Handout 7 Storia romana A_Viglietti

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA
Anno accademico 2015/2016
Corso di laurea in Scienze storiche e del patrimonio culturale
Insegnamento di Storia romana A
Handout n. 7
r. TENDENZE DELL’INOLTRATO XX SECOLO (E DEL XXI)
1. M. Rostovtzeff, Storia economica e sociale dell’impero romano (1926), trad. it. Firenze 1967: p.
21
Gli sviluppi che cominciarono in Italia nel II secolo a.C. ebbero conseguenza di larga portata per la vita
politica, sociale ed economica della nazione. Roma cessò di essere uno stato di contadini guidato da
un’aristocrazia di proprietari terrieri, che per lo più altro non erano che contadini più ricchi. A questo
punto sorse in tutta l’Italia non solo una classe influente di uomini d’affari, ma una ricca borghesia
cittadina. […] Ciò fu dovuto alla crescente importanza della classe di negozianti e proprietari terrieri
municipali che durante i loro periodi di residenza nell’Oriente ellenistico si erano abituati alle comodità
cittadine e avevano assimilato gli ideali della classe borghese, e tornarono a promuovere la vita urbana e
gli stessi ideali borghesi in Italia.
2. R. Syme, La rivoluzione romana (1939), trad. it. Torino 1962: pp. xvii-xix
[La rivoluzione romana] s’incentra sulla narrazione degli avvenimenti che determinarono l’ascesa al potere
di Augusto e la fondazione del suo regine, e che abbracciano gli anni dal 44 al 23 a.C. In questo periodo
si verificò un violento trapasso dei poteri e delle proprietà e conseguentemente il principato di Augusto
dovrebbe essere considerato come la stabilizzazione di un processo rivoluzionario. Ma l’accento non è
posto tanto sulla figura e l’attività personale di Augusto, quanto sui suoi seguaci e partigiani. La
struttura dell’oligarchia governativa assurge quindi a tema dominante della storia politica, venendo a
costituire l’anello di congiunzione tra la repubblica e l’impero: è qualcosa di concreto e di tangibile […].
Nel narrare i fatti di questo che è il periodo centrale della storia di Roma non mi è stato possibile
sottrarmi all’influsso di storici quali Sallustio, Asinio Pollione e Tacito che erano tutti di sentimenti
repubblicani. Ne deriva un atteggiamento decisamente critico nei riguardi di Augusto. Se, in confronto,
Cesare ed Antonio sono trattati piuttosto benignamente, ciò potrà spiegarsi con il carattere e la
mentalità di Pollione […]. Tuttavia, alla fine, non resta che accettare il principato, perché esso, se da un
lato abolisce la libertà politica, dall’altro vale a scongiurare la guerra civile e a salvare le classi apolitiche.
Libertà o governo stabile: questo è il dilemma cui si trovarono di fronte i Romani; per parte mia ho
tentato di risolverlo esattamente a modo loro.
Il piano dell’opera ha richiesto un tono pessimistico e realistico e l’esclusione assoluta dei sentimenti
[…]. È tempo ormai di reagire alla visione “tradizionale” e convenzionale di questo periodo. Molto di
ciò che si è scritto su Augusto […] non è che panegirismo, ingenuo o moralistico. Eppure non è affatto
necessario tessere l’elogio del successo politico né idealizzare uomini che acquistano ricchezze e onori
con la guerra civile.
3. A. Toynbee, L’eredità di Annibale (1965), trad. it. Torino 1981: vol. 1, p. xiii
Il tema dell’opera nel suo insieme è la vittoria postuma di Annibale su Roma, che egli non aveva potuto
sconfiggere con le armi. Nemmeno il suo genio militare era riuscito a trionfare sull’enorme potenziale
umano che Roma era in grado di mettere in campo e sulle salde strutture della Federazione romana, ma
egli riuscì ad aprire nell’organismo economico e sociale della Federazione ferite gravissime, tanto gravi
da provocare […] quella rivoluzione che fu accelerata da Tiberio Gracco e che non ebbe termine sino al
momento in cui fu arrestata da Augusto cento anni più tardi. A mio parere quella rivoluzione
1
rappresentò la nemesi del corso, in apparenza trionfale, delle conquiste militari di Roma. Nemesi è una
dea potente: in tale circostanza ella trovò in Annibale uno strumento umano docile e della sua stessa
statura.
4. A. Wallace-Hadrill, Rome’s Cultural Revolution, Cambridge 2008: 453
È solo in un senso limitato che possiamo concederci di parlare di una ‘rivoluzione culturale’ sotto
Augusto. Il nuovo ordine era al contempo profondamente conservatore e rivoluzionario. Nel
preservare le strutture della città-stato repubblicana, esso dette loro un nuovo significato. Il
tradizionalismo di Augusto, nel riaffermare il mos maiorum nella moralità, nella religione nelle strutture e
nelle pratiche sociali, non era un velo a una realtà diversa e alternativa. Esso era piuttosto il linguaggio
tramite cui una realtà alternativa veniva formulata. L’identità culturale romana viene vigorosamente
contestata [alla fine del] periodo repubblicano, nella misura in cui l’identità del corpo cittadino, e la
distribuzione del potere al suo interno, fu altrettanto contestata. Augusto, mentre riusciva nel suo
sforzo di consentire una costante espansione del corpo civico, e una costante penetrazione dell’élite dai
margini, riuscì anche a stabilire un’idea condivisa su cosa i Romani fossero, come si comportavano,
come erano le loro città, quali costumi e rituali essi seguivano. Nella misura in cui ci fu un consenso, e
una fetta importante di cultura romana si poté affermare, in quella misura la ‘romanizzazione’ poté
espandersi nelle province.
5. M. Rostovtzeff, Griechische Wirtschafts- und Gesellschaftsgeschichte, Tubinga 1931: p. 33 n. 1
La differenza tra la vita economica [dell’antichità classica] e quella del mondo moderno [è] un
differenza di quantità e non di qualità.
6. M. Finley, L’economia degli antichi e dei moderni (1973), trad. it. Roma-Bari 1974: pp. 76-77
Perché i senatori romani lasciarono agli equites campo libero nell’attività, redditizia e politicamente
importante, dell’esazione delle tasse nelle province? Si può rispondere: i membri delle élites cittadine
non erano preparati in numero sufficiente a svolgere tali attività economiche […]. Le élites
possedevano i mezzi finanziari e il potere politico; avevano ai loro ordini un notevole personale. Ciò
che mancava loro era la volontà: erano per così dire inibite come gruppo […] dai valori prevalenti. […]
I liberti […] sono criticati [dagli autori antichi] per i loro vizi morali e le cattive abitudini, mai come
concorrenti che privano uomini onesti dei mezzi di sussistenza.
7. W. V. Harris, ‘The Late republic’, in Aa. Vv., The Cambridge Economic History of the GrecoRoman World, Cambridge 2007: p. 538
Il più serio ostacolo mentale alla crescita economica nel mondo romano fu un sistema di prestigio
sociale che deplorava l’avidità.
8. W. Jongman, ‘Consumption’, in in Aa. Vv., The Cambridge Economic History of the GrecoRoman World, Cambridge 2007: p. 159
“Il fine di tutta l’attività economica è di soddisfare quanti più bisogni possibili. Ciò non è facile, perché
le nostre necessità spesso eccedono i mezzi scarsi per soddisfarle. Il successo di un’economia, di
conseguenza, è misurabile dalla capacità di risolvere il problema della scarsità. Le economie moderne
sono diventate piuttosto valide in questo campo. Esse sono non solo prospere, ma crescentemente
prospere.
9. C. Nicolet, Il mestiere di cittadino nell’antica Roma (1976), trad. it Roma 1980: pp. 3-6
Lo storico di Roma, soprattutto se si occupa del periodo repubblicano, è anzitutto lo storico di
un’oligarchia. La grande repubblica […] nelle mani dello storico rischia di ridursi […] a quel piccolo
strato di magistrati, di generali, di senatori, di funzionari e di pubblicani di cui è necessario, non foss’
altro per obbedire alle nostre fonti. […] Questi personaggi … sono stati privilegiati dalla cronica
religiosa, militare e politica, che costituisce la parte essenziale dell’eredità storiografica antica. […] Lo
studio dell’oligarchia romana […] non solo è legittimo: è indispensabile. […] Tuttavia gli interpreti
2
principali non devono far dimenticare le comparse senza le quali i primi non avrebbero mai potuto
assorbire nella loro sorte la sorte del genere umano. Di fronte al mondo Roma si è sempre presentata
sotto forma del trinomio indissociabile: “il senato e il popolo romano”. L’oligarchia riveriva –
sinceramente o meno – una massa civica che pretendeva di rappresentare […]. I generali comandavano
eserciti di cittadini, non mercenari passivi. I magistrati […] ritenevano le loro cariche “benefici del
popolo”. […] Non c’è dubbio dunque che la grandezza di Roma di fatto si sia fondata sull’adesione –
raramente smentita – di questa base civica, che forniva all’oligarchia dirigente non soltanto il suo alibi
ma i sui soldati, i suoi contribuenti e la moltitudine degli emigranti, uomini d’affari e dei coloni che
dovevano romanizzare il mondo. […] Cosa paradossale, mi sembra che proprio nei confronti di questo
popolo gli storici dovrebbero provare al contempo sbalordimento e rimorso. […] Sbalordimento
perché in nessuna opera viene data risposta soddisfacente a questo semplice quesito: qual era il
contenuto quotidiano, vissuto, in qualche modo esistenziale, della cittadinanza romana? Che cosa
significava concretamente lo status di cittadino? […] Rimorso perché gli storici si sono accontentati del
banale riferimento a qualche stampa di Epinal. […] Rimorso di aver troppo trascurato l’uomo della
strada per me non è dunque né sentimentale né dottrinario, ma risponde semplicemente al bisogno di
prolungare gli studi dedicati alla classe politica, di esaminare l’altro quadro di un dittico.
10. P. Veyne, Il pane e il circo. Sociologia storica e pluralismo politico (1976), trad. it. 1984: pp. 78
Questo è un libro di storia sociologica, se si dà alla sociologia il senso di Max Weber, per il quale tale
termine è comprensivo delle scienze umane e di quelle politiche. Si possono dire molte cose sulla
conoscenza storica, la principale delle quali è che non esiste un metodo specificamente storico: un fatto
storico non può essere spiegato, e di conseguenza narrato, se non con l’aiuto della sociologia, della
teoria politica, dell’antropologia, dell’economia e così via. Ci si chiederà invano quale potrà essere la
spiegazione storica di un avvenimento, indipendentemente dalla sua spiegazione “sociologica”, dalla sua
spiegazione scientifica, dalla sua “vera” spiegazione. Non esiste una risposta: non c’è spiegazione
astronomica dei fatti astronomici; la loro spiegazione riguarda la fisica.
Tuttavia, un libro di astronomia non somiglia a un libro di fisica e un libro di storia non è del tutto
simile a un libro di sociologia. […] La differenza fra sociologia e storia non è materiale ma puramente
formale: l’una e l’altra spiegheranno gli stessi avvenimenti, ma la sociologia ha per oggetto concetti
generali (tipi, regolarità, principi) che servono alla spiegazione di un avvenimento, mentre la storia ha
per oggetto proprio quell’avvenimento che essa spiega utilizzando i concetti generali della sociologia.
[…] Lo stesso avvenimento […] sarà per lo storico il suo proprio oggetto, mentre, per il sociologo, non
si tratterà che di un esempio utile per illustrare una regolarità, un concetto o un tipo ideale. […] In
questo libro si troverà […] della storia sociologica (in cui le nozioni di carisma […] o di
professionalizzazione servono a spiegare avvenimenti o per lo meno a ordinarli secondo un concetto).
11. C. Geertz, Interpretazione di culture (1973), trad. it. Bologna 1988: pp. 59-62
L’uomo ha bisogno di fonti simboliche di illuminazione per trovare la sua strada nel mondo, perché
quelle di tipo non simbolico, inserite nel suo corpo costituzionalmente, gettano una luce troppo soffusa.
Negli animali inferiori i modelli di comportamento si danno insieme alla loro struttura fisica, quanto
meno in misura superiore all’uomo: le fonti di informazione genetica ordinano la loro azioni entro
possibilità di variazione molto più ristrette […]. All’uomo sono date capacità innate di reazione
estremamente generali che lo regolano con molta minor precisione, anche se gli consentono
un’elasticità e una complessità molto maggiori […]. Non diretto da modelli culturali – sistemi
organizzati di simboli significanti – il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile,
un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, e la sua esperienza sarebbe in pratica
informe. La cultura […] non è un ornamento dell’esistenza umana ma la base principale della sua
specificità, una condizione essenziale per essa. […] L’uomo è, in termini fisici, un animale incompleto,
non finito; ciò che lo distingue più vistosamente dai non-uomini è la quantità e varietà di cose che deve
imparare prima di poter funzionare. […] Questo significa che la cultura, invece di essere aggiunta per
3
così dire a un animale completo, è un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo stesso
animale.
12. C. Geertz, Antropologia interpretativa (1983), trad. it. Bologna 1988: pp. 14-22
Traduzione [di culture] non significa semplicemente il rimaneggiamento con le nostre parole di come
altri esprimono le cose […] ma il mettere in luce la loro logica con le nostre parole.
[…] È dalla conquista assai difficile di vedere noi stessi tra gli altri, come un esempio locale delle forme
che la vita umana ha assunto localmente, un caso tra i casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella
apertura mentale senza la quale l’oggettività è autoincensamento e la tolleranza mistificazione.
13. M. Bettini, W. M. Short, Introduzione, in Aa. Vv., Con i Romani. Un’antropologia della
cultura antica, Bologna 2014: pp. 13-14
Questo atteggiamento – guardare i Romani con i loro occhi – corrisponde in realtà alla lezione forse più
interessante che ci è venuta dall’antropologia recente: ossia la necessità di descrivere e interpretare le
culture utilizzando, il più possibile, concetti “vicini all’esperienza” dei loro possessori. In altre parole,
cercando di limitare l’uso di categorie o modelli di carattere generale, o comunque desunti dall’orizzonte
intellettuale proprio dell’osservatore per privilegiare forme e concetti che appartengono invece a quello
dei nativi. […] Gli studi sulle culture presentano due diversi livelli di indagine, definibili nei termini di
etic vs emic. Il primo si nutre di concetti in qualche modo universali e introdotti nell’analisi dall’esterno,
attingendo al patrimonio intellettuale condiviso dall’osservatore; il secondo invece privilegia il modo di
conoscere quella cultura proprio di chi ne fa parte, un modo interno di descriverla. […] Neppure gli
antropologi del mondo antico possono sperare di fornire interpretazioni puramente ed esclusivamente
costruite attraverso concetti “vicini all’esperienza” degli antichi […]. Il lavoro dell’antropologi del
mondo antico, come quello di qualunque antropologo, consiste nel raggiungere un equilibrio fra i due
momenti, integrando la ricerca sul momento emic con gli inevitabili, anzi necessari, strumenti forniti
dalla riflessione etic.
4