4 FACTS&NEWS prevede un periodo di latenza tra il momento del prelievo e l'innesto, nel quale il materiale da impiantare viene posto nel congelatore (in contenitori crioresistenti a meno 80° C). Questa procedura permette di conservare il tessuto da trapiantare e di eliminare le cellule responsabili del rigetto. È come se venisse innestata solo la matrice inorganica dell’osso, e anche per questo motivo a seguito del trapiano non viene eseguita nessuna terapia immunosoppressiva. Una volta eseguito l'innesto saranno le stesse cellule midollari del ricevente a dare “nuova vita” all’osso. La matrice residua non vitale ha infatti una innata capacità di stimolare, o meglio indurre, gli osteoblasti a ricolonizzare la matrice depositata. Banche dell'osso Tutto questo è possibile in Italia grazie all’istituzione delle Banche regionali del tessuto muscolo-scheletrico o “banche dell’osso”. L’organizzazione delle attività viene svolta dal Centro Nazionale Trapianti che, in collaborazione con diverse istituzioni politico-sanitarie regionali, ricopre un ruolo fondamentale per sostenere le attività di ricostruzione svolte dai chirurghi ortopedici, che possono contare su diverse tipologie di trapianto: piccoli trapianti morcellizzati (ossa ridotte in piccoli frammenti - chips - e macinati) di riempimento, necessari nel caso di revisioni nelle quali la sostituzione della protesi che causa, di per se stessa, perdita di osso. Non sono così rari i casi nei quali possono portare alla sostituzione dell’intera struttura (femore, parte del bacino) con interventi pesanti e ripetuti per il paziente; trapianti massivi strutturali frequenti in ambito oncologico per la sostituzione di intere articolazioni o segmenti ossei a seguito di resezioni di ampie dimensioni; trapianti “freschi” osteoarticolari; trapianti legamentosi e/o meniscali. Il tessuto muscolo-scheletrico che proviene da una banca e che quindi risulta processabile ha sostanzialmente due origini: autologo (durante l’intervento chirurgico viene prelevato da un'altra sede corporea dello stesso paziente una parte di osso da poter riutilizzare) oppure omologo (il tessuto viene donato da donatori viventi oppure da donatori deceduti). Questa seconda opportunità riesce a soddisfare il crescente fabbisogno di materiale muscolo-scheletrico: se si pensa infatti che da un donatore deceduto si possono ricavare da 10 a 20 segmenti ossei utilizzabili per circa 200 innesti, e che soprattutto non vi è limitazione nelle diverse tipologie di tessuto prelevato, si può ben immaginare quale nuovo panorama di prospettive si apra per il chirurgo e per il paziente. Va sottolineato, infatti, che nel trapianto da vivente non solo un singolo donatore può fornire un singolo segmento, ma - molto più importante - il solo tratto di osso utilizzabile è l’episisi femorale. La preparazione dell'innesto La maggior parte dei segmenti ossei usati per gli innesti viene conservata ed erogata congelata. In caso di ampie resezioni di ossa lunghe o di bacino, come per esempio nell'asportazione di materiale neoplastico, è possibile ricostruire la struttura con un innesto massivo: costituito da un segmento osseo intero o quasi, arricchito delle proprie inserzioni capsulo legamentose. Tali innesti possono essere definiti intercalari quando si ha la sostituzione di una diafisi, oppure osteoarticolari, quando si sostituisce una delle componenti articolari (in associazione o meno con elementi protesici). Dalle amputazioni alle ricostruzioni Quello che un tempo prevedeva solo procedimenti di amputazione, parziali o totali, oggi assume grazie alle nuove tecniche chirurgiche e alle nuove disponibilità di materiali un approccio totalmente differente. Nelle grosse perdite di sostanza le opportunità di scelta del chirurgo non sono più limitate alla sola amputazione: le possibilità di ripristinare la continuità di un segmento osso attraverso l’utilizzo di protesi o trapianti (sia da donatore attraverso le banche dell’osso che da osso autologo) sono una realtà più che concreta. Le ripercussioni sulla qualità della vita dei pazienti sono oggi sotto gli occhi di tutti: coloro che erano inevitabilmente destinati ad un futuro passato sulla sedia a rotelle o con l’ausilio di supporti per la deambulazione, oggi riescono ad essere autonomi e autosufficienti per la quasi totalità delle loro attività quotidiane. Attraverso il trapianto di ossa da donatore, la ricostruzione con osso autologo dello stesso paziente, i supporti protesici che vengono messi a disposizione del chirurgo e soprattutto le capacità specifiche dell’operatore sono ora possibili interventi che non tendono alla demolizioni, che non tendono al “sacrificare”, ma che cercano - e molto spesso riescono - nel tentativo di conservare e ricostruire. In pazienti giovani, il cui sviluppo scheletrico non è ancora ultimato, è possibile altresì combinare, quando la patologia di base lo permette, innesti di ossa lunghe da donatore con ossa autologhe fornite con peduncolo vascolarizzato; in questo caso l’osso autologo rifornito dal peduncolo vascolare garantisce il nutrimento all’innesto omologo. La microchirurgia oggi è in grado di affrontare e risolvere situazioni che comportano anche gravi perdite di massa ossea e muscolare mediante prelievo di segmenti del tessuto da sedi dello stesso individuo, reimpiantandoli attraverso l’utilizzo di microscopi ad alta definizione nella sede danneggiata, ripristinando così la funzione che risultava compromessa. Tali ricostruzioni possono essere associate a tecniche di bioingegneria tissutale o attraverso l’utilizzo di cellule staminali. Molto sinteticamente: dal paziente vengono prelevate cellule insieme a materiale sintetico bio-compatibile che danno origine in laboratorio a un’articolazione meccanica, come una protesi ma di tipo biologico, mentre altre cellule contenenti fattori di crescita vengono inserite successivamente nelle cosiddette matrici tissutali. Per il trapianto da un donatore cadavere, dopo aver individuato il paziente e aver avuto la conferma dalla banca dell’osso come si è detto in precedenza, si predispone lo “strumentario” adatto, ovvero gli strumenti più adeguati all’operazione che necessita della massima precisione: non solo per la difficoltà tecnica intrinseca dell’intervento ma soprattutto se si tratta di trapianti per cause oncologiche l’accuratezza massima va ricercata nel trovare margini “puliti” della sezione. Si procede poi con la cosiddetta tecnica del “trapianto fresco” vitale. Necessaria la massima competenza Come in ogni nuova tecnica, è chiaro che si possono verificare problemi, complicanze o imprevisti. Uno dei principali ostacoli riguarda la non univoca soluzione per soddisfare ogni problema di tipo ricostruttivo. In altri termini, ogni scelta deve essere compiuta tenendo conto delle esigenze del singolo paziente e di volta in volta calibrata considerando tutte le possibili variabili biologiche. Il secondo problema riguarda la professionalità sempre più approfondita richiesta all’ortopedico. È necessario, infatti, che prima di decidere qualsiasi intervento si sappia valutare con estrema competenza le alternative: protesi da revisione, protesi composte, trapianti massivi, ricostruzioni microchirurgiche, rigenerazione ossea. Lorenzo Castellani Matteo Laccisaglia La prevenzione delle infezioni in chirurgia Il rischio di infezioni perioperatorie è sempre molto temuto da ogni chirurgo, in particolare modo dagli ortopedici che sono ben coscienti della gravità di tale evento, specialmente nella chirurgia protesica. Nonostante tutte le precauzioni, l’infezione del sito chirurgico continua ad essere la complicanza più comune negli Stati Uniti d’America. Un lavoro recentemente apparso sul Journal of Bone & Joint Surgery (Prevention of perioperative infection. Fletcher N, Sofianos D, Berkes MB, Obremskey WT. J Bone Joint Surg Am 2007 Jul;89(7):1605-18) ha rivisto sulla base dell’evidenza scientifica le comuni pratiche tese a prevenire l’insorgenza di tale complicanza. Le osservazioni degli autori ci sono sembrate particolarmente interessanti e hanno sfatato alcuni preconcetti molto comuni, modificando il nostro atteggiamento nella pratica clinica. Gli antibiotici: quali e quando Profilassi antibiotica: la letteratura dimostra l’efficacia della profilassi antibiotica in chirurgia ortopedica. In particolare studi prospettici in doppio cieco hanno supportato il loro uso nel trattamento delle fratture non esposte e nella chirurgia protesica. Per le fratture esposte l’efficacia è chiaramente dipendente dal fatto che l’antibiotico inizialmente scelto abbia uno spettro d’azione efficace contro i patogeni comunemente coinvolti. Scelta dell’antibiotico: le infezioni peri-operatorie sono generalmente causate da contaminazioni provenienti dalla cute o da patogeni presenti nell’aria. In particolare si tratta di Stafilococcus aureus ed epidermidis. Per questo motivo cefazolina o cefuroxime andrebbero stabilmente utilizzati nella chirurgia protesica di anca e ginocchio, nella riduzione e sintesi di fratture non esposte e nella maggior parte delle procedure ortopediche elettive. Per quanto riguarda le fratture esposte la letteratura consiglia un atteggiamento differente a seconda della classificazione di Gustilo, prevedendo una copertura per i gram negativi quanto peggiore risulta essere la compromissione dei tessuti molli (Gustilo III e alcuni tipi di Gustilo II). La somministrazione dell’antibiotico deve essere effettuata non più di 60 minuti prima dell’incisione, quanto più vicina possibile alla procedura chirurgica. Una seconda dose intraoperatoria è necessaria quando l’intervento dura più di una o due volte l’emivita dell’antibiotico o in caso di importanti perdite ematiche durante l’intervento. L’attuale evidenza supporta l’utilizzo di antibiotico post-operatorio per il minor tempo possibile, generalmente limitandolo alle 24 ore successive all’intervento. Tale indicazione non ha evidenza scientifica sicura nelle fratture esposte, dove specialmente nelle gravi compromissioni dei tessuti molli è preferibile prolungare la copertura fino a 4872 ore. La preparazione del paziente Depilazione: non vi è un’evidenza sicura del vantaggio della depilazione preoperatoria. Quando venga effettuata, deve essere eseguita il più vicina possibile al momento della chirurgia, evitando l’uso di rasoi a lama che possono generare piccole ferite sulla cute, ricettacolo di germi. Sono da preferire quindi metodi atraumatici come rasoi elettrici o creme epilatorie. Antisepsi cutanea: la clorexidina gluconata è l’antisettico migliore per la sua prolungata durata d’azione e l’efficace potere di rottura delle membrane batteriche. I disinfettanti iodati sono ugualmente efficaci, ma hanno una durata d’azione inferiore ed esistono evidenze che mostrano come vengano inattivati dal sangue e dalle proteine sieriche. Inoltre per massimizzare la loro efficacia devono essere lasciati asciugare. Esiste anche evidenza di una migliore asepsi se il disinfettante viene applicato con uno spazzolamento rispetto che con il solo pennellamento. L'atto chirurgico Esistono evidenze che l’utilizzo di un campo chiuso mediante telo plastico adesivo impregnato con disinfettante iodato riduce la contaminazione batterica della cute circostante la ferita chirurgica anche nel post-operatorio, anche se non esiste dimostrazione statisticamente significati- va di un’effettiva riduzione delle infezioni della ferita. L’irrigazione pulsata a pressione intermedia gioca un ruolo fondamentale specialmente nel trattamento delle fratture esposte. Il tipo di irrigazione sembra favorire le soluzioni saponose rispetto all’utilizzo di un lavaggio antibiotato, in quanto favorisce la detersione e l’asportazione di materiale organico. La chiusura della ferita deve essere eseguita con scrupolo per evitare la formazione di spazi morti profondi, anche se non esistono evidenze specifiche per l’ortopedia. Una chiusura per strati e l’utilizzo di punti monofilamento o metallici per la cute sono consigliati. Il post-operatorio L’utilizzo di drenaggi in aspirazione è dibattuto e ancora non ben valutato sulla base dell’evidenza scientifica. Nonostante il tradizionale uso del drenaggio per la prevenzione degli ematomi e della formazione di spazi morti, nessuna evidenza supporta scientificamente l’utilità di tale procedura. In ogni caso, quale che sia la scelta del chirurgo, il drenaggio non deve essere mantenuto oltre le 24 ore post-operatorie in quanto ciò determina una maggiore possibilità di infezione. La medicazione delle ferite, secondo gli studi di esperienza dermatologica e di chirurgia plastica, dovrebbero prevedere un triplo strato: il primo idrofilo non adesivo, il secondo assorbente e un terzo occlusivo adesivo. Tale medicazione va rimossa in prima giornata. Il nostro messaggio La prevenzione delle infezioni è un argomento essenziale specialmente per il chirurgo che si occupa di chirurgia protesica. Lo studio della letteratura scientifica è lo strumento più oggettivo che ci consente di modificare la pratica clinica in modo da ridurre al minimo l’insorgenza di una complicazione così grave. Consigliamo a tutti coloro che desiderano approfondire l'argomento la lettura degli articoli originali partendo dalla bibliografia del lavoro oggetto del nostro articolo. Lorenzo Castellani Matteo Laccisaglia