà, ai desideri della maggioranza. 3.2. Fare ed agire Il fatto è che la tecnica considera il fare in quanto produzione (póiesis) di qualcosa, che termina all’oggetto prodotto; l’etica, invece considera l’azione (prâxis) in quanto oggetto di scelta, corrispondente alla volontà del soggetto, che persegue fini tali che il risultato del loro conseguimento resta nel soggetto stesso.16 La prospettiva della tecnica considera l’agire come Cfr. P. Pettit, Consequentialism, in P. Singer, A Companion to Ethics, Oxford – Malden (Mass.), Blackwell, 1993, pp. 230-240. 15 Su questi temi, cfr. H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura (1993), Torino, Einaudi, 2000, pp. 138-140; Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità (1987), Torino, Einaudi, 1997, pp. 66-67. 16 Cfr. Aristotele, Metafisica, L. VIII, 8 (1050 a 35 – b 2); Etica nicomachea, L. I, 1 (1094 a 1 – 2). 14 4 «operazione transitiva», la prospettiva etica lo considera come «operazione immanente»:17 «L’“agire morale” non è il “comportarsi verso gli oggetti”, “realizzare qualcosa fuori di noi”, “produrre”, ma “realizzazione di ciò che possiamo essere, realizzazione del proprio essere umano”. L’agire bene fa dell’agente un uomo buono (...). Con l’agire morale trasformiamo innanzitutto e soprattutto quella parte del mondo che siamo noi stessi».18 Il «fare» tecnico è pur sempre un «agire», che passa sì su oggetti esterni all’agente, ma rimbalza sull’agente stesso e richiede che egli sia ben disposto rispetto ai suoi fini, ossia richiede la rettitudine della sua volontà. È qui che si svela l’essenza della normatività etica: nella ricerca della vita buona e felice. La questione etica fondamentale è: «Va bene la mia vita?», ovvero: «Che tipo di persona voglio essere? Che tipo di persona posso essere? Che tipo di persona debbo essere?». Si tratta dunque della questione del senso della vita umana, della mia vita, che è sempre in relazione con quella di altri miei simili; per cui la questione si articola anche al plurale: «Va bene la nostra società?», ovvero: «Che tipo di società vogliamo, possiamo, dobbiamo essere?». A partire da qui si pongono questioni più specifiche, del tipo: «Che tipo di persona divento se mi comporto in questo modo?»; «Che tipo di società diventiamo se incoraggiamo, ammettiamo o proibiamo questo comportamento?»; queste domande portano all’elaborazione di norme specificamente etiche, del tipo: «Questo tipo di comportamento è buono (o cattivo)», dietro le quali c’è una riflessione che intende: «Questo tipo di comportamento ci fa diventare migliori (o peggiori); fa andare bene (o male) la nostra vita». Ora, tali norme presuppongono anche considerazioni di carattere conseguenzialistico, ma esse sono comprensibili soltanto sulla base di una intenzionalità agente nella prospettiva della prima persona. In sintesi, va riconosciuto che la normatività conseguenzialista, tipica della tecnica, è di carattere ipotetico, giacché concerne unicamente i mezzi per realizzare scopi particolari; la normatività etica, invece, è sostanzialmente di carattere categorico, perché concerne il fine dell’agire umano in quanto tale (il bene umano), quel fine che i soggetti agenti non possono fare a meno di porsi, per realizzare la propria esistenza. Certamente, una volta chiarito il fine a cui si deve tendere (categoricamente), l’azione si configura come mezzo intenzionale per il suo conseguimento. E va notato che vi sono atti per natura loro ordinati al bene della persona e della comunità (es.: aiutare i poveri, curare i malati, confortare i sofferenti, ecc.), mentre vi sono atti che contrastano con questi beni (es.: uccidere gli innocenti, violentare, ridurre in schiavitù, ecc.). L’atto viene così a collocarsi, sin dalla sua intenzionalità di base, in una specie morale, che può essere buona o cattiva19. Ora, giacché «scegliere un mezzo in vista di un fine» è un unico atto di volontà, che costituisce un’unica azione intenzionale, si capisce perché non ogni mezzo tecnicamente capace di produrre un effetto desiderato è in realtà compatibile con il bene morale dell’azione. Un fine buono come, ad esempio, quello di lenire le sofferenze di un paziente non può eticamente essere raggiunto mediante l’uccisione del paziente stesso, anche se tecnicamente l’effetto è garantito! Le violazioni dei diritti umani fondamentali – primo fra tutti il diritto alla vita – costituiscono azioni intrinsecamente cattive, che nessun movente e nessuna circostanza varrà mai a giustificare sul piano oggettivo (v. alla voce DIRITTO NATURALE). Aldo Vendemiati Bibliografia essenziale: M. BAYLES, Contemporary Utilitarianism, Doubleday & Co., Garden City (NY), Cfr. san Tommaso d’Aquino, In Ethicorum, L. I, lect. I, (ed. Spiazzi, n. 13). M. Rhonheimer, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Roma, Armando ed., 1994, p. 23. 19 «Omnia enim moralia ex fine speciem consequuntur. Ex ordine autem ad finem debitum specificatur bona actio et bonus habitus, ratione cujus bonum differentia speicifica ponitur habitus et actionis moralis; mala vera actio specificatur ex ordine ad finem indebitum, cuius admiscetur privatio finis debiti, ex quo ratio mali incidit», San Tommaso d’Aquino, In II Sententiarum, d. 34, q. 1, a. 3, ad 3m. Si noti che «Actus moralis non habet speciem a fine remoto, sed a fine proximo qui est obiectum», Id., De malo, q. 2, a. 6, ad 9m.; cfr. q. 8, a. 1, ad 14m. «Cum enim actus moralis ex suo obiecto speciem hebeat, vel in genere collocetur, ex hoc potest cognosci aliquem actum moralem esse malum ex suo genere, si actus ipse non referatur convenienter ad suam materiam vel obiectum», Ibid., q. 10, a. 1, c; cfr. q. 12, a. 3, c. 17 18 5 1968; P. PETTIT, Consequentialism, in P. SINGER, A Companion to Ethics, Oxford – Malden (Mass.), Blackwell, 1993, pp. 230-240; S. SCHEFFLER, The Rejection of Consequentialism. A Philosophical Investigation of the Considerations Underlying Rival Moral Conceptions, Clarendon Press, Oxford 1994; J.J.C. SMART – B. WILLIAMS, Utilitarismo: un confronto (1973), Napoli, Bibiliopolis, 1985. 6