Ottobre-Dicembre 2015 n. 4 Anno XXIX Quaderni di Minimondo Rivista culturale Braille Periodico trimestrale Direzione Redazione Amministrazione Biblioteca Italiana per i Ciechi 20900 Monza - Casella postale 285 c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71 e-mail: [email protected] Dir. Resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani, Antonietta Fiore, Luigia Ricciardone, Pietro Piscitelli (Responsabile) Copia in omaggio Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi «Regina Margherita» ONLUS via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Indice Comunicazione importante La perdita di udito nascosta (di M. Charles Liberman, «Le Scienze» n. 566/15) Che gusto avrà il nostro vino? (di Kimberly A. Nicholas, «Le Scienze» n. 559/15) Piemonte letterario (di Fabio Sebastiano Tana, «Meridiani» n. 227/15) Comunicazione importante Questo è l'ultimo numero di Quaderni di Minimondo come lo avete conosciuto fino ad ora. A partire dal 2016, pubblicheremo la rivista Parliamo di..., che presenterà anch'essa articoli di approfondimento culturale ma, a differenza dei vecchi Quaderni, avrà periodicità mensile e si comporrà di un solo fascicolo. Ne troverete qui allegato il numero 0. Ci auguriamo di farvi cosa gradita, fornendovi un'informazione più puntuale e frequente. La perdita di udito nascosta (di M. Charles Liberman, «Le Scienze» n. 566/15) - Martelli pneumatici, concerti e altre fonti comuni di rumore possono causare un danno irreparabile alle nostre orecchie in modi inaspettati. I tifosi dei Seattle Seahawks e dei Kansas City Chiefs, due squadre di football americano, nelle partite giocate in casa fanno regolarmente a gara per conquistarsi un posto nel Guinness dei primati per lo stadio più rumoroso. Il 1° ottobre 2014 i Chiefs hanno toccato il picco più recente: 142,2 decibel (dB). Quel livello equivale al doloroso e irritante rumore di un jet a 30 metri di distanza, un tipico esempio che gli esperti di udito citano come un rumore abbastanza forte da causare un danno all'udito. Dopo la partita, i tifosi erano entusiasti. L'esperienza li aveva divertiti, percepivano un tintinnio nelle orecchie o avevano la sensazione che i loro timpani stessero per esplodere. Quello che però avveniva nelle loro orecchie non era meraviglioso. Un test audiometrico, se effettuato prima e subito dopo la partita, avrebbe potuto mostrare un marcato deterioramento. Il suono più flebile che un tifoso poteva udire prima dell'inizio, per esempio parole sussurrate, poteva non essere più percepibile a metà partita. Le soglie uditive potevano essere aumentate addirittura di 20-30 decibel al fischio finale. Con la progressiva diminuzione del tintinnio durante i giorni successivi, il risultato del test uditivo - un audiogramma - sarebbe addirittura potuto tornare ai livelli di base, via via che la capacità di udire suoni flebili era ripristinata. Per lungo tempo gli scienziati hanno pensato che, una volta tornate nella norma le soglie uditive, anche l'orecchio avrebbe dovuto fare lo stesso. Di recente con i miei colleghi abbiamo dimostrato che questa ipotesi non è vera. Anche esposizioni che portano solo a temporanei aumenti delle soglie uditive possono causare danni immediati e irreversibili alle fibre del nervo acustico che invia informazioni uditive al cervello. Un simile danno può anche non alterare la percezione dei toni, come emerge dall'audiogramma, tuttavia può ostacolare la capacità di elaborare segnali più complessi. Questa malattia riconosciuta da poco è chiamata «perdita di udito nascosta», perché un normale audiogramma può nascondere il danno al nervo acustico e la riduzione uditiva a esso associata. Se una persona continua ad abusare delle proprie orecchie, il prezzo da pagare per le fibre nervose può aumentare. In effetti, questo danno può contribuire al graduale deterioramento della capacità delle persone di mezza età e anziane di distinguere i dettagli di un discorso. La perdita di udito nascosta però non si limita affatto alle persone anziane. Le ultime ricerche suggeriscono che questa perdita di udito sta emergendo anche in età più giovane nella società industrializzata, a causa della prolungata esposizione a suoni di intensità elevata, alcuni evitabili, altri no. Una meraviglia sensoriale La vulnerabilità dell'orecchio deriva da una stupefacente sensibilità, che permette di funzionare in una vasta gamma di livelli sonori. La nostra capacità di emettere un suono debole a una frequenza vicina a 1000 oscillazioni al secondo, o 1000 hertz (Hz), in altre parole la soglia a cui possiamo percepire quel suono, è definita come zero decibel (dB). Usando questa misura logaritmica, ogni aumento di 20 dB del livello sonoro corrisponde a un aumento di dieci volte nell'ampiezza delle onde sonore. A zero dB, gli ossicini dell'orecchio medio, le cui vibrazioni guidano il processo uditivo, hanno un'ampiezza di movimento inferiore al diametro di un atomo di idrogeno. All'estremo opposto, come il doloroso livello superiore a 140 dB ottenuto nella partita record dei Chiefs, l'orecchio è costretto a fare i conti con onde sonore la cui ampiezza è dieci milioni di volte superiore. Il processo uditivo inizia quando l'orecchio esterno fa passare le onde sonore nel condotto uditivo fino al timpano, che vibra e mette in movimento gli ossicini dell'orecchio medio. Le vibrazioni che ne derivano attraversano il condotto uditivo dell'orecchio interno pieno di liquido, la coclea, sede delle cellule ciliate che occupano una striscia spiraliforme di tessuto chiamata organo del Corti. Queste cellule prendono il nome da filamenti capelliformi detti stereociglia, che si allungano in fasci da un'estremità cellulare. Le cellule ciliate più sensibili alle basse frequenze si trovano a un estremo della spirale cocleare, mentre quelle più sensibili alle alte frequenze si trovano all'altro estremo. Quando le onde sonore piegano i filamenti, queste cellule convertono le vibrazioni in segnali chimici liberando una molecola che agisce come neurotrasmettitore, il glutammato, all'altra estremità, dove le cellule ciliate formano sinapsi con le fibre del nervo uditivo. A livello di sinapsi, il glutammato attraversa una stretta fessura per legarsi a recettori alla fine, o terminali, di una fibra nervosa uditiva. Ogni terminale si trova a un estremo di una cellula nervosa che estende una lunga fibra, un assone, verso l'altra sua estremità nel tronco encefalico. Il glutammato legato alle fibre nervose innesca un segnale elettrico che viaggia per tutto il nervo uditivo fino al tronco encefalico. Da qui, i segnali si spostano lungo una serie di circuiti neurali paralleli che attraversano diverse regioni - dal tronco encefalico fino a mesencefalo e talamo - e terminano il proprio viaggio nella corteccia uditiva. Nel complesso, questa articolata circuiteria analizza e organizza il nostro ambiente acustico in un insieme di suoni riconoscibili, che si tratti di una melodia familiare o di una sirena. Le cellule ciliate sono di due tipi, quelle interne e quelle esterne. Le cellule ciliate esterne amplificano i movimenti indotti dal suono nell'orecchio interno. Le cellule ciliate interne traducono questi movimenti nei segnali chimici che eccitano il nervo uditivo. Le cellule interne sono le più dirette responsabili di quello che definiamo «udito», perché il 95 per cento delle fibre nervose uditive forma sinapsi solo con le cellule ciliate interne. Perché così poche fibre colleghino le cellule ciliate esterne al cervello è ancora un mistero, ma si ipotizza che le fibre connesse a queste cellule possano essere responsabili del dolore che percepiamo quando l'intensità acustica di un'onda sonora si avvicina a 140 dB. Storicamente, la perdita dell'udito è stata accertata soprattutto con audiogrammi. Gli otorini sanno da tempo che gli operai che martellavano fogli di metallo per ottenerne caldaie soffrivano spesso di una perdita permanente nella percezione dei toni alle frequenze medie. Gli audiogrammi registrano la capacità di distinguere toni a intervalli di frequenza di un'ottava: per esempio 250, 500, 1000, 2000, 4000 e 8000 Hz. Nelle fasi iniziali della perdita dell'udito indotta da rumore, l'audiogramma mostra un avvallamento caratteristico per quegli operai, un'incapacità di percepire i suoni alle frequenze medie dello spettro uditivo umano. Negli anni cinquanta e sessanta studi epidemiologici su operai in fabbriche rumorose hanno mostrato una correlazione fra durata dell'impiego e declino dell'acuità uditiva. Con il tempo, il deficit iniziale che riguardava frequenze prossime ai 4000 Hz tendeva a estendersi anche ad altre frequenze. Molti operai più anziani hanno perduto l'udito a frequenze superiori a 1000 o 2000 Hz. Questa perdita di toni alti provoca un grave deficit uditivo perché gran parte delle informazioni che ricaviamo durante una conversazione si trovano nello spettro di frequenze che è diventato insensibile. Negli anni settanta, studi del genere hanno spinto il governo statunitense a stilare linee guida sul rumore per limitare l'esposizione sul posto di lavoro. Oggi diverse agenzie disciplinano i livelli di rumore e suggeriscono limiti differenti. La mancanza di un accordo preciso riflette le sfide che derivano dal valutare il rischio di danno da rumore. I problemi sono duplici. Ci sono enormi differenze individuali nella suscettibilità al rumore: ci sono quelle che potremmo descrivere come orecchie «forti» e orecchie «delicate». Ciò significa che le autorità regolatorie devono decidere quale percentuale della popolazione intendono proteggere e qual è il livello accettabile di perdita di udito. L'altro problema è che gli effetti del rumore sull'udito derivano da una combinazione complessa di durata, intensità e frequenza dei suoni a cui una persona è esposta. Attualmente la statunitense Occupational Safety & Health Administration (OSHA) stabilisce che i livelli di rumore non debbano eccedere i 90 dB per giornata lavorativa di otto ore. Il rischio di danno all'udito sopra i 90 dB è circa proporzionale all'energia totale veicolata all'orecchio (il prodotto della durata per l'intensità). Per ogni 5 dB in più sopra le otto ore standard, le linee guida dell'OSHA raccomandano di dimezzare l'esposizione: in altre parole, un lavoratore non dovrebbe essere esposto a 95 dB per più di quattro ore al giorno, o a 100 dB per più di due ore al giorno. Sulla base di questi livelli, l'esposizione superiore a 142 dB dei tifosi che gareggiano per il Guinness del rumore supererebbe le linee guida dell'OSHA in circa 15 secondi. Naturalmente, l'OSHA non indica normative sui livelli di rumore dei tifosi alle partite. Negli ultimi sessant'anni gli specialisti dell'udito hanno ritenuto che la lettura di un audiogramma rivelasse tutto quello che c'è da sapere sul danno all'udito indotto da rumore. In effetti, l'audiogramma rivela la presenza di un danno alle cellule ciliate dell'orecchio interno, e ricerche effettuate negli anni quaranta e cinquanta avevano dimostrato che quelle ciliate erano tra le cellule più vulnerabili nell'orecchio interno a sovraesposizioni acustiche. Esperimenti sugli animali, alcuni dei quali condotti nel nostro laboratorio, hanno dimostrato che le cellule ciliate esterne sono più vulnerabili di quelle interne, e che le ciliate della sezione della coclea che rileva toni ad alta frequenza sono più vulnerabili di quelle nella regione a bassa frequenza. È emerso anche che, una volta danneggiate, le ciliate non si rigenerano più. Addirittura, prima che le cellule degenerino un rumore intenso può danneggiare i fasci di stereociglia in cima alle cellule, e anche questo danno è irreversibile. Quando le cellule ciliate sono danneggiate o muoiono, le soglie uditive aumentano: bisogna alzare il volume della radio o un collega all'altro lato del tavolo deve alzare la voce. Studi più incisivi sul danno cocleare nell'essere umano sono stati ostacolati dal fatto che le cellule ciliate non possono essere oggetto di biopsia in modo sicuro e nemmeno di imaging in vivo con le tecniche attuali. Nell'essere umano, il danno associato alla perdita di udito indotta da rumore è stato studiato solo in persone che hanno donato le orecchie alla scienza alla loro morte. Anche a causa di questi limiti, se la perdita di udito sia inevitabile durante l'invecchiamento o se sia una conseguenza dell'esposizione al rumore della vita moderna, continua a essere un enigma per gli scienziati che studiano l'udito. Un indizio interessante è emerso da uno studio degli anni sessanta in cui i ricercatori hanno testato gruppi di persone residenti in ambienti eccezionalmente tranquilli, come la tribù dei Mabaa, nel deserto del Sudan. Il test dell'udito è risultato assai migliore negli uomini della tribù di età compresa fra i 70 e i 79 anni, rispetto a un gruppo di statunitensi della stessa età. Naturalmente, questi studi non possono distinguere altre differenze fra uno statunitense tipico e il tipico uomo Mabaa, come quelle correlate alla genetica o all'alimentazione. Danno profondo Studi recenti miei e di colleghi riguardo agli effetti del rumore sull'udito hanno aggiunto una nuova dimensione alla comprensione dei danni della sovraesposizione acustica. Da tempo scienziati e clinici sanno che la riduzione dell'udito da esposizione al rumore è reversibile solo in parte. In altre parole, a volte le soglie uditive tornano alla normalità in qualche ora o in qualche giorno, dopo un'esposizione; altre volte il recupero è incompleto e la soglia più elevata rimane per sempre. Un tempo gli scienziati dell'udito credevano che recuperando la soglia di sensibilità l'orecchio avrebbe recuperato del tutto. Oggi sappiamo che non è vero. Il boato della folla a una partita di football non solo influisce sulle cellule ciliate, ma danneggia anche le fibre del nervo uditivo. Negli anni ottanta io e altri colleghi abbiamo mostrato che un rumore troppo forte danneggia le terminazioni delle fibre nervose nel punto in cui formano sinapsi con le cellule ciliate. Rigonfiamento e rottura finale delle terminazioni si verificano probabilmente in risposta a un eccessivo rilascio del neurotrasmettitore glutammato da parte delle cellule ciliate troppo stimolate. In effetti, un rilascio eccessivo di glutammato in qualsiasi parte del sistema nervoso è tossico. Era opinione comune che queste fibre danneggiate dal rumore dovessero recuperare o rigenerarsi dopo un'esposizione a rumore intenso perché le soglie uditive possono tornare normali in orecchie che mostravano un consistente gonfiore del nervo immediatamente dopo l'esposizione. Nel mio laboratorio eravamo scettici sul fatto che queste sinapsi pesantemente danneggiate potessero rigenerarsi nell'orecchio adulto. Sapevamo anche che il danno nervoso indotto da rumore non si sarebbe necessariamente riflettuto nei test usati abitualmente, perché studi degli anni cinquanta su animali avevano dimostrato che la perdita di fibre del nervo uditivo, non accompagnata da perdita di cellule ciliate, non incide sulla qualità dell'audiogramma fino a quando la perdita non diventa catastrofica, superiore all'80 per cento. Sembra che non sia necessaria una gran quantità di fibre nervose per rilevare una nota all'interno di una cabina silente. Per analogia, prendiamo l'immagine digitale di un gruppo di persone e riproduciamola ripetutamente, ogni volta a una risoluzione minore. Riducendo la densità di pixel, i dettagli dell'immagine diventano meno chiari. Possiamo ancora dire che ci sono persone nella foto, ma non ne riconosciamo l'identità. Allo stesso modo, abbiamo ipotizzato, una diffusa perdita di neuroni non deve necessariamente danneggiare la capacità di individuare un rumore, ma potrebbe alterare la comprensione di un discorso in un ristorante rumoroso. Negli anni ottanta, quando abbiamo iniziato a studiare il danno nervoso indotto da rumore, l'unico modo per contare le sinapsi fra fibre nervose uditive e le cellule ciliate interne sfruttava una tecnica di microscopia, un procedimento laborioso che richiede quasi un anno di lavoro per analizzare le sinapsi nervose su un ridotto numero di cellule ciliate di una coclea. Venticinque anni dopo, con Sharon G. Kujawa del Massachusetts Eye and Ear, cercavamo di determinare se un episodio di sovrastimolazione acustica su orecchie di giovani topi accelerava l'insorgenza di perdita di udito legata all'invecchiamento. Il rumore a cui esponevamo gli animali era pensato per produrre solo un aumento temporaneo delle soglie uditive, dunque nessun danno permanente alle cellule ciliate. Come ci aspettavamo, le coclee dei roditori avevano un aspetto normale pochi giorni dopo l'esposizione. Ma quando abbiamo osservato gli animali in un arco di tempo che andava da sei mesi a due anni dopo l'esperimento, abbiamo notato una massiccia perdita di fibre nervose uditive, nonostante ci fossero cellule ciliate intatte. Per fortuna dagli anni ottanta abbiamo imparato molto su come studiare la struttura molecolare di queste sinapsi. Sono diventati disponibili anticorpi che si legano, ed etichettano, a diversi marcatori fluorescenti, strutture su entrambi i lati della sinapsi fra cellule ciliate interne e fibra del nervo uditivo. Le etichette hanno permesso di contare facilmente le sinapsi con la luce del microscopio. Così abbiamo accumulato dati che mostravano che pochi giorni dopo l'esposizione al rumore, quando la soglia uditiva era tornata normale, la metà delle sinapsi del nervo acustico era danneggiata e non si sarebbe più rigenerata. La perdita del resto dei neuroni corpi cellulari e assoni che si proiettano al tronco encefalico - diventavano evidenti in pochi mesi. Dopo due anni, metà dei neuroni uditivi era scomparsa. Non appena le sinapsi erano distrutte, le fibre collegate diventavano inutili e non rispondevano a suoni di alcuna intensità. Negli ultimi anni abbiamo documentato la degenerazione delle sinapsi indotta dal rumore in topi, porcellini d'India e cincillà, ma anche in tessuti umani post mortem. Abbiamo dimostrato con studi su animali e nell'orecchio umano che la perdita di connessioni fra fibre del nervo uditivo e le cellule ciliate si verifica prima dell'innalzamento delle soglie associato con la perdita di cellule ciliate. L'idea che il danno al nervo uditivo provochi una perdita di udito nascosta - una componente importante della riduzione uditiva causata da rumore e correlata all'età - è oggi accettata, e molti scienziati e clinici sono all'opera per sviluppare test in grado di determinare se il problema sia diffuso e se il nostro stile di vita rumoroso stia portando a un'epidemia di danno uditivo nelle persone di ogni età. Risanare i nervi In termini semplici, l'audiogramma, il test dell'udito che rappresenta il test standard di riferimento, misura le soglie uditive ed è una spia sensibile di danno alle cellule ciliate della coclea. Ma questo test è un indicatore scadente di danno alle fibre nervose uditive. Le nostre ricerche hanno dimostrato che il danno nervoso che si verifica nella perdita di udito nascosta non incide sulla capacità di rilevare un rumore, ma più probabilmente peggiora la nostra capacità di capire un discorso e altri suoni complessi. In effetti, potrebbe dare un significativo contributo alla classica lamentela delle persone anziane: «Riesco a sentire le persone che parlano ma non capisco cosa dicono». Gli audiologi sanno da tempo che due persone con un audiogramma simile possono dare risultati molto diversi nei test che misurano il numero di parole identificate quando il livello di un rumore di fondo aumenta. In precedenza, gli audiologi attribuivano queste differenze all'elaborazione del cervello. Le nostre ricerche suggeriscono che gran parte di esse emerge a causa di differenze nella popolazione di fibre nervose uditive sopravvissute. La perdita di udito nascosta potrebbe anche aiutare a spiegare altre lamentele comuni, inclusi acufeni (tintinnio nelle orecchie) e iperacusia (l'incapacità di tollerare anche suoni di moderata intensità acustica). Questi disturbi spesso sono presenti anche quando un audiogramma non mostra problemi. In passato, scienziati e medici sottolineavano il normale audiogramma di soggetti con acufene o iperacusia concludendo, ancora una volta, che il problema doveva risiedere nel cervello. Noi, invece, suggeriamo che il danno possa essersi verificato nel nervo uditivo. Le nostre ricerche sollevano domande sul rischio di esposizione abituale a musica elevata, ai concerti o nei locali, e alla musica ascoltata in cuffia. Sebbene la perdita di udito indotta da rumore sia un problema che interessa i musicisti professionisti, anche quelli di musica classica, studi epidemiologici effettuati su ascoltatori casuali hanno fallito nel trovare un impatto significativo sui relativi audiogrammi. Le linee guida statunitensi stilate per minimizzare il danno da rumore tra i lavoratori si basano sull'ipotesi per cui se le soglie post-esposizione tornano alla normalità, l'orecchio ha recuperato le proprie capacità. Come abbiamo visto, questa ipotesi è errata: ne consegue che le normative attuali sul rumore possono essere inadeguate a impedire un diffuso danno nervoso indotto da rumore e la conseguente riduzione uditiva. Per affrontare il problema, abbiamo bisogno di test diagnostici migliori per individuare il danno al nervo uditivo, senza contare le sinapsi in campioni autoptici. Un approccio promettente si basa sulla misurazione dell'attività elettrica nei neuroni uditivi, chiamata potenziali evocati acustici del tronco encefalico (o ABR da auditory brain stem response). I potenziali ABR si possono misurare in un soggetto sveglio o in sonno, sul cui cranio ci sono elettrodi che misurano l'attività elettrica (elettroencefalografia) generata in risposta a stimoli sonori in serie (tone burst) di frequenza diversa e diversi livelli di pressione sonora. Storicamente, il test ABR è stato interpretato in modo che una risposta elettrica evocata da un suono è interpretata come udito normale, l'assenza di una risposta è segno di danno. In studi su animali, abbiamo dimostrato che l'ampiezza dell'ABR a livelli sonori elevati fornisce informazioni: aumenta in proporzione e numero di fibre nervose uditive che mantengono una connessione vitale con cellule ciliate interne. In modo analogo, uno studio ispirato dalle nostre ricerche ha usato una variante del test ABR su studenti inglesi che avevano un audiogramma normale, trovando ampiezze inferiori nella risposta nei soggetti che riferivano di una ripetuta esposizione al frastuono di locali e concerti. Nella ricerca di potenziali terapie per la perdita di udito nascosta, ora ci chiediamo se sia possibile invertire la degenerazione indotta da rumore trattando i neuroni sopravvissuti con farmaci ideati per far ricrescere le fibre nervose, ristabilendo le connessioni con le cellule ciliate interne. Sebbene le stesse sinapsi siano distrutte subito dopo l'esposizione al rumore, la lentezza con cui il resto del nervo (del suo corpo cellulare e degli assoni) degenera ci fa ben sperare sul fatto che una normale funzione possa essere ripristinata in molti pazienti. Abbiamo ottenuto risultati incoraggianti su modelli animali somministrando neurotrofine (proteine che proteggono i neuroni) nell'orecchio interno. La perdita di udito nascosta potrebbe essere presto curata con iniezioni attraverso il timpano di gel che libera lentamente neurotrofine per ricostituire le sinapsi mesi o anni dopo un danno. I gel sarebbero iniettati subito dopo l'esposizione a un rumore intenso. Un otorino potrebbe un giorno somministrare farmaci alla coclea servendosi di trattamenti minimamente invasivi per curare un danno acustico, con la stessa facilità con cui un oculista corregge un occhio miope con la chirurgia laser della cornea. Come proteggere l'udito In studi effettuati su diverse specie animali abbiamo indotto un danno nervoso irreversibile nell'orecchio con un'esposizione per due ore di fila a un rumore compreso fra 100 e 104 dB. Ci sono tutte le ragioni per credere che l'orecchio umano sia altrettanto sensibile. La maggior parte delle esposizioni quotidiane che caratterizzano la nostra vita non dura così a lungo. Tuttavia, è prudente evitare un'esposizione non protetta a qualsiasi rumore che superi i 100 dB. Molti rumori nella vita quotidiana ci collocano in una zona di pericolo. Nelle sale da concerto e nei locali si producono abitualmente picchi di 115 dB, e livelli medi che superano i 105 dB. A livello dell'orecchio dell'utente, gli aspirafoglie a motore a scoppio e le falciatrici raggiungono livelli compresi fra 95 e 105 dB, come le seghe circolari a motore. Ma anche la frequenza del suono ha importanza. A parità di decibel, il gemito acuto di una levigatrice a nastro è più pericoloso del rombo meno acuto di una motocicletta smarmittata. I martelli pneumatici producono livelli di 120 dB anche per i passanti, e i rapidi colpi prodotti dalla punta metallica che incide l'asfalto producono una gran quantità di rumori acuti pericolosi. Che cosa possiamo fare? Oggi quasi tutti hanno accesso a misuratori accurati di livelli sonori da tenere in tasca o nel portafoglio. Ci sono innumerevoli app gratuite o a poco prezzo per smartphone con sistemi operativi come IOS o Android, che forniscono letture attendibili della pressione sonora prodotta da uno strumento musicale o da un'automobile la cui marmitta emette un ritorno di fiamma fino a 1-2 dB rispetto al più costoso equipaggiamento professionale per monitorare il suono. L'app per IOS che mi è stata più utile, Sound Level Meter Pro, costa meno di 20 dollari e ha fornito letture nel mio laboratorio con un'accuratezza prossima a 0,1 dB. Una volta consapevoli dei rumori potenzialmente pericolosi nell'ambiente in cui viviamo, c'è una buona notizia: c'è una protezione acustica efficace, poco costosa, facile da usare e da trasportare. Se inseriti adeguatamente, i tappi per le orecchie in schiuma possono attenuare il livello sonoro di 30 dB alle frequenze più pericolose. Arrotolatene uno fra le dita e trasformatelo in un cilindro più sottile che potete, poi inseritelo rapidamente più profondamente possibile nel vostro condotto uditivo. Non è più difficile né più pericoloso che mettersi gli auricolari per il telefonino. Lasciate che i tappi si espandano lentamente e nel giro di un minuto siete pronti per fare baldoria. Se siete a un concerto, questi tappi di schiuma smorzeranno un po' troppo il suono. Quando invece volete sentire il suono ma a un livello appena inferiore (sicuro), usate i tappi da musicista. On line sono disponibili diversi modelli per 10-15 dollari al paio. Sono ideati in modo da fornire un'attenuazione del suono di 10-20 dB, con un'identica capacità di smorzare picchi sonori acuti e bassi, in modo da non incidere sul timbro della musica. Più importante ancora, fate attenzione a quello che le vostre orecchie vi dicono. Se avete appena lasciato un evento o concluso un'attività, e avete la sensazione di avere le orecchie ovattate, o se le sentite tintinnare, ci sono buone probabilità che abbiate distrutto alcune sinapsi del nervo uditivo. Non disperatevi, ma cercate di non rifarlo. Che gusto avrà il nostro vino? (di Kimberly A. Nicholas, «Le Scienze» n. 559/15) - Mentre i cambiamenti climatici alterano la composizione dell'uva, i viticoltori cercano di conservare l'aroma dei nostri vini preferiti. Nella vigna faceva caldo, ero coperta di polvere, sudore e succo appiccicoso dei grappoli che avevo raccolto per proseguire la mia ricerca sull'influenza di luce e temperatura sulle proprietà biochimiche dell'uva. Quando all'improvviso ho visto qualcosa che mi ha bloccato. In un angolo di questo terreno di 26.000 metri quadrati a Carneros, nella celebre Sonoma Valley, in California, oltre molti bei filari con grappoli di Pinot nero si nascondevano alcune varietà di vite estranee. Durante i miei corsi universitari in viticoltura avevo studiato l'arte arcana dell'ampelografia l'identificazione dei vitigni in base alla forma di foglie e grappoli - e quindi potevo indovinare che cosa fossero: le varietà rosse Cabernet Franc, Petit Verdot, Syrah e Malbec, più un bianco, il Sauvignon. Quando nella vicina Napa ho rivisto Ned Hill, un vecchio compagno di scuola che gestisce alcune delle migliori vigne della zona, tra cui questa, gli ho chiesto di quegli strani vitigni. «Sto facendo un esperimento», ha risposto. «Qui fa già abbastanza caldo per coltivare il Pinot. Ora il prezzo è buono, quindi non voglio cambiare, ma presto faremmo meglio a coltivare qualcos'altro, quindi sto provando qualche varietà di climi più caldi». Un Cabernet a Carneros? Sembrava un'eresia. La zona di Napa è famosa per il suo Cabernet, ma dove le valli di Sonoma e Napa si allargano e si uniscono, arrivando alla baia di San Francisco, il territorio è più fresco e adatto al Pinot. In questa zona le giornate miti, le notti fresche, le brezze di mare rinfrescanti e i terreni argillosi producono Pinot con l'aroma di fragole rosse fresche e spezie come cardamomo e cannella. Se però le temperature continuano a salire il vino ricavato da quell'uva Pinot non sarà più lo stesso. Anzi, i coltivatori potrebbero essere costretti a passare al Syrah o perfino al Cabernet, ma rischiano di porre fine alla tradizione di Carneros, magari con un calo delle vendite. Forse il mio amico potrebbe spostare la sua attività a nord, alla ricerca di un clima più fresco, ma altrove l'uva Pinot sarebbe influenzata dal terreno, dall'umidità e dalle precipitazioni di quel luogo, e non avrebbe il gusto del Pinot di Carneros. Oppure il mio amico potrebbe usare un approccio d'emergenza e cercare di adattare le sue tecniche di coltivazione per conservare quel gusto unico: un compito arduo. Il cambiamento climatico sta cominciando a influenzare il gusto dei vini del mondo, l'esperienza dei vostri rossi e bianchi preferiti che conoscete e avete imparato ad apprezzare. Di conseguenza, coltivatori e vinificatori stanno cominciando a prendere varie decisioni, difficili e stimolanti, per trovare il modo di reagire. Saranno la velocità del cambiamento climatico e quella dell'innovazione a determinare se il loro adattamento permetterà a un Pinot di Carneros o a un Borgogna francese di conservare il proprio gusto tipico, o se invece spariranno zone vinicole dalla lunga tradizione e ne emergeranno di nuove. Un buon vino nasce nella vigna Quando si tratta di alimenti base come frumento, mais e riso, gli scienziati si preoccupano per gli effetti dell'aumento della temperatura sulla resa dei terreni. Ma con l'uva le temperature mettono a rischio la qualità, più che la quantità. In effetti nelle zone calde alcuni vigneti cercano grandi volumi e bassi costi. Per esempio a Fresno, nella Central Valley della California, i coltivatori puntano a una resa intorno a 27 tonnellate l'ettaro. Nel 2013 hanno venduto questa uva a un prezzo medio di circa 308 dollari la tonnellata, e il vino ricavato in genere finisce in bottiglie che costano meno di 7 dollari. Sulle strisce di terra più fresche che lambiscono la costa della California si pratica invece una versione di viticoltura più romantica. Circa 300 chilometri a nord di Fresno, nella Napa Valley, addetti esperti raccolgono l'uva a mano, tastando ogni pianta anche una dozzina di volte nel corso di una stagione. Riducono deliberatamente la resa potando le viti in inverno, in modo che ogni germoglio produca solo pochi grappoli, che d'estate vengono sottoposti a un'ulteriore selezione. L'obiettivo è compensare in qualità la perdita di quantità, dato che la pianta concentra le sue risorse, donando a quei pochi grappoli un gusto e un aroma più profondi e complessi. L'obiettivo è produrre circa 9 tonnellate l'ettaro, a un prezzo che nel 2013 ha raggiunto circa 3337 dollari la tonnellata. A questo aumento di dieci volte rispetto al prezzo dell'uva di Fresno ha contribuito una gestione attenta dei vigneti, ma gran parte del valore aggiunto è legato al clima: un effetto notevole grazie a una differenza apparentemente leggera della temperatura media annuale, più bassa di soli 2,5 gradi. Come mi ha detto un coltivatore, «neanche un genio riuscirebbe a produrre un buon Pinot nero a Fresno. Fa troppo caldo». Se fa «troppo caldo» è un problema, perché tutte le piante sono regolate dalla temperatura, e le viti in modo particolare. L'ambiente in cui si coltiva l'uva influenza il vino a tal punto che per definirlo in francese esiste una parola specifica: terroir. Il vino, come il caffè e altri prodotti tipici di una certa zona geografica, rispecchia il suo luogo di origine. La vite produce lo zucchero tramite la fotosintesi, quindi modifica e ricombina questo ingrediente iniziale per produrre innumerevoli composti che, arrivati nel bicchiere, possono profumare di lampone o erba appena tagliata. La temperatura, l'umidità, la luce e il terreno influenzano il modo in cui la pianta dirige questa sinfonia. Il vino è costituito per oltre l'80 per cento da acqua e, in genere, per il 1215 per cento da alcool, quindi tutto il resto ammonta solo a circa il 5 per cento. Questa minima parte di altri elementi crea il gusto unico del vino di una certa località, che i cambiamenti climatici stanno mettendo in pericolo. Anche se la produzione del vino richiede una notevole abilità, quasi tutti i vinificatori che ho intervistato ammettono senza problemi che gran parte della qualità potenziale di un vino è già decisa quando si consegna l'uva all'azienda vinicola. Alcuni dei gusti potenziali dipendono dal processo di vinificazione, per esempio dai lieviti usati nella fermentazione o dall'invecchiamento in botti di quercia, ma come mi ha detto un famoso vinificatore - «se nella vigna si fa tutto correttamente, a me basta non combinare disastri». Un buon vino nasce nella vigna, non in cantina. Clima diverso, gusto diverso Il clima ha una forte influenza sulla crescita dell'uva. Gli enologi ne considerano tre livelli: il macroclima di una regione, per esempio Carneros o Borgogna, il mesoclima di un vigneto e il microclima di un grappolo d'uva in una copertura di foglie. Il macroclima è influenzato da ampie condizioni geografiche da cui dipendono la stagione di crescita e l'andamento di temperature e precipitazioni. È soprattutto la temperatura a determinare quale varietà di uva, tra le migliaia esistenti, sia la più adatta per essere coltivata in un certo luogo: da quelle bianche croccanti, ideali per la breve stagione di crescita e le temperature fresche della Germania, a quelle rosso vivo, in grado di mantenere il proprio gusto nell'estate lunga, calda e secca della Spagna. La temperatura determina quando le viti si risvegliano in primavera dopo la quiescenza invernale, e stimola il processo di crescita e maturazione. Con l'aumento delle temperature a livello globale, regioni come il sud dell'Inghilterra stanno diventando più adatte alla viticoltura, mentre zone vinicole calde, per esempio in Australia, sono in difficoltà per temperature elevate e siccità frequenti che contribuiscono a rese irregolari, tenori alcolici troppo alti e gusti sbilanciati. I cambiamenti delle precipitazioni in una regione, in termini di quantità e distribuzione nel tempo, possono alterare la qualità dell'uva in vari modi, e un'umidità eccessiva può favorire il marciume da funghi. La siccità può provocare un forte stress a una pianta. Molte zone vinicole del continente americano, tra cui la California, sono ampiamente irrigate, ma le ricerche che ho condotto in un team guidato dai miei colleghi della Stanford University hanno dimostrato che anche nelle regioni irrigate le precipitazioni naturali influiscono sulla resa. Il modo in cui il mesoclima di un vigneto influenza il gusto nel bicchiere è meno evidente, ma il punto di partenza è l'equilibrio tra zucchero e acido nell'uva, i componenti che formano la base del gusto di un vino. La frutta accumula zucchero durante la maturazione, che dipende direttamente dalla temperatura. L'uva da vino matura ha un contenuto di zucchero molto alto: circa un quarto del peso, il doppio rispetto a una pesca dolce e succosa. Il calore fa crescere lo zucchero a un ritmo calcolabile: in genere uno o due punti percentuali per ogni settimana di maturazione. Lo zucchero si trasforma in alcool durante la fermentazione, quindi l'uva più dolce dà un vino con un maggiore tenore alcolico. Nel corso degli ultimi decenni l'aumento delle temperature ha determinato una tendenza globale verso vini dalla gradazione più alta. Spesso un maggiore contenuto di alcool è percepito come «caldo» e più amaro, e può sovrastare o alterare la percezione di gusti più sfumati. Allo zucchero fanno da contraltare gli acidi. Presenti in grandi quantità nell'uva acerba, durante la maturazione si decompongono parzialmente e danno al vino un gusto intenso e rinfrescante. Nelle regioni vinicole più fresche si coltivano varietà che riescono a maturare rapidamente nella breve stagione di crescita, ma hanno comunque un livello di acidi gradevole, non troppo alto. Con l'aumento delle temperature i vini provenienti da climi freschi, come il Riesling tedesco, potrebbero perdere il loro carattere rinfrescante, dato che con il calore viene meno il gusto pungente degli acidi. I vinificatori studiano lo zucchero e gli acidi da tempo, ma negli ultimi anni hanno cominciato a capire il ruolo di altri elementi del vino, presenti in quantità minori ma decisivi per l'esperienza gustativa. I composti fenolici, per esempio, sono importanti per il colore del vino: prima di berlo lo vediamo nel bicchiere, dove il colore influisce inevitabilmente sulla nostra percezione complessiva. In un test, un vino bianco è stato colorato di rosso, e per descriverne il gusto perfino dei sommelier esperti gli attribuivano le caratteristiche del vino rosso. Il succo delle uve classiche (del Vecchio Continente) non è pigmentato: il colore dei vini deriva da composti fenolici presenti nelle bucce, le antocianine. Questi composti sono ampiamente diffusi in natura: sono ciò che rende bluastri i mirtilli e viola le melanzane. Quando dopo la vendemmia l'uva viene pigiata, le varietà rosse sono lasciate a contatto con le bucce per settimane durante la fermentazione, in modo da trasferire il colore al succo. Le uve bianche hanno già di per sé una minore concentrazione di composti fenolici, e in genere vengono separate subito dalle bucce. La presenza nell'uva di composti fenolici dipende dall'esposizione al Sole, ma in genere nei vini provenienti da zone più calde il colore desiderabile è meno presente. Le ricerche suggeriscono però che non entrino in gioco solo i cambiamenti della temperatura media: un aumento oltre certi limiti può avere conseguenze non lineari che portano alla diminuzione delle antocianine. Il microclima del vigneto influisce anche sui tannini, che danno al vino una certa consistenza (per esempio «corposo» o «morbido»). I tannini sono un altro composto fenolico, e sono talmente sgradevoli che proteggono la frutta non ancora matura, impedendo ad animali e parassiti di mangiarla. In bocca i tannini si combinano con le proteine della saliva, asciugando la lingua e le gengive, e questa sensazione influenza il modo di percepire il gusto del vino. Un buon equilibrio dei tannini aiuta l'abbinamento tra vino e cibo, dato che ripuliscono fisicamente il palato, togliendo il grasso dalle papille gustative e permettendo di assaporare appieno ogni boccone. Un eccesso di calore o di luce può ridurre i tannini e potenzialmente rendere i vini meno equilibrati. Maturo per l'olfatto Siamo quindi arrivati ai componenti in tracce a cui si deve gran parte del carattere unico di un vino. Sono un fattore essenziale, soprattutto per l'olfatto. Quando assaggiamo il vino, spesso per prima cosa lo facciamo girare e annusiamo l'aroma. La rotazione volatilizza i composti del vino, che quindi vengono a contatto con i recettori del naso, inviando segnali al cervello che li interpreta come un gusto: è l'integrazione di molti messaggi sensoriali. Gran parte di ciò che comunemente percepiamo come gusto deriva dal nostro straordinario senso dell'olfatto. È il motivo per cui ciò che mangiamo sembra insapore quando siamo raffreddati: i composti aromatici non riescono a raggiungere il naso intasato dall'interno, cioè dal retro della bocca. Provate a mangiare una mela sbucciata e una patata cruda con il naso tappato: è sorprendente quanto sia difficile distinguerle. Più che degustare il vino, bisognerebbe dire che lo annusiamo, anche se l'espressione è meno affascinante. Enologi e ricercatori stanno ancora perfezionando la conoscenza dei composti in tracce alla base di gusto e aroma, che si possono formare in svariati modi. In genere quelli presenti nell'uva si accumulano nelle ultime fasi della maturazione, e sappiamo che in questo periodo il loro sviluppo è influenzato dalle temperature. Questa cosiddetta maturazione del gusto potrebbe avvenire a un ritmo diverso rispetto a quella prevedibile dello zucchero, che tradizionalmente determina le decisioni sulla vendemmia. Invece di raccogliere l'uva quando raggiunge un certo tenore zuccherino, molti vinificatori decidono quando vendemmiare assaggiandola nella vigna, alla ricerca di gusti che a loro giudizio renderanno buono il vino. In genere il gusto evolve gradualmente: da quello di frutta e verdura verde ai frutti rossi come i lamponi, quindi neri come le more e, infine, con note di confettura come l'uva passa. In alcune regioni questa strategia ha portato a una tendenza verso un maggiore tempo di maturazione, cioè a lasciare la frutta sulla pianta più a lungo per fare maturare meglio il gusto. Ad alcuni coltivatori questo metodo non piace perché l'uva perde acqua, il che può ridurre il peso e quindi il guadagno. Il maggiore tempo di maturazione aumenta inoltre il livello di zucchero nell'uva, e questo potrebbe costringere ad aggiungere in seguito acqua al succo, per ottenere alla fine il giusto tenore alcolico. I ricercatori stanno cercando di capire meglio come gli oltre 1000 composti aromatici del vino influenzino la percezione del gusto. È un aspetto difficile da prevedere, perché alcuni composti sono presenti in concentrazioni molto basse e la sensibilità umana nei loro confronti può variare di centinaia o migliaia di volte da una persona a un'altra. Al profumo di fragola, per esempio, possono contribuire oltre 200 composti, e ciò che fa scattare il segnale «fragola» potrebbe essere diverso per voi e per me. (Quindi non preoccupatevi se, quando assaggiate i vini, non date la risposta «giusta»: non esiste.) A volte è un solo composto «di impatto» a costituire la base di un odore caratteristico, e capirne gli effetti sui nostri sensi può aiutare i coltivatori a perfezionare il prodotto. Negli anni ottanta, seguendo un'intuizione, Hildegarde Heymann, dell'Università della California a Davis, ha scoperto che un composto chiamato metossipirazina, responsabile dello sgradevole aroma di peperone nel Cabernet Sauvignon, veniva distrutto dalla luce. I coltivatori hanno cambiato la disposizione dei tralci per ridurre l'ombra sui frutti, e il Cabernet californiano è migliorato molto. Indagini più recenti, condotte da Claudia Wood e colleghi in Australia, Cile e Germania, hanno individuato in un unico composto, il rotundone, la fonte del piacevole aroma di pepe nero nel Syrah, e altre ricerche indicano che l'accumulo di rotundone sia probabilmente maggiore nei luoghi e negli anni più freschi. I coltivatori reagiscono La comprensione di tutti i fattori che influenzano il gusto di un vino aiuta i viticoltori a valutare le possibili soluzioni per adattarsi al cambiamento climatico. L'intervento più drastico sarebbe uno spostamento da una zona all'altra, per esempio dalla California all'Oregon, oppure - soluzione meno estrema - all'interno di una regione, magari da valli calde a versanti di colline più freschi. Alcuni studi hanno valutato queste possibilità, ma si basano principalmente sulle previsioni di cambiamenti della temperatura, senza considerare altri importanti fattori ambientali. Ci sono stati articoli di giornale che, in base a queste limitate analisi, sono arrivati perfino a definire a rischio determinate regioni vinicole, prevedendo un calo di qualità e quantità dell'uva. Nella pratica, l'idea semplicistica di spostarsi è ostacolata da vari fattori. Per un vino di alta qualità è necessario un terreno adeguato, che offra le sostanze nutritive e l'approvvigionamento idrico ideali, e non è detto che esista in una nuova regione. Anzi, può anche darsi che non sia nemmeno disponibile un terreno adatto e non ancora sviluppato. Sradicare un'intera industria e le sue infrastrutture è difficile e costoso: i vigneti nuovi impiegano cinque o sei anni a diventare pienamente produttivi e possono passarne anche venti prima che comincino a dare un profitto. Molti viticoltori inoltre hanno un forte rapporto con il territorio, dove coltivano da generazioni, e non vorrebbero lasciarlo. E anche i consumatori possono sentirsi molto legati a un certo luogo. Le nuove regioni che stanno diventando abbastanza calde per poter coltivare il vino avranno bisogno di tempo per acquisire le competenze per risolvere le esigenze specifiche necessarie a realizzare siti produttivi, affrontare parassiti e malattie e sviluppare lo stile e l'identità locali apprezzati dai clienti. Che dire dell'ipotesi di selezionare o coltivare altri vitigni, adatti alle nuove condizioni climatiche? Praticamente tutte le uve usate per produrre ciò che in genere si definisce vino provengono da una sola specie di uva, Vitis vinifera, che però si presenta in migliaia di ceppi, detti varietà. I coltivatori hanno selezionato le varietà in base alle rispettive caratteristiche, adatte a un determinato ambiente, come nel caso delle razze dei cani, selezionate per tirare slitte in Alaska o per entrare nella borsetta di Paris Hilton. Ma limitarsi a prendere un'uva che ha delle buone caratteristiche in un luogo e coltivarla altrove spesso non determina lo stesso gusto delizioso. Per esempio i cloni (parti geneticamente identiche tagliate da una singola pianta madre) di Pinot nero provenienti da Digione, in Francia, sono stati selezionati per maturare rapidamente e produrre nel clima fresco della Borgogna vini di alta qualità, che si sono guadagnati un'ottima fama. Ora sono stati ampiamente diffusi in California, più calda, ma a causa della maturazione più veloce in un ambiente diverso non sempre si ottiene lo stesso gusto pregiato. Piantare varietà di zone calde, come la Spagna, in altri luoghi che lo stanno diventando potrebbe anche dare vini gustosi, ma questo processo per tentativi può durare anni. Coltivare nuove varietà in grado di resistere meglio all'aumento delle temperature è una possibilità che si sta esaminando con alcuni prodotti alimentari di base, ma per le uve da vino ha un potenziale minore. La coltivazione può richiedere un decennio o più, ma le difficoltà sono soprattutto di tipo culturale. La legge francese sulla denominazione, per esempio, specifica che in certe zone si possono coltivare solo certe varietà per ottenere il marchio protetto della regione, per esempio Bordeaux (anche se il Marselan, una varietà selezionata in tempi più recenti con l'incrocio tra Cabernet Sauvignon e Grenache, è stato riconosciuto legalmente negli anni novanta con la denominazione Côtes du Rhône). A livello mondiale, spesso i consumatori sono radicati nella preferenza per certe varietà, e una nuova potrebbe avere molte difficoltà ad affermarsi sul mercato. All'interno di un vigneto già esistente, i coltivatori possono tentare di contrastare il cambiamento climatico intervenendo sulla gestione delle piante. Per esempio possono cambiare la direzione dei filari, o il modo in cui le piante vengono indirizzate durante la crescita e sostenute dai tralicci, per avere più ombra man mano che le temperature aumentano. Oppure possono eseguire innesti tra la varietà già esistente e una nuova, in grado di sopportare meglio il caldo. In genere però queste importanti decisioni vengono prese una volta sola, all'inizio del lungo ciclo vitale di un vigneto. Ma anche decisioni meno drastiche possono avere conseguenze notevoli per l'adattamento. I coltivatori non sono in grado di controllare la temperatura nel macroclima della loro regione, e hanno poche possibilità di controllarla nel mesoclima del vigneto, per esempio con irrigatori sovrachioma o teli ombreggianti. Ma possono infittire la copertura di foglie o cambiarne la posizione per rinfrescare il microclima dell'uva che sta maturando, per fare sì che mantenga meglio i composti determinanti per il gusto. In California, per esempio, nei vigneti intorno a Carneros, le mie misurazioni hanno indicato livelli di luce solare molto alti (oltre il triplo di quelli rilevati in precedenza) sull'uva di oltre 500 viti di Pinot nero. Tutti i germogli e le foglie erano tenuti rigidamente sopra i grappoli tramite cavi per aumentare la circolazione dell'aria e ridurre le malattie. Le analisi che ho eseguito insieme con i miei colleghi di Stanford e Università della California a Davis hanno dimostrato che ogni punto percentuale in più di luce determinava una diminuzione superiore al 2 per cento di tannini e antocianine desiderabili. L'abbandono dei tralicci verticali per aumentare l'ombra sulla frutta potrebbe contribuire al mantenimento di questi composti, oltre naturalmente a rinfrescare l'uva. Anche se il gusto di un vino deriva per lo più dall'uva, i vinificatori possono intervenire nella fase di lavorazione per cercare di conservare le caratteristiche tipiche di un certo luogo. Se gli acidi si perdono troppo presto a causa del riscaldamento, se ne possono aggiungere nelle cantine. Se l'uva accumula troppo zucchero, che con la fermentazione porterebbe a livelli di alcool tali da sovrastare le sfumature gustative, i vinificatori possono usare l'osmosi inversa o altre tecniche per eliminare l'alcool in eccesso. Queste opzioni però sono strumenti piuttosto rudimentali: non riescono a correggere del tutto gli aromi che nascono nella vigna. Ricavare il gusto migliore dal terreno è un'arte che richiede anni di lavoro intenso. Alcuni esperti del settore ritengono che le zone vinicole degli Stati Uniti come Napa e Sonoma siano ancora alla ricerca del terroir ideale. Alcuni anni fa Jason Kesner, che all'epoca gestiva un famoso vigneto a Napa-Carneros, mi ha detto che forse in quella zona serviranno intere generazioni per raggiungere l'eccellenza. «Ci vuole una generazione per far crescere un vigneto - diceva - e poi ci vogliono i figli per capire come piantarlo in modo diverso, e ci vogliono i nipoti per migliorare ulteriormente. È per questo che i francesi hanno vigneti così straordinari: hanno avuto più tempo per imparare». Eppure, dato che le uve migliori sono tanto sensibili al clima, se questo cambia anche solo un po' le conoscenze e le abilità perfezionate nel corso di generazioni possono diventare meno importanti, perfino su un terreno conosciuto. Cambio di zona Pur essendo relativamente nuovi, un Cabernet di Napa e un Pinot di Carneros hanno ciascuno il suo profilo e i suoi appassionati. «Ho aperto la bottiglia di vino e profumava di Carneros», mi ha detto poeticamente Debby Zygielbaum dell'azienda Robert Sinskey Vineyards di Napa. Se il cambiamento climatico altera l'aroma e il gusto delle uve, potrebbe danneggiare queste regioni. È vero che il riscaldamento potrebbe migliorare la viticoltura in alcune zone più fresche, per esempio la Tasmania, ma con ogni probabilità i cambiamenti saranno deleteri per i principali centri vinicoli, che si sono sviluppati su misura per le condizioni attuali. Secondo le mie ricerche, per esempio, un riscaldamento primaverile superiore a un grado ha buone possibilità di ridurre la produzione di uva da vino californiana. Un altro esempio: sempre in California, quando l'uva Pinot nero matura oltre una soglia di temperatura ottimale, il suo prezzo cala nettamente. Come abbiamo visto, coltivatori e vinificatori hanno alcune soluzioni tecniche per adattarsi, ma resta da verificare se basteranno. E quand'è che l'applicazione del know-how rende il vino un prodotto artefatto, anziché l'espressione autentica del gusto unico di un luogo? In fondo, l'adattamento ha dei limiti sia biofisici sia economici. Secondo i più recenti rapporti scientifici, se il consumo mondiale di combustibili fossili manterrà la tendenza attuale, nelle prossime generazioni la temperatura media globale subirà un aumento tra circa 2,6 e 4,8 gradi. Potrebbe sembrare una crescita contenuta, ma pensate che il limite minimo di questo intervallo corrisponde circa alla differenza attuale tra Napa e Fresno; quello massimo è la differenza tra la città vinicola di Lodi, nella Central Valley in California, e Houston, in Texas. Per quanto ingegnosi e creativi siano i viticoltori, è difficile immaginare che Houston diventi l'erede della Napa Valley. Il vino è letteralmente un messaggio in bottiglia, dove è racchiuso per il nostro piacere. Ci permette di visitare parti del mondo che forse non vedremmo mai di persona. Riflette la straordinaria varietà ambientale e culturale del pianeta, e il forte rapporto che ha l'umanità con la natura, cui si affida per ottenere tutto ciò di cui ha bisogno per vivere, e molto di ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Oggi rischiamo di compromettere gravemente la vita sulla Terra. Se non introduciamo cambiamenti forti molto presto, perdere il gusto del vino della mia terra sarà probabilmente l'ultimo dei problemi. Quando raccogliere l'uva diventerà più difficile L'uva da vino impiega circa tre-quattro mesi per maturare, ma non è facile decidere quando vendemmiarla. Man mano che l'uva matura, il suo livello di zucchero aumenta e quello di acido diminuisce. Il rapporto ideale per un buon vino si raggiunge intorno ai quattro mesi. Anche il gusto complessivo, influenzato da altri composti, arriva al massimo intorno a quel periodo, e determina un breve intervallo di tempo ideale per la vendemmia. Questa decisione si farà più difficile. Con il riscaldamento dell'atmosfera, il rapporto ottimale tra acidi e zucchero si raggiunge prima nella stagione di crescita. Anche il momento ideale per il gusto può essere anticipato, ma in misura minore, e resta così un divario di tempo tra il picco dell'equilibrio e quello del gusto, il che complica la ricerca della combinazione migliore. Inoltre l'uva potrebbe maturare troppo velocemente rispetto al potenziale accumulo di gusto o al raggiungimento del colore ideale. Il test casalingo di assaggio del vino Chiunque può imparare ad assaggiare il vino in modo più analitico, anche senza seguire i critici professionisti. Si tratta per lo più di imparare a identificare gli elementi del vino e associarli al termine che li descrive. Poiché persone diverse possono avere una percezione iniziale altrettanto diversa di un certo gusto, negli esperimenti di assaggio per prima cosa si annusano campioni fisici, per esempio le more, in modo da mettersi d'accordo sul significato del termine «mora». Quindi i partecipanti entrano in cabine singole, illuminate con una fioca luce rossa per far sì che tutti i vini sembrino dello stesso colore. Un ricercatore introduce un vassoio con i vini numerati e i partecipanti li valutano sullo schermo di un computer. A casa potete semplificare questa procedura e renderla più divertente. Per prima cosa, dite a un gruppo di amici di portare una certa varietà di vino, per esempio il Syrah. Il vostro compito come padroni di casa consiste nel trovare campioni dei gusti che di solito si rilevano nel Syrah: pepe nero, mora, chiodo di garofano. Mettetene ciascuno in un bicchiere e copritelo con un pirottino per trattenere i composti aromatici. Quando gli ospiti si sono accomodati, passate i bicchieri e annusate i campioni. Quindi assaggiate ciascun vino e vedete quali aromi riconoscete e con che intensità. Se volete un aiuto, potete considerare la «ruota degli aromi» messa a punto dalla chimica Ann Noble. Il centro indica categorie generiche di aromi, per esempio fruttato o speziato. Andando verso l'esterno della ruota, ogni categoria diventa sempre più precisa: prima fruttato, poi frutti di bosco, poi lampone. Imparare a percepire meglio i dettagli del mondo sensoriale può rendere molto più piacevoli le ore trascorse ogni giorno cucinando e mangiando. Piemonte letterario (di Fabio Sebastiano Tana, «Meridiani» n. 227/15) - Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Davide Lajolo: i paesaggi protagonisti delle loro opere si sovrappongono negli itinerari di un Parco letterario che permette di «rivederli» nelle parole degli autori. Anche se buona parte di quel mondo antico non c'è più... Non c'è niente di male a dire che Langhe e Monferrato non sono più quelli di una volta. Non sono più, cioè, come i grandi cantori di queste terre li hanno descritti mezzo secolo fa o poco più: poveri, disperati, perfino insanguinati. «Quanto sangue ha già bagnato queste vigne», si chiede Corrado, il protagonista di La casa in collina di Cesare Pavese. Nessuno stupore e nessun rimpianto, oggi, se Canelli non è più «la porta del mondo», come narra lo stesso Pavese, o se non si devono più patire fame e freddo in luoghi come la cascina del Pavaglione, dove Beppe Fenoglio ha ambientata La malora. Ma proprio in questo cambiamento sta la vitalità delle iniziative che fanno del triangolo racchiuso fra Alba, Vinchio e Santo Stefano Belbo (dilatandosi fino ad Asti, per chi voglia inglobare un padre nobile come Vittorio Alfieri, e Bra nel nome di Giovanni Arpino) un laboratorio di cultura e insieme un museo a cielo aperto. Un museo nel quale il paesaggio, che accompagna il visitatore nelle passeggiate, si fa riferimento letterario. Qualcuno negli anni passati ha cercato di dare unità a tutto ciò. L'idea era quella di un nuovo marketing territoriale, per far conoscere e promuovere un'«identità» della quale romanzi e poesie sono la migliore testimonianza. Non se ne è fatto niente. Il «progetto turistico integrato», fatto di un «rapporto strategico tra i diversi percorsi letterari presenti sul territorio» (del quale si parlava in una Dichiarazione di Intenti sottoscritta alcuni anni fa da varie istituzioni locali e associazioni culturali), non ha preso forma. Ma in fondo non c'è problema per chi voglia avvicinarsi ai luoghi che riportano alle opere e alla vita dei maggiori scrittori di queste terre. Il Parco letterario e paesaggistico di oggi rappresenta infatti una funzionale rete di itinerari, tracciati e controllati da una costellazione di organizzazioni - alcune collegate alle amministrazioni locali, altre nate dall'iniziativa di studiosi e appassionati - che convivono e collaborano. Senza contare il brulicare di ristoranti e agriturismi battezzati con il nome di celebri romanzi. Dice Luigi Genesio Icardi, sindaco di Santo Stefano Belbo e presidente della Fondazione Pavese: «Si tratta di tutelare e custodire quel patrimonio immateriale che sta alla base della storia di ognuno di noi. Il compito degli enti culturali è fornire un modello esistenziale, che qui affonda le radici in un passato raccontato da scrittori come Pavese e Fenoglio». E in quel modello campeggia soprattutto il culto delle origini, quell'essere in qualche modo tutti «figli della malora», come ha ricordato Giovanni Ferrero nel febbraio scorso, durante i funerali del padre Michele. Quasi un mantra la celebre frase di La luna e i falò: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». E alla sua Alba, alla sua casa natale con il balcone che si affaccia su piazza del Duomo, accanto alla quale è stato creato il centro culturale che porta il suo nome, era legatissimo Fenoglio, come i personaggi cui ha dato vita con chiaro intento autobiografico. Quanto a Davide Lajolo, biografo di Pavese e Fenoglio oltre che scrittore a sua volta, ha fatto dell'attaccamento a una tradizione contadina, che pur gli sfuggiva, la chiave di gran parte della sua opera. «Questa è la mia terra, è come una donna che mi piace tanto, che sento mia e che nessuno può portarmi via», scrisse. La camera di Pavese Ecco perché ha senso tornare su questi bricchi, anche se il panorama non è più quello che videro Anguilla, protagonista de La luna e i falò, o il fenogliano partigiano Johnny. Sul versante delle colline è scomparsa la «policoltura», cioè l'antica e fitta rete di boschi, rive, vigneti, prati, campi, noccioleti, mentre la maggior parte degli splendidi cascinali in pietra e mattoni è stata demolita. Adesso in effetti tutto è vigna, perfetta, rigorosa, suddivisa in quadrati che trasformano la campagna in una scacchiera. L'antropizzazione si traduce in ordine e funzionalità, ma proprio per questo è importante lo sforzo di restituire visibilità alle origini, attraverso il recupero e la riqualificazione di molti siti significativi. Per esempio la cascina del Pavaglione è adesso una biblioteca, aperta al pubblico. La casa di Pavese è divenuta un museo con la camera dove è nato nel 1908, con fotografie d'epoca e documenti come la pagina di Dialogo con Leucò dove lo scrittore vergò il suo addio al mondo: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». È gestita dal Cepam (Centro pavesiano museo casa natale) ed è qui che ogni anno, a fine agosto, si svolge la cerimonia di consegna del Premio Cesare Pavese, nel 2015 assegnato a Roberto Vecchioni, Gian Luigi Beccaria, Aldo Nove e Giancarlo Giannini. Trasformata in museo anche la casa-bottega di Pinolo Scaglione, il Nuto di La luna e i falò, con il laboratorio di falegnameria, la stanza degli strumenti musicali, perfino il bel glicine all'ombra del quale Pinolo raccontava agli ospiti i giorni con l'amico Cesare. Di fronte sorge la cascina della Mora e, venendo da Canelli, è proprio da questo incrocio di reminiscenze pavesiane che parte un itinerario fra le colline del Salto e della Gaminella. Sulla prima, la rossa torretta del Nido, inarrivabile dimora dei ricchi, dotata di «stanze dove stavano in quindici, in venti, e mangiavano, suonavano tutto il giorno»; sull'altra il poverissimo casotto della Gaminella. Non solo passeggiate, dunque, ma anche promozione e sviluppo culturale. Oltre al Cepam, a Santo Stefano Belbo è stato creato un centro studi - ora sotto l'egida della Fondazione Pavese - che è riuscito perfino a vincere la proverbiale «malora». La sua prima sede, edificata nel 1981 sulle rive del Belbo dove parte la strada per Moncucco, la collina così indissolubilmente legata a Lavorare stanca e al componimento sui «mari del sud» che apre la raccolta, venne infatti distrutta dall'alluvione del 1994. È però risorta nel giro di un decennio, stimolando anche il risanamento della parte più bella del paese. Il centro studi ha una nuova biblioteca, con un ingresso vagamente piramidale, tocco di stravagante modernità, e dispone di una foresteria e di un auditorium ricavato dal restauro della chiesa sconsacrata dei Santi Giacomo e Cristoforo. Vi si fanno mostre, concerti, conferenze, vegliati da cinque grandi tele di Ernesto Treccani ispirate a La luna e i falò. Una di esse raffigura lo sbuffante trenino che, diceva Pavese, riempiva «la vallata filando o venendo da Canelli» e con il quale «si va dappertutto». Il mare verde di Lajolo In realtà i treni non arrivano più a Canelli né passano ancora per la valle del Belbo, altro segnale di quanto le cose siano cambiate. Proprio per questo, però, il Parco diventa un museo della memoria che trasforma le Langhe in uno spazio narrativo. E Davide Lajolo, che del salvataggio del mondo contadino dal quale proveniva ha fatto una missione, ne diventa una sorta di nume tutelare. Il suo consapevole impegno, tradottosi nella raccolta I mè, traspare molto bene nei tre itinerari letterari che si dipanano intorno a Vinchio, il paese che Lajolo definiva «il mio nido», dove era nato «nella stagione del grano biondo». Sono itinerari particolarmente legati alla natura, anche perché, come spiega Laurana, figlia dello scrittore e animatrice dell'associazione che ne tiene vivo il ricordo, «nel Monferrato più che nelle Langhe c'è ancora un'alternanza di boschi e vigne e si avverte un minore sfruttamento intensivo del territorio, con al centro la produzione di vino. Nella zona intorno a Nizza il paesaggio ha una biodiversità molto spiccata. Si possono fare passeggiate all'ombra di grandi alberi, vedere animali selvatici e scoprire l'orchidea selvatica. L'ambiente ha ancora caratteristiche antiche». Una volta l'anno vengono organizzate gite collettive su ciascuno degli itinerari. Il primo passa fra le tartufaie naturali della valle delle Settefiglie, devia verso la «tana» di tufo dove il partigiano Ulisse/Lajolo si rifugiò durante il rastrellamento del dicembre 1944, soprattutto si inoltra nei vigneti in cui lo scrittore, anche sotto il sole cocente, amava camminare, ricordare la fatica del padre e dei fratelli contadini, ascoltare il frinire delle cicale. Il secondo porta al Bricco del Saraceno, che nel toponimo ricorda la battaglia di Aleramo contro i Saraceni, e il terzo conduce alla Riserva naturale della val Sarmassa, definita da Lajolo «il mio mare verde». Si cammina fra robinie e castagni, rose canine e biancospini fino alla Ru, la quercia secolare vanto della riserva che riporta al racconto ispirato alla leggenda di Clelia e Ariosto, due giovani innamorati che cercarono inutilmente di sfuggire alla peste del 1630 salendo proprio su quell'albero. Le vie di Fenoglio Anche gli itinerari fenogliani si immergono nella natura, ma questa - negli agganci letterari - è un mezzo, non il fine. Al centro c'è invece il tema del riscatto e della ricerca della propria identità attraverso il lavoro, la lotta partigiana o l'amore. Il mood è quello della tragedia greca, con l'eroe condannato a morire per compiere il suo destino, così come muore Milton, il protagonista di Una questione privata, lungo la strada che da Alba si inerpica verso la frazione di San Rocco e che è inclusa in uno degli itinerari. «Questa strada, dove si trova la casa di Fulvia, la donna amata da Milton, è protagonista delle pagine del romanzo, ma riporta anche a I ventitré giorni della città di Alba», dice Bianca Roagna, direttrice del Centro studi Beppe Fenoglio. «È da essa che i partigiani entrarono momentaneamente vittoriosi in città, confluendo da Barbaresco, Treiso, San Rocco». Un altro percorso costeggia il Tanaro e le Rocche, i grigi calanchi tufacei che rompono l'armonia verde delle colline. Si spinge fino a Barbaresco, borgo antico costellato di cantine dominato dalla possente torre del Bricco, alta 36 metri. Non meno suggestivi sono altri piccoli centri come Neive e Mango, così determinante per il partigiano Johnny: bel nucleo storico, grandioso panorama, citazioni dotte sugli appositi cartelli, cantine e, all'interno dell'antico castello, l'Enoteca regionale del moscato. Si potrebbe pensare che la cultura del vino travolga ogni altro interesse, ma forse non è così o almeno questa è l'opinione di Roagna, che dice: «Quest'anno c'è stato un rispolvero nazionale della Resistenza, per i settant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L'impressione è che ci sia un nuovo interesse da parte degli studenti. E a dimostrare quanto Fenoglio sia letto anche all'estero stanno Casa Fenoglio e i percorsi in collina, che oggi sono visitati sempre più da anglosassoni e, perfino, da tedeschi».