La prevenzione delle infezioni in chirurgia

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FACTS&NEWS
prevede un periodo di latenza
tra il momento del prelievo e
l'innesto, nel quale il materiale da impiantare viene posto
nel congelatore (in contenitori crioresistenti a meno 80°
C). Questa procedura permette di conservare il tessuto
da trapiantare e di eliminare
le cellule responsabili del
rigetto. È come se venisse
innestata solo la matrice inorganica dell’osso, e anche per
questo motivo a seguito del
trapiano non viene eseguita
nessuna terapia immunosoppressiva. Una volta eseguito
l'innesto saranno le stesse cellule midollari del ricevente a
dare “nuova vita” all’osso. La
matrice residua non vitale ha
infatti una innata capacità di
stimolare, o meglio indurre,
gli osteoblasti a ricolonizzare
la matrice depositata.
Banche dell'osso
Tutto questo è possibile in
Italia grazie all’istituzione
delle Banche regionali del
tessuto muscolo-scheletrico o
“banche dell’osso”.
L’organizzazione delle attività
viene svolta dal Centro
Nazionale Trapianti che, in
collaborazione con diverse
istituzioni politico-sanitarie
regionali, ricopre un ruolo
fondamentale per sostenere le
attività di ricostruzione svolte
dai chirurghi ortopedici, che
possono contare su diverse
tipologie di trapianto:
piccoli trapianti morcellizzati (ossa ridotte in piccoli
frammenti - chips - e macinati) di riempimento, necessari
nel caso di revisioni nelle
quali la sostituzione della protesi che causa, di per se stessa,
perdita di osso. Non sono così
rari i casi nei quali possono
portare alla sostituzione dell’intera struttura (femore,
parte del bacino) con interventi pesanti e ripetuti per il
paziente;
trapianti massivi strutturali frequenti in ambito oncologico per la sostituzione di
intere articolazioni o segmenti ossei a seguito di resezioni di
ampie dimensioni;
trapianti
“freschi”
osteoarticolari;
trapianti legamentosi
e/o meniscali.
Il tessuto muscolo-scheletrico
che proviene da una banca e
che quindi risulta processabile
ha sostanzialmente due origini: autologo (durante l’intervento chirurgico viene prelevato da un'altra sede corporea
dello stesso paziente una parte
di osso da poter riutilizzare)
oppure omologo (il tessuto
viene donato da donatori
viventi oppure da donatori
deceduti).
Questa seconda opportunità
riesce a soddisfare il crescente
fabbisogno di materiale
muscolo-scheletrico: se si
pensa infatti che da un donatore deceduto si possono ricavare da 10 a 20 segmenti ossei
utilizzabili per circa 200 innesti, e che soprattutto non vi è
limitazione nelle diverse tipologie di tessuto prelevato, si
può ben immaginare quale
nuovo panorama di prospettive si apra per il chirurgo e per
il paziente. Va sottolineato,
infatti, che nel trapianto da
vivente non solo un singolo
donatore può fornire un singolo segmento, ma - molto
più importante - il solo tratto
di osso utilizzabile è l’episisi
femorale.
La preparazione dell'innesto
La maggior parte dei segmenti ossei usati per gli innesti
viene conservata ed erogata
congelata.
In caso di ampie resezioni di
ossa lunghe o di bacino, come
per esempio nell'asportazione
di materiale neoplastico, è
possibile ricostruire la struttura con un innesto massivo:
costituito da un segmento
osseo intero o quasi, arricchito delle proprie inserzioni
capsulo legamentose. Tali
innesti possono essere definiti
intercalari quando si ha la
sostituzione di una diafisi,
oppure osteoarticolari, quando si sostituisce una delle
componenti articolari (in
associazione o meno con elementi protesici).
Dalle amputazioni
alle ricostruzioni
Quello che un tempo prevedeva solo procedimenti di
amputazione, parziali o totali, oggi assume grazie alle
nuove tecniche chirurgiche e alle nuove disponibilità di
materiali un approccio totalmente differente.
Nelle grosse perdite di sostanza le opportunità di scelta del chirurgo non sono più limitate alla sola amputazione: le possibilità di ripristinare la continuità di un
segmento osso attraverso l’utilizzo di protesi o trapianti (sia da donatore attraverso le banche dell’osso che
da osso autologo) sono una realtà più che concreta.
Le ripercussioni sulla qualità della vita dei pazienti
sono oggi sotto gli occhi di tutti: coloro che erano inevitabilmente destinati ad un futuro passato sulla sedia
a rotelle o con l’ausilio di supporti per la deambulazione, oggi riescono ad essere autonomi e autosufficienti
per la quasi totalità delle loro attività quotidiane.
Attraverso il trapianto di ossa da donatore, la ricostruzione con osso autologo dello stesso paziente, i supporti protesici che vengono messi a disposizione del
chirurgo e soprattutto le capacità specifiche dell’operatore sono ora possibili interventi che non tendono alla
demolizioni, che non tendono al “sacrificare”, ma che
cercano - e molto spesso riescono - nel tentativo di
conservare e ricostruire.
In pazienti giovani, il cui sviluppo scheletrico non è ancora ultimato, è possibile altresì
combinare, quando la patologia di base lo permette, innesti di ossa lunghe da donatore
con ossa autologhe fornite
con peduncolo vascolarizzato;
in questo caso l’osso autologo
rifornito dal peduncolo
vascolare garantisce il nutrimento all’innesto omologo.
La microchirurgia oggi è in
grado di affrontare e risolvere
situazioni che comportano
anche gravi perdite di massa
ossea e muscolare mediante
prelievo di segmenti del tessuto da sedi dello stesso individuo, reimpiantandoli attraverso l’utilizzo di microscopi
ad alta definizione nella sede
danneggiata, ripristinando
così la funzione che risultava
compromessa. Tali ricostruzioni possono essere associate
a tecniche di bioingegneria
tissutale o attraverso l’utilizzo
di cellule staminali. Molto
sinteticamente: dal paziente
vengono prelevate cellule
insieme a materiale sintetico
bio-compatibile che danno
origine in laboratorio a un’articolazione meccanica, come
una protesi ma di tipo biologico, mentre altre cellule contenenti fattori di crescita vengono inserite successivamente nelle cosiddette matrici tissutali.
Per il trapianto da un donatore cadavere, dopo aver individuato il paziente e aver avuto
la conferma dalla banca dell’osso come si è detto in precedenza, si predispone lo
“strumentario” adatto, ovvero
gli strumenti più adeguati
all’operazione che necessita
della massima precisione: non
solo per la difficoltà tecnica
intrinseca dell’intervento ma
soprattutto se si tratta di trapianti per cause oncologiche
l’accuratezza massima va
ricercata nel trovare margini
“puliti” della sezione. Si procede poi con la cosiddetta
tecnica del “trapianto fresco”
vitale.
Necessaria la massima
competenza
Come in ogni nuova tecnica,
è chiaro che si possono verificare problemi, complicanze o
imprevisti.
Uno dei principali ostacoli
riguarda la non univoca soluzione per soddisfare ogni problema di tipo ricostruttivo. In
altri termini, ogni scelta deve
essere compiuta tenendo
conto delle esigenze del singolo paziente e di volta in
volta calibrata considerando
tutte le possibili variabili biologiche.
Il secondo problema riguarda
la professionalità sempre più
approfondita richiesta all’ortopedico. È necessario, infatti,
che prima di decidere qualsiasi intervento si sappia valutare con estrema competenza le
alternative: protesi da revisione, protesi composte, trapianti massivi, ricostruzioni
microchirurgiche, rigenerazione ossea.
Lorenzo Castellani
Matteo Laccisaglia
La prevenzione
delle infezioni
in chirurgia
Il rischio di infezioni perioperatorie è sempre molto
temuto da ogni chirurgo, in
particolare modo dagli
ortopedici che sono ben
coscienti della gravità di
tale evento, specialmente
nella chirurgia protesica.
Nonostante tutte le precauzioni, l’infezione del sito
chirurgico continua ad
essere la complicanza più
comune negli Stati Uniti
d’America.
Un lavoro recentemente
apparso sul Journal of Bone
& Joint Surgery (Prevention
of perioperative infection.
Fletcher N, Sofianos D,
Berkes MB, Obremskey WT.
J Bone Joint Surg Am 2007
Jul;89(7):1605-18) ha rivisto sulla base dell’evidenza
scientifica le comuni pratiche tese a prevenire l’insorgenza di tale complicanza.
Le osservazioni degli autori
ci sono sembrate particolarmente interessanti e hanno
sfatato alcuni preconcetti
molto comuni, modificando il nostro atteggiamento
nella pratica clinica.
Gli antibiotici:
quali e quando
Profilassi antibiotica: la letteratura dimostra l’efficacia
della profilassi antibiotica
in chirurgia ortopedica. In
particolare studi prospettici
in doppio cieco hanno supportato il loro uso nel trattamento delle fratture non
esposte e nella chirurgia
protesica. Per le fratture
esposte l’efficacia è chiaramente dipendente dal fatto
che l’antibiotico inizialmente scelto abbia uno
spettro d’azione efficace
contro i patogeni comunemente coinvolti.
Scelta dell’antibiotico: le
infezioni peri-operatorie
sono generalmente causate
da contaminazioni provenienti dalla cute o da patogeni presenti nell’aria. In
particolare si tratta di
Stafilococcus aureus ed epidermidis. Per questo motivo cefazolina o cefuroxime
andrebbero stabilmente
utilizzati nella chirurgia
protesica di anca e ginocchio, nella riduzione e sintesi di fratture non esposte
e nella maggior parte delle
procedure
ortopediche
elettive.
Per quanto riguarda le fratture esposte la letteratura
consiglia un atteggiamento
differente a seconda della
classificazione di Gustilo,
prevedendo una copertura
per i gram negativi quanto
peggiore risulta essere la
compromissione dei tessuti
molli (Gustilo III e alcuni
tipi di Gustilo II).
La somministrazione dell’antibiotico deve essere
effettuata non più di 60
minuti prima dell’incisione, quanto più vicina possibile alla procedura chirurgica. Una seconda dose
intraoperatoria è necessaria quando l’intervento
dura più di una o due volte
l’emivita dell’antibiotico o
in caso di importanti perdite ematiche durante l’intervento. L’attuale evidenza supporta l’utilizzo di
antibiotico post-operatorio per il minor tempo possibile, generalmente limitandolo alle 24 ore successive all’intervento. Tale
indicazione non ha evidenza scientifica sicura
nelle fratture esposte, dove
specialmente nelle gravi
compromissioni dei tessuti
molli è preferibile prolungare la copertura fino a 4872 ore.
La preparazione
del paziente
Depilazione: non vi è un’evidenza sicura del vantaggio della depilazione preoperatoria. Quando venga
effettuata, deve essere eseguita il più vicina possibile
al momento della chirurgia,
evitando l’uso di rasoi a
lama che possono generare
piccole ferite sulla cute,
ricettacolo di germi. Sono
da preferire quindi metodi
atraumatici come rasoi elettrici o creme epilatorie.
Antisepsi cutanea: la clorexidina gluconata è l’antisettico migliore per la sua
prolungata durata d’azione
e l’efficace potere di rottura delle membrane batteriche. I disinfettanti iodati
sono ugualmente efficaci,
ma hanno una durata d’azione inferiore ed esistono
evidenze che mostrano
come vengano inattivati
dal sangue e dalle proteine
sieriche. Inoltre per massimizzare la loro efficacia
devono essere lasciati
asciugare. Esiste anche
evidenza di una migliore
asepsi se il disinfettante
viene applicato con uno
spazzolamento
rispetto
che con il solo pennellamento.
L'atto chirurgico
Esistono evidenze che l’utilizzo di un campo chiuso
mediante telo plastico
adesivo impregnato con
disinfettante iodato riduce
la contaminazione batterica della cute circostante la
ferita chirurgica anche nel
post-operatorio, anche se
non esiste dimostrazione
statisticamente significati-
va di un’effettiva riduzione
delle infezioni della ferita.
L’irrigazione pulsata a pressione intermedia gioca un
ruolo fondamentale specialmente nel trattamento
delle fratture esposte. Il
tipo di irrigazione sembra
favorire le soluzioni saponose rispetto all’utilizzo di
un lavaggio antibiotato, in
quanto favorisce la detersione e l’asportazione di
materiale organico. La
chiusura della ferita deve
essere eseguita con scrupolo
per evitare la formazione di
spazi morti profondi, anche
se non esistono evidenze
specifiche per l’ortopedia.
Una chiusura per strati e
l’utilizzo di punti monofilamento o metallici per la
cute sono consigliati.
Il post-operatorio
L’utilizzo di drenaggi in
aspirazione è dibattuto e
ancora non ben valutato
sulla base dell’evidenza
scientifica. Nonostante il
tradizionale uso del drenaggio per la prevenzione degli
ematomi e della formazione
di spazi morti, nessuna evidenza supporta scientificamente l’utilità di tale procedura. In ogni caso, quale
che sia la scelta del chirurgo, il drenaggio non deve
essere mantenuto oltre le
24 ore post-operatorie in
quanto ciò determina una
maggiore possibilità di infezione.
La medicazione delle ferite, secondo gli studi di
esperienza dermatologica e
di chirurgia plastica,
dovrebbero prevedere un
triplo strato: il primo idrofilo non adesivo, il secondo assorbente e un terzo
occlusivo adesivo. Tale
medicazione va rimossa in
prima giornata.
Il nostro messaggio
La prevenzione delle infezioni è un argomento essenziale specialmente per il
chirurgo che si occupa di
chirurgia protesica.
Lo studio della letteratura
scientifica è lo strumento
più oggettivo che ci consente di modificare la pratica clinica in modo da ridurre al minimo l’insorgenza di
una complicazione così
grave.
Consigliamo a tutti coloro
che desiderano approfondire l'argomento la lettura
degli articoli originali partendo dalla bibliografia del
lavoro oggetto del nostro
articolo.
Lorenzo Castellani
Matteo Laccisaglia