Ottobre-Dicembre 2015 n. 4
Anno XXIX
Quaderni di Minimondo
Rivista culturale Braille
Periodico trimestrale
Direzione Redazione Amministrazione
Biblioteca Italiana per i Ciechi
20900 Monza - Casella postale 285
c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71
e-mail: [email protected]
Dir. Resp. Pietro Piscitelli
Comitato di redazione:
Massimiliano Cattani,
Antonietta Fiore,
Luigia Ricciardone,
Pietro Piscitelli (Responsabile)
Copia in omaggio
Stampato in Braille a cura della
Biblioteca Italiana per i Ciechi
«Regina Margherita» ONLUS
via G. Ferrari, 5/a
20900 Monza
Indice
Comunicazione importante
La perdita di udito nascosta
(di M. Charles Liberman, «Le Scienze» n.
566/15)
Che gusto avrà il nostro vino?
(di Kimberly A. Nicholas, «Le Scienze» n.
559/15)
Piemonte letterario
(di Fabio Sebastiano Tana, «Meridiani» n.
227/15)
Comunicazione importante
Questo è l'ultimo numero di Quaderni di
Minimondo come lo avete conosciuto fino ad ora.
A partire dal 2016, pubblicheremo la rivista
Parliamo di..., che presenterà anch'essa
articoli di approfondimento culturale ma, a
differenza dei vecchi Quaderni, avrà periodicità
mensile e si comporrà di un solo fascicolo. Ne
troverete qui allegato il numero 0.
Ci auguriamo di farvi cosa gradita, fornendovi
un'informazione più puntuale e frequente.
La perdita di udito nascosta
(di M. Charles Liberman, «Le Scienze» n. 566/15)
- Martelli pneumatici, concerti e altre fonti
comuni di rumore possono causare un danno
irreparabile alle nostre orecchie in modi
inaspettati. I tifosi dei Seattle Seahawks e dei Kansas
City Chiefs, due squadre di football americano,
nelle partite giocate in casa fanno regolarmente
a gara per conquistarsi un posto nel Guinness
dei primati per lo stadio più rumoroso. Il 1°
ottobre 2014 i Chiefs hanno toccato il picco più
recente: 142,2 decibel (dB). Quel livello
equivale al doloroso e irritante rumore di un
jet a 30 metri di distanza, un tipico esempio
che gli esperti di udito citano come un rumore
abbastanza forte da causare un danno all'udito.
Dopo la partita, i tifosi erano entusiasti.
L'esperienza li aveva divertiti, percepivano un
tintinnio nelle orecchie o avevano la sensazione
che i loro timpani stessero per esplodere.
Quello che però avveniva nelle loro orecchie non
era meraviglioso.
Un test audiometrico, se effettuato prima e
subito dopo la partita, avrebbe potuto mostrare
un marcato deterioramento. Il suono più flebile
che un tifoso poteva udire prima dell'inizio,
per esempio parole sussurrate, poteva non essere
più percepibile a metà partita. Le soglie
uditive potevano essere aumentate addirittura di
20-30 decibel al fischio finale. Con la
progressiva diminuzione del tintinnio durante i
giorni successivi, il risultato del test uditivo
- un audiogramma - sarebbe addirittura potuto
tornare ai livelli di base, via via che la
capacità di udire suoni flebili era
ripristinata.
Per lungo tempo gli scienziati hanno pensato
che, una volta tornate nella norma le soglie
uditive, anche l'orecchio avrebbe dovuto fare lo
stesso. Di recente con i miei colleghi abbiamo
dimostrato che questa ipotesi non è vera. Anche
esposizioni che portano solo a temporanei
aumenti delle soglie uditive possono causare
danni immediati e irreversibili alle fibre del
nervo acustico che invia informazioni uditive al
cervello. Un simile danno può anche non alterare
la percezione dei toni, come emerge
dall'audiogramma, tuttavia può ostacolare la
capacità di elaborare segnali più complessi.
Questa malattia riconosciuta da poco è chiamata
«perdita di udito nascosta», perché un normale
audiogramma può nascondere il danno al nervo
acustico e la riduzione uditiva a esso
associata.
Se una persona continua ad abusare delle
proprie orecchie, il prezzo da pagare per le
fibre nervose può aumentare. In effetti, questo
danno può contribuire al graduale deterioramento
della capacità delle persone di mezza età e
anziane di distinguere i dettagli di un
discorso. La perdita di udito nascosta però non
si limita affatto alle persone anziane. Le
ultime ricerche suggeriscono che questa perdita
di udito sta emergendo anche in età più giovane
nella società industrializzata, a causa della
prolungata esposizione a suoni di intensità
elevata, alcuni evitabili, altri no.
Una meraviglia sensoriale
La vulnerabilità dell'orecchio deriva da una
stupefacente sensibilità, che permette di
funzionare in una vasta gamma di livelli sonori.
La nostra capacità di emettere un suono debole a
una frequenza vicina a 1000 oscillazioni al
secondo, o 1000 hertz (Hz), in altre parole la
soglia a cui possiamo percepire quel suono, è
definita come zero decibel (dB). Usando questa
misura logaritmica, ogni aumento di 20 dB del
livello sonoro corrisponde a un aumento di dieci
volte nell'ampiezza delle onde sonore. A zero
dB, gli ossicini dell'orecchio medio, le cui
vibrazioni guidano il processo uditivo, hanno
un'ampiezza di movimento inferiore al diametro
di un atomo di idrogeno. All'estremo opposto,
come il doloroso livello superiore a 140 dB
ottenuto nella partita record dei Chiefs,
l'orecchio è costretto a fare i conti con onde
sonore la cui ampiezza è dieci milioni di volte
superiore.
Il processo uditivo inizia quando l'orecchio
esterno fa passare le onde sonore nel condotto
uditivo fino al timpano, che vibra e mette in
movimento gli ossicini dell'orecchio medio. Le
vibrazioni che ne derivano attraversano il
condotto uditivo dell'orecchio interno pieno di
liquido, la coclea, sede delle cellule ciliate
che occupano una striscia spiraliforme di
tessuto chiamata organo del Corti. Queste
cellule prendono il nome da filamenti
capelliformi detti stereociglia, che si
allungano in fasci da un'estremità cellulare. Le
cellule ciliate più sensibili alle basse
frequenze si trovano a un estremo della spirale
cocleare, mentre quelle più sensibili alle alte
frequenze si trovano all'altro estremo. Quando
le onde sonore piegano i filamenti, queste
cellule convertono le vibrazioni in segnali
chimici liberando una molecola che agisce come
neurotrasmettitore, il glutammato, all'altra
estremità, dove le cellule ciliate formano
sinapsi con le fibre del nervo uditivo.
A livello di sinapsi, il glutammato attraversa
una stretta fessura per legarsi a recettori alla
fine, o terminali, di una fibra nervosa uditiva.
Ogni terminale si trova a un estremo di una
cellula nervosa che estende una lunga fibra, un
assone, verso l'altra sua estremità nel tronco
encefalico. Il glutammato legato alle fibre
nervose innesca un segnale elettrico che viaggia
per tutto il nervo uditivo fino al tronco
encefalico. Da qui, i segnali si spostano lungo
una serie di circuiti neurali paralleli che
attraversano diverse regioni - dal tronco
encefalico fino a mesencefalo e talamo - e
terminano il proprio viaggio nella corteccia
uditiva. Nel complesso, questa articolata
circuiteria analizza e organizza il nostro
ambiente acustico in un insieme di suoni
riconoscibili, che si tratti di una melodia
familiare o di una sirena.
Le cellule ciliate sono di due tipi, quelle
interne e quelle esterne. Le cellule ciliate
esterne amplificano i movimenti indotti dal
suono nell'orecchio interno. Le cellule ciliate
interne traducono questi movimenti nei segnali
chimici che eccitano il nervo uditivo. Le
cellule interne sono le più dirette responsabili
di quello che definiamo «udito», perché il 95
per cento delle fibre nervose uditive forma
sinapsi solo con le cellule ciliate interne.
Perché così poche fibre colleghino le cellule
ciliate esterne al cervello è ancora un mistero,
ma si ipotizza che le fibre connesse a queste
cellule possano essere responsabili del dolore
che percepiamo quando l'intensità acustica di
un'onda sonora si avvicina a 140 dB.
Storicamente, la perdita dell'udito è stata
accertata soprattutto con audiogrammi. Gli
otorini sanno da tempo che gli operai che
martellavano fogli di metallo per ottenerne
caldaie soffrivano spesso di una perdita
permanente nella percezione dei toni alle
frequenze medie. Gli audiogrammi registrano la
capacità di distinguere toni a intervalli di
frequenza di un'ottava: per esempio 250, 500,
1000, 2000, 4000 e 8000 Hz. Nelle fasi iniziali
della perdita dell'udito indotta da rumore,
l'audiogramma mostra un avvallamento
caratteristico per quegli operai, un'incapacità
di percepire i suoni alle frequenze medie dello
spettro uditivo umano.
Negli anni cinquanta e sessanta studi
epidemiologici su operai in fabbriche rumorose
hanno mostrato una correlazione fra durata
dell'impiego e declino dell'acuità uditiva. Con
il tempo, il deficit iniziale che riguardava
frequenze prossime ai 4000 Hz tendeva a
estendersi anche ad altre frequenze. Molti
operai più anziani hanno perduto l'udito a
frequenze superiori a 1000 o 2000 Hz. Questa
perdita di toni alti provoca un grave deficit
uditivo perché gran parte delle informazioni che
ricaviamo durante una conversazione si trovano
nello spettro di frequenze che è diventato
insensibile.
Negli anni settanta, studi del genere hanno
spinto il governo statunitense a stilare linee
guida sul rumore per limitare l'esposizione sul
posto di lavoro. Oggi diverse agenzie
disciplinano i livelli di rumore e suggeriscono
limiti differenti. La mancanza di un accordo
preciso riflette le sfide che derivano dal
valutare il rischio di danno da rumore. I
problemi sono duplici. Ci sono enormi differenze
individuali nella suscettibilità al rumore: ci
sono quelle che potremmo descrivere come
orecchie «forti» e orecchie «delicate». Ciò
significa che le autorità regolatorie devono
decidere quale percentuale della popolazione
intendono proteggere e qual è il livello
accettabile di perdita di udito. L'altro
problema è che gli effetti del rumore sull'udito
derivano da una combinazione complessa di
durata, intensità e frequenza dei suoni a cui
una persona è esposta.
Attualmente la statunitense Occupational
Safety & Health Administration (OSHA) stabilisce
che i livelli di rumore non debbano eccedere i
90 dB per giornata lavorativa di otto ore. Il
rischio di danno all'udito sopra i 90 dB è circa
proporzionale all'energia totale veicolata
all'orecchio (il prodotto della durata per
l'intensità). Per ogni 5 dB in più sopra le otto
ore standard, le linee guida dell'OSHA
raccomandano di dimezzare l'esposizione: in
altre parole, un lavoratore non dovrebbe essere
esposto a 95 dB per più di quattro ore al
giorno, o a 100 dB per più di due ore al giorno.
Sulla base di questi livelli, l'esposizione
superiore a 142 dB dei tifosi che gareggiano per
il Guinness del rumore supererebbe le linee
guida dell'OSHA in circa 15 secondi.
Naturalmente, l'OSHA non indica normative sui
livelli di rumore dei tifosi alle partite.
Negli ultimi sessant'anni gli specialisti
dell'udito hanno ritenuto che la lettura di un
audiogramma rivelasse tutto quello che c'è da
sapere sul danno all'udito indotto da rumore. In
effetti, l'audiogramma rivela la presenza di un
danno alle cellule ciliate dell'orecchio
interno, e ricerche effettuate negli anni
quaranta e cinquanta avevano dimostrato che
quelle ciliate erano tra le cellule più
vulnerabili nell'orecchio interno a
sovraesposizioni acustiche.
Esperimenti sugli animali, alcuni dei quali
condotti nel nostro laboratorio, hanno
dimostrato che le cellule ciliate esterne sono
più vulnerabili di quelle interne, e che le
ciliate della sezione della coclea che rileva
toni ad alta frequenza sono più vulnerabili di
quelle nella regione a bassa frequenza. È emerso
anche che, una volta danneggiate, le ciliate non
si rigenerano più. Addirittura, prima che le
cellule degenerino un rumore intenso può
danneggiare i fasci di stereociglia in cima alle
cellule, e anche questo danno è irreversibile.
Quando le cellule ciliate sono danneggiate o
muoiono, le soglie uditive aumentano: bisogna
alzare il volume della radio o un collega
all'altro lato del tavolo deve alzare la voce.
Studi più incisivi sul danno cocleare
nell'essere umano sono stati ostacolati dal
fatto che le cellule ciliate non possono essere
oggetto di biopsia in modo sicuro e nemmeno di
imaging in vivo con le tecniche attuali.
Nell'essere umano, il danno associato alla
perdita di udito indotta da rumore è stato
studiato solo in persone che hanno donato le
orecchie alla scienza alla loro morte.
Anche a causa di questi limiti, se la perdita
di udito sia inevitabile durante
l'invecchiamento o se sia una conseguenza
dell'esposizione al rumore della vita moderna,
continua a essere un enigma per gli scienziati
che studiano l'udito. Un indizio interessante è
emerso da uno studio degli anni sessanta in cui
i ricercatori hanno testato gruppi di persone
residenti in ambienti eccezionalmente
tranquilli, come la tribù dei Mabaa, nel deserto
del Sudan. Il test dell'udito è risultato assai
migliore negli uomini della tribù di età
compresa fra i 70 e i 79 anni, rispetto a un
gruppo di statunitensi della stessa età.
Naturalmente, questi studi non possono
distinguere altre differenze fra uno
statunitense tipico e il tipico uomo Mabaa, come
quelle correlate alla genetica o
all'alimentazione.
Danno profondo
Studi recenti miei e di colleghi riguardo agli
effetti del rumore sull'udito hanno aggiunto una
nuova dimensione alla comprensione dei danni
della sovraesposizione acustica. Da tempo
scienziati e clinici sanno che la riduzione
dell'udito da esposizione al rumore è
reversibile solo in parte. In altre parole, a
volte le soglie uditive tornano alla normalità
in qualche ora o in qualche giorno, dopo
un'esposizione; altre volte il recupero è
incompleto e la soglia più elevata rimane per
sempre. Un tempo gli scienziati dell'udito
credevano che recuperando la soglia di
sensibilità l'orecchio avrebbe recuperato del
tutto. Oggi sappiamo che non è vero.
Il boato della folla a una partita di football
non solo influisce sulle cellule ciliate, ma
danneggia anche le fibre del nervo uditivo.
Negli anni ottanta io e altri colleghi abbiamo
mostrato che un rumore troppo forte danneggia le
terminazioni delle fibre nervose nel punto in
cui formano sinapsi con le cellule ciliate.
Rigonfiamento e rottura finale delle
terminazioni si verificano probabilmente in
risposta a un eccessivo rilascio del
neurotrasmettitore glutammato da parte delle
cellule ciliate troppo stimolate. In effetti, un
rilascio eccessivo di glutammato in qualsiasi
parte del sistema nervoso è tossico. Era
opinione comune che queste fibre danneggiate dal
rumore dovessero recuperare o rigenerarsi dopo
un'esposizione a rumore intenso perché le soglie
uditive possono tornare normali in orecchie che
mostravano un consistente gonfiore del nervo
immediatamente dopo l'esposizione.
Nel mio laboratorio eravamo scettici sul fatto
che queste sinapsi pesantemente danneggiate
potessero rigenerarsi nell'orecchio adulto.
Sapevamo anche che il danno nervoso indotto da
rumore non si sarebbe necessariamente riflettuto
nei test usati abitualmente, perché studi degli
anni cinquanta su animali avevano dimostrato che
la perdita di fibre del nervo uditivo, non
accompagnata da perdita di cellule ciliate, non
incide sulla qualità dell'audiogramma fino a
quando la perdita non diventa catastrofica,
superiore all'80 per cento. Sembra che non sia
necessaria una gran quantità di fibre nervose
per rilevare una nota all'interno di una cabina
silente. Per analogia, prendiamo l'immagine
digitale di un gruppo di persone e
riproduciamola ripetutamente, ogni volta a una
risoluzione minore. Riducendo la densità di
pixel, i dettagli dell'immagine diventano meno
chiari. Possiamo ancora dire che ci sono persone
nella foto, ma non ne riconosciamo l'identità.
Allo stesso modo, abbiamo ipotizzato, una
diffusa perdita di neuroni non deve
necessariamente danneggiare la capacità di
individuare un rumore, ma potrebbe alterare la
comprensione di un discorso in un ristorante
rumoroso.
Negli anni ottanta, quando abbiamo iniziato a
studiare il danno nervoso indotto da rumore,
l'unico modo per contare le sinapsi fra fibre
nervose uditive e le cellule ciliate interne
sfruttava una tecnica di microscopia, un
procedimento laborioso che richiede quasi un
anno di lavoro per analizzare le sinapsi nervose
su un ridotto numero di cellule ciliate di una
coclea.
Venticinque anni dopo, con Sharon G. Kujawa
del Massachusetts Eye and Ear, cercavamo di
determinare se un episodio di sovrastimolazione
acustica su orecchie di giovani topi accelerava
l'insorgenza di perdita di udito legata
all'invecchiamento. Il rumore a cui esponevamo
gli animali era pensato per produrre solo un
aumento temporaneo delle soglie uditive, dunque
nessun danno permanente alle cellule ciliate.
Come ci aspettavamo, le coclee dei roditori
avevano un aspetto normale pochi giorni dopo
l'esposizione. Ma quando abbiamo osservato gli
animali in un arco di tempo che andava da sei
mesi a due anni dopo l'esperimento, abbiamo
notato una massiccia perdita di fibre nervose
uditive, nonostante ci fossero cellule ciliate
intatte.
Per fortuna dagli anni ottanta abbiamo
imparato molto su come studiare la struttura
molecolare di queste sinapsi. Sono diventati
disponibili anticorpi che si legano, ed
etichettano, a diversi marcatori fluorescenti,
strutture su entrambi i lati della sinapsi fra
cellule ciliate interne e fibra del nervo
uditivo. Le etichette hanno permesso di contare
facilmente le sinapsi con la luce del
microscopio. Così abbiamo accumulato dati che
mostravano che pochi giorni dopo l'esposizione
al rumore, quando la soglia uditiva era tornata
normale, la metà delle sinapsi del nervo
acustico era danneggiata e non si sarebbe più
rigenerata. La perdita del resto dei neuroni corpi cellulari e assoni che si proiettano al
tronco encefalico - diventavano evidenti in
pochi mesi. Dopo due anni, metà dei neuroni
uditivi era scomparsa. Non appena le sinapsi
erano distrutte, le fibre collegate diventavano
inutili e non rispondevano a suoni di alcuna
intensità.
Negli ultimi anni abbiamo documentato la
degenerazione delle sinapsi indotta dal rumore
in topi, porcellini d'India e cincillà, ma anche
in tessuti umani post mortem. Abbiamo dimostrato
con studi su animali e nell'orecchio umano che
la perdita di connessioni fra fibre del nervo
uditivo e le cellule ciliate si verifica prima
dell'innalzamento delle soglie associato con la
perdita di cellule ciliate. L'idea che il danno
al nervo uditivo provochi una perdita di udito
nascosta - una componente importante della
riduzione uditiva causata da rumore e correlata
all'età - è oggi accettata, e molti scienziati e
clinici sono all'opera per sviluppare test in
grado di determinare se il problema sia diffuso
e se il nostro stile di vita rumoroso stia
portando a un'epidemia di danno uditivo nelle
persone di ogni età.
Risanare i nervi
In termini semplici, l'audiogramma, il test
dell'udito che rappresenta il test standard di
riferimento, misura le soglie uditive ed è una
spia sensibile di danno alle cellule ciliate
della coclea. Ma questo test è un indicatore
scadente di danno alle fibre nervose uditive. Le
nostre ricerche hanno dimostrato che il danno
nervoso che si verifica nella perdita di udito
nascosta non incide sulla capacità di rilevare
un rumore, ma più probabilmente peggiora la
nostra capacità di capire un discorso e altri
suoni complessi. In effetti, potrebbe dare un
significativo contributo alla classica lamentela
delle persone anziane: «Riesco a sentire le
persone che parlano ma non capisco cosa dicono».
Gli audiologi sanno da tempo che due persone
con un audiogramma simile possono dare risultati
molto diversi nei test che misurano il numero di
parole identificate quando il livello di un
rumore di fondo aumenta. In precedenza, gli
audiologi attribuivano queste differenze
all'elaborazione del cervello. Le nostre
ricerche suggeriscono che gran parte di esse
emerge a causa di differenze nella popolazione
di fibre nervose uditive sopravvissute.
La perdita di udito nascosta potrebbe anche
aiutare a spiegare altre lamentele comuni,
inclusi acufeni (tintinnio nelle orecchie) e
iperacusia (l'incapacità di tollerare anche
suoni di moderata intensità acustica). Questi
disturbi spesso sono presenti anche quando un
audiogramma non mostra problemi. In passato,
scienziati e medici sottolineavano il normale
audiogramma di soggetti con acufene o iperacusia
concludendo, ancora una volta, che il problema
doveva risiedere nel cervello. Noi, invece,
suggeriamo che il danno possa essersi verificato
nel nervo uditivo.
Le nostre ricerche sollevano domande sul
rischio di esposizione abituale a musica
elevata, ai concerti o nei locali, e alla musica
ascoltata in cuffia. Sebbene la perdita di udito
indotta da rumore sia un problema che interessa
i musicisti professionisti, anche quelli di
musica classica, studi epidemiologici effettuati
su ascoltatori casuali hanno fallito nel trovare
un impatto significativo sui relativi
audiogrammi. Le linee guida statunitensi stilate
per minimizzare il danno da rumore tra i
lavoratori si basano sull'ipotesi per cui se le
soglie post-esposizione tornano alla normalità,
l'orecchio ha recuperato le proprie capacità.
Come abbiamo visto, questa ipotesi è errata: ne
consegue che le normative attuali sul rumore
possono essere inadeguate a impedire un diffuso
danno nervoso indotto da rumore e la conseguente
riduzione uditiva.
Per affrontare il problema, abbiamo bisogno di
test diagnostici migliori per individuare il
danno al nervo uditivo, senza contare le sinapsi
in campioni autoptici. Un approccio promettente
si basa sulla misurazione dell'attività
elettrica nei neuroni uditivi, chiamata
potenziali evocati acustici del tronco
encefalico (o ABR da auditory brain stem
response). I potenziali ABR si possono misurare
in un soggetto sveglio o in sonno, sul cui
cranio ci sono elettrodi che misurano l'attività
elettrica (elettroencefalografia) generata in
risposta a stimoli sonori in serie (tone burst)
di frequenza diversa e diversi livelli di
pressione sonora. Storicamente, il test ABR è
stato interpretato in modo che una risposta
elettrica evocata da un suono è interpretata
come udito normale, l'assenza di una risposta è
segno di danno.
In studi su animali, abbiamo dimostrato che
l'ampiezza dell'ABR a livelli sonori elevati
fornisce informazioni: aumenta in proporzione e
numero di fibre nervose uditive che mantengono
una connessione vitale con cellule ciliate
interne. In modo analogo, uno studio ispirato
dalle nostre ricerche ha usato una variante del
test ABR su studenti inglesi che avevano un
audiogramma normale, trovando ampiezze inferiori
nella risposta nei soggetti che riferivano di
una ripetuta esposizione al frastuono di locali
e concerti.
Nella ricerca di potenziali terapie per la
perdita di udito nascosta, ora ci chiediamo se
sia possibile invertire la degenerazione indotta
da rumore trattando i neuroni sopravvissuti con
farmaci ideati per far ricrescere le fibre
nervose, ristabilendo le connessioni con le
cellule ciliate interne. Sebbene le stesse
sinapsi siano distrutte subito dopo
l'esposizione al rumore, la lentezza con cui il
resto del nervo (del suo corpo cellulare e degli
assoni) degenera ci fa ben sperare sul fatto che
una normale funzione possa essere ripristinata
in molti pazienti. Abbiamo ottenuto risultati
incoraggianti su modelli animali somministrando
neurotrofine (proteine che proteggono i neuroni)
nell'orecchio interno.
La perdita di udito nascosta potrebbe essere
presto curata con iniezioni attraverso il
timpano di gel che libera lentamente
neurotrofine per ricostituire le sinapsi mesi o
anni dopo un danno. I gel sarebbero iniettati
subito dopo l'esposizione a un rumore intenso.
Un otorino potrebbe un giorno somministrare
farmaci alla coclea servendosi di trattamenti
minimamente invasivi per curare un danno
acustico, con la stessa facilità con cui un
oculista corregge un occhio miope con la
chirurgia laser della cornea.
Come proteggere l'udito
In studi effettuati su diverse specie animali
abbiamo indotto un danno nervoso irreversibile
nell'orecchio con un'esposizione per due ore di
fila a un rumore compreso fra 100 e 104 dB. Ci
sono tutte le ragioni per credere che l'orecchio
umano sia altrettanto sensibile. La maggior
parte delle esposizioni quotidiane che
caratterizzano la nostra vita non dura così a
lungo. Tuttavia, è prudente evitare
un'esposizione non protetta a qualsiasi rumore
che superi i 100 dB.
Molti rumori nella vita quotidiana ci
collocano in una zona di pericolo. Nelle sale da
concerto e nei locali si producono abitualmente
picchi di 115 dB, e livelli medi che superano i
105 dB. A livello dell'orecchio dell'utente, gli
aspirafoglie a motore a scoppio e le falciatrici
raggiungono livelli compresi fra 95 e 105 dB,
come le seghe circolari a motore. Ma anche la
frequenza del suono ha importanza. A parità di
decibel, il gemito acuto di una levigatrice a
nastro è più pericoloso del rombo meno acuto di
una motocicletta smarmittata. I martelli
pneumatici producono livelli di 120 dB anche per
i passanti, e i rapidi colpi prodotti dalla
punta metallica che incide l'asfalto producono
una gran quantità di rumori acuti pericolosi.
Che cosa possiamo fare? Oggi quasi tutti hanno
accesso a misuratori accurati di livelli sonori
da tenere in tasca o nel portafoglio. Ci sono
innumerevoli app gratuite o a poco prezzo per
smartphone con sistemi operativi come IOS o
Android, che forniscono letture attendibili
della pressione sonora prodotta da uno strumento
musicale o da un'automobile la cui marmitta
emette un ritorno di fiamma fino a 1-2 dB
rispetto al più costoso equipaggiamento
professionale per monitorare il suono. L'app per
IOS che mi è stata più utile, Sound Level Meter
Pro, costa meno di 20 dollari e ha fornito
letture nel mio laboratorio con un'accuratezza
prossima a 0,1 dB.
Una volta consapevoli dei rumori
potenzialmente pericolosi nell'ambiente in cui
viviamo, c'è una buona notizia: c'è una
protezione acustica efficace, poco costosa,
facile da usare e da trasportare. Se inseriti
adeguatamente, i tappi per le orecchie in
schiuma possono attenuare il livello sonoro di
30 dB alle frequenze più pericolose.
Arrotolatene uno fra le dita e trasformatelo in
un cilindro più sottile che potete, poi
inseritelo rapidamente più profondamente
possibile nel vostro condotto uditivo. Non è più
difficile né più pericoloso che mettersi gli
auricolari per il telefonino. Lasciate che i
tappi si espandano lentamente e nel giro di un
minuto siete pronti per fare baldoria.
Se siete a un concerto, questi tappi di
schiuma smorzeranno un po' troppo il suono.
Quando invece volete sentire il suono ma a un
livello appena inferiore (sicuro), usate i tappi
da musicista. On line sono disponibili diversi
modelli per 10-15 dollari al paio. Sono ideati
in modo da fornire un'attenuazione del suono di
10-20 dB, con un'identica capacità di smorzare
picchi sonori acuti e bassi, in modo da non
incidere sul timbro della musica.
Più importante ancora, fate attenzione a
quello che le vostre orecchie vi dicono. Se
avete appena lasciato un evento o concluso
un'attività, e avete la sensazione di avere le
orecchie ovattate, o se le sentite tintinnare,
ci sono buone probabilità che abbiate distrutto
alcune sinapsi del nervo uditivo. Non
disperatevi, ma cercate di non rifarlo.
Che gusto avrà il nostro vino?
(di Kimberly A. Nicholas, «Le Scienze» n.
559/15)
- Mentre i cambiamenti climatici alterano la
composizione dell'uva, i viticoltori cercano di
conservare l'aroma dei nostri vini preferiti. Nella vigna faceva caldo, ero coperta di
polvere, sudore e succo appiccicoso dei grappoli
che avevo raccolto per proseguire la mia ricerca
sull'influenza di luce e temperatura sulle
proprietà biochimiche dell'uva. Quando
all'improvviso ho visto qualcosa che mi ha
bloccato.
In un angolo di questo terreno di 26.000 metri
quadrati a Carneros, nella celebre Sonoma
Valley, in California, oltre molti bei filari
con grappoli di Pinot nero si nascondevano
alcune varietà di vite estranee. Durante i miei
corsi universitari in viticoltura avevo studiato
l'arte arcana dell'ampelografia l'identificazione dei vitigni in base alla forma
di foglie e grappoli - e quindi potevo
indovinare che cosa fossero: le varietà rosse
Cabernet Franc, Petit Verdot, Syrah e Malbec,
più un bianco, il Sauvignon.
Quando nella vicina Napa ho rivisto Ned Hill,
un vecchio compagno di scuola che gestisce
alcune delle migliori vigne della zona, tra cui
questa, gli ho chiesto di quegli strani vitigni.
«Sto facendo un esperimento», ha risposto. «Qui
fa già abbastanza caldo per coltivare il Pinot.
Ora il prezzo è buono, quindi non voglio
cambiare, ma presto faremmo meglio a coltivare
qualcos'altro, quindi sto provando qualche
varietà di climi più caldi».
Un Cabernet a Carneros? Sembrava un'eresia. La
zona di Napa è famosa per il suo Cabernet, ma
dove le valli di Sonoma e Napa si allargano e si
uniscono, arrivando alla baia di San Francisco,
il territorio è più fresco e adatto al Pinot. In
questa zona le giornate miti, le notti fresche,
le brezze di mare rinfrescanti e i terreni
argillosi producono Pinot con l'aroma di fragole
rosse fresche e spezie come cardamomo e
cannella. Se però le temperature continuano a
salire il vino ricavato da quell'uva Pinot non
sarà più lo stesso. Anzi, i coltivatori
potrebbero essere costretti a passare al Syrah o
perfino al Cabernet, ma rischiano di porre fine
alla tradizione di Carneros, magari con un calo
delle vendite. Forse il mio amico potrebbe
spostare la sua attività a nord, alla ricerca di
un clima più fresco, ma altrove l'uva Pinot
sarebbe influenzata dal terreno, dall'umidità e
dalle precipitazioni di quel luogo, e non
avrebbe il gusto del Pinot di Carneros. Oppure
il mio amico potrebbe usare un approccio
d'emergenza e cercare di adattare le sue
tecniche di coltivazione per conservare quel
gusto unico: un compito arduo.
Il cambiamento climatico sta cominciando a
influenzare il gusto dei vini del mondo,
l'esperienza dei vostri rossi e bianchi
preferiti che conoscete e avete imparato ad
apprezzare. Di conseguenza, coltivatori e
vinificatori stanno cominciando a prendere varie
decisioni, difficili e stimolanti, per trovare
il modo di reagire. Saranno la velocità del
cambiamento climatico e quella dell'innovazione
a determinare se il loro adattamento permetterà
a un Pinot di Carneros o a un Borgogna francese
di conservare il proprio gusto tipico, o se
invece spariranno zone vinicole dalla lunga
tradizione e ne emergeranno di nuove.
Un buon vino nasce nella vigna
Quando si tratta di alimenti base come
frumento, mais e riso, gli scienziati si
preoccupano per gli effetti dell'aumento della
temperatura sulla resa dei terreni. Ma con l'uva
le temperature mettono a rischio la qualità, più
che la quantità.
In effetti nelle zone calde alcuni vigneti
cercano grandi volumi e bassi costi. Per esempio
a Fresno, nella Central Valley della California,
i coltivatori puntano a una resa intorno a 27
tonnellate l'ettaro. Nel 2013 hanno venduto
questa uva a un prezzo medio di circa 308
dollari la tonnellata, e il vino ricavato in
genere finisce in bottiglie che costano meno di
7 dollari. Sulle strisce di terra più fresche
che lambiscono la costa della California si
pratica invece una versione di viticoltura più
romantica. Circa 300 chilometri a nord di
Fresno, nella Napa Valley, addetti esperti
raccolgono l'uva a mano, tastando ogni pianta
anche una dozzina di volte nel corso di una
stagione. Riducono deliberatamente la resa
potando le viti in inverno, in modo che ogni
germoglio produca solo pochi grappoli, che
d'estate vengono sottoposti a un'ulteriore
selezione. L'obiettivo è compensare in qualità
la perdita di quantità, dato che la pianta
concentra le sue risorse, donando a quei pochi
grappoli un gusto e un aroma più profondi e
complessi. L'obiettivo è produrre circa 9
tonnellate l'ettaro, a un prezzo che nel 2013 ha
raggiunto circa 3337 dollari la tonnellata. A
questo aumento di dieci volte rispetto al prezzo
dell'uva di Fresno ha contribuito una gestione
attenta dei vigneti, ma gran parte del valore
aggiunto è legato al clima: un effetto notevole
grazie a una differenza apparentemente leggera
della temperatura media annuale, più bassa di
soli 2,5 gradi. Come mi ha detto un coltivatore,
«neanche un genio riuscirebbe a produrre un buon
Pinot nero a Fresno. Fa troppo caldo».
Se fa «troppo caldo» è un problema, perché
tutte le piante sono regolate dalla temperatura,
e le viti in modo particolare. L'ambiente in cui
si coltiva l'uva influenza il vino a tal punto
che per definirlo in francese esiste una parola
specifica: terroir. Il vino, come il caffè e
altri prodotti tipici di una certa zona
geografica, rispecchia il suo luogo di origine.
La vite produce lo zucchero tramite la
fotosintesi, quindi modifica e ricombina questo
ingrediente iniziale per produrre innumerevoli
composti che, arrivati nel bicchiere, possono
profumare di lampone o erba appena tagliata. La
temperatura, l'umidità, la luce e il terreno
influenzano il modo in cui la pianta dirige
questa sinfonia. Il vino è costituito per oltre
l'80 per cento da acqua e, in genere, per il 1215 per cento da alcool, quindi tutto il resto
ammonta solo a circa il 5 per cento. Questa
minima parte di altri elementi crea il gusto
unico del vino di una certa località, che i
cambiamenti climatici stanno mettendo in
pericolo.
Anche se la produzione del vino richiede una
notevole abilità, quasi tutti i vinificatori che
ho intervistato ammettono senza problemi che
gran parte della qualità potenziale di un vino è
già decisa quando si consegna l'uva all'azienda
vinicola. Alcuni dei gusti potenziali dipendono
dal processo di vinificazione, per esempio dai
lieviti usati nella fermentazione o
dall'invecchiamento in botti di quercia, ma come mi ha detto un famoso vinificatore - «se
nella vigna si fa tutto correttamente, a me
basta non combinare disastri». Un buon vino
nasce nella vigna, non in cantina.
Clima diverso, gusto diverso
Il clima ha una forte influenza sulla crescita
dell'uva. Gli enologi ne considerano tre
livelli: il macroclima di una regione, per
esempio Carneros o Borgogna, il mesoclima di un
vigneto e il microclima di un grappolo d'uva in
una copertura di foglie.
Il macroclima è influenzato da ampie
condizioni geografiche da cui dipendono la
stagione di crescita e l'andamento di
temperature e precipitazioni. È soprattutto la
temperatura a determinare quale varietà di uva,
tra le migliaia esistenti, sia la più adatta per
essere coltivata in un certo luogo: da quelle
bianche croccanti, ideali per la breve stagione
di crescita e le temperature fresche della
Germania, a quelle rosso vivo, in grado di
mantenere il proprio gusto nell'estate lunga,
calda e secca della Spagna. La temperatura
determina quando le viti si risvegliano in
primavera dopo la quiescenza invernale, e
stimola il processo di crescita e maturazione.
Con l'aumento delle temperature a livello
globale, regioni come il sud dell'Inghilterra
stanno diventando più adatte alla viticoltura,
mentre zone vinicole calde, per esempio in
Australia, sono in difficoltà per temperature
elevate e siccità frequenti che contribuiscono a
rese irregolari, tenori alcolici troppo alti e
gusti sbilanciati.
I cambiamenti delle precipitazioni in una
regione, in termini di quantità e distribuzione
nel tempo, possono alterare la qualità dell'uva
in vari modi, e un'umidità eccessiva può
favorire il marciume da funghi. La siccità può
provocare un forte stress a una pianta. Molte
zone vinicole del continente americano, tra cui
la California, sono ampiamente irrigate, ma le
ricerche che ho condotto in un team guidato dai
miei colleghi della Stanford University hanno
dimostrato che anche nelle regioni irrigate le
precipitazioni naturali influiscono sulla resa.
Il modo in cui il mesoclima di un vigneto
influenza il gusto nel bicchiere è meno
evidente, ma il punto di partenza è l'equilibrio
tra zucchero e acido nell'uva, i componenti che
formano la base del gusto di un vino. La frutta
accumula zucchero durante la maturazione, che
dipende direttamente dalla temperatura. L'uva da
vino matura ha un contenuto di zucchero molto
alto: circa un quarto del peso, il doppio
rispetto a una pesca dolce e succosa. Il calore
fa crescere lo zucchero a un ritmo calcolabile:
in genere uno o due punti percentuali per ogni
settimana di maturazione. Lo zucchero si
trasforma in alcool durante la fermentazione,
quindi l'uva più dolce dà un vino con un
maggiore tenore alcolico. Nel corso degli ultimi
decenni l'aumento delle temperature ha
determinato una tendenza globale verso vini
dalla gradazione più alta. Spesso un maggiore
contenuto di alcool è percepito come «caldo» e
più amaro, e può sovrastare o alterare la
percezione di gusti più sfumati.
Allo zucchero fanno da contraltare gli acidi.
Presenti in grandi quantità nell'uva acerba,
durante la maturazione si decompongono
parzialmente e danno al vino un gusto intenso e
rinfrescante.
Nelle regioni vinicole più fresche si
coltivano varietà che riescono a maturare
rapidamente nella breve stagione di crescita, ma
hanno comunque un livello di acidi gradevole,
non troppo alto. Con l'aumento delle temperature
i vini provenienti da climi freschi, come il
Riesling tedesco, potrebbero perdere il loro
carattere rinfrescante, dato che con il calore
viene meno il gusto pungente degli acidi.
I vinificatori studiano lo zucchero e gli
acidi da tempo, ma negli ultimi anni hanno
cominciato a capire il ruolo di altri elementi
del vino, presenti in quantità minori ma
decisivi per l'esperienza gustativa. I composti
fenolici, per esempio, sono importanti per il
colore del vino: prima di berlo lo vediamo nel
bicchiere, dove il colore influisce
inevitabilmente sulla nostra percezione
complessiva. In un test, un vino bianco è stato
colorato di rosso, e per descriverne il gusto
perfino dei sommelier esperti gli attribuivano
le caratteristiche del vino rosso. Il succo
delle uve classiche (del Vecchio Continente) non
è pigmentato: il colore dei vini deriva da
composti fenolici presenti nelle bucce, le
antocianine. Questi composti sono ampiamente
diffusi in natura: sono ciò che rende bluastri i
mirtilli e viola le melanzane. Quando dopo la
vendemmia l'uva viene pigiata, le varietà rosse
sono lasciate a contatto con le bucce per
settimane durante la fermentazione, in modo da
trasferire il colore al succo. Le uve bianche
hanno già di per sé una minore concentrazione di
composti fenolici, e in genere vengono separate
subito dalle bucce.
La presenza nell'uva di composti fenolici
dipende dall'esposizione al Sole, ma in genere
nei vini provenienti da zone più calde il colore
desiderabile è meno presente. Le ricerche
suggeriscono però che non entrino in gioco solo
i cambiamenti della temperatura media: un
aumento oltre certi limiti può avere conseguenze
non lineari che portano alla diminuzione delle
antocianine.
Il microclima del vigneto influisce anche sui
tannini, che danno al vino una certa consistenza
(per esempio «corposo» o «morbido»). I tannini
sono un altro composto fenolico, e sono talmente
sgradevoli che proteggono la frutta non ancora
matura, impedendo ad animali e parassiti di
mangiarla. In bocca i tannini si combinano con
le proteine della saliva, asciugando la lingua e
le gengive, e questa sensazione influenza il
modo di percepire il gusto del vino. Un buon
equilibrio dei tannini aiuta l'abbinamento tra
vino e cibo, dato che ripuliscono fisicamente il
palato, togliendo il grasso dalle papille
gustative e permettendo di assaporare appieno
ogni boccone. Un eccesso di calore o di luce può
ridurre i tannini e potenzialmente rendere i
vini meno equilibrati.
Maturo per l'olfatto
Siamo quindi arrivati ai componenti in tracce
a cui si deve gran parte del carattere unico di
un vino. Sono un fattore essenziale, soprattutto
per l'olfatto. Quando assaggiamo il vino, spesso
per prima cosa lo facciamo girare e annusiamo
l'aroma. La rotazione volatilizza i composti del
vino, che quindi vengono a contatto con i
recettori del naso, inviando segnali al cervello
che li interpreta come un gusto: è
l'integrazione di molti messaggi sensoriali.
Gran parte di ciò che comunemente percepiamo
come gusto deriva dal nostro straordinario senso
dell'olfatto. È il motivo per cui ciò che
mangiamo sembra insapore quando siamo
raffreddati: i composti aromatici non riescono a
raggiungere il naso intasato dall'interno, cioè
dal retro della bocca. Provate a mangiare una
mela sbucciata e una patata cruda con il naso
tappato: è sorprendente quanto sia difficile
distinguerle. Più che degustare il vino,
bisognerebbe dire che lo annusiamo, anche se
l'espressione è meno affascinante.
Enologi e ricercatori stanno ancora
perfezionando la conoscenza dei composti in
tracce alla base di gusto e aroma, che si
possono formare in svariati modi. In genere
quelli presenti nell'uva si accumulano nelle
ultime fasi della maturazione, e sappiamo che in
questo periodo il loro sviluppo è influenzato
dalle temperature. Questa cosiddetta maturazione
del gusto potrebbe avvenire a un ritmo diverso
rispetto a quella prevedibile dello zucchero,
che tradizionalmente determina le decisioni
sulla vendemmia. Invece di raccogliere l'uva
quando raggiunge un certo tenore zuccherino,
molti vinificatori decidono quando vendemmiare
assaggiandola nella vigna, alla ricerca di gusti
che a loro giudizio renderanno buono il vino. In
genere il gusto evolve gradualmente: da quello
di frutta e verdura verde ai frutti rossi come i
lamponi, quindi neri come le more e, infine, con
note di confettura come l'uva passa.
In alcune regioni questa strategia ha portato
a una tendenza verso un maggiore tempo di
maturazione, cioè a lasciare la frutta sulla
pianta più a lungo per fare maturare meglio il
gusto. Ad alcuni coltivatori questo metodo non
piace perché l'uva perde acqua, il che può
ridurre il peso e quindi il guadagno. Il
maggiore tempo di maturazione aumenta inoltre il
livello di zucchero nell'uva, e questo potrebbe
costringere ad aggiungere in seguito acqua al
succo, per ottenere alla fine il giusto tenore
alcolico.
I ricercatori stanno cercando di capire meglio
come gli oltre 1000 composti aromatici del vino
influenzino la percezione del gusto. È un
aspetto difficile da prevedere, perché alcuni
composti sono presenti in concentrazioni molto
basse e la sensibilità umana nei loro confronti
può variare di centinaia o migliaia di volte da
una persona a un'altra. Al profumo di fragola,
per esempio, possono contribuire oltre 200
composti, e ciò che fa scattare il segnale
«fragola» potrebbe essere diverso per voi e per
me. (Quindi non preoccupatevi se, quando
assaggiate i vini, non date la risposta
«giusta»: non esiste.)
A volte è un solo composto «di impatto» a
costituire la base di un odore caratteristico, e
capirne gli effetti sui nostri sensi può aiutare
i coltivatori a perfezionare il prodotto. Negli
anni ottanta, seguendo un'intuizione, Hildegarde
Heymann, dell'Università della California a
Davis, ha scoperto che un composto chiamato
metossipirazina, responsabile dello sgradevole
aroma di peperone nel Cabernet Sauvignon, veniva
distrutto dalla luce. I coltivatori hanno
cambiato la disposizione dei tralci per ridurre
l'ombra sui frutti, e il Cabernet californiano è
migliorato molto. Indagini più recenti, condotte
da Claudia Wood e colleghi in Australia, Cile e
Germania, hanno individuato in un unico
composto, il rotundone, la fonte del piacevole
aroma di pepe nero nel Syrah, e altre ricerche
indicano che l'accumulo di rotundone sia
probabilmente maggiore nei luoghi e negli anni
più freschi.
I coltivatori reagiscono
La comprensione di tutti i fattori che
influenzano il gusto di un vino aiuta i
viticoltori a valutare le possibili soluzioni
per adattarsi al cambiamento climatico.
L'intervento più drastico sarebbe uno
spostamento da una zona all'altra, per esempio
dalla California all'Oregon, oppure - soluzione
meno estrema - all'interno di una regione,
magari da valli calde a versanti di colline più
freschi. Alcuni studi hanno valutato queste
possibilità, ma si basano principalmente sulle
previsioni di cambiamenti della temperatura,
senza considerare altri importanti fattori
ambientali. Ci sono stati articoli di giornale
che, in base a queste limitate analisi, sono
arrivati perfino a definire a rischio
determinate regioni vinicole, prevedendo un calo
di qualità e quantità dell'uva.
Nella pratica, l'idea semplicistica di
spostarsi è ostacolata da vari fattori. Per un
vino di alta qualità è necessario un terreno
adeguato, che offra le sostanze nutritive e
l'approvvigionamento idrico ideali, e non è
detto che esista in una nuova regione. Anzi, può
anche darsi che non sia nemmeno disponibile un
terreno adatto e non ancora sviluppato.
Sradicare un'intera industria e le sue
infrastrutture è difficile e costoso: i vigneti
nuovi impiegano cinque o sei anni a diventare
pienamente produttivi e possono passarne anche
venti prima che comincino a dare un profitto.
Molti viticoltori inoltre hanno un forte
rapporto con il territorio, dove coltivano da
generazioni, e non vorrebbero lasciarlo. E anche
i consumatori possono sentirsi molto legati a un
certo luogo. Le nuove regioni che stanno
diventando abbastanza calde per poter coltivare
il vino avranno bisogno di tempo per acquisire
le competenze per risolvere le esigenze
specifiche necessarie a realizzare siti
produttivi, affrontare parassiti e malattie e
sviluppare lo stile e l'identità locali
apprezzati dai clienti.
Che dire dell'ipotesi di selezionare o
coltivare altri vitigni, adatti alle nuove
condizioni climatiche? Praticamente tutte le uve
usate per produrre ciò che in genere si
definisce vino provengono da una sola specie di
uva, Vitis vinifera, che però si presenta in
migliaia di ceppi, detti varietà. I coltivatori
hanno selezionato le varietà in base alle
rispettive caratteristiche, adatte a un
determinato ambiente, come nel caso delle razze
dei cani, selezionate per tirare slitte in
Alaska o per entrare nella borsetta di Paris
Hilton.
Ma limitarsi a prendere un'uva che ha delle
buone caratteristiche in un luogo e coltivarla
altrove spesso non determina lo stesso gusto
delizioso. Per esempio i cloni (parti
geneticamente identiche tagliate da una singola
pianta madre) di Pinot nero provenienti da
Digione, in Francia, sono stati selezionati per
maturare rapidamente e produrre nel clima fresco
della Borgogna vini di alta qualità, che si sono
guadagnati un'ottima fama. Ora sono stati
ampiamente diffusi in California, più calda, ma
a causa della maturazione più veloce in un
ambiente diverso non sempre si ottiene lo stesso
gusto pregiato. Piantare varietà di zone calde,
come la Spagna, in altri luoghi che lo stanno
diventando potrebbe anche dare vini gustosi, ma
questo processo per tentativi può durare anni.
Coltivare nuove varietà in grado di resistere
meglio all'aumento delle temperature è una
possibilità che si sta esaminando con alcuni
prodotti alimentari di base, ma per le uve da
vino ha un potenziale minore. La coltivazione
può richiedere un decennio o più, ma le
difficoltà sono soprattutto di tipo culturale.
La legge francese sulla denominazione, per
esempio, specifica che in certe zone si possono
coltivare solo certe varietà per ottenere il
marchio protetto della regione, per esempio
Bordeaux (anche se il Marselan, una varietà
selezionata in tempi più recenti con l'incrocio
tra Cabernet Sauvignon e Grenache, è stato
riconosciuto legalmente negli anni novanta con
la denominazione Côtes du Rhône). A livello
mondiale, spesso i consumatori sono radicati
nella preferenza per certe varietà, e una nuova
potrebbe avere molte difficoltà ad affermarsi
sul mercato.
All'interno di un vigneto già esistente, i
coltivatori possono tentare di contrastare il
cambiamento climatico intervenendo sulla
gestione delle piante. Per esempio possono
cambiare la direzione dei filari, o il modo in
cui le piante vengono indirizzate durante la
crescita e sostenute dai tralicci, per avere più
ombra man mano che le temperature aumentano.
Oppure possono eseguire innesti tra la varietà
già esistente e una nuova, in grado di
sopportare meglio il caldo. In genere però
queste importanti decisioni vengono prese una
volta sola, all'inizio del lungo ciclo vitale di
un vigneto.
Ma anche decisioni meno drastiche possono
avere conseguenze notevoli per l'adattamento. I
coltivatori non sono in grado di controllare la
temperatura nel macroclima della loro regione, e
hanno poche possibilità di controllarla nel
mesoclima del vigneto, per esempio con
irrigatori sovrachioma o teli ombreggianti. Ma
possono infittire la copertura di foglie o
cambiarne la posizione per rinfrescare il
microclima dell'uva che sta maturando, per fare
sì che mantenga meglio i composti determinanti
per il gusto.
In California, per esempio, nei vigneti
intorno a Carneros, le mie misurazioni hanno
indicato livelli di luce solare molto alti
(oltre il triplo di quelli rilevati in
precedenza) sull'uva di oltre 500 viti di Pinot
nero. Tutti i germogli e le foglie erano tenuti
rigidamente sopra i grappoli tramite cavi per
aumentare la circolazione dell'aria e ridurre le
malattie. Le analisi che ho eseguito insieme con
i miei colleghi di Stanford e Università della
California a Davis hanno dimostrato che ogni
punto percentuale in più di luce determinava una
diminuzione superiore al 2 per cento di tannini
e antocianine desiderabili. L'abbandono dei
tralicci verticali per aumentare l'ombra sulla
frutta potrebbe contribuire al mantenimento di
questi composti, oltre naturalmente a
rinfrescare l'uva.
Anche se il gusto di un vino deriva per lo più
dall'uva, i vinificatori possono intervenire
nella fase di lavorazione per cercare di
conservare le caratteristiche tipiche di un
certo luogo. Se gli acidi si perdono troppo
presto a causa del riscaldamento, se ne possono
aggiungere nelle cantine. Se l'uva accumula
troppo zucchero, che con la fermentazione
porterebbe a livelli di alcool tali da
sovrastare le sfumature gustative, i
vinificatori possono usare l'osmosi inversa o
altre tecniche per eliminare l'alcool in
eccesso. Queste opzioni però sono strumenti
piuttosto rudimentali: non riescono a correggere
del tutto gli aromi che nascono nella vigna.
Ricavare il gusto migliore dal terreno è
un'arte che richiede anni di lavoro intenso.
Alcuni esperti del settore ritengono che le zone
vinicole degli Stati Uniti come Napa e Sonoma
siano ancora alla ricerca del terroir ideale.
Alcuni anni fa Jason Kesner, che all'epoca
gestiva un famoso vigneto a Napa-Carneros, mi ha
detto che forse in quella zona serviranno intere
generazioni per raggiungere l'eccellenza. «Ci
vuole una generazione per far crescere un
vigneto - diceva - e poi ci vogliono i figli per
capire come piantarlo in modo diverso, e ci
vogliono i nipoti per migliorare ulteriormente.
È per questo che i francesi hanno vigneti così
straordinari: hanno avuto più tempo per
imparare». Eppure, dato che le uve migliori sono
tanto sensibili al clima, se questo cambia anche
solo un po' le conoscenze e le abilità
perfezionate nel corso di generazioni possono
diventare meno importanti, perfino su un terreno
conosciuto.
Cambio di zona
Pur essendo relativamente nuovi, un Cabernet
di Napa e un Pinot di Carneros hanno ciascuno il
suo profilo e i suoi appassionati. «Ho aperto la
bottiglia di vino e profumava di Carneros», mi
ha detto poeticamente Debby Zygielbaum
dell'azienda Robert Sinskey Vineyards di Napa.
Se il cambiamento climatico altera l'aroma e il
gusto delle uve, potrebbe danneggiare queste
regioni. È vero che il riscaldamento potrebbe
migliorare la viticoltura in alcune zone più
fresche, per esempio la Tasmania, ma con ogni
probabilità i cambiamenti saranno deleteri per i
principali centri vinicoli, che si sono
sviluppati su misura per le condizioni attuali.
Secondo le mie ricerche, per esempio, un
riscaldamento primaverile superiore a un grado
ha buone possibilità di ridurre la produzione di
uva da vino californiana. Un altro esempio:
sempre in California, quando l'uva Pinot nero
matura oltre una soglia di temperatura ottimale,
il suo prezzo cala nettamente.
Come abbiamo visto, coltivatori e vinificatori
hanno alcune soluzioni tecniche per adattarsi,
ma resta da verificare se basteranno. E quand'è
che l'applicazione del know-how rende il vino un
prodotto artefatto, anziché l'espressione
autentica del gusto unico di un luogo? In fondo,
l'adattamento ha dei limiti sia biofisici sia
economici.
Secondo i più recenti rapporti scientifici, se
il consumo mondiale di combustibili fossili
manterrà la tendenza attuale, nelle prossime
generazioni la temperatura media globale subirà
un aumento tra circa 2,6 e 4,8 gradi. Potrebbe
sembrare una crescita contenuta, ma pensate che
il limite minimo di questo intervallo
corrisponde circa alla differenza attuale tra
Napa e Fresno; quello massimo è la differenza
tra la città vinicola di Lodi, nella Central
Valley in California, e Houston, in Texas. Per
quanto ingegnosi e creativi siano i viticoltori,
è difficile immaginare che Houston diventi
l'erede della Napa Valley.
Il vino è letteralmente un messaggio in
bottiglia, dove è racchiuso per il nostro
piacere. Ci permette di visitare parti del mondo
che forse non vedremmo mai di persona. Riflette
la straordinaria varietà ambientale e culturale
del pianeta, e il forte rapporto che ha
l'umanità con la natura, cui si affida per
ottenere tutto ciò di cui ha bisogno per vivere,
e molto di ciò che rende la vita degna di essere
vissuta. Oggi rischiamo di compromettere
gravemente la vita sulla Terra. Se non
introduciamo cambiamenti forti molto presto,
perdere il gusto del vino della mia terra sarà
probabilmente l'ultimo dei problemi.
Quando raccogliere l'uva diventerà più difficile
L'uva da vino impiega circa tre-quattro mesi
per maturare, ma non è facile decidere quando
vendemmiarla. Man mano che l'uva matura, il suo
livello di zucchero aumenta e quello di acido
diminuisce. Il rapporto ideale per un buon vino
si raggiunge intorno ai quattro mesi. Anche il
gusto complessivo, influenzato da altri
composti, arriva al massimo intorno a quel
periodo, e determina un breve intervallo di
tempo ideale per la vendemmia. Questa decisione
si farà più difficile.
Con il riscaldamento dell'atmosfera, il
rapporto ottimale tra acidi e zucchero si
raggiunge prima nella stagione di crescita.
Anche il momento ideale per il gusto può essere
anticipato, ma in misura minore, e resta così un
divario di tempo tra il picco dell'equilibrio e
quello del gusto, il che complica la ricerca
della combinazione migliore. Inoltre l'uva
potrebbe maturare troppo velocemente rispetto al
potenziale accumulo di gusto o al raggiungimento
del colore ideale.
Il test casalingo di assaggio del vino
Chiunque può imparare ad assaggiare il vino in
modo più analitico, anche senza seguire i
critici professionisti. Si tratta per lo più di
imparare a identificare gli elementi del vino e
associarli al termine che li descrive. Poiché
persone diverse possono avere una percezione
iniziale altrettanto diversa di un certo gusto,
negli esperimenti di assaggio per prima cosa si
annusano campioni fisici, per esempio le more,
in modo da mettersi d'accordo sul significato
del termine «mora». Quindi i partecipanti
entrano in cabine singole, illuminate con una
fioca luce rossa per far sì che tutti i vini
sembrino dello stesso colore. Un ricercatore
introduce un vassoio con i vini numerati e i
partecipanti li valutano sullo schermo di un
computer.
A casa potete semplificare questa procedura e
renderla più divertente. Per prima cosa, dite a
un gruppo di amici di portare una certa varietà
di vino, per esempio il Syrah. Il vostro compito
come padroni di casa consiste nel trovare
campioni dei gusti che di solito si rilevano nel
Syrah: pepe nero, mora, chiodo di garofano.
Mettetene ciascuno in un bicchiere e copritelo
con un pirottino per trattenere i composti
aromatici. Quando gli ospiti si sono accomodati,
passate i bicchieri e annusate i campioni.
Quindi assaggiate ciascun vino e vedete quali
aromi riconoscete e con che intensità.
Se volete un aiuto, potete considerare la
«ruota degli aromi» messa a punto dalla chimica
Ann Noble. Il centro indica categorie generiche
di aromi, per esempio fruttato o speziato.
Andando verso l'esterno della ruota, ogni
categoria diventa sempre più precisa: prima
fruttato, poi frutti di bosco, poi lampone.
Imparare a percepire meglio i dettagli del mondo
sensoriale può rendere molto più piacevoli le
ore trascorse ogni giorno cucinando e mangiando.
Piemonte letterario
(di Fabio Sebastiano Tana, «Meridiani» n.
227/15)
- Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Davide
Lajolo: i paesaggi protagonisti delle loro opere
si sovrappongono negli itinerari di un Parco
letterario che permette di «rivederli» nelle
parole degli autori. Anche se buona parte di
quel mondo antico non c'è più... Non c'è niente di male a dire che Langhe e
Monferrato non sono più quelli di una volta. Non
sono più, cioè, come i grandi cantori di queste
terre li hanno descritti mezzo secolo fa o poco
più: poveri, disperati, perfino insanguinati.
«Quanto sangue ha già bagnato queste vigne», si
chiede Corrado, il protagonista di La casa in
collina di Cesare Pavese. Nessuno stupore e
nessun rimpianto, oggi, se Canelli non è più «la
porta del mondo», come narra lo stesso Pavese, o
se non si devono più patire fame e freddo in
luoghi come la cascina del Pavaglione, dove
Beppe Fenoglio ha ambientata La malora. Ma
proprio in questo cambiamento sta la vitalità
delle iniziative che fanno del triangolo
racchiuso fra Alba, Vinchio e Santo Stefano
Belbo (dilatandosi fino ad Asti, per chi voglia
inglobare un padre nobile come Vittorio Alfieri,
e Bra nel nome di Giovanni Arpino) un
laboratorio di cultura e insieme un museo a
cielo aperto. Un museo nel quale il paesaggio,
che accompagna il visitatore nelle passeggiate,
si fa riferimento letterario.
Qualcuno negli anni passati ha cercato di dare
unità a tutto ciò. L'idea era quella di un nuovo
marketing territoriale, per far conoscere e
promuovere un'«identità» della quale romanzi e
poesie sono la migliore testimonianza. Non se ne
è fatto niente. Il «progetto turistico
integrato», fatto di un «rapporto strategico tra
i diversi percorsi letterari presenti sul
territorio» (del quale si parlava in una
Dichiarazione di Intenti sottoscritta alcuni
anni fa da varie istituzioni locali e
associazioni culturali), non ha preso forma. Ma
in fondo non c'è problema per chi voglia
avvicinarsi ai luoghi che riportano alle opere e
alla vita dei maggiori scrittori di queste
terre. Il Parco letterario e paesaggistico di
oggi rappresenta infatti una funzionale rete di
itinerari, tracciati e controllati da una
costellazione di organizzazioni - alcune
collegate alle amministrazioni locali, altre
nate dall'iniziativa di studiosi e appassionati
- che convivono e collaborano. Senza contare il
brulicare di ristoranti e agriturismi battezzati
con il nome di celebri romanzi. Dice Luigi
Genesio Icardi, sindaco di Santo Stefano Belbo e
presidente della Fondazione Pavese: «Si tratta
di tutelare e custodire quel patrimonio
immateriale che sta alla base della storia di
ognuno di noi. Il compito degli enti culturali è
fornire un modello esistenziale, che qui affonda
le radici in un passato raccontato da scrittori
come Pavese e Fenoglio». E in quel modello
campeggia soprattutto il culto delle origini,
quell'essere in qualche modo tutti «figli della
malora», come ha ricordato Giovanni Ferrero nel
febbraio scorso, durante i funerali del padre
Michele. Quasi un mantra la celebre frase di La
luna e i falò: «Un paese vuol dire non essere
soli, sapere che nella gente, nelle piante,
nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche
quando non ci sei resta ad aspettarti».
E alla sua Alba, alla sua casa natale con il
balcone che si affaccia su piazza del Duomo,
accanto alla quale è stato creato il centro
culturale che porta il suo nome, era legatissimo
Fenoglio, come i personaggi cui ha dato vita con
chiaro intento autobiografico. Quanto a Davide
Lajolo, biografo di Pavese e Fenoglio oltre che
scrittore a sua volta, ha fatto
dell'attaccamento a una tradizione contadina,
che pur gli sfuggiva, la chiave di gran parte
della sua opera. «Questa è la mia terra, è come
una donna che mi piace tanto, che sento mia e
che nessuno può portarmi via», scrisse.
La camera di Pavese
Ecco perché ha senso tornare su questi
bricchi, anche se il panorama non è più quello
che videro Anguilla, protagonista de La luna e i
falò, o il fenogliano partigiano Johnny. Sul
versante delle colline è scomparsa la
«policoltura», cioè l'antica e fitta rete di
boschi, rive, vigneti, prati, campi, noccioleti,
mentre la maggior parte degli splendidi
cascinali in pietra e mattoni è stata demolita.
Adesso in effetti tutto è vigna, perfetta,
rigorosa, suddivisa in quadrati che trasformano
la campagna in una scacchiera. L'antropizzazione
si traduce in ordine e funzionalità, ma proprio
per questo è importante lo sforzo di restituire
visibilità alle origini, attraverso il recupero
e la riqualificazione di molti siti
significativi. Per esempio la cascina del
Pavaglione è adesso una biblioteca, aperta al
pubblico. La casa di Pavese è divenuta un museo
con la camera dove è nato nel 1908, con
fotografie d'epoca e documenti come la pagina di
Dialogo con Leucò dove lo scrittore vergò il suo
addio al mondo: «Perdono tutti e a tutti chiedo
perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
È gestita dal Cepam (Centro pavesiano museo casa
natale) ed è qui che ogni anno, a fine agosto,
si svolge la cerimonia di consegna del Premio
Cesare Pavese, nel 2015 assegnato a Roberto
Vecchioni, Gian Luigi Beccaria, Aldo Nove e
Giancarlo Giannini. Trasformata in museo anche
la casa-bottega di Pinolo Scaglione, il Nuto di
La luna e i falò, con il laboratorio di
falegnameria, la stanza degli strumenti
musicali, perfino il bel glicine all'ombra del
quale Pinolo raccontava agli ospiti i giorni con
l'amico Cesare. Di fronte sorge la cascina della
Mora e, venendo da Canelli, è proprio da questo
incrocio di reminiscenze pavesiane che parte un
itinerario fra le colline del Salto e della
Gaminella. Sulla prima, la rossa torretta del
Nido, inarrivabile dimora dei ricchi, dotata di
«stanze dove stavano in quindici, in venti, e
mangiavano, suonavano tutto il giorno»;
sull'altra il poverissimo casotto della
Gaminella.
Non solo passeggiate, dunque, ma anche
promozione e sviluppo culturale. Oltre al Cepam,
a Santo Stefano Belbo è stato creato un centro
studi - ora sotto l'egida della Fondazione
Pavese - che è riuscito perfino a vincere la
proverbiale «malora». La sua prima sede,
edificata nel 1981 sulle rive del Belbo dove
parte la strada per Moncucco, la collina così
indissolubilmente legata a Lavorare stanca e al
componimento sui «mari del sud» che apre la
raccolta, venne infatti distrutta dall'alluvione
del 1994. È però risorta nel giro di un
decennio, stimolando anche il risanamento della
parte più bella del paese. Il centro studi ha
una nuova biblioteca, con un ingresso vagamente
piramidale, tocco di stravagante modernità, e
dispone di una foresteria e di un auditorium
ricavato dal restauro della chiesa sconsacrata
dei Santi Giacomo e Cristoforo. Vi si fanno
mostre, concerti, conferenze, vegliati da cinque
grandi tele di Ernesto Treccani ispirate a La
luna e i falò. Una di esse raffigura lo
sbuffante trenino che, diceva Pavese, riempiva
«la vallata filando o venendo da Canelli» e con
il quale «si va dappertutto».
Il mare verde di Lajolo
In realtà i treni non arrivano più a Canelli
né passano ancora per la valle del Belbo, altro
segnale di quanto le cose siano cambiate.
Proprio per questo, però, il Parco diventa un
museo della memoria che trasforma le Langhe in
uno spazio narrativo. E Davide Lajolo, che del
salvataggio del mondo contadino dal quale
proveniva ha fatto una missione, ne diventa una
sorta di nume tutelare. Il suo consapevole
impegno, tradottosi nella raccolta I mè,
traspare molto bene nei tre itinerari letterari
che si dipanano intorno a Vinchio, il paese che
Lajolo definiva «il mio nido», dove era nato
«nella stagione del grano biondo». Sono
itinerari particolarmente legati alla natura,
anche perché, come spiega Laurana, figlia dello
scrittore e animatrice dell'associazione che ne
tiene vivo il ricordo, «nel Monferrato più che
nelle Langhe c'è ancora un'alternanza di boschi
e vigne e si avverte un minore sfruttamento
intensivo del territorio, con al centro la
produzione di vino. Nella zona intorno a Nizza
il paesaggio ha una biodiversità molto spiccata.
Si possono fare passeggiate all'ombra di grandi
alberi, vedere animali selvatici e scoprire
l'orchidea selvatica. L'ambiente ha ancora
caratteristiche antiche». Una volta l'anno
vengono organizzate gite collettive su ciascuno
degli itinerari. Il primo passa fra le tartufaie
naturali della valle delle Settefiglie, devia
verso la «tana» di tufo dove il partigiano
Ulisse/Lajolo si rifugiò durante il
rastrellamento del dicembre 1944, soprattutto si
inoltra nei vigneti in cui lo scrittore, anche
sotto il sole cocente, amava camminare,
ricordare la fatica del padre e dei fratelli
contadini, ascoltare il frinire delle cicale. Il
secondo porta al Bricco del Saraceno, che nel
toponimo ricorda la battaglia di Aleramo contro
i Saraceni, e il terzo conduce alla Riserva
naturale della val Sarmassa, definita da Lajolo
«il mio mare verde». Si cammina fra robinie e
castagni, rose canine e biancospini fino alla
Ru, la quercia secolare vanto della riserva che
riporta al racconto ispirato alla leggenda di
Clelia e Ariosto, due giovani innamorati che
cercarono inutilmente di sfuggire alla peste del
1630 salendo proprio su quell'albero.
Le vie di Fenoglio
Anche gli itinerari fenogliani si immergono
nella natura, ma questa - negli agganci
letterari - è un mezzo, non il fine. Al centro
c'è invece il tema del riscatto e della ricerca
della propria identità attraverso il lavoro, la
lotta partigiana o l'amore. Il mood è quello
della tragedia greca, con l'eroe condannato a
morire per compiere il suo destino, così come
muore Milton, il protagonista di Una questione
privata, lungo la strada che da Alba si inerpica
verso la frazione di San Rocco e che è inclusa
in uno degli itinerari. «Questa strada, dove si
trova la casa di Fulvia, la donna amata da
Milton, è protagonista delle pagine del romanzo,
ma riporta anche a I ventitré giorni della città
di Alba», dice Bianca Roagna, direttrice del
Centro studi Beppe Fenoglio. «È da essa che i
partigiani entrarono momentaneamente vittoriosi
in città, confluendo da Barbaresco, Treiso, San
Rocco». Un altro percorso costeggia il Tanaro e
le Rocche, i grigi calanchi tufacei che rompono
l'armonia verde delle colline. Si spinge fino a
Barbaresco, borgo antico costellato di cantine
dominato dalla possente torre del Bricco, alta
36 metri. Non meno suggestivi sono altri piccoli
centri come Neive e Mango, così determinante per
il partigiano Johnny: bel nucleo storico,
grandioso panorama, citazioni dotte sugli
appositi cartelli, cantine e, all'interno
dell'antico castello, l'Enoteca regionale del
moscato. Si potrebbe pensare che la cultura del
vino travolga ogni altro interesse, ma forse non
è così o almeno questa è l'opinione di Roagna,
che dice: «Quest'anno c'è stato un rispolvero
nazionale della Resistenza, per i settant'anni
dalla fine della Seconda guerra mondiale.
L'impressione è che ci sia un nuovo interesse da
parte degli studenti. E a dimostrare quanto
Fenoglio sia letto anche all'estero stanno Casa
Fenoglio e i percorsi in collina, che oggi sono
visitati sempre più da anglosassoni e, perfino,
da tedeschi».