XV I molini di Roma Molti sono gli illustri autori che si sono occupati del Tevere, “l’ex biondo fiume” che traversa la città di Roma, sviscerandone la storia, spesso arricchita con particolari che, pescando abbondantemente nell’aneddotica, rendono anche più gustoso il racconto. Molto spesso è stato trattato (compreso dallo stesso autore) il tema inerente i monumenti del fiume, specie i ponti, a cominciare dai più antichi, scomparsi o manomessi, sovente irriconoscibili rispetto alla antiche descrizioni, passando poi all’isola Tiberina, con la sua antichissima tradizione sanita149 Racconti Romani ria. Ma nessuno o quasi, se non per puro caso, ha mai steso un capitolo riguardo i molini galleggianti sul Tevere, figurarsi sugli altri sparsi lungo i corsi d’acqua che solcavano il territorio romano e laziale. Certo non rientrano nel capitolo Belle Arti quegli enormi barconi, così rustici e solidi, che saldamente ancorati con robuste catene agli argini o ai ponti, assolvevano magnificamente ad un ruolo semplice, per quanto importante, che purtroppo i romani d’oggi ignorano quasi totalmente, anche se gli stessi molini hanno fatto parte della vita e del paesaggio dell’Urbe per oltre tredici secoli. Che i molini fossero familiari ai romani di ieri lo testimonia il sempre citato Gioacchino Belli con un sonetto nel quale un popolano addirittura confonde, sovrapponendole, una ‘mola a grano’ con la “Mole Adriana”, tanto da commentare: Mascina pprima er grano pe la gola Eppoi pell’occhi fà girelli e ffume! E a questo proposito sarà bene precisare che in romanesco non si dice mai ‘mulino’ ma bensì ‘molino’, termine che deriva direttamente dal latino molendinum. È altrettanto vero che il molino è di solito indicato come ‘mola’, parola che in dialetto equivale a ‘macina’, dal nome della pietra che stritola il grano. La grande importanza che rivestivano i molini nella società, lungo il correre del tempo, è legata essenzialmente al fatto che il pane era l’elemento fondamentale, nonché indispensabile, della dieta giornaliera degli abitanti. Erano quelli i tempi del ‘pane a bajocco’, in altre parole del prezzo calmierato di tale alimento; per legge se ne prescriveva anche il peso minimo garantito (che poteva essere variato in tempi di carestia), sorvolando poi sulle sofisticazioni 150 I molini di Roma effettuate dai fornai che, sostituendo la farina con ogni sorta d’ignobile surrogato, si accaparravano così grandi guadagni a scapito della qualità del prezioso genere primario. Il pane divenne così la maggior preoccupazione dei governi romani di ogni tempo, anche perché la mancanza di tale alimento (quasi sempre l’unico) provocava tensioni e tumulti sociali che, la storia ci insegna, sono tra i più pericolosi da domare. Chiaro che per panificare occorresse la farina, che per macinare il grano la forza dell’acqua fosse la risorsa gratuita e primaria, per questo il Tevere pullulava di molini; ve n’erano anche sui corsi d’acqua minori che un tempo traversavano Roma, mentre oggi questi sono incanalati e sono scomparsi dalla superficie della città. Inoltre vi erano anche altri molini destinati alla macina di materie prime industriali, quali indaco, guado, robbia e dei colori per la tintura dei tessuti, ma la storia delle mole del grano è sicuramente la più interessante e merita una maggiore conoscenza. Le prime notizie sulle mole da grano, azionate ovviamente ad acqua, risalgono al I o, addirittura, al II secolo a.C. Per quanto ne sappiamo, queste nacquero probabilmente nel vicino Oriente: il loro funzionamento non era dissimile da quello delle nostre, tanto che la descrizione del mulino del palazzo di Mitridate nel Ponto, in funzione nel 18 a.C., potrebbe essere stata scritta per quelli che ancora alla fine dell’Ottocento erano in funzione sul Tevere. Vitruvio ne descrive il meccanismo e chiama la macchina Hydroleta a conferma della sua origine orientale. Quest’invenzione, come altre nell’industria primaria, trovò i suoi cantori; tra questi Antipatro di Salonicco che, al tempo di Augusto (27 a.C.-14 d.C.) e di Tiberio (14-37), scriverà “[...] lascia di macinare il grano, o donna, che fatichi il mulino, 151 Racconti Romani resta a dormire”1. nessuna meraviglia dunque se, una volta diffusa l’invenzione, i corsi d’acqua fossero aggiogati a tal esigenza, addirittura con la costruzione d’appositi acquedotti, come ad Arles dove sono stati trovati resti di un gruppo di mulini serviti da una condotta costruita, si ritiene, ai tempi di Diocleziano (284-305). Si è addirittura calcolato che tale impianto potesse servire all’alimentazione di ben 80.000 persone. I perfezionamenti apportati dagli ingegneri romani (alla fine del I secolo) avevano fatto sì che un solo molino, quello sul Volturno nei pressi di Venafro – dotato di una mola del diametro di 2,10 metri che volgeva ad una velocità di 46 giri al minuto – macinasse 150 chilogrammi di grano ogni ora, ben oltre una tonnellata per ogni giornata lavorativa. Per semplice curiosità aggiungiamo che una mola manuale, azionata da due schiavi, macinava solo sette chilogrammi di grano ogni ora! Chiaro quindi che la proprietà di un molino fosse un affare molto appetibile, tanto che in Francia nel Trecento si costituirono delle ‘Società per azioni’ a partecipazione diffusa per gestire i molini ad acqua. Tornando a Roma, la Tòlle-Kastenbein riferisce che in tarda età imperiale era in funzione un molino presso le Terme di Caracalla, ma quel che è assolutamente certo è che a partire dall’età di Traiano esistevano molini sul Gianicolo in corrispondenza della pendice che occupa l’attuale area della chiesa di S. Pietro in Montorio, in direzione del Tevere. Le mole sfruttavano la potenza dell’acqua deviata dalla zona dei Sabatini tramite l’acquedotto che sarà ripristinato da Papa Paolo V Borghese (1605-1621), a cui si aggiungeva l’acqua 1 MARIOTTI BIAnChI 1996, p. 10. 152 I molini di Roma proveniente dal lago di Bracciano. Data la portata idrica e la rapida caduta dovuta alla pendenza, i molini producevano una parte rilevantissima della farina consumata a Roma. Una loro forzata inattività fu la molla che fece nascere le mole sul Tevere. nel 537 Roma era assediata dai Goti di Totila i quali, per accelerare la resa della città, pensarono bene di tagliare gli acquedotti, privando così la città di un bene indispensabile come l’acqua2. Si fermarono in questo modo i citati molini del Gianicolo. Procopio di Cesarea, lo storico che aveva partecipato al conflitto e che quindi ne era testimone oculare, racconta che Belisario, comandante bizantino al tempo dell'Imperatore Giustino I (518-527), ebbe subito l’idea di sfruttare la corrente del Tevere. Fece infatti collocare una coppia di barche, unite fra di loro, nonché una grossa ruota azionata dalla corrente del fiume mediante la quale far girare le macine ospitate nelle barche stesse. Visto il risultato eccellente ottenuto si ripropose lo stratagemma, talché comparve una lunga teoria di molini galleggianti ancorati saldamente alle sponde, al fine di risolvere il problema annonario. A questo punto, i Goti cercarono di fracassare i molini utilizzando la corrente del fiume per trasportare grossi tronchi d’albero, ma Belisario, facendo costruire numerose palafitte a monte delle mole, sviò il pericolo: in questa maniera i tronchi deviati passarono oltre senza arrecare alcun danno. Grazie a questo ingegnoso espediente, di cui lungo il Tevere permangono ancora delle tracce, i molini restarono sul fiume per più di 1300 anni. 2 Si ritiene, a ragione, che Roma imperiale ricevesse oltre un milione di metri cubi di acqua al giorno, la maggior parte indirizzata verso le case patrizie tramite condotte in piombo. Gli acquedotti erano una dozzina, a cielo aperto, con gli ultimi 16 chilometri sopraelevati per aumentarne la pressione. 153