“M ARKETING :
VIVO O MORTO ?”
QUESTO DOCUMENTO CONTIENE IL TESTO DI UN’INTERVISTA RILASCIATA SUL TEMA DEL MARKETING, DELLE SUE EVOLUZIONI E DINAMICHE. 1) L’AMA (American Marketing Association) nel 1984 dava questa definizione del marketing: « Il processo di organizzazione e di esecuzione del concepimento, della politica dei prezzi, delle attività promozionali e della distribuzione di idee, beni e servizi per creare scambi commericiali e soddisfare gli obiettivi degli individui e delle organizzazioni. » Invece l’ultima definizione fornita dallo stesso organo è: «Una funzione organizzativa ed un insieme di processi volti a creare, comunicare e trasmettere un valore ai clienti, ed a gestire le relazioni con essi in modo che diano benefici all'impresa ed ai suoi proprietari. » Mi sembrano due definizioni molto diverse… secondo lei cosa è cambiato? La prima definizione è deterministica e normativa, la seconda, fluida e aperta. La prima rispecchia un modello di funzionamento delle attività d’impresa –marketing incluso-­‐ che appare superato, decisamente inadeguato a un’economia neo-­‐globale, l’attuale, che è più frammentata e sconnessa del passato. È cambiata l’impresa. È cambiato il mercato. È cambiata la concorrenza. È cambiata la tecnologia. Sono cambiate le teste delle persone. La seconda definizione cerca di assorbire tutto ciò e di farlo proprio. Metaforicamente parlando, l’Ama ha dovuto prendere atto della realtà che un abito che vent’anni fa il marketing vestiva bene, oggi non gli và più: quel vestito andava alleggerito, un po’ allargato, reso più morbido nelle forme e più versatile nell’uso. Di qui la seconda definizione nella quale, a mio avviso, le parole chiave sono: funzioni, processi, valore, relazioni, benefici. Mi consenta però di portare, per così dire, “sulla terra” questo ragionamento, che altrimenti potrebbe sembrare astratto e un po’ cervellotico. Guardiamo a quanto accaduto al mercato italiano dell’automobile. Il listino della rivista Quattroruote nel 1976 presentava circa160 modelli di auto; nel 1986 -­‐più o meno all’epoca della prima definizione che lei cita, quindi-­‐ questi erano saliti a 180. Poca roba dunque, non fosse altro che le varianti di quei modelli, che erano 304 nel 1976, saliranno a 830 (+ 173%) nel 1986. In dieci anni, in sostanza, i produttori di automobili non avevano accresciuto sensibilmente le loro gamme, ma avevano iniziato a moltiplicarne la varietà. La tecnologia di produzione cominciava a muovere i primi, decisi, passi verso la flessibilità. La sorpresa vera, però, l’abbiamo se gettiamo un occhio al 2000: i modelli presenti nel listino Quattroruote erano diventati 244 (+ 53% sul 1976), ma le varianti complessivamente offerte erano letteralmente esplose: 2259 (+ 482% sempre sul 1976). 1
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Se poi scomodiamo il 2007 i numeri salgono, rispettivamente a 388 modelli per oltre 4000 varianti. In venti anni sono cambiate molte cose: sono arrivate marche prima assenti, ne sono nate di nuove e morte di vecchie, sono cambiate le esigenze che la società riconosce al prodotto, il corpo sociale si è arricchito e ha moltiplicato le proprie varietà, la coscienza economica è cresciuta e si è diffusa e via dicendo. Questo significa flexible manufacturing systems; questo significa un’offerta che supera la domanda; questo significa creare l’ambiente nel quale il management d’impresa si deve nutrire di marketing. Capisce, quindi, che in vent’anni, per riprendere la metafora iniziale, il fisico cambia e parecchio. Si può restare con lo stesso vestito indosso? Ovviamente no. 2) Sento molti chiedersi: “Oggi chi governa il mercato: i brand, il trade o il consumatore?” Mi lasci cogliere la palla al balzo e fare per un attimo l’antipatico –e me ne scuso. Vorrei dire che sono un po’ infastidito, a livello intellettuale, da un certo latinorum dei cosiddetti “guru” del marketing e compagnia cantante, che molto spesso leggo su giornali e riviste, specializzate e non. In questo gergo abbondano purtroppo frasi fatte (tipo “il consumatore è sovrano” … ma dove? oppure: “il prezzo oggi conta” e quando mai non ha contato?) e idee un po’ bizzarre come, appunto, quella che si possa ricondurre il mercato, ossia una varietà di situazioni che è impressionante, per forma e dinamica, a supposte “leggi universali”, formulate magari con frasi ad effetto. Il mercato non lo governa nessuno e niente. Cos’è poi il mercato? Di quale mercato parliamo? Io credo che sia opportuno segnare un tracciato lungo il quale sviluppare il pensiero e le idee. Le dico come la vedo. Il marketing è una invenzione che serve a governare un fenomeno sociale ben preciso e affatto nuovo, che si chiama scambio. Le società umane, nei secoli, hanno saputo renderlo sempre più complesso, articolandolo con fantasia in una miriade di “mercati”, ma le logiche di fondo non sono cambiate. Cosa dicono queste regole? Stabiliscono che lo scambio è, come tutti i fatti umani, una questione di rapporti di forza tra le parti coinvolte; nello specifico: dei produttori (che usano brand), dei commercianti (chiamiamoli trade) e degli acquirenti-­‐utilizzatori finali (noi, i consumatori). Bene. Il gioco è tutto in un braccio di ferro fra questi signori: qualche volta vince chi ha un brand (le griffe e l’alto di gamma); qualche volta vince chi ha i punti vendita (gli alimentari); qualche volta, raramente, vince chi ha i soldi da spendere e può scegliere (le assicurazioni online). In sostanza, non crediamo a chi propina leggi universali nelle cose dell’economia e, quindi, anche del marketing. L’unica e saggia risposta a una domanda come quella che lei ha riportato, secondo me, è: ”dipende … di che stiamo parlando?” 2
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3) Oggi quali devono essere gli obiettivi di un buon marketing plan? Premesso che i segnali che ho mi dicono che lo strumento “marketing plan” alberga oggi più nei manuali di marketing che nei personal computer dei dirigenti aziendali, mi pare sia difficile dare indicazioni universalmente valide. Dico questo pensando sia a quanto segnalavo all’inizio, in merito all’inafferrabilità dello scenario attuale, che pensando alla grande varietà di mercati cui è possibile riferirsi. Comunque sia, mi lancio lo stesso in qualche indicazione generale (e perciò necessariamente generica). Parliamo di mercati consumer e distinguiamo in base alla fascia di mercato di pertinenza della marca. Se fossi un produttore di beni o servizi “mass market” (Mc Donald’s nei servizi o Garnier nei beni, per fare un esempio), oggi metterei l’efficienza al centro della mia attenzione, in modo tale da generare risorse da poter investire in un utilizzo massiccio della leva promozionale (ottica di breve periodo) e nel rafforzamento delle relazioni di canale (ottica di medio periodo). Se invece fossi un produttore che opera nei mercati “premium”, porrei il tema delle economie di clientela al centro della mia attenzione e guarderei decisamente al medio termine piuttosto che al breve: per un produttore di beni (es. Audi) ciò significa alzare il valore prestato, per esempio attraverso un incremento dei servizi customer –ad esempio, offrendo tagliandi gratuiti; per un produttore di servizi (es. American Express) mi parrebbe utile segmentare la clientela per valore, destinando risorse a gratificare il cliente con dazioni gratuite –es. prestazioni giustificate con la fedeltà o con il raggiungimento, nel tempo passato, di un certo tetto di spesa. In tempi come gli attuali, di grave e probabilmente non breve crisi, è mio convincimento che la soluzione non sia tanto lo spingere sull’acceleratore dell’innovazione (efficacia), occorre piuttosto lavorare sulla costruzione di stabilità (efficienza) dentro l’impresa e nelle sue proprie relazioni di mercato. Tutto questo accade perché i consumatori, quando le aspettative sono negative, assumono condotte prudenziali. La prudenza mal si concilia con la sperimentazione –e dunque non si ricerca nelle offerte l’innovativo, ma il conosciuto. Viceversa, la prudenza spinge a ricercare rassicurazione e conferme –e quindi si apprezzano i segnali di un’alleanza coi propri fornitori, nella forma di premi, economici e non, alla fedeltà. I piani di marketing per il domani prossimo dovrebbero, credo, riflettere tutto ciò. 4) I nuovi media quanto hanno cambiato il modo di comunicare dei brand? Mi sembra che su questo terreno noi si sia testimoni diretti dell’inizio di una trasformazione strutturale del modo comunicativo che è ancora in fieri. 3
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Mi pare -­‐ma posso sbagliare, siamo ancora in una fase di fluidità accentuata-­‐ che questo mutamento si vada indirizzando verso due direzioni apparentemente contraddittorie: una centrifuga, che apre un ventaglio enorme di possibilità comunicative e una centripeta che richiama l’attenzione degli investitori al principio dell’integrazione degli strumenti in un quadro dotato di senso compiuto. La prima indica che i nuovi strumenti di comunicazione sono talmente aperti e accessibili che mettono a disposizione molte vie di comunicazione alcune delle quali addirittura (apparentemente) non governate/bili dalle imprese proprietarie –si pensi, ad esempio, a tendenze come i cosiddetti viral e tribal marketing. La seconda indica l’aumento di spessore e solidità delle scelte di comunicazione integrata, resa enormemente più potente –almeno in teoria-­‐ dall’accrescersi delle strumentazioni e quindi delle potenzialità espressive del brand. Su di esso, pertanto, convergono molti e crescenti strumenti e linguaggi comunicativi. Qui c’è di che sbizzarrirsi a inventare, sempre che ci siano quattrini da spendere. Al di là di queste mie considerazioni, mi pare comunque che il tema della sua domanda sia ancora un terreno libero per futurologi e visionari. Ci sarà da divertirsi. In queste circostanze, per capire la direzione che le cose vanno prendendo, vale a mio avviso la sana e vecchia regola che il magistrato Antonio Di Pietro, all’epoca di Tangentopoli, ebbe a teorizzare: “segui il denaro e capirai”. La direzione di movimento dei budget aziendali di comunicazione ci diranno la verità. 5) Il marketing si è evoluto oppure si è trasformato in una nuova disciplina? Questa domanda mi piace molto perché mi da la possibilità di proporre un’analogia irriverente che mi è molto cara. In un certo senso, in seno alla scienza economica, a me sembra che al marketing sia accaduta la medesima disavventura che ha ucciso il socialismo in quella politica: ha vinto. Ed è morto. Le idee e i principi che inizialmente queste scuole di pensiero propugnavano, in solitudine e in dialettica con un alter (la produzione per il marketing, il capitalismo per il socialismo), sono stati accettati e divenuti patrimonio comune e condiviso, assorbito e fatto proprio. Di conseguenza, le discipline che di tali idee erano le esclusive depositarie, hanno perso un bel po’ della loro ragion d’essere. Oggi, in azienda, chi si sognerebbe di dire e pensare che il cliente non conta? Chi può mai dire che la comunicazione sia un costo e non un investimento? Chi può sostenere che un brand sia solo “immagine”? Ricordo che al principio degli anni novanta si studiava la customer satisfaction come fondamento del quality management. 4
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Bene, tutto quel gran parlare di soddisfazione del consumatore, di qualità percepita che vince sulla qualità tecnica, era dovuto al fatto che gli ingegneri, bontà loro, avevano appreso la lezione giapponese e si erano accorti del consumatore. Si erano accorti, in altri termini, che non bastava più essere efficienti se lo si era in cose che il consumatore non apprezzava. Benvenuti … 6) ….quindi il marketing classico secondo lei è vivo o morto? Se per classico intendiamo il famigerato modello kotleriano delle 4P non avrei dubbi a dire che è morto e sepolto, ma da un pezzo. È la nuova globalizzazione a dirci (finalmente) che il re è nudo. Lo sanno bene coloro i quali lavorano quotidianamente sui mercati, che del modello product-­‐
price-­‐place-­‐promotion non sanno che farsene perché non è pratico. Lo sanno bene i manager che devono inventarsi nuovi modi di fare mercato e che non hanno tempo e risorse per mettere in atto il processo segmentazione-­‐posizionamento-­‐lancio. Lo sanno bene i ricercatori degli istituti di ricerca, che sanno che la formula chiave è il valore percepito dal consumatore e non il marketing mix. Chi se ne è accorto di meno, paradossalmente, sono molti cultori (e qualche vota, ahimé, docenti) e neofiti del marketing. I primi sono rimasti affezionati a quello che avevano studiato all’università dieci-­‐vent’anni fa e fanno sforzi sovrumani per adattare una realtà che è cambiata a quel paradigma. Se penso che basterebbe leggere qualcosa di diverso e/o visitare azienda o parlare con qualche manager di più… I secondi sono spesso studiosi di altre discipline –sovente umanistiche, come la psicologia e la semiotica-­‐ che cercando nuove strade di interdisciplinarità, si esercitano a mettere le proprie strumentazioni teoriche al servizio della disciplina del commercio. Quest’ultima è un’operazione estremamente interessante e meritoria, ma per portarla a compimento come si deve non ci si può limitare a studiare la “Bibbia” del marketing – come, odiosamente, viene spesso chiamato il manuale di Kotler-­‐ e pretendere di andare avanti nella conoscenza per via di contaminazioni. Occorre fare squadra con chi conosce a fondo i meccanismi di funzionamento dei mercati e la loro teoria, così da far nascere, dal confronto, nuove idee e prospettive. Se invece la parola classico la intendiamo come “basilare” o “fondamentale”, non solo non è morto, ma è più vivace che mai. Personalmente la consuetudine di rapporto con le imprese, sia per ricerca che per assistenza professionale, mi ha mostrato che oggi il marketing può vivere una stagione di rinnovato centralismo –anche suscettibile di interessanti elaborazioni teoriche-­‐ laddove si torni all’essenza radicale dei problemi che esso è chiamato a risolvere in azienda. 5
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In altri termini, il marketing a me appare, oggi più che mai, un’imprescindibile disciplina socioeconomica, a patto che se ne abbandonino i fastidiosi narcisismi e certe suggestioni “modaiole”, per ritornare invece alla natura vera dei problemi che gli sono affidati. A mio modesto avviso essi sono quattro: far conoscere le marche e i prodotti corrispondenti (awareness); curare la loro disponibilità sul mercato geografico prescelto (accession); sviluppare e innovare le ragioni di desiderabilità dei prodotti/marche (appeal); garantire la durata temporale del rapporto di clientela (affection). Con un bell’esercizio di presunzione e irriverenza verso Kotler e in assonanza e per differenza dal modello delle 4P, ho chiamato questa mia idea “paradigma delle 4A”. Accanto –e a monte-­‐ di tutto ciò, stanno altre due problematiche chiave la cui risoluzione è affidata al marketing: definire i comportamenti operativi adeguati al posizionamento di mercato prescelto (mass market, segmented, niche, o one-­‐to-­‐one market) e fungere da anello sensitivo-­‐
linguistico di contatto con l’ambiente esterno all’impresa (tramite il sistema delle ricerche). In sostanza, una sorta di “back to basics” che personalmente auspico, affinché questa disciplina possa elevare il proprio spessore tecnico-­‐culturale e acquistare anche quella reputazione sociale che oggi le manca e che, invece, a mio parere, meriterebbe di avere. 6