centro alti studi per la difesa

CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA
ISTITUTO SUPERIORE DI STATO MAGGIORE INTERFORZE
17° CORSO SUPERIORE DI STATO MAGGIORE INTERFORZE
3ª Sezione – 9° GdL
TESI DI GRUPPO SMD
Attività militari e danno ambientale. Le
cause di esclusione della risarcibilità del
danno ambientale, profili giuridici. La
bonifica dei siti contaminati
Anno Accademico 2014-2015
COMPOSIZIONE DEL 9° GRUPPO DI LAVORO
Magg.
CHO
Yunje
Magg.
DEL BUONO
Alessandro
Dott.
DE SANTIS
Maurizio
C. C.
DI VICO
Gabriele
Ten. Col.
FERRARO
Gianluca
Dott.ssa
GRASSELLI
Cinzia
Magg.
LACARRIERE
Benoit
Magg.
MARCONE
Isidoro
Dott.ssa
NASTASI
Maria
Ten. Col.
PALERMO
Andrea
Magg.
PERLA
Michele
Ten. Col.
ROLLINI
Alberto
Magg.
SPISSU
Alessandro
Magg.
TARANTINI
Fulvio
Anno Accademico 2014-2015
INDICE
1. PREMESSA
Pag. 1
2. BILANCIAMENTO TRA ESIGENZE DIFESA E TUTELA AMBIENTALE
Pag. 2
a. L’imprescindibilità dell’addestramento militare
Pag. 2
b. Il danno ambientale
Pag. 6
c. Attività militari e danno ambientale
Pag. 10
3. MISURE AMBIENTALI IN AMBITO DIFESA
Pag. 14
a. Misure preventive: disciplina dei poligoni
Pag. 14
b. Misure di ripristino: bonifica ambientale
Pag. 15
c. Analisi misure adottate
Pag. 17
4. CAUSE DI ESCLUSIONE RISARCIBILITA’
Pag. 19
a. Confronto tra interessi costituzionalmente garantiti
Pag. 19
b. Giurisprudenza di supporto
Pag. 21
5. CONCLUSIONI
Pag. 29
BIBLIOGRAFIA
ELENCO DEGLI ALLEGATI:
Allegato A: SMD-L-014 – Direttiva sull’organizzazione, impiego e funzionamento del
poligono sperimentale e di addestramento interforze di Salto di Quirra
Allegato B: Disciplinare per la tutela ambientale del poligono interforze di Salto di
Quirra
Allegato C: Disciplinare per la tutela ambientale del poligono di Capo Teulada
Allegato D: Regolamento del poligono Cellina-Meduna
Allegato E: Esempio composizione Co.Mi.Pa. per le servitù militari (regione Sardegna)
Allegato F: Notice sur les infrastructures de tir – TOME I: Infrastructures de tir.
Généralités et procedures. Annexe 12 – Instructions relatives au
désobusage
Allegato G: INSTRUCTION n. 1642/DEF/EMAT/INS/FG/66, relative au désobusage
des champs de tir
I
1. PREMESSA
La Difesa della Patria e la tutela dell’ambiente sono interessi nazionali
costituzionalmente salvaguardati. In quest’ottica le attività addestrative militari funzionali alla Difesa nazionale - possono rappresentare un elemento di criticità in
relazione alla convergenza dei due interessi in parola.
A tal proposito, i Co.Mi.Pa. (Comitato Misto Paritetico), costituiti presso ogni Regione
per armonizzare gli aspetti territoriali, economici e sociali delle Regioni e le loro
limitazioni, con i programmi militari, possono risultare la sede istituzionale adatta per
coordinare e bilanciare due interessi nazionali fondamentali talvolta apparentemente
divergenti.
L’elaborato intende analizzare il rapporto fra le attività militari e il danno ambientale
attraverso l’individuazione e l’approfondimento e l’interpretazione di alcuni aspetti
caratterizzanti.
In particolare, il gruppo di lavoro ha concentrato l’attenzione sul recepimento del Codice
dell’ambiente nel Codice dell’Ordinamento Militare e sulle cause di esclusione della
risarcibilità del danno ambientale derivante dalla condotta di attività militari addestrative,
nonché sulle misure concrete poste in essere dall’Amministrazione Difesa a
prevenzione del danno ambientale potenzialmente derivante dalle citate attività e su
quelle di ripristino post-esercitazione nello specifico contesto dei principali poligoni
addestrativi delle Forze Armate sul territorio nazionale.
La necessità di ricercare condizioni di addestramento quanto più vicine a quelle di
ipotetico impiego reale dello strumento militare per la realizzazione dei compiti
istituzionali ad esso assegnati implica, in ogni caso, un impatto ambientale.
Tale impatto può assumere i connotati di danno ambientale quando si verifichino
specifiche e misurabili condizioni di deturpamento dell’area interessata. Il danno implica
la possibilità di risarcimento a carico di colui che lo ha cagionato.
La normativa vigente in materia prescrive che le norme in materia di tutela risarcitoria
contro i danni all’ambiente «non si applicano alle attività svolte in condizioni di necessità
ed aventi come scopo esclusivo la difesa nazionale, la sicurezza internazionale o la
protezione dalle calamità naturali».
Le attività militari possono essere intese, quindi, per la loro tipicità esenti da
risarcimento qualora cagionino comunque un danno ambientale?
Ci si chiede, dunque, se il concetto di necessità possa essere implicitamente sempre
associato alle attività addestrative che sottendono il mantenimento dell’efficacia dello
strumento militare per la difesa nazionale o se la condizione di necessità non debba
essere intesa esclusivamente nell’accezione giuridica. Stante la chiara esistenza dello
scopo di difesa nazionale, sicurezza internazionale e protezione da calamità naturali cui
sottendono le attività addestrative militari, il gruppo di lavoro ha provato a chiedersi se
anche la condizione di necessità sia sempre implicitamente associata alle
summenzionate attività militari ovvero non si debba intenderla esclusivamente
nell’accezione giuridica di ipotesi di forza maggiore e verificarne, pertanto, l’esistenza
caso per caso.
In questa seconda ipotesi, si è inteso comprendere quali possano essere ulteriori cause
di esclusione della risarcibilità del danno ambientale. A tal proposito, si è reso
indispensabile analizzare le misure preventive poste in essere al fine di limitare il rischio
di danno ambientale, le attività di bonifica dei siti danneggiati e l’insieme delle modalità
di coordinamento derivanti dai principi comunitari di precauzione e responsabilità del
risarcimento del danno a carico di colui che inquina.
1
2. BILANCIAMENTO TRA ESIGENZE DIFESA E TUTELA AMBIENTALE
a. L’imprescindibilità dell’addestramento militare
1) La Difesa Nazionale: fondamento costituzionale del ruolo delle Forze Armate.
La Costituzione italiana accanto alla definizione dei principi fondamentali, dei
diritti e doveri dei cittadini su cui si fonda l’intero apparato statale, fornisce
indicazioni chiare sulla posizione delle Forze Armate nell'ordinamento italiano,
alla luce del principio di democrazia che caratterizza la nostra forma di Stato.
In tal caso due sono le norme chiave che fissano i punti fermi insuperabili sul
ruolo e sui compiti delle Forze Armate e sono gli artt. 11 e 52 della Costituzione:
“L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;
consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale
scopo”. (Costituzione, Articolo 11)
“La difesa della patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è
obbligatorio nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non
pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.
L’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della
repubblica”. (Costituzione, Articolo 52)
Una approfondita interpretazione su entrambi gli articoli risulta quanto mai
necessaria per comprendere il ruolo ed i compiti delle Forze Armate inteso dai
padri fondatori della costituente e contestualizzato ai giorni nostri nel completo
rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento enunciati nella prima parte
della stessa carta costituzionale.
L’art 52 definisce ad ampio spettro quello che è il più alto e nobile dovere di ogni
cittadino (definito testualmente come “sacro dovere”) vale a dire la difesa della
patria. Nel dettaglio l’articolo pone le Forze Armate, regolate ed ispirate da
principi democratici, quali i principali detentori di tale compito ed indica inoltre
l’obbligo di tutti i cittadini al servizio militare come stabilito dalla legge
(attualmente sospeso dalla legge 23 agosto 2004 n. 226 – cd. legge Martino).
Analizzando invece l’art. 11 si nota che la Costituzione, non soltanto rifiuta, in
negativo, di considerare il ricorso alla forza quale principale od esclusivo criterio
per risolvere le controversie internazionali; ma, in positivo, disegna uno scenario
rivolto a creare condizioni sempre più favorevoli al negoziato ed alla pacifica
convivenza. Al fine di perseguire tali scopi la Costituzione promuove le
organizzazioni internazionali (ONU) e sovranazionali (Unione Europea) che
intendano «assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni», anche, in particolare,
attraverso limitazioni di sovranità.
La nozione di “guerra” così come presupposta dai costituenti se si pensa
all’attuale contesto socio politico, è quanto mai limitativa. Essi la pensarono come
un conflitto che spesso interviene tra Stati confinanti; che (art. 78) si dichiara (e
ciò, nel mondo attuale, accade sempre meno); che vede in campo eserciti
regolari (o, al più, formazioni partigiane); che si conclude con atti giuridici formali
(armistizi, trattati di pace), ecc.. E, ancora, l’art. 11 è stato pensato quando
ancora non erano chiare le implicazioni di lungo periodo che sarebbero derivate
dalle alleanze militari multilaterali che contrassegnarono per decenni la divisione
del mondo in blocchi (NATO e Patto di Varsavia), né poteva tener conto della
2
realtà del terrorismo organizzato su scala internazionale e delle drastiche novità
che esso ha introdotto in relazione ai tradizionali conflitti bellici.
Da un punto di vista strettamente militare dunque le Forze Armate sono chiamate
a garantire quella tutela della sicurezza nazionale interpretata con un’accezione
sempre più ampia che include, oltre alla difesa della sovranità nazionale, il
concorso alla stabilità e alla sicurezza internazionale, la legittima salvaguardia e
tutela degli interessi nazionali, nonché la prevenzione dei rischi, sia vecchi che
nuovi, unitamente al contrasto da porre più generalmente in essere contro le
violazioni del diritto e della pace. Tale concetto si incardina sempre più nelle
numerose operazioni svolte dalle nostre Forze Armate nell’ultimo ventennio
all’interno delle grandi organizzazioni internazionali di quali l’Unione Europea,
l’Alleanza Atlantica e le Nazioni Unite. Di conseguenza, il supporto alle missioni
operative della comunità internazionale è divenuto, soprattutto nel corso di questi
ultimi anni, elemento caratterizzante l’impiego delle Forze Armate.
La nuova configurazione del quadro mondiale impone perciò una continua e
attenta rivalutazione, prima politica, poi strategica ed a cascata addestrativa del
ruolo delle Forze Armate ai giorni d’oggi; interoperabilità in ambito nazionale e
all’interno di alleanze internazionali, efficienza, flessibilità, alta professionalità e
capacità a rischierarsi in tempi brevi sono infatti alcune delle caratteristiche che le
truppe oggigiorno devono possedere e devono essere alla base di un continuo e
costante aggiornamento.
2) Centralità ed imprescindibilità dell’addestramento.
Oggi giorno in uno scenario complesso e dinamico come quello in cui viviamo la
nozione di addestramento è sempre più un elemento indispensabile e strategico
da sviluppare nel pieno rispetto dei compiti e dei ruoli, visti nel precedente
paragrafo, a cui le Forze Armate sono chiamate ad adempiere. Oltre la
fondamentale difesa nazionale vi è in gioco la credibilità del paese Italia e la sua
capacità di operare, rischierare e sostenere rapidamente le necessarie capacità
militari al fine di partecipare attivamente alle missioni internazionali a cui gli
impegni in ambito UE, NATO ed ONU potrebbero condurre. E’ quindi da un
adeguato addestramento che passa l’efficacia e la credibilità dello strumento
militare, in termini di azione a protezione degli interessi nazionali, anche quando
quest’ultimi potrebbero non coincidere del tutto con quelli dei principali partner
europei e/o transatlantici.
Gli impegni e le operazioni a carattere interforze e multinazionale richiedono una
preparazione ed una conoscenza di tutto quello che è a monte del singolo
sistema d’arma a cui va incluso il pieno funzionamento di una articolata catena di
comando e controllo. Lo stesso “conflitto a fuoco” non deve essere ricondotto alla
condotta di una mera singola manovra ma va contestualizzato ed inserito
all’interno di una gestione ad ampio spettro in termini spaziali e temporali di più
unità ed assetti con completa integrazione delle componenti terrestri, aeree e
navali.
Un grave errore sarebbe quello di considerare l’impegno in teatro operativo come
un valido sostituto all’attività di addestramento. In missione infatti l’obiettivo
principale è il successo dell’operazione, non importa se questo è ottenuto per
intuizione del singolo o circostanze fortuite, o sfruttando al meglio le procedure e
le tattiche stabilite e gli assetti a disposizione. Viceversa, nell’addestramento ciò
che conta realmente è la messa alla prova e la padronanza proprio di procedure,
tattiche, equipaggiamenti, nonché l’integrazione di assetti e l’efficacia della catena
di comando e controllo che porteranno ad un successo in operazione reale.
In altre parole, nell’addestramento anche l’insuccesso è un risultato utile in
3
quanto porta grazie ad approfonditi de-briefing ad evidenziare carenze e criticità
su cui lavorare per essere meglio preparati quando inviati in teatro operativo. La
differenza tra missione reale ed addestrativa la si può avvicinare metaforicamente
alla differenza che vi è tra un esperimento in laboratorio ed una operazione
medica: nel primo caso l’obiettivo è testare e affinare sia l’approccio teorico che
gli strumenti anche sbagliando e riprovando, nel secondo non vi è spazio per
l’errore e l’unica cosa che conta è il risultato da raggiungere al primo tentativo.
L’addestramento, oltre a predisporre le procedure e la struttura che al momento
opportuno tradurrà in pratica l’intuizione tattica o strategica del comandante,
assicura anche la “resilienza” delle Forze Armate nel caso in cui le operazioni
militari si rivelino più impegnative del previsto. Proprio una padronanza di mezzi e
procedure affiancata ad una consolidata esperienza personale costruita durante il
ciclo continuo di addestramento potrà assicurare la capacità di reagire
adeguatamente senza farsi prendere impreparati quando ci si trova sotto attacco
e/o sotto scacco da parte dell’avversario.
L’addestramento può essere quindi definito come «l’insieme di attività
teorico/pratiche finalizzate a sviluppare la capacità, dei singoli soldati e delle unità
nel loro complesso, di assolvere al meglio i compiti affidati . Esso trae
fondamento dalle ipotesi di impiego e dalle esperienze maturate nei teatri
operativi e, al contempo, costituisce la base per la condotta delle attività operative
nel rispetto della sicurezza del soldato e degli altri attori non combattenti, oramai
sempre più presenti sugli scenari urbanizzati dei contemporanei teatri di crisi: un
addestramento costante, metodico e ‘realistico’ riduce il rischio di incidenti e
danni collaterali»1.
Un’altra funzione indispensabile dell’attività addestrativa, soprattutto in termini di
politica estera e di difesa, è quella di assicurare la protezione dello spazio euroatlantico in base agli impegni presi in ambito NATO, sebbene meno evidente di
quella analizzata di un effettivo dispiegamento delle Forze Armate italiane in teatri
operativi ai fini della politica estera. In generale, l’addestramento è necessario a
mantenere la capacità operativa dello strumento militare, ad assicurare una
risposta tempestiva ed adeguata in caso di necessità di impiego della forza. Ciò
rende credibile in tempo di pace la minaccia dell’uso della forza, e quindi influisce
sul calcolo strategico di attori potenzialmente o realmente ostili scoraggiando
possibili azioni offensive e colpi di mano, che l’avversario valuta contrastabili e/o
sventabili da Forze Armate adeguatamente addestrate. Sebbene il suddetto
concetto si basi su di un meccanismo di deterrenza, che ha trovato nel periodo
della Guerra Fredda forse la sua più ampia espressione, non deve essere
considerato anacronistico ed inapplicabile al periodo storico successivo la caduta
del muro di Berlino che stiamo vivendo. La sua importanza è anzi
significativamente aumentata oggi nel contesto di crisi dei rapporti tra Russia e
paesi occidentali. L’annessione Crimea da parte della Federazione Russa ha
suscitato infatti un forte dibattito sulla reale prontezza, tempestività ed efficacia
delle Forze Armate dell’Alleanza, ed in particolare di quelle destinate ad una
reazione rapida. Non a caso, il vertice dei capi di stato e di governo NATO
svoltosi in Galles nel mese di settembre 2014 ha preso decisioni importanti
riguardo al Readiness Action Plan con la predisposizione di truppe altamente
specializzate ed addestrate (VJTF - Very High Readiness Joint Task Force) e
all’intensificarsi di addestramenti ed esercitazioni alleate in Europa orientale.
Mostrare la qualità e continuità del training delle Forze Armate dei paesi alleati ha
1
Pubblicazione 13/A1 – “Le attività addestrative e di approntamento dei Comandi e delle Unità dell’Esercito” (SME –
III Reparto)
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infatti un duplice effetto e cioè quello di inviare da una parte un chiaro messaggio
di deterrenza direttamente alla Russia e dall’altro un forte segnale di
rassicurazione agli stati membri della NATO che si sentono maggiormente
minacciati da Mosca.
Nell’ambito del processo addestrativo delle truppe ed egli equipaggi è anche
necessario evidenziare che negli ultimi anni lo sviluppo tecnologico ha fornito
nuovi strumenti sempre più avanzati che hanno permesso di simulare ambienti
complessi nei quali possono interagire tra loro strumenti, sistemi, entità e oggetti
analoghi a quelli esistenti nel mondo reale. Uno dei vantaggi più evidenti del
sistema virtuale è senza dubbio quello di replicare alcune situazioni e circostanze
che in ambito addestrativo sarebbero di difficile riproduzione. E’ questo il caso ad
esempio dei simulatori di volo, che permettono di testare, in una certa misura, la
reazione del pilota di fronte a guasti meccanici, attacchi o imprevisti di altra natura
che possono comportare la distruzione o il malfunzionamento del velivolo.
Sebbene i vantaggi dell’impiego di strumenti di simulazione siano chiari
soprattutto in chiave economica e di standardizzazione, è altresì evidente che
non sia possibile né efficace fare affidamento esclusivamente ad un
addestramento simulato e/o virtuale. Esiste il rischio potenziale di una
divergenza, più o meno ampia, tra il contesto reale e quello virtuale, ed è per
questa ragione che il trade-off tra i vantaggi e gli svantaggi delle esercitazioni
simulate, rispetto a quelle “reali” sul campo, deve sempre essere valutato
razionalmente, in modo da garantire il massimo livello di efficacia della
preparazione in caso di impiego operativo. Ad esempio, la peculiarità di alcuni
mezzi (soprattutto aero-navali) e delle forze specialistiche delle nostre Forze
Armate richiede necessariamente che siano svolte attività addestrative pratiche
volte alla condotta tattica ed in sicurezza dei mezzi. Nonostante le simulazioni
siano estremamente valide per gli staff di comando e per un addestramento
basico della condotta ed utilizzo del mezzo, le attività reali sono insostituibili
forme di addestramento dell’unità, intesa come binomio mezzo/equipaggio, delle
componenti specialistiche e forze speciali, non surrogabili da evoluti software di
simulazione, da sistemi informativi e da tecnologie basate sul virtuale.
L’addestramento virtuale e/o simulato assume perciò un carattere integrativo
piuttosto che sostitutivo rispetto a quello reale ed in questo contesto la
disponibilità di aree addestrative e poligoni all’interno del territorio nazionale
risulta quanto mai indispensabile e strategico. Queste aree infatti sono un assetto
irrinunciabile per l’addestramento delle Forze Armate, particolarmente nel
contesto italiano ed internazionale emerso dalla precedente analisi.
All’interno dei poligoni nel dettaglio gli equipaggi possono impiegare armamento
live o training (inerte) ed avere un feedback real time sullo score dei propri tiri e
degli sganci mediante sofisticati sistemi di rilevazione a disposizione dei direttori
dei poligoni stessi.
Devono considerarsi quindi parte integrante e fondamentale di quel processo che
consente di migliorare/perfezionare la capacità operativa esprimibile tramite
l’individuazione di gap capacitivi da colmare attraverso il processo di Lesson
Learned / Lesson Identified cioè derivante dall’identificazione delle Lezioni
Identificate e la loro successiva trasformazione, se del caso, in Lezioni Apprese
con l’implementazione di queste ultime, in seguito a un’adeguata attività di
sperimentazione.
Da non sottovalutare inoltre che da una parte l’attività addestrativa ai tiri e la sua
relativa certificazione è un presupposto irrinunciabile richiesto dalla stessa NATO
(secondo le direttive sugli standard in ambito alleanza atlantica) per gli assetti
5
nazionali in High Readiness e quelli designati NRF, e dall’altra che la necessità di
sviluppare e certificare nuove tattiche d’impiego dei sistemi d’arma e
dell’armamento trova nell’attività all’interno dei poligoni un presupposto
imprescindibile.
Rinunciare all’utilizzo di siti come capo Teulada, capo Frasca o Salto di Quirra
dove è possibile compiere esercitazioni complesse che coinvolgano le
componenti terrestre, navale ed aerea, rischierebbe di inficiare significativamente
le capacità operative delle Forze Armate italiane. «In questo senso, la questione
delle aree addestrative richiama la logica NIMBY (Not In My Back Yard) che in
Italia si mescola con un localismo esasperato. Basti ricordare la vicenda degli
inceneritori/termovalorizzatori di rifiuti o dei siti di stoccaggio del materiale
radiologico e nucleare: si riconosce la necessità di tali strutture, ma nessuna
comunità locale vuole situarla nel proprio territorio»2.
Una eventuale opzione dell’addestramento effettuato al di fuori dei confini
nazionali comporterebbe accanto a costi di locazione, di approntamento e di
trasporto molto ingenti anche una dipendenza dalla disponibilità degli altri stati e
dalle relative scelte di politica estera con relativa perdita di sovranità e
compromissioni in termini di segretezza e affidabilità. Le aree addestrative
localizzate all’estero non sono inoltre necessariamente ottimizzate o configurate
per le Forze Armate italiane e si potrebbe incorrere nel rischio di rendere l’attività
e l’esercizio poco efficace e soprattutto poco efficiente. Per ultimo non va
assolutamente sottovalutata l’importanza delle attività sperimentali all’interno dei
poligoni svolte dalle Forze Armate per testare equipaggiamenti nuovi o di
possibile acquisizione, o dall’industria nazionale per sviluppare e mettere a punto
nuovi prodotti non solo militari, ma anche civili nel campo della sicurezza (nella
duplice accezione della security e della safety). In questi casi l’esigenza di
riservatezza è particolarmente elevata e non può che essere soddisfatta
dall’utilizzo di poligoni nazionali.
b. Il danno ambientale
Il danno ambientale consiste nella distruzione o nel deterioramento dell’ambiente
naturale considerato in sé e per sé, e cioè a prescindere dall’esistenza di pregiudizi
ai singoli beni che lo compongono (aria, acqua, terra, fauna, clima, ecc.). La
distruzione dell’ambiente costituisce un danno per la collettività; tuttavia non essendo
quest’ultima, in quanto tale, soggetto di diritto, la legittimazione a domandare il
risarcimento spetta agli enti esponenziali di essa, e quindi alla pubblica
amministrazione. La nozione di danno ambientale, secondo parte della dottrina, è
stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349
(oggi abrogato), il quale stabiliva che “qualunque fatto doloso o colposo in violazione
di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta
l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in
tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”.
Tale opinione tuttavia non è stata condivisa dalla Cassazione, secondo la quale il
diritto al risarcimento del danno ambientale preesisteva addirittura all’introduzione
della legge n. 349 del 1986, in quanto scaturisce direttamente dal combinato
disposto degli artt. 2, 3, 9 secondo comma, 41 e 42, della Costituzione, e dell’art.
2059 c.c.. L’art. 18 della legge n. 349/86, in pratica, non avrebbe introdotto nel nostro
2
Camera dei Deputati, Commissione Difesa, Indagine conoscitiva in materiadi servitù militari, 31 luglio 2014,
http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/stenografici/pdf/04/indag/c04_militari/2014/07/31/leg.17.
stencomm.data20140731.U1.com04.indag.c04_militari.0013.pdf
6
ordinamento una nozione di “danno ambientale” inesistente per il futuro, ma si
sarebbe limitato a ripartire tra Stato, enti locali ed associazioni di protezione
ambientale la legittimazione ad agire o intervenire nel relativo giudizio di
risarcimento.
1) Il perimetro di definizione del danno
La nozione di danno ambientale è oggi prevista e disciplinata dall’art. 300 del d.
lgs. 3.4.2006 n.152 (c.d. Codice dell’Ambiente, recante “Norme in materia
ambientale”), il quale definisce “danno ambientale” qualsiasi deterioramento
significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità
assicurata da quest’ultima. La stessa norma prevede poi (al comma secondo)
alcune ipotesi specifiche di danno ambientale, richiamando la direttiva europea in
materia (direttiva 2004/35/CE), per cui in ogni caso: “costituisce danno
ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato”:
(a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e
comunitaria;
(b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente
negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale
ecologico delle acque interessate;
(c) alle acque costiere e a quelle ricomprese nel mare territoriale, in
conseguenza delle medesime azioni indicate sub (b) anche se svolte in
acque internazionali;
(d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo
di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell’introduzione
nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o
microrganismi nocivi per l’ambiente.
2) Legittimità delle azioni di risarcimento
Presupposto per il risarcimento del danno ambientale è innanzitutto la
compromissione dell’ambiente, la quale tuttavia non si identifica con il mero
pregiudizio patrimoniale derivato ai singoli beni che ne fanno parte, perché il
bene pubblico (che comprende l’assetto del territorio, la ricchezza di risorse
naturali, il paesaggio come valore estetico e culturale e come condizione di vita
salubre in tutte le sue componenti) deve essere considerato unitariamente per il
valore d’uso da parte della collettività quale elemento determinante della qualità
della vita della persona, quale singolo e nella sua aggregazione sociale. La
legittimazione ad agire per il risarcimento spetta, pertanto, allo Stato attraverso
l’azione civile in sede penale da parte del Ministero dell’Ambiente3.
In dottrina si è peraltro osservato che la norma conduce a negare il diritto al
risarcimento del danno quanto a fatti che abbiano inciso su beni diversi da quelli
ivi contemplati e, dunque, conferma l’assenza di risarcibilità del danno
meramente patrimoniale, quale quello che sarebbe subìto dall’imprenditore
turistico che veda decrescere i propri utili a seguito di un fatto che abbia
deturpato un’area paesaggistica vicina al luogo in cui egli svolge la propria attività
(vedi C. Castronovo, “La natura del danno ambientale e i criteri di imputazione
della responsabilità”, in Nicotra-Salanitro [a cura di] “Il danno ambientale tra
prevenzione e Riparazione”, 135).
3) I principi generali nell’art. 298 bis
In materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente, tuttavia, la parte sesta
del Codice dell’Ambiente (normativa che ha recepito in Italia nel 2006 la direttiva
3
Rif. Art. 311 n.1 del D. Lgs. n. 152/2006.
7
e i criteri in materia di responsabilità ambientale e quantificazione del danno
dettati dalla direttiva europea 2004/35/CE) ha di recente subìto importanti
modifiche. Con la c.d. legge Comunitaria 2013 (legge 06.08.2013 n. 97,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 20.08.2013 n. 194), all’art. 25, il legislatore ha
innanzitutto introdotto l’art. 298 bis che detta i “principi generali” in materia,
affermando che la disciplina dettata dalla parte sesta del “Codice dell’Ambiente”
si applica: “a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali
elencate nell’allegato 5 alla stessa parte sesta (ndr: ad esempio gestione e
smaltimento dei rifiuti, scarichi di sostanze nelle acque sotterranee, estrazione e
arginazione di acque, fabbricazione, uso, stoccaggio di sostanze pericolose, ecc.)
e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività; b)
al danno ambientale causato da un’attività diversa da quelle elencate nell’allegato
5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante
dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo”.
La riparazione del danno alla luce del secondo comma dell’art. 298 bis: “deve
avvenire nel rispetto dei princìpi e dei criteri stabiliti nel titolo secondo e
nell’allegato 3 alla parte sesta, ove occorra anche mediante l’esperimento dei
procedimenti finalizzati a conseguire dal soggetto che ha causato il danno, o la
minaccia imminente di danno, le risorse necessarie a coprire i costi relativi alle
misure di riparazione da adottare e non attuate dal medesimo soggetto”.
A tal proposito, uno dei temi più complessi e suggestivi che le norme di
tutela dell’ambiente pongono all’attenzione dell’interprete, è quello del rapporto
che intercorre tra bonifica e risarcimento del danno ambientale.
La difficolta di distinguere tra i due tipi di tutela, nasce innanzitutto dalla obiettiva
difficolta di inquadrare nelle categorie giuridiche tradizionali lo stesso concetto di
ambiente. Il concetto di ambiente si configura, sempre più, come una scelta
giuridica complessa, molto influenzata dal diritto internazionale, che non si
qualifica esclusivamente come bene unitario ed immateriale, ma anche come
espressione di un autonomo valore collettivo, costituzionalmente garantito e
come obiettivo dei pubblici poteri.
La ambivalenza del concetto non può non riflettersi sulla nozione di danno
ambientale e sull’interpretazione delle norme chiamate a presidiare l’ambiente sul
piano specifico della tutela (ripristinatoria e risarcitoria). La difficolta è accentuata
dal carattere obiettivamente frammentario della legislazione. Anche la
terminologia ambigua del legislatore non aiuta.
Alla bonifica dei siti contaminati e al risarcimento del danno ambientale il D.Lgs.
n. 152 del 2006 dedica due distinte discipline.
Esistono però delle commistioni di concetti che tendono a rendere indistinta la
linea di confine tra bonifica e risarcimento, in particolare, la difficolta di coordinare
le norme sul risarcimento ambientale con le norme in tema di ripristino, sempre
dettate dalla parte sesta del decreto legislativo n. 152. Il rischio è quello di una
duplicazione inutile di meccanismi di riparazione ambientale, di difficile
definizione e di ancora più difficile attuazione pratica, tenendo tra l’altro presente
che questi meccanismi si sommano agli strumenti di riparazione in forma
specifica previsti dalla parte quarta in materia di bonifica.
La linea di confine tra bonifica e risarcimento del danno ambientale risulta incerta
anche a fronte della tendenza di privilegiare, per evidenti ragioni di speditezza,
l’istituto della bonifica in relazione a matrici ambientali (in particolare marine,
lacuali e fluviali) esterne al sito propriamente responsabile della contaminazione.
Nell’attuale quadro normativo il danno ambientale è soggetto a due diversi regimi,
uno di carattere generale, relativo al risarcimento del danno ambientale,
8
introdotto, come sopra detto, per la prima volta con la legge n. 349 del 1986, ed
uno di carattere speciale, relativo alla bonifica dei siti contaminati.
Il regime sulla bonifica prevede a sua volta una disciplina generale e una
disciplina specifica per siti di interesse nazionale.
Di fondamentale importanza è la distinzione tra risarcimento in forma specifica e
risarcimento per equivalente, posta dall’art. 2058 codice civile, che si traduce, nel
campo della tutela ambientale, nella distinzione tra bonifica e risarcimento del
danno ambientale, dove la bonifica costituisce il mezzo di ripristino delle matrici
ambientali contaminate, se c’è il rischio di effetti nocivi per la salute umana. Il
risarcimento del danno ambientale è il ristoro del danno arrecato alla risorsa
ambientale in sé, o alle utilità assicurate dalla risorsa stessa.
Il criterio interpretativo di fondo delle norme sul danno ambientale sembra si
debba individuare nella bipartizione tra riparazione in forma specifica, sotto forma
di messa in sicurezza o di bonifica.
La riconducibilità di entrambe le forme di tutela nel meccanismo del risarcimento,
costituisce un argomento di non secondaria importanza per qualificare sul piano
soggettivo in maniera omogenea la responsabilità per danno ambientale.
Il modello della responsabilità per colpa, oggi si può dire affermato con chiarezza
dalle norme sulla Responsabilità per danno ambientale contenute nella parte
sesta del D.Lgs. 152 del 2006, mentre manca un’affermazione esplicita di questo
principio con riferimento all’istituto della bonifica.
Si può, infine, sottolineare che l’obbligo di bonifica corrisponde all’esecuzione in
forma specifica del risarcimento del danno ambientale.
Sarebbe illogico e contraddittorio ritenere che la regola di responsabilità valevole
per il danno ambientale, cioè per il risarcimento per equivalente, non valga per la
bonifica, cioè per il risarcimento in forma specifica.
Sotto questo aspetto, entrambe le forme di risarcimento rappresentano due
aspetti, inscindibilmente connessi dello stesso meccanismo riparatorio.
Il principio fondamentale in materia di danno ambientale è oggi quello per il quale,
a norma dell’articolo 311, comma 2 del D.Lgs. n. 152 del 2006, il responsabile è
obbligato in via prioritaria al ripristino della precedente situazione, o in mancanza,
al risarcimento per equivalente patrimoniale.
4) Misure e obblighi per la riparazione del danno
Sempre l’art. 25 della “legge Comunitaria” ha poi profondamente modificato il
secondo e il terzo comma dell’art. 311 del “Codice dell’Ambiente”. Al secondo
comma, in pratica, si statuisce che: «quando si verifica un danno ambientale»,
sia che venga cagionato dagli operatori le cui attività sono elencate nell’allegato
5, sia che venga provocato anche da «chiunque altro cagioni un danno
ambientale con dolo o colpa», i danneggianti sono obbligati primariamente
«all’adozione delle misure di riparazione di cui all’allegato 3 alla medesima parte
sesta secondo i criteri ivi previsti».
Solamente nel caso in cui: «quando l’adozione delle misure di riparazione
anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo
incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il ministro dell’Ambiente e
della tutela del territorio determina i costi delle attività necessarie a conseguirne
la completa e corretta attuazione, e agisce nei confronti del soggetto obbligato
per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti»4 (la possibilità di chiedere
la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, del resto, secondo la Suprema
4
Cass. 10.12.2012 n. 22382.
9
Corte, deve intendersi compresa, sebbene non espressamente formulata, nella
generica domanda di risarcimento del danno). Al terzo comma dell’art. 311 viene
poi previsto che: «Il ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio provvede in
applicazione dei criteri enunciati negli allegati 3 e 4 della presente parte sesta
alla determinazione delle misure di riparazione da adottare, e provvede con le
procedure di cui al presente titolo terzo all’accertamento delle responsabilità
risarcitorie».
5) Valutazione economica e responsabilità individuale
I criteri e i metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la portata
delle misure di riparazione complementare e compensativa verranno definiti: “con
decreto del ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, sentito il ministro
dello sviluppo economico, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata
in vigore della presente disposizione, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della
legge 23 agosto 1988, n. 400 in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3
dell’allegato 3”.
Tali criteri e metodi dovranno essere applicati: «anche ai giudizi pendenti non
ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del
decreto, di cui al periodo precedente»5 (sulla portata retroattiva anche dei criteri
individuati dalla precedente versione dell’art. 311 secondo comma del “Codice
dell’Ambiente”). Il legislatore, infine, ha ribadito nell’ultima parte dell’art. 311 il
principio importantissimo della responsabilità individuale (e non solidale) del c.d.
“danno ambientale”: “nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno
risponde nei limiti della propria responsabilità personale. Il relativo debito si
trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi, nei limiti del loro effettivo
arricchimento”.
c. Attività militari e danno ambientale
Il decreto legislativo 152/2006 all’art. 303 comma 1 lett. e), prescrive che le norme
in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente non si applicano “alle
attività svolte in condizioni di necessità ed aventi come scopo esclusivo la difesa
nazionale, la sicurezza internazionale o la protezione dalle calamità naturali”.
Tale esclusione è ribadita dall'art. 369 del decreto legislativo 66/2010 (Codice
dell’Ordinamento militare – COM).
Ci si chiede quindi cosa debba intendersi per “condizione di necessità”: è una
condizione di impossibilità di fare diversamente o la si deve intendere come ciò che
è e non può non essere, ovvero si tratta di una necessità contingente,
momentanea, occasionale o è una condizione ontologica dell'attività militare?
L'art. 356 del Codice dell'Ordinamento Militare nel richiamare, per i beni e le attività
dell'Amministrazione della Difesa e delle Forze Armate, l'applicazione delle vigenti
norme in materia di ambiente nei limiti di compatibilità con gli speciali compiti e
attività da esse svolti, impone di tener conto “delle insopprimibili esigenze connesse
all'utilizzo dello strumento militare”.
Il successivo art. 357, con riferimento al rapporto tra attività addestrative e tutela
ambientale, stabilisce che l'Amministrazione della Difesa, nell'ambito delle aree di
uso esclusivo delle Forze Armate, ha la possibilità di stipulare convenzioni
finalizzate alla tutela ambientale che regolamentino l'attività, con amministrazioni o
enti, mentre, nelle ipotesi di aree addestrative non demaniali e di poligoni
semipermanenti od occasionali che insistono in parchi o aree sottoposte a tutela
ambientale, l'utilizzazione ed il mantenimento dei siti si attua a mezzo di un più
5
Cass. 22.03.2011 n. 6551.
10
ampio protocollo d'intesa tra AD, Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio
e del mare, il Corpo Forestale dello Stato ed Ente gestore del parco.
Si evince, pertanto, come occorra sempre un raccordo tra le esigenze della difesa e
quelle di tutela ambientale, sebbene alla luce degli speciali compiti e attività svolte
dalle Forze Armate.
Pertanto, vi è un espresso richiamo all'applicazione generale della vigente
normativa ambientale anche per l'AD, salvo specifici casi di deroga, conformemente
al “Principio dell'azione ambientale” sancito nell'art. 3 - ter D.Lgs. 152/2006 il quale
richiama alla garanzia di applicazione della tutela dell'ambiente, degli ecosistemi
naturali e del patrimonio culturale, «tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone
fisiche e giuridiche pubbliche o private» i quali devono porre in essere una
adeguata azione informata ai principi della precauzione, dell'azione preventiva,
della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché
al principio «chi inquina paga» che, ai sensi dell'articolo 174, comma 2, del Trattato
delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale;
inoltre l'AD nel disciplinare la propria attività è tenuta al rispetto degli altri principi
generali previsti nel D.Lgs. n. 152/20066. Le Forze Armate sono, altresì, tenute al
6
D.Lgs. n. 152/2006, Parte I:
Art. 2 Finalità
1. Il presente decreto legislativo ha come obiettivo primario la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da
realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e
razionale delle risorse naturali.
2. Per le finalità di cui al comma 1, il presente decreto provvede al riordino, al coordinamento e all'integrazione
delle disposizioni legislative nelle materie di cui all'articolo 1, in conformità ai principi e criteri direttivi di cui ai
commi 8 e 9 dell' Art. 1 della legge 15 dicembre 2004, n. 308, e nel rispetto degli obblighi internazionali,
dell'ordinamento comunitario, delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali.
3. Le disposizioni di cui al presente decreto sono attuate nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie
previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Art. 3-bis. Principi sulla produzione del diritto ambientale
l. I principi posti dalla presente Parte prima e dagli articoli seguenti costituiscono i principi generali in tema di
tutela dell'ambiente, adottati in attuazione degli articoli 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 della Costituzione e
nel rispetto degli obblighi internazionali e del diritto comunitario.
2. I principi previsti dalla presente Parte Prima costituiscono regole generali della materia ambientale nell'adozione
degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell'emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed
urgente.
3. Le norme di cui al presente decreto possono essere derogate, modificate o abrogate solo per dichiarazione
espressa da successive leggi della Repubblica, purché' sia comunque sempre garantito il rispetto del diritto
europeo, degli obblighi internazionali e delle competenze delle Regioni e degli Enti locali.
Art. 3-ter. Principio dell'azione ambientale
1. La tutela dell'ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti
pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia
informata ai principi della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni
causati all'ambiente, nonché al principio «chi inquina paga» che, ai sensi dell'articolo 174, comma 2, del Trattato delle
unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale.
Art. 3-quater. Principio dello sviluppo sostenibile
1. Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello
sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa
compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.
2. Anche l’attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile
del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell'ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati
connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di
prioritaria considerazione.
3. Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo
sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell'ambito delle risorse ereditate, tra quelle da
risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell'ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca
altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell'ambiente anche futuro.
11
rispetto della normativa indicata nella Parte VI del Testo unico sull'ambiente
inerente la disciplina del risarcimento del danno ambientale, ove viene in rilievo, la
previsione dell'esclusione della responsabilità per le attività svolte in condizioni di
necessità ed aventi come scopo esclusivo la difesa nazionale e la sicurezza
internazionale.
Alla luce di quanto sopra esposto, sembra potersi escludere che il concetto di
necessità qui richiamato possa riferirsi, tout cour ed aprioristicamente, all'intera
attività delle Forze Armate, istituzionalmente volte a garantire la difesa nazionale e
la sicurezza internazionale; sembra, invece, più opportuno ritenere che il legislatore
abbia voluto riferirsi ad attività che, in quel momento in cui sono state poste in
essere non potevano non essere svolte, per quei determinati fini; quindi si tratta di
attività legate ad esigenze contingenti, non strutturali, come possono essere le
esercitazioni normalmente programmate nei poligoni. Nel nostro ordinamento è già
presente la nozione di “stato di necessità” con cui si fa riferimento ad una situazione
di particolare urgenza o emergenza cui l’ordinamento giuridico riconosce particolare
rilevanza; trattasi di un istituto che affonda le sue radici nel diritto romano, ove il
principio “necessitas non habet legem”.
Tale fenomeno taglia trasversalmente l’ordinamento stesso, interessando il diritto
civile, penale ed amministrativo. Invero, il legislatore civile contempla detto
fenomeno all’interno dell’ art. 2045 c.c., quale circostanza che esclude la
responsabilità civile da fatto illecito (residua un obbligo di indennizzo). Inoltre,
numerosi autori scorgono tale figura nello “stato di pericolo” che, ai sensi dell’art.
1447 c.c., funge da presupposto operativo del rimedio contrattuale della
rescissione, pur non risultando necessaria la “non volontaria causazione”7.
La responsabilità civile sorge allorché vi sia un fatto illecito - individuato in un
comportamento umano ovvero in una situazione di relazione con l'autore del fatto o
con la cosa da cui il danno è derivato - che determina un danno ingiusto.
Quest'ultimo consiste nella lesione di un interesse giuridicamente protetto nella vita
di relazione, che si pone quale conseguenza immediata e diretta del fatto
medesimo. Può accadere che, pur in presenza dei suindicati presupposti, la legge
escluda la sussistenza, in tutto o in parte, dell'obbligazione risarcitoria. Al riguardo è
opportuno, tuttavia, precisare che, in realtà, tale sussistenza è solo apparente,
poiché nelle fattispecie disciplinate vi sono alcuni dei requisiti previsti dalla legge ai
quali non è possibile attribuire la qualificazione necessaria per definire ingiusto il
4. La risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali deve essere cercata e trovata nella prospettiva di
garanzia dello sviluppo sostenibile, in modo da salvaguardare il corretto funzionamento e l'evoluzione degli
ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività umane.
Art. 3-quinquies. Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione
1. I principi contenuti nel presente decreto legislativo costituiscono le condizioni minime ed essenziali per assicurare
la tutela dell'ambiente su tutto il territorio nazionale;
2. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell'ambiente
più restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché' ciò non comporti un'arbitraria
discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali.
3. Lo Stato interviene in questioni involgenti interessi ambientali ove gli obiettivi dell'azione prevista, in
considerazione delle dimensioni di essa e dell’entità dei relativi effetti, non possano essere sufficientemente realizzati
dai livelli territoriali inferiori di governo o non siano stati comunque effettivamente realizzati.
4. Il principio di sussidiarietà di cui al comma 3 opera anche nei rapporti tra regioni ed enti locali minori. Qualora
sussistano i presupposti per l'esercizio del potere sostitutivo del Governo nei confronti di un ente locale, nelle materie
di propria competenza la Regione può esercitare il suo potere sostitutivo.
7
Art. 2045 cc - Stato di necessità
Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al
danneggiato è dovuta un' indennità la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice.
12
danno che si realizza. Emerge un'esigenza di contemperamento degli opposti
interessi che, in circostanze particolari, inducono a limitare o addirittura ad
escludere la stessa responsabilità; l'art. 2045 c.c. prevede comunque la
corresponsione di una indennità la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del
giudice.
Quanto al profilo amministrativo, lo stato di necessità costituisce la “ratio”
giustificatrice delle ordinanze contingibili ed urgenti, provvedimenti destinati a fare
fronte a situazioni di “urgenza qualificata”, idonei a derogare alla disciplina
legislativa di rango ordinario, nonché al principio di tipicità e nominatività degli atti
amministrativi, sebbene per il tempo strettamente necessario al componimento
dell’urgenza stessa (si veda, ad es., art. 54 TUEL).
Il codice penale8 disciplina espressamente lo stato di necessità all’interno dell’art.
54, che prevede la non punibilità di chi commette un fatto corrispondente alla
descrizione operata da una norma incriminatrice per esservi stato costretto dalla
necessità di salvare sé od altri dal pericolo di un danno grave alla persona, da lui
non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, e sempre che il fatto sia
proporzionato al pericolo, ferma restando la necessaria corresponsione di
un’indennità nei confronti del danneggiato (come desumibile dalla contestuale
lettura dell’ art. 2045 c.c.). Pertanto, la causa di esclusione prevista dal legislatore
ex art. 303, comma 1, lett. e) del D.Lgs n. 152/2006 e richiamata dall'art. 369 D.Lgs
n. 66/2010 (COM) e riferita alla natura dell'attività svolta, circoscrive la
responsabilità risarcitoria della Difesa, aggiungendosi al già riconosciuto principio
scriminante dello stato di necessità e, parimenti, da valutare caso per caso.
Sembra, inoltre, che l'AD, contrariamente a quanto accade ex art. 2045 cc, in tali
ipotesi, non sia tenuta alla corresponsione di un indennizzo; deve comunque
provvedere ad adottare le misure di bonifica ai sensi della Parte IV, titolo V D.Lgs n.
152/2006.
8
Art. 54 c.p. Stato di necessità.
Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che
il fatto sia proporzionato al pericolo.
Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui
minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.
13
3. MISURE AMBIENTALI IN AMBITO DIFESA
a. Misure preventive: disciplina dei poligoni
Come detto, la disponibilità sul territorio nazionale di poligoni per l'approntamento e
l'addestramento dei contingenti militari nonché per le attività di sperimentazione dei
nuovi sistemi d’arma, risulta determinante per la preparazione, l’addestramento,
l'operatività e la sicurezza del personale militare impegnato in Patria e nelle diverse
missioni internazionali. La possibilità di svolgere tali attività è particolarmente
importante, oltre che per scontate motivazioni economiche e temporali, perché
consente di mantenere un elevato livello di riservatezza, minimizzando cosi il rischio
che prove o cicli addestrativi condotti su Poligoni esteri potrebbero portare ad una
indesiderata dispersione di informazioni operative.
Le aree preposte a tali scopi sono presenti su tutto il territorio nazionale e sono
definite nel dettaglio dal Comitato Misto Paritetico9 (Co.Mi.Pa.) in accordo con
ciascuna Regione.
Il Co.Mi.Pa. è un organo di reciproca consultazione tra l’Amministrazione Difesa (AD)
e le Regioni per l'esame dei problemi connessi all'armonizzazione tra i piani di
assetto territoriale e di sviluppo economico e sociale della regione e delle aree
subregionali ed i programmi delle installazioni militari e delle conseguenti limitazioni.
Tale Comitato è altresì consultato semestralmente su tutti i programmi delle
esercitazioni a fuoco di reparto o di unità, per la definizione delle località, degli spazi
aerei e marittimi regionali, del tempo e delle modalità di svolgimento, nonché
sull'impiego dei poligoni della regione. Qualora la maggioranza dei membri designati
dalla regione si esprima in senso contrario, sui programmi delle attività addestrative
decide in via definitiva il Ministro della Difesa, sentiti preliminarmente il presidente
della giunta regionale e il presidente del comitato misto paritetico competenti.
In particolare, il Comitato è formato da cinque rappresentanti del Ministero della
Difesa, da due rappresentanti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, designati
dai rispettivi Ministri, e da sette rappresentanti della regione nominati dal presidente
della Giunta regionale, su designazione, con voto limitato, del consiglio regionale.
Per ogni membro è nominato un supplente (cfr esempio in Allegato “E”).
Il Co.Mi.Pa. si riunisce a richiesta del comandante militare territoriale di regione o del
comandante in capo di dipartimento militare marittimo o del comandante di regione
aerea o del presidente della regione; presiede l'ufficiale generale o ammiraglio più
elevato in grado o più anziano. Delle riunioni del comitato è redatto verbale che
conterrà le eventuali proposte di membri discordanti sull'insieme della questione
trattata o su singoli punti di essa.
Al fine di poter operare in sicurezza e nel rispetto delle normative nazionali, anche in
tema di tutela ambientale, le Forze Armate conducono le proprie attività istituzionali
nel rispetto delle norme volte a garantire l'incolumità del proprio personale, la
salvaguardia della popolazione e la tutela dell’ambiente, mettendo in atto le misure
idonee a limitare e ridurre al minimo il relativo impatto. Ciò si esplica nella
predisposizione, per ciascun poligono, di un Disciplinare d’uso e correlato
Regolamento.
I Regolamenti disciplinano lo svolgimento di tutte le attività istituzionali del Poligono,
le procedure per l’identificazione e l’attuazione dei programmi, i compiti e le
9
Legge 24 Dicembre 1976, n. 898, Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 Codice dell'Ordinamento Militare art 322,
DPR - 15 marzo 2010, nr. 90 - Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare Tit VI
art 428 e ss.
14
responsabilità, definiti in analogia alle specifiche direttive dello SMD10 laddove
emanate.
Peraltro, dal confronto dei Regolamenti dei principali poligoni (PISQ, Teulada,
Cellina-Meduna) risulta una sostanziale coerenza riguardo ai contenuti ed alla loro
organizzazione benché sia evidente l’opportunità di raccordare in maniera unitaria
nomenclature e procedure. In quest’ottica, la recente emanazione del Disciplinare
d’uso del PISQ, i cui contenuti sono stati approvati dal Capo di SMD, può costituire
un modello di riferimento per quanto attiene alle modalità di stesura dei documenti,
degli allegati e della modulistica rivolta agli utilizzatori del poligono, garantendo il
rispetto delle normative e costituendo, altresì un adeguato supporto nella eventuale
gestione del contenzioso in ambito di tutela ambientale.
b. Misure di ripristino: bonifica ambientale
Per il fatto che le esercitazioni militari sono mosse da motivi imperativi di rilevante
interesse pubblico, pur comportando, in potenza, effetti con incidenza negativa per
l’ambiente, il loro svolgimento è comunque assicurato, sebbene adottando adeguate
misure di compensazione. Tra tali misure rientra il ripristino dell'habitat naturale, nel
rispetto degli obiettivi di conservazione del sito impiegato.
Gli utenti di un poligono devono pertanto, al termine delle attività, ripristinare le
condizioni dello stesso, col duplice fine di renderlo nuovamente utilizzabile dal punto
di vista operativo e di limitare l’impatto ambientale conseguente. La rimozione dei
residuati dai siti rientra quindi tra le misure volte a proteggere l'ambiente e la salute
umana, riducendo altresì gli impatti negativi della produzione e della gestione dei
rifiuti. Inoltre, le misure di compensazione devono essere monitorate con continuità
per verificare la loro efficacia a lungo termine per il raggiungimento degli obiettivi di
conservazione previsti e per provvedere all'eventuale loro adeguamento.
La disciplina per la bonifica dei siti trae le mosse dal citato Decreto Legislativo n. 152
del 3 aprile 2006, che disciplina la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinati
anche in attuazione delle direttive comunitarie (in particolare della direttiva
2008/98/CE11). Lo Stato, le regioni, le province autonome e gli enti locali esercitano
altresì i poteri e le funzioni di rispettiva competenza in materia di gestione dei rifiuti,
adottando ogni opportuna azione ed avvalendosi, ove opportuno, mediante accordi,
contratti di programma o protocolli d'intesa (anche sperimentali), di soggetti pubblici o
privati.
Le modalità di intervento nelle aree del demanio destinate ad uso esclusivo delle
Forze Armate, per attività connesse alla difesa nazionale, sono determinate
mediante l’applicazione di una idonea analisi di rischio che deve tenere conto
dell'effettivo utilizzo e delle caratteristiche ambientali di dette aree o di porzioni di
esse e delle aree limitrofe, al fine di prevenire, ridurre o eliminare i rischi per la salute
dovuti alla potenziale esposizione a sostanze inquinanti e la diffusione della
contaminazione nelle matrici ambientali.
Qualora gli esiti della procedura dell'analisi di rischio dimostrino che la
concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è superiore ai valori di
concentrazione soglia di rischio (CSR), il soggetto responsabile presenta il progetto
10
SMD – L – 014 “Direttiva sull'organizzazione, impiego e funzionamento del poligono sperimentale e di
addestramento interforze di Salto di Quirra” ed 2003.
11
Al riguardo, si è provveduto a verificare il rispetto di tali direttive in un Paese quale la Francia. Dall’analisi delle
normative transalpine si evince la stessa attenzione per la tutela dei siti addestrativi, prevedendo oltre alla bonifica
ordinaria dopo ogni esercitazione, una bonifica straordinaria annuale. I regolamenti poligono (un esempio in allegato
“F”) fanno riferimento ad un unico decreto (cfr allegato “G”) che, seppur con le dovute differenze, può essere
paragonato alla regolamentazione di utilizzo dei poligoni e di tutela ambientale emanata in Italia a livello interforze.
15
operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente,
e ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, al fine di
minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di
contaminazione presente nel sito.
Ai fini dell'individuazione delle misure di prevenzione, messa in sicurezza e bonifica,
e dell'istruttoria dei relativi progetti, da realizzare nelle aree del demanio destinate ad
uso esclusivo delle Forze Armate per attività connesse alla difesa nazionale, si
applicano concentrazioni di soglia di contaminazione12 (CSC), che tengono conto
delle diverse destinazioni e delle attività effettivamente condotte all'interno delle aree
militari.
Sono altresì previsti criteri per la selezione e l'esecuzione degli interventi di bonifica e
ripristino ambientale, di messa in sicurezza operativa o permanente, nonché per
l'individuazione delle migliori tecniche di intervento a costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C.
- Best Available Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle normative
comunitarie.
Il Decreto del Ministro della Difesa del 22 ottobre 2009 sulla gestione dei materiali e
dei rifiuti e la bonifica dei siti e delle infrastrutture direttamente destinati alla difesa
militare e alla sicurezza nazionale, disciplina le azioni da intraprendere al verificarsi
di un evento potenzialmente in grado di contaminare un sito. In particolare, vengono
devolute al Comandante, o al Direttore responsabile dell'area, le necessarie misure
di prevenzione e il compito di informare i superiori gerarchici e le competenti unità
organizzative dello Stato Maggiore di Forza Armata o del Comando Generale
dell'Arma dei Carabinieri, nonché dello Stato Maggiore della Difesa e del
Segretariato Generale della Difesa/Direzione Nazionale Armamenti. La
comunicazione ricomprende tutti gli aspetti attinenti alla situazione e, in particolare, le
caratteristiche del sito interessato, le matrici ambientali presumibilmente coinvolte e
una sintetica descrizione delle misure adottate. La comunicazione abilita il
Comandante o Direttore responsabile dell'ente alla realizzazione degli interventi
necessari per impedire o minimizzare un eventuale danno ambientale. Egli, qualora
accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione non sia stato
superato provvede al ripristino della zona contaminata informandone le stesse
autorità di cui sopra.
Se invece le CSC sono superate, la comunicazione interessa anche il Prefetto, il
Comune, la Provincia e la Regione competenti per territorio. Inizia quindi un iter che
porterà all’analisi del rischio che, se la concentrazione dei contaminanti presenti nel
sito è inferiore alle CSR, concluderà il procedimento, con un eventuale svolgimento
di un programma di monitoraggio sul sito, circa la stabilizzazione della situazione
riscontrata in relazione agli esiti dell'analisi di rischio e alla destinazione d'uso.
Altrimenti, nel caso in cui le attività di monitoraggio rilevino il superamento di una o
più delle concentrazioni soglia di rischio, si procede con le procedure di bonifica.
I disciplinari per la tutela ambientale dei poligoni nazionali, pertanto, dettagliano le
procedure di ripristino, nonché le necessarie figure responsabili e la relativa
reportistica.
Durante lo svolgimento delle attività, ai fini della tutela ambientale, dovrà essere
esercitato un controllo congiunto dal Servizio di Tutela Ambientale e dal
Responsabile Ambientale nominato dall'Utente, che redigerà i rapporti di bonifica e
presenterà l’eventuale rapporto di analisi di laboratorio su tutte le matrici ambientali
interessate dall’attività (suolo, acqua, aria), volte a rilevare l’eventuale superamento
dei limiti soglia di contaminazione previsti. Nel caso in cui si dovesse presentare
12
elencate nelle colonne A e B della tabella 1 dell'allegato 5, alla parte quarta, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e
successive modificazioni.
16
l’impossibilità di recuperare residuati dell’attività lasciati su terra o sul fondale marino,
nonché l’impossibilità per motivi tecnici di disattivare e recuperare/brillare ordigni
inesplosi lasciati su terra o sul fondale marino, si dovranno produrre le necessarie
dichiarazioni di responsabilità.
Il compito del ripristino viene sempre devoluto all’Utente che, in linea di massima
dovrà provvedere, con oneri a proprio carico, alla rimozione di tutti i materiali di
risulta delle attività, con particolare riguardo a bossoli, contenitori, residuati metallici,
plastica e rifiuti di qualsiasi tipologia. Tale attività, rientra in quella che definiremo di
bonifica ecologica. Anche la bonifica operativa, ovvero le operazioni di
disattivazione/distruzione di ordigni, deve essere condotta a cura dell’Utente con
oneri a proprio carico, con i mezzi tecnologicamente idonei, avvalendosi
eventualmente anche di quelli a disposizione della Difesa e, qualora necessario,
ricorrendo anche ad articolazioni nazionali o sovranazionali specializzate nel settore.
In taluni casi, come per esempio riguardo le attività condotte in mare, il recupero dei
residuati può avvenire per mezzo di specifiche campagne periodiche, condotte con
assetti Marina Militare e/o Ditte Civili, sulla base di attività contrattuali a cura del
poligono. Il compito di verificare la corretta esecuzione delle operazioni di ripristino è
altresì devoluto al Comando del poligono stesso.
c. Analisi delle misure adottate
Le Forze Armate conducono le proprie attività istituzionali nel rispetto delle norme
volte a garantire l'incolumità del proprio personale, la salvaguardia della popolazione
e la tutela dell’ambiente, mettendo in atto le misure idonee a limitare e ridurre al
minimo il relativo impatto ambientale, nonché ad escludere la risarcibilità del danno.
La necessità di operare in ambienti circoscritti e sicuri impone il raggiungimento di un
ponderato equilibrio tra le esigenze addestrative delle F.A. e la tutela dell'ambiente.
Pertanto, le attività svolte nei poligoni sul territorio italiano devono essere effettuate
adottando tutte le possibili misure finalizzate alla salvaguardia ambientale.
Per quanto sopra, lo Stato pone in essere delle rigide misure precauzionali/di
controllo, per lo svolgimento delle attività di cui sopra affinché, al termine di ogni
attività addestrativa, vengano ripristinate le condizioni ex ante dell'area utilizzata.
In particolare da un esame dei disciplinari13 in uso presso i Poligoni siti nel territorio
nazionale, risultano definite in maniera puntuale e dettagliata, sia le norme di
riferimento, che la loro applicazione e ciò sia in relazione all’ente responsabile della
gestione del Poligono sia agli utenti coinvolti nella specifica attività.
Ogni poligono sul territorio nazionale, prevede delle modalità e procedure dettagliate
(disciplinare ambientale) che puntano al rispetto dei principi comunitari in materia14.
Le attività dei poligoni si svolgono in conformità al programma operativo annuale
approvato (per ogni singolo poligono) dal Capo di Stato Maggiore della Difesa/Capo
di Stato Maggiore di Forza Armata.
La direzione del poligono provvederà a rilasciare il “Nulla Osta di Inizio Attività” che
sarà subordinato alla completezza della documentazione richiesta.
Durante lo svolgimento delle attività, ai fini della tutela ambientale, viene esercitato
13
Documento stipulato e sottoscritto dal Comando Militare competente per territorio e la rispettiva Regione
Amministrativa, nel quale sono concordati: limiti del poligono, modalità di utilizzazione, tipologia di armamento e
quantità di esplosivo, indirizzi in materia di danni e incendi, pagamento della tassa rifiuti ed eventuali reclami (Vds.
Allegati).
14
- il principio di precauzione, che impone di attuare senza indugio azioni di contrasto nelle ipotesi in cui ricorra una
minaccia di danni “gravi o irreversibili” per l’ambiente, pur senza disporre di certezze scientifiche assolute sui reali
pericoli;
- il principio “chi inquina paga”.
17
un controllo congiunto dal Servizio di Tutela Ambientale e dal Responsabile
Ambientale nominato dall'Utente.
In considerazione dei possibili effetti che le attività, soprattutto quelle a fuoco,
potrebbero produrre sull’ambiente, le stesse dovranno essere pianificate, approvate
e attuate con l’adozione di tutti gli opportuni accorgimenti volti ad eliminare o
minimizzare l’impatto ambientale che ne potrebbe derivare.
I soggetti istituzionali interessati, ai fini ambientali, sono:
- Ministero della Difesa;
- Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM);
- Regione interessata con i rispettivi Assessorati e Agenzie competenti (Ambiente,
Sanità, ARPA);
- Co.Mi.Pa., al cui parere viene sottoposta, con adeguato anticipo, la pianificazione
delle attività e del materiale da impiegare durante le operazioni (Poligono
interforze di Salto di Quirra);
- Provincia e comuni interessati;
- Corpo Forestale di Vigilanza Ambientale della Regione amministrativa.
Al fine di garantire la tutela ambientale, viene posto in essere un monitoraggio
ambientale dell’area del poligono in tutte le sue componenti: aria, suolo, acque, flora
e fauna.
Gli Enti preposti al monitoraggio ambientale sono gli Enti dell’Amministrazione Difesa
aventi responsabilità e competenze nell’ambito del monitoraggio ambientale e che si
avvalgono, soprattutto per gli aspetti tecnici specifici, degli di Enti specializzati nel
settore, quali Enti dell’AD, Ditte/Società e Istituti a carattere tecnico-scientifico
convenzionati.
Per quanto riguarda le modalità esecutive, gli Enti facenti capo all’AD15, con il
supporto delle Direzioni Tecniche competenti che provvedono a censire i materiali di
armamento utilizzati presso il poligono, curano la redazione delle procedure relative
a tutte le attività con potenziale impatto ambientale significativo verificando,
attraverso successive campagne di misurazioni e rilevamenti, il non superamento dei
limiti stabiliti dalle leggi in vigore.
In quest’ottica, è previsto che il personale dell’AD, preposto al controllo, sia
adeguatamente qualificato attraverso corsi di formazione effettuati presso organismi
dell’Amministrazione Difesa, Enti istituzionali e/o privati, in base alle esigenze
derivanti dalle esercitazioni svolte presso il poligono e sono in corso attività
prodromiche alla realizzazione di adeguati percorsi formativi.
Naturalmente, il personale utente, militare e/o civile, viene opportunamente
informato, a cura dei Responsabili Ambientali dei rispettivi reparti, sulle normative di
tutela ambientale, nonché su quelle specificamente in vigore presso il poligono.
Gli utilizzatori, al termine delle attività addestrative/sperimentali, provvedono alla
bonifica ed al ripristino delle aree interessate all’attività addestrativa. Le suddette
attività sono documentate con la redazione dei seguenti documenti:
- Rapporto di Bonifica Operativa;
- Rapporto di Ripristino Ambientale e di inesistenza di eventuali focolai d’incendio.
In conclusione, le F.A. pongono in essere tutte le misure possibili atte ad evitare
qualsiasi danno ambientale e, la risarcibilità di quest'ultimo è da escludere qualora
tutte le attività siano state svolte secondo quanto stabilito nei disciplinari ambientali e
nel rispetto delle pianificazioni delle attività approvate dai soggetti istituzionali esterni
al dicastero difesa sopra menzionati.
15
Centro Tecnico Logistico Interforze NBC (CETLI NBC), Centro Interforze Studi e Applicazioni Militari (CISAM).
18
4. CAUSE DI ESCLUSIONE RISARCIBILITA’
a. Confronto tra interessi costituzionalmente garantiti
In merito alle condizioni ed ai limiti di liceità dell’impiego di mezzi e strumenti di
difesa militare del territorio in tempo di pace possono sorgere preoccupazioni con
riferimento al vulnus arrecato all’eventuale danno ambientale derivante dalle attività
di addestramento condotte all’interno dei poligoni di tiro con l’impiego di strumenti
preposti a garanzia della difesa e sicurezza del territorio, ovvero funzionali
all’espletamento dei compiti istituzionali propri dell’amministrazione militare.
Pur non essendo stata riscontrata la presenza di munizionamento arricchito con
uranio impoverito impiegato all’interno del territorio nazionale, sono state però
accertate possibili fonti di contaminazione, causa di degrado ambientale, frutto di
un’insufficiente opera di bonifica, dovuta ex lege, in seguito alla conclusione delle
attività addestrative che ingenera anche l’insorgenza di consistenti esborsi economici
correlati alle risorse da impiegare in conseguenza della “tardiva” messa in sicurezza
del territorio.
Acclarate dette criticità, è stata così ben accolta l’idea di predisporre un «modello
avanzato di “disciplinare di tutela ambientale” da adottarsi per tutti i poligoni, che
dovrebbe prevedere la valutazione delle caratteristiche naturali e la determinazione
dei limiti d’impiego specifici per ciascun sito; l’adozione di più dettagliate “schede di
sicurezza ambientale integrate” per le diverse tipologie di armamento; la definizione
di elementi organizzativi e procedurali della struttura di prevenzione e protezione in
materia di sicurezza del lavoro; l’effettuazione di periodiche e mirate campagne di
monitoraggio»16.
Ciò allo scopo di “assicurare anzitutto a chi risiede all’interno o ai margini di essi, che
le attività si svolgano in sicurezza e senza rischi per la salute e l’ambiente,
rimuovendo una condizione di incertezza che si protrae da anni e che si ritorce solo
in un danno per i residenti e per le economie locali, colpite nelle loro produzioni
tradizionali, soprattutto agropastorali, senza che interventi adeguati, anche della
mano pubblica, consentano di assicurare un effettivo sostegno all’occupazione,
realizzabile solo attraverso l’attuazione di un programma di riutilizzo del territorio che,
una volta risanato, deve anche godere di vere opportunità di crescita”17.
Di recente, poi, preoccupazioni similari, ancorate al problema del bilanciamento tra
esigenze di difesa e sicurezza e salvaguardia dell’integrità dell’habitat naturale e
della salute della popolazione, sono sorte in merito alla predisposizione di adeguate
misure di tutela in favore delle comunità locali il cui territorio è interessato
dall’installazione di infrastrutture deputate alla difesa militare suscettive di
ingenerare, però, l’insorgenza della possibile esposizione a pericolo della salubrità
16
Cfr. Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale
italiano impiegato all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, in relazione
all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno, con particolare
attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle
di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni. Relazione sulle risultanze
delle indagini svolte dalla Commissione. Approvata dalla Commissione nella seduta del 9 gennaio 2013, in
www.senato.it , 68 s.
17
Cfr. cit. Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale
italiano impiegato all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, in relazione
all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno, con particolare
attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle
di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni. Relazione sulle risultanze
delle indagini svolte dalla Commissione. Approvata dalla Commissione nella seduta del 9 gennaio 2013, in
www.senato.i t, 95 s.
19
dei luoghi.
Tali vicende hanno costituito già in passato – e tuttora rappresentano – il banco di
prova in merito all’accertamento del riconoscimento in capo alla cittadinanza della
facoltà di influenzare le politiche di difesa laddove queste si traducano nella
potenziale aggressione ad interessi fondamentali dell’individuo non immediatamente
connesse ad emergenze belliche ma, per contro, correlate ad attività di pianificazione
urbanistica ed infrastrutturale di dotazioni funzionali all’assolvimento dei compiti
istituzionali cui l’amministrazione militare è deputata.
In tal senso, assume un peculiare rilievo l’art. 309 d.lgs. n. 152/2006 che riconosce il
diritto di partecipazione al procedimento relativo all'adozione delle misure di
precauzione, di prevenzione o di ripristino previste in materia di tutela risarcitoria
contro i danni all'ambiente a regioni ed enti locali, anche associati, nonché alle
persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno
ambientale, o che vantino un interesse legittimante la partecipazione al
procedimento; l'applicazione di tale criterio alla dimensione processuale comporta,
da un lato, la legittimazione attiva dei residenti della zona potenzialmente interessata
dal danno e, dall'altro, la carenza di legitimatio ad causam di associazioni
temporanee volte alla protezione degli interessi di soggetti che ne sono parte,
qualora risultino prive del carattere di ente esponenziale in via stabile e continuativa
di interessi diffusi radicati nel territorio e non sia documentata la relazione degli
associati con il luogo prescelto per la realizzazione degli impianti contestati.
In tal contesto, non occorre la prova dell'esistenza di un danno concreto ed attuale al
fine di impugnare provvedimenti di localizzazione di situazioni ritenute inquinanti, in
quanto la questione della concreta pericolosità dello stesso, valutata alla luce dei
parametri normativi, è questione di merito, mentre al fine di radicare la legittimazione
e l'interesse al ricorso è sufficiente la prospettazione di temute ripercussioni su di un
territorio collocato nelle immediate vicinanze ed in relazione al quale i ricorrenti sono
in posizione qualificata, quali residenti, o proprietari, o titolari di altre posizioni
giuridiche soggettive rilevanti.
In merito, è utile ricordare che la materia ambientale, per le peculiari caratteristiche
del bene protetto, si atteggia in modo particolare: la tutela dell'ambiente, infatti, lungi
dal costituire un autonomo settore d'intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo
unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi
beni della vita che nell'ambiente si collocano (assumendo un carattere per così dire
trasversale rispetto alle ordinarie materie e competenze amministrative).
Deriva da ciò il riconoscimento della legittimazione ad impugnare atti pregiudizievoli
dell’habitat naturale in ragione dell’accertamento della sussistenza di un interesse
correlato alla salubrità dei luoghi ove sia riscontrato un significativo e stabile
collegamento con l’ambiente che s’intende proteggere.
Ne consegue che sussiste la legittimazione e l'interesse ad agire delle associazioni di
protezione ambientale, anche non individuate in base ai tradizionali criteri scolpiti
dall'art. 13 l. 8 luglio 1986 n. 349, che si costituiscono al precipuo scopo di
proteggere l'ambiente, la salute e o la qualità della vita delle popolazioni residenti
nell'ambito di un determinato territorio circoscritto nonché dei singoli individui in base
alla "vicinitas" ovvero in base al criterio, elastico, dello stabile collegamento con il
territorio oggetto della potenziale lesione ambientale. Occorre però che il sodalizio e
il singolo identifichino quale bene della vita (il paesaggio, l'acqua, il suolo, il proprio
terreno) possa essere oggetto di potenziale lesione da parte dell'iniziativa dei pubblici
poteri; non è necessario, invece, secondo siffatta prospettazione che i soggetti
interessati risiedano nei terreni direttamente toccati dall'intervento.
L'ambiente, inoltre, è un bene pubblico che non è suscettibile di appropriazione
20
individuale, indivisibile, non attribuibile, unitario, multiforme e ciò rende problematica
la sua tutela a fronte di un sistema giudiziario che non conosce, se non quale
eccezione, l'azione popolare, che guarda con sfavore la legittimazione di
aggregazioni di individui che si facciano portatori occasionali di interessi esistenti allo
stato diffuso.
Ne deriva che il soggetto singolo che intenda insorgere in sede giurisdizionale contro
un provvedimento amministrativo esplicante i suoi effetti nell'ambiente in cui vive ha
l'obbligo di identificare, innanzitutto, il bene della vita che dall'iniziativa dei pubblici
poteri potrebbe essere pregiudicato (il paesaggio, l'acqua, l'aria, il suolo, il proprio
terreno) e, successivamente, dimostrare che non si tratta di un bene che pervenga
identicamente ed indivisibilmente ad una pluralità più o meno vasta di soggetti,
nessuno dei quali ne ha però la totale ed esclusiva disponibilità (la quale costituisce
invece il connotato essenziale dell'interesse legittimo), ma che rispetto ad esso egli si
trova in posizione differenziata tale da legittimarlo ad insorgere uti singulus a sua
difesa; da qui il requisito della finitimità o vicinitas in base al quale si è riconosciuta
legittimazione ad agire al proprietario del fondo o della casa finitimi, ovvero al
comunista che vive e lavora in prossimità della potenziale fonte di pericolo per la
salute umana.
b. Giurisprudenza di supporto
Come sopra esposto, il risarcimento del danno ambientale comprende sia il
pregiudizio prettamente patrimoniale arrecato a beni pubblici o privati, sia quello
(avente anche funzione sanzionatoria) non patrimoniale, rappresentato dal “vulnus”
all’ambiente in sé e per sé considerato, costituente bene di natura pubblicistica,
unitario e immateriale. Ne consegue che la condanna del responsabile sia al
ripristino dello stato dei luoghi, sia al pagamento di una somma di denaro a titolo di
risarcimento non costituisce una duplicazione risarcitoria, allorché la prima condanna
sia volta ad elidere il pregiudizio patrimoniale e la seconda quello non patrimoniale18.
Nella prova del suddetto danno, in ogni caso, bisogna distinguere tra danno ai singoli
beni di proprietà pubblica o privata (o a posizioni soggettive individuali) che trovano
tutela nelle regole ordinarie in cui il profilo sanzionatorio nei confronti del fatto lesivo
del bene ambientale, comporta un accertamento che non è quello del mero
pregiudizio patrimoniale, bensì della compromissione dell’ambiente, vale a dire della
lesione “in sé” del bene ambientale.
Peraltro, ai fini del risarcimento del danno di natura extracontrattuale, occorre tener
conto della dirimente importanza della sussistenza del nesso causale essendo
risarcibili solo i danni legati da un nesso di causalità adeguata, o di regolarità
causale, con l'illecito; ne consegue come sia fondamentale fornire in giudizio la prova
della sussistenza del nesso eziologico tra comportamento ed evento, nonché tra
evento e danno.
A tal proposito occorre rilevare come il Giudice nomofilattico confermi la struttura
bifasica della causalità civile: causalità materiale come «nesso che deve sussistere
tra comportamento ed evento perché possa configurarsi, a monte, una responsabilità
“strutturale” e causalità giuridica ex art. 1223 c.c. come nesso che, collegando
l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con
la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata)
responsabilità risarcitoria»19.
Sono note le discussioni dottrinarie e giurisprudenziali volte ad individuare le
18
19
Cass., Sez. III, 17.4.2008 n.10118.
Cass., S.U., 11.01.2008 n.581.
21
caratteristiche del nesso causale in ambito civile al fine di ricercarne i criteri di
accertamento. Tale discussione si è acutizzata in seguito alla celebre sentenza
“Franzese” delle Sezioni Unite Penali che hanno, come noto, affermato l'insufficienza
della probabilità meramente statistica al fine dell'ascrizione di un fatto di reato al suo
autore.
Come già sottolineato in diverse pronunce di legittimità le Sezioni Unite sostengono
“l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile della elaborazione
penalistica in tema di nesso causale”. In realtà, ciò che muta tra processo penale e
quello civile è la regola probatoria in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre
ragionevole dubbio”, mentre nel secondo vige la regola della preponderanza
dell'evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel
processo penale tra accusa e difesa, e dell'equivalenza di quelli in gioco nel
processo civile tra le due parti contendenti. La regola aristotelica del “più probabile
che non” non può ancorarsi esclusivamente alla determinazione quantitativastatistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana),
che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato
riconducendone il grado di fondatezza nell'ambito degli elementi di conferma (e nel
contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso
concreto (cd. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità
come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi
elementi di conferma (cd. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). Afferma
la Cassazione nella predetta sentenza che "....ai fini della responsabilità civile ciò che
si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale”. Un “fatto” è pur sempre necessario
perché la responsabilità sorga, giacché l’imputazione del danno presuppone
l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui agli artt. 2043 e segg. c.c., le quali
risolvono tutto nella descrizione di un nesso che leghi storicamente un evento o ad
una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare
relazione con il soggetto chiamato a rispondere. Il “danno” si rileva così sotto due
profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il
primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto
dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza
del fatto lesivo (di cui è un elemento l’evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo,
ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria. Proprio in
conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea,
sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi
del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità20 e la
determinazione
dell’intero
danno
cagionato,
che
costituisce
l’oggetto
dell’obbligazione risarcitoria.
A questo secondo momento va riferita la regola dell’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art.
2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano
conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui
esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla
determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze
dannose risarcibili.
Secondo l’opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente da un
lato il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perché possa
configurarsi, a monte, una responsabilità “strutturale” (Haftungsbegrùndende
Kausalitàt) e, dall’altro, il nesso che, collegando l’evento al danno, consente
l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di
20
per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con
quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo.
22
delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria
(Haftungsausfullende Kausalitàt). Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente,
tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nel secondo comma
dell’art. 1227 c.c.: il primo comma attiene al contributo eziologico del debitore nella
produzione dell’evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento-danno
conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.
Nel macrosistema civilistico l’unico profilo dedicato al nesso eziologico è previsto
dall’art. 2043 c.c., dove l’imputazione del “fatto doloso o colposo” è addebitata a chi
“cagiona ad altri un danno ingiusto” o, come afferma l’art. 1382 Code Napoleon, “qui
cause au autrui un dommage”.
Un’analoga disposizione (sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire) non è
richiesta in tema di responsabilità cd. contrattuale o da inadempimento, perché in tal
caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente o il
debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. Questo è uno dei motivi per cui
la stessa giurisprudenza di legittimità, partendo dall’ovvio presupposto di non dover
identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie
di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di
campo, tesa a coniugare il “risarcimento del danno” (cui è dedicato l’art. 1223 c.c.)
con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l’inadempimento
dell’obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità è
stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra
comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e
conseguenze risarcibili.
Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o
extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c.c., è composto dagli artt.
1223, 1226 e 1227 c.c. e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla
disposizione dell’art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio
ricavabile dall’art. 1221 c.c. che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la
situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella
effettivamente avvenuta.
Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la
giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici di cui
agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro
se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza
del secondo (cd. teoria della condicio sine qua non). Il rigore del principio
dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p. (in base al quale, se la produzione
di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale) trova il suo temperamento nel principio di
causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’art. 41 c.p. (in base al quale
l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta
sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause
preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale
già in atto)21. Nel contempo tale relazione causale non è sufficiente per determinare
una causalità giuridicamente rilevante all’interno delle serie causali così determinate,
dovendosi dare rilievo soltanto a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento
causante, non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non
del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella
similare della c.d. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass.
6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass.
21
Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass.10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268
23
10.5.2000, n. 5962).
Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli
ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze
della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al
momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le
conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si
deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al
momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze
dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle
prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva
deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere,
operandosi una “prognosi postuma”, nel senso che si deve accertare se, al momento
in cui è avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta
discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la
più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da
critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il
giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante
verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell’elemento
soggettivo. Al riguardo, tale censura non pare condivisibile in quanto tale prevedibilità
obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da
adottare non è quello della conoscenza dell’uomo medio, ma delle migliori
conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di accertare l’elemento
soggettivo, ma il nesso causale). In altri termini, ciò che rileva è che l’evento sia
prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da parte delle regole
statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende, da parte delle stesse,
un giudizio di non improbabilità dell’evento.
Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in
astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento
dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma
violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza
comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la
colpevolezza) dell’illecito. Inoltre, se l’accertamento della prevedibilità dell’evento ai
fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe
rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo
accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la
possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell’accertamento
positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del
processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe
giovarsi l’attore sul quale grava l’onere della prova del nesso causale).
Nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine
iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006;
Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n.15789). Tale
rilievo si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della
responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio che la norma di
condotta violata tendeva a prevenire. E’ questa l’ipotesi per la quale parte della
dottrina parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che
effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema
causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo
nell’applicazione della regola di cui all’art. 40, c. 2, c.p.. Poiché l’omissione di un
certo comportamento, quale condizione determinativa del processo causale
dell’evento dannoso, rileva soltanto quando si tratti di omissione di un
24
comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica),
ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita
l’omissione22, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi
alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva
individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo
al soggetto. L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per
l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che,
se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il
dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione
del comportamento sul piano causale. La causalità nell’omissione non può essere di
ordine strettamente materiale, poiché ex nihilo nihil fit. Anche coloro (corrente
minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell’omissione e non la causalità
normativa (basata sull’equiparazione disposta dall’art. 40 c.p.), fanno coincidere
l’omissione con una condizione negativa perché l’evento potesse realizzarsi. La
causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma
omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non può riconoscersi la
responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse
stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato. In tal caso la
responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico
(l’omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento
antigiuridico), ma perché quell’omissione non è causa del danno lamentato. Il giudice
pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità
omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica)
l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di
fattori alternativi. L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso
l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento
alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno
lamentato dal danneggiato.
Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono
anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e dalla “regolarità
causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed
integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza. Tanto vale
certamente allorché all’inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o
commissiva, secondo la norma generale di cui all’art. 2043 c.c.; né può costituire
valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze
morfologiche e funzionali tra accertamento dell’illecito civile (fondato sull’atipicità
dell’illecito) ed accertamento dell’illecito penale, essendo possibili ipotesi di
responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio. La dottrina che
sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può
definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante
sfaccettature quante l’atipicità dell’illecito. Altra parte della dottrina, sulla base delle
stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità
materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella
sopra esposta, con riferimento all’art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato
ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame “causale” tra responsabile e
danno è tutto normativo.
“Ritengono queste Sezioni Unite che le suddette considerazioni non sono
22
siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi
e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di
quell’evento
25
decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo
specificare che l’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41
c.p., temperati dalla “regolarità causale”, ai fini della ricostruzione del nesso
eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di
responsabilità civile.
Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che
è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche
mancare. L’atipicità dell’illecito attiene all’evento dannoso, ma non al
rapporto eziologico tra lo stesso e l’elemento che se ne assume generatore,
individuato sulla base del criterio di imputazione. E’ vero, altresì, che,
contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della
responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta
solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la
necessità del nesso di causalità di fatto e dall’altra non modifica le regole
giuridico-logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico.”
Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di
responsabilità oggettiva. E’ esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso
da un’allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non
necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e
come è previsto dalla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., secondo il principio
classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa), ma ha una determinata
esposizione a rischio ovvero costituisce per l’ordinamento un soggetto più idoneo a
sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell’illecito, al
principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che
aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la
responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più
adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno
discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione
contraria. Sennonché il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo
ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può
anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione delle
regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della
causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi
che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o
l’ingiustizia del danno.
Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilità
oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di
imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono
nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria
dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per
colpa quest’ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della
qualificazione di quest’ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità
oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza
causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della
responsabilità. Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica “da fare
responsabile”. Ciò perché nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso
causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente
candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non
coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura,
inidonea a risolvere la questione della responsabilità. La norma di volta in volta
risolve tale questione mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una
26
qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso, in questo caso,
non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi
rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena
causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva
sulla quale deve gravare il costo del danno. Senonché, ai fini dell’individuazione del
soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è
pur sempre necessario tra l’evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del
soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad
es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt.
2051, 2052, 2054, c. 4, c.c.), posti all’inizio della serie causale. Rimane il problema di
quando e come rilevi giuridicamente tale “concatenazione causale” tra la condotta di
altri e l’evento ovvero tra il fatto di altra natura e l’evento (di cui debba rispondere il
soggetto gravato della responsabilità oggettiva).
In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, occorre
ancora far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la
particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta
del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di
imputazione e l’evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il
rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta
dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del
segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma
fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente,
insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in
assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41
c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico
paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono sorreggere
la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di
mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della
causalità nell’illecito civile. Essendo questi i principi che regolano il procedimento
logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta
sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto
nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U.
11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della
preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei
valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in
gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta
dottrina che ha esaminato l’identità di tali standards delle prove in tutti gli ordinamenti
occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso
vedansi: Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006,
n.19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 632). Anche la Corte di Giustizia
CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di
tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n.295, ha ritenuto sussistere la violazione
delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente
probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla
vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n.12,
sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le
varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente
probabili”). Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non può
essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle
frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe
anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di
27
fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di
altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità
logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica
va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma
(c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). Esempio dell'applicazione
delle suesposte coordinate giuridiche emerge, invero, nella recente vicenda relativa
al poligono di tiro in Sardegna con riferimento al quale la Corte di Appello di Roma,
respingendo il ricorso in appello del ministero della difesa ha confermato la sentenza
di condanna del tribunale civile di Roma, con conseguente annullamento del
provvedimento del TAR Lazio di diniego della causa di servizio.
28
5. CONCLUSIONI
L’analisi condotta sull’apparente dicotomia fra la difesa nazionale e la tutela ambientale,
quali valori egualmente tutelati dalla Costituzione, ha inteso accertare la necessità di
bilanciare in maniera puntuale i due interessi nazionali.
La normativa prodotta al fine di disciplinare nel dettaglio le modalità di tutela di entrambi
gli interessi rende evidente la complessità del problema e l’accresciuta sensibilità nei
riguardi tanto della difesa nazionale quanto della tutela ambientale, anche dal punto di
vista dell’opinione pubblica.
Nonostante il Codice dell’Ambiente e il Codice dell’Ordinamento Militare precisino che
le attività svolte in condizioni di necessità ed aventi come scopo esclusivo la difesa
nazionale, la sicurezza internazionale o la protezione dalle calamità naturali non siano
soggette alle norme risarcitorie del danno ambientale, permane la difficoltà di
comprendere se la citata condizione di necessità possa considerarsi implicitamente
sempre caratterizzante l’addestramento militare.
La giurisprudenza analizzata e lo sforzo interpretativo profuso nell’ambito del gruppo di
lavoro hanno indotto alla conclusione che le attività militari benché chiaramente
finalizzate alla difesa nazionale e alla sicurezza internazionale non siano
intrinsecamente soggette alla condizione di necessità (nell’accezione giuridica della
parola). Pertanto, le cause di non risarcibilità del danno ambientale dovranno essere
ricercate caso per caso sia quando afferenti alla sfera della condizione di necessità, sia
quando possano essere di tipologia diversa.
In quest’ottica il rispetto dei disciplinari d’uso delle aree addestrative (PISQ, di Capo
Frasca, di Capo Teulada, per esempio) e l’attività di bonifica rappresentano elementi
fondamentali per sostenere eventuali condizioni di non risarcibilità del danno diverse
dallo stato di necessità, oltre a rappresentare la risposta concreta all’esigenza collettiva
di bilanciamento tra l’interesse della difesa nazionale e quello della tutela ambientale,
equamente garantiti dalla Costituzione e radicalmente recepiti dall’Amministrazione
della Difesa.
29
BIBLIOGRAFIA e Siti Visitati
- Carta Costituzionale: artt. 11, 52;
- Codice Civile;
- Legge 24 Dicembre 1976, n. 898: Nuova regolamentazione delle servitù militari.
Istituzione Comitato Misto Paritetico;
- Legge 23 agosto 1988, n. 400, allegato 3;
- D.Lgs 15 marzo 2010, n. 66 – Codice dell'Ordinamento Militare. art. 322 (Istituzione
Comitato Misto Paritetico), art. 369 (Danno ambientale);
- D.Lgs 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale): artt. 298 bis, 300, 301, 303,
304, 305, 308, 311;
- D.M. Difesa 22 ottobre 2009, Gestione dei materiali e dei rifiuti e la bonifica dei siti e
delle infrastrutture direttamente destinati alla difesa militare e alla sicurezza nazionale;
- Stato Maggiore Difesa – IV Reparto – Logistica ed Infrastrutture – Ufficio Ricerca e
Sviluppo, SMD-L-014: Direttiva sull’organizzazione, impiego e funzionamento del
poligono sperimentale e di addestramento interforze di Salto di Quirra, ed. 27 febbraio
2003 (cfr Allegato “A”);
- Stato Maggiore Aeronautica, Disciplinare per la tutela ambientale del poligono interforze
di Salto di Quirra, ed. luglio 2014 (cfr Allegato “B”);
- Stato Maggiore Aeronautica, Disciplinare per la tutela ambientale del Poligono di Capo
Frasca, ed. 2014;
- Comando Militare autonomo della Sardegna”, Disciplinare per la tutela ambientale del
poligono di Capo Teulada, ed. 2008 (cfr Allegato “C”);
- Comando 132^ Brigata corazzata “ARIETE” – SM – Ufficio Operazioni Addestramento
Informazioni, Regolamento del poligono Cellina-Meduna (cfr Allegato “D”);
- Stato Maggiore dell’Esercito – III RIF COE – Ufficio Addestramento, Pubblicazione
13/A1 “Le attività addestrative e di approntamento dei Comandi e delle unità
dell’Esercito”, ed. 2011.
- Comando delle Scuole dell’Esercito, Polo del Genio, Pubblicazione n. 6762 – Norme
per la bonifica dei poligoni, ed. ottobre 2008 (aggiornata aprile 2009);
- STANAG 7141 IEP 5^ Ed. (anno 2008), Dottrina interforze della NATO per la
Protezione Ambientale durante le esercitazioni e le operazioni a guida NATO;
- STANAG 2510 2^ Ed. (anno 2009), Joint NATO waste management requirement during
NATO – led military activities;
- Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, Rete Natura 2000 – La
procedura della valutazione di incidenza, in http://www.minambiente.it/pagina/laprocedura-della-valutazione-di-incidenza;
- Notice sur les infrastructures de tir, edition 2014 – TOME I: Infrastructures de tir.
Généralités et procedures. Annexe 12 – Instructions relatives au désobusage (cfr
Allegato “F”);
- INSTRUCTION n. 1642/DEF/EMAT/INS/FG/66, relative au désobusage des champs de
tir (cfr Allegato “G”);
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