FILOLOGIA E FILOSOFIA Quando Friedrich Nietzsche muore il 25 agosto del 1900, ha alle spalle dodici anni di silenzio. In qualche momento tra gli ultimi giorni di dicembre del 1888 e i primi di gennaio dell’anno seguente la sua personalità era scivolata nel buio della follia, una follia da lungo tempo ormai presentita e temuta. La riflessione nietzscheana aveva avuto inizio nei primi anni Settanta, con la pubblicazione della sua prima grande opera: la Nascita della tragedia dallo spirito della musica, del dicembre del 1871. Frutto degli studi classici esercitati in qualità di docente di filologia presso l’università svizzera di Basilea, l’opera manifesta già un interesse spiccatamente filosofico, interesse segnato soprattutto dall’influenza del pensiero di Arthur Schopenhauer. Fin dalla prolusione universitaria del 1869 su Omero e la filologia classica Nietzsche è spinto a rifiutare la “filologia accademica”, disciplina per la quale sente di non avere una vera e propria vocazione. Incapace di guardare al passato in modo creativo e vivo, essa gli appare come un tradimento dello spirito più autentico della classicità, ridotta a mero repertorio ossificato di oggetti di studio. Nietzsche contesta, in particolare, l’immagine della grecità di impronta classicista, secondo la quale i greci crearono opere armoniose, misurate, serene perché il loro stesso spirito era armonioso, misurato, sereno. Questa immagine è sbagliata sia perché privilegia una certa epoca della storia greca — il V secolo — e un certo genere di arte — la scultura e l’architettura —, sia soprattutto perché fissa l’antichità nel momento della sua decadenza, quando lo spirito greco ha ormai smarrito pressoché del tutto le “radici vitali” che ne contraddistinguevano le origini; radici di cui rimane invece traccia, a parere di Nietzsche, soprattutto nella musica e nella religione popolare greche. Al tema della vita, che è il tema-chiave delle opere giovanili nietzscheane, il giovane filologo è guidato dalla filosofia di Schopenhauer, sotto il cui segno può essere iscritta l’intera riflessione della Nascita della tragedia. Nietzsche ha letto Il mondo di Schopenhauer fin dal 1865, quando lo scopre da universitario nella bottega di un vecchio libraio. «Ogni sua riga — scrive in una lettera di quell’anno — proclamava la rinuncia, la negazione, la rassegnazione; vi scorgevo uno specchio in cui apparivano spaventosamente ingranditi il mondo, la vita, l’animo mio [...]. Vi scorgevo malattia e guarigione, esilio e asilo, inferno e paradiso». Da Schopenhauer Nietzsche raccoglie dunque l’immagine di un mondo governato dal principio irrazionale del dolore, rispetto a cui l’esistenza umana, priva di un senso trascendente che sappia darne una spiegazione, non è che un istante transeunte destinato alla morte. Alla noluntas e all’ascesi schopenhaueriane, Nietzsche si sente tuttavia di opporre da sùbito un principio diverso, che accoglie piuttosto la coraggiosa accettazione del dolore quale viene testimoniata dagli eroi della tragedia greca. Egli riprende dunque la concezione schopenhaueriana per cui nel tragico viene in luce il “lato terrificante” dell’esistenza, ma la conduce a esiti diversi dalla disperazione e dalla rassegnazione. La rinuncia a ogni soluzione consolatoria, di ordine metafisico o religioso, non può ai suoi occhi che comportare l’accettazione dell’irrazionalità dell’esistenza, l’amore «per le cose problematiche e terribili» di cui è fatta la vita, l’amore, in definitiva, per la vita stessa. La lettura che Nietzsche compie della tragedia greca risulta così incrociata con i grandi temi del vitalismo romantico: attraverso una nuova e ardita interpretazione della tragedia, egli supera il pessimismo schopenhaueriano; sulla base della concezione romantica della vita contesta alla radice la visione della grecità di stampo neoclassico winckelmanniano. A conferma di questa impostazione sta l’appassionata lettura delle pagine goetheane, dal cui naturalismo Nietzsche raccoglie in ispecie gli accenti paganeggianti e anticristiani. Di Goethe Nietzsche sottolinea il motivo della celebrazione positiva della vita e la concezione dell’uomo come polo e misura di tutte le cose, che apre il proprio spazio interiore al massimo di sofferenza e al massimo di felicità. La vita, dunque, è volontà, e la volontà è forza espansiva infinita. Che la vita distrugga poi ciò che produce e significhi per l’uomo dolore e crudeltà, non deve spingere a rinunciare alla vita, a volere il nulla: di fronte alla crudeltà della vita bisogna essere più crudeli, occorre rispondere con “più vita”. Al tema della vita Nietzsche perviene grazie anche all’influenza della concezione musicale di Richard Wagner. Convertitosi alla metafisica schopenhaueriana, dopo un inizio di segno feuerbachiano, Wagner vede nella musica l’arte dell’interiorità per eccellenza. Essa è la lingua dell’ “inesprimibile”, dell’immediato. Specchio 1 della vita elementare dei sensi, la musica è nella sua essenza la forma d’arte più lontana dal concetto. Il concetto blocca la vita nella rappresentazione; la musica supera e spezza i vincoli della ragione e restituisce all’uomo l’esistenza nella sua originaria dimensione produttiva, creativa. Solo nell’arte musicale, di conseguenza, e in quella forma specifica di esercizio della volontà che è l’esistenza artisticamente vissuta può darsi per l’uomo la possibilità del riscatto e della salvezza. L’adesione entusiasta alle tesi estetiche wagneriane spinge il giovane Nietzsche a vedere nel musicista tedesco il modello di “artista tragico” destinato a rinnovare la cultura del secolo. Con Wagner, a partire dal 1868, Nietzsche stabilisce un intenso quanto contraddittorio sodalizio che si concluderà dieci anni dopo con una rottura drammatica (…). SPIRITO APOLLINEO E SPIRITO DIONISIACO La filosofia nietzscheana viene dunque formulata per la prima volta attraverso categorie estetiche: l’arte è in grado di spiegare l’essenza del mondo e della vita; a essa deve dunque affidarsi la comprensione filosofica. Secondo un movimento tipicamente romantico, l’arte viene posta al centro: con l’occhio dell’arte il pensatore riesce a vedere il mondo dietro il velo delle apparenze. La filosofia risulta così interpretata con l’ottica dell’artista e l’arte con l’ottica della vita: concezione artistica, filosofia della vita e interpretazione dello spirito greco si saldano in un tutto, in cui la categoria del tragico viene a costituirsi come la dimensione caratteristica della realtà. Interpretando tragicamente l’essenza del mondo, Nietzsche scopre nella tragedia, in quanto opera d’arte, la chiave che apre alla vera comprensione dell’essere: attraverso il tragico si tratta dunque di interrogare il mondo sui suoi enigmi. Per esprimere la propria concezione estetica Nietzsche ricorre alle figure del mito greco. I greci, scrive, hanno reso comprensibile la propria concezione dell’arte «non in concetti, ma nelle figure energiche e chiare del mondo dei loro dèi». La tesi fondamentale di Nietzsche è la seguente: la tragedia è la massima espressione artistica e culturale della civiltà ellenica perché in essa si incontrano le due grandi forze che animano lo spirito greco, l’apollineo e il dionisiaco. Lo sviluppo dell’arte greca è legato al dualismo di questi due elementi come la procreazione alla duplicità dei sessi. In essi acquista visibilità il contrasto primigenio degli opposti (caos e ordine, nascita e morte, ascesa e decadenza, generazione e corruzione) che è il fondamento ontologico della vita. La duplicità dell’istinto artistico greco si mostra attraverso le maschere di Apollo e Dioniso. Apollo è il dio della luce e della chiarezza, della misura e della forma: l’apollineo simboleggia l’inclinazione plastica, esprime la tensione alla forma perfetta, quale trova espressione nella scultura e nell’architettura greche. Dioniso è il dio della notte e dell’ebbrezza, del caotico e dello smisurato: il dionisiaco simboleggia l’energia istintuale, l’eccesso, il furore. Esso è dunque impulso di liberazione e di abbandono; la sua forma espressiva è la musica, non già tuttavia la musica “rigorosa e frenata” — dominio del plastico Apollo — ma la musica che genera la passione. Nella tragedia, che per questo esprime il culmine della cultura ellenica, apollineo e dionisiaco si fondono nella perfetta sintesi costituita dal canto e dalla danza del coro e dall’azione drammatica. All’immagine della grecità dipinta dal classicismo, fondata sull’esaltazione dell’armonia e della compostezza, Nietzsche ne contrappone dunque una radicalmente diversa, in cui questi elementi “apollinei” sono in profonda tensione con la dimensione caotica e irrazionale del dionisiaco. È proprio il dionisiaco che, nell’interpretazione nietzscheana, viene ad assumere un ruolo prevalente. Su un piano più strettamente filologico, infatti, Nietzsche sostiene una tesi sull’origine della tragedia tutta nel segno di Dioniso: la tragedia si forma dal coro dei seguaci mascherati del dio; l’eroe tragico non è che una maschera del dio, del quale ripete le sofferenze; nella morte dell’eroe è Dioniso stesso che muore, per poi nuovamente rinascere. L’importanza di questa interpretazione — discutibile e assai discussa sul piano filologico — è di carattere soprattutto filosofico. L’opposizione che lo scritto nietzscheano incontrò da parte dei filologi classici — celebre la stroncatura di Wilamowitz-Moellendorf, più giovane di Nietzsche di quattro anni e all’epoca solo agli inizi della sua luminosa carriera di filologo accademico — poggia sul malinteso, provocato e condiviso da Nietzsche stesso, che la Nascita della tragedia fosse un vero e proprio libro di filologia, mentre era invece il primo e ancora non compiuto tentativo di esporre una 2 concezione filosofica del mondo. La sensibilità greca, per Nietzsche, avverte con profondità mai più raggiunta la tragicità della vita e della condizione umana: la limitatezza e la finitudine dell’esistenza individuale, il suo essere momento, di un ciclo di vita e di morte sul quale l’uomo non ha alcun potere. Il gioco dialettico di apollineo e dionisiaco, dunque, esprime innanzitutto il sistema di forze e di impulsi che agisce all’interno di ogni singolo uomo. L’apollineo è l’illusione, il sogno che rende accettabile la vita racchiudendola in forme stabili e armoniche. Nel dionisiaco, invece, si rivela all’uomo tutto l’abisso della sua condizione: la vita erompe qual è, gioco crudele di nascita e di morte. Il dionisiaco è l’esperienza del caos, il perdersi di ogni forma stabile e definita nel flusso ambiguo della vita. In esso vi è dunque il dolore: la tragedia è infatti dolore. Eppure, nello stesso tempo, è anche gioia, perché Dioniso è forza generatrice, vita che si afferma continuamente al di là della morte. Nel dionisiaco, l’uomo infrange i divieti e le barriere imposti dalla cultura e, secondo un motivo fondamentale di tutta la filosofia nietzscheana, “dice sì alla vita”: si libera cioè dalle illusioni e si accorda con la sua natura, che è forza, vitalità. Ciò è possibile, in particolare, nell’esperienza artistica, durante la quale lo spettatore non vive, come voleva Aristotele, una catarsi, una “purificazione” delle passioni, ma si immerge e si abbandona al flusso di dolore e di gioia che la tragedia fa vivere sulla scena. SOCRATE E LA MORTE DELLA TRAGEDIA Nietzsche interpreta come decadenza l’intera storia dell’Occidente, a partire dalla vittoria dello spirito scientifico-socratico sullo spirito musicale-dionisiaco della tragedia greca. La tragedia muore infatti per Nietzsche nel momento in cui il pensiero greco, con Socrate, pretende di racchiudere in concetti l’esistenza, imponendo così alla vita il primato della ragione. «La tragedia muore suicida» per mano di Euripide, “maschera” che non rivela più né Apollo né Dioniso, ma un nuovo demone, Socrate. Euripide infatti «porta lo spettatore sulla scena» e trasforma l’azione drammatica in dibattito teorico, riproduce nell’arte la mediocrità del quotidiano abbandonando la profondità religiosa del mito. Con Euripide la tragedia sopravvive così nella sua “forma degenerata”, nella quale il mito tragico decade a mera narrazione realistica di vicende razionalmente concatenate. Il realismo euripideo è tuttavia solo una conseguenza dell’ottimismo razionalistico socratico: ciò che risulta messo in scena non è più la “tensione epica”, l’“eccitante incertezza”, ma la struttura razionale della realtà. Rovesciando la tesi storiografica tradizionale, che vedeva nei presocratici una sorta di “preparazione” al sorgere della grande filosofia socraticoplatonica, Nietzsche interpreta dunque l’età di Euripide e di Socrate come un’età di decadenza, in cui la cultura ellenica, che aveva espresso con Eraclito ed Eschilo una straordinaria capacità di cogliere la tragicità dell’essere, perde il suo nesso vitale con il mondo del mito e con la comunità della polis. Si chiude con Socrate l’epoca di Dioniso e il dionisiaco stesso viene espulso dall’orizzonte della cultura occidentale. All’uomo tragico si sostituisce l’uomo teoretico, che con la potenza della ragione e della scienza si dedica a costruire un imponente mondo di apparenze per affermare il suo dominio tecnico sulla vita. Sospinto da un bisogno di rassicurazione, dall’esigenza di rendere tollerante il disordine della vita, egli aderisce alla mentalità socratica per cui «al giusto non può accadere niente di male». Se la tragedia greca è morta con Euripide, il tragico rimane tuttavia la dimensione ineliminabile della vita. Il conflitto fra concezione tragica e concezione teoretica del mondo resiste e sopravvive, secondo Nietzsche, al tentativo, compiuto dal pensiero occidentale da Platone e dal cristianesimo in poi, di costruire filosofie “antitragiche”, cioè finalizzate a occultare il tragico che è nelle cose tramite l’ottimistica pretesa di imporre al mondo un ordine razionale oppure mediante l’ipostatizzazione di essenze e strutture metafisiche. Il fallimento di questa pretesa, di cui Nietzsche scorge i primi sintomi nella cultura del suo tempo, può aprire la via a un ritorno della tragedia: una possibilità che il filosofo tedesco, in questa prima fase del suo pensiero, vede rappresentata dal dramma musicale di Wagner. L’“opera totale” wagneriana, in quanto riunisce gesto, parola e musica, è l’opera d’arte completa, all’altezza della tragedia antica. Nell’arte, e in ispecie nella 3 musica, la tragicità dell’esistenza non solo può trovare espressione adeguata, ma può anche venire trasformata in esperienza vitale, ossia nella riappropriazione della gioia e del dolore che sono connessi all’insuperabile contraddittorietà della vita. «Solo come esperienza estetica — afferma Nietzsche —l’esistenza e il mondo appaiono giustificati». IL PROSPETTIVISMO NIETZSCHEANO Il primo periodo della riflessione nietzscheana è determinato in modo essenziale dal rapporto con la filosofia greca. A causa della sua professione di filologo, Nietzsche si occupa ripetutamente del pensiero antico, in particolare dei presocratici, di Platone, di Diogene Laerzio. Tra il 1872 e il 1875 egli tenta diversi abbozzi di un Libro del filosofo, tra i quali il più notevole è un saggio del 1873, pubblicato postumo, La filosofia nell’età tragica dei Greci. In continuità con le tesi della Nascita della tragedia, in questo scritto Nietzsche postula una frattura sostanziale tra i presocratici e Socrate e Platone. Nel pensiero dei primi vibra a suo parere la comprensione tragica del mondo. Come dunque la tragedia morì nel “socratismo” di Euripide, così la “filosofia tragica” delle origini si spense nella dialettica socratico-platonica: al pessimismo eroico del pensiero tragico si sostituì l’ottimismo morale della ragione, all’intuizione visionaria e artistica il meccanismo sterile della dialettica delle idee. Nietzsche vede nei primi filosofi i “grandi uomini”, le personalità di stampo eccezionale, capaci di rendere manifesto l’ideale di una vita filosofica perfino nei gesti e nel modo di vestire. Nelle loro dottrine egli scorge il modello dell’atto creativo del sapiente che applica il suo sommo diritto a dare le leggi di ogni cosa. Essi sono i guaritori e i purificatori della cultura greca. In Eraclito, soprattutto, Nietzsche crede di individuare la radice del suo stesso pensiero: il primato del divenire sull’essere, il flusso del tempo come dimensione veritiera della realtà, l’unità degli opposti sono i motivi eraclitei nei quali egli vede anticipata la propria concezione dell’unità conflittuale di apollineo e dionisiaco. Nel frammento del pensatore greco che dice «Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo» egli ritrova la sua stessa intuizione dell’«innocenza del divenire» e vede confermata la propria concezione estetica della vita e del mondo. Dell’estate del 1873 è lo scritto, anch’esso postumo, Su verità e menzogna in senso extramorale, nel quale Nietzsche sviluppa una critica al concetto scientifico e positivistico di verità che anticipa con grande originalità alcuni temi della critica novecentesca. Nietzsche afferma che il linguaggio è una convenzione la cui essenza non è quella di rappresentare la natura delle cose. Esso è un sistema di metafore, liberamente prodotto come altri sistemi di metafore, e pertanto non va inteso come l’unico modo corretto e valido di descrivere il mondo. Nietzsche si muove qui sul terreno indicato dagli antichi sofisti: da Protagora — secondo il quale l’uomo è misura di tutte le cose — e da Gorgia — per cui il reale stesso non è altro che il proliferare di immagini che il linguaggio produce a scopo persuasivo. Ciò che chiamiamo “verità”, di conseguenza, è solo un «gioco di dadi» concettuale che si determina nelle infinite interpretazioni del mondo prodotte dall’intelletto umano. Essa è solo il provvisorio configurarsi di determinate opinioni e concezioni, risultato del prevalere a livello individuale e collettivo di determinati criteri, interessi, rapporti di forza. Come già nella Nascita della tragedia, all’uomo “teoretico”, il quale crede che i concetti siano l’essenza stessa delle cose, Nietzsche contrappone anche qui l’artista creatore e forgiatore di immagini, che non è guidato «dai concetti, ma dalle intuizioni». Attraverso questo ordine di considerazioni emerge in nuce uno dei temi decisivi del pensiero nietzscheano, il tema del prospettivismo. Si tratta di una concezione che riceverà una trattazione più matura soprattutto nelle opere nietzscheane dell’ultimo periodo; è tuttavia utile anticipare già qui alcuni dei suoi caratteri, poiché esso costituisce uno dei motivi conduttori di tutta la riflessione del filosofo di Roecken. Contro il mito positivistico della scienza obiettiva in quanto scienza di fatti, il prospettivismo afferma che «non ci sono fatti, bensì solo interpretazioni». Non esistono né verità, né falsità, ma solo prospettive differenti sulla realtà. Il conoscere, di conseguenza, è un conoscere prospettico «al di là del vero e del falso», in cui tutte le “verità” prodotte si equivalgono, giacché 4 nessun criterio oggettivo può essere invocato per preferirne una o un’altra. Il mondo, nella sua qualità polimorfa, incerta e mutevole, è solo il risultato dei giochi prospettici che vi operano; la vita stessa non è altro che gioco e scontro di forze e di prospettive (quelle che il Nietzsche maturo chiamerà le “volontà di potenza”). Non esiste dunque conoscenza al di fuori della pluralità dei punti di vista che gli uomini aprono sul mondo: conoscere significa sempre valutare, ossia organizzare la realtà secondo il prospettivismo dei valori attraverso i quali ciascun uomo esprime la singolarità della propria esistenza. Sono i valori a stabilire ciò che «viene tenuto per vero»; e dal momento che il principio del valore è “l’utilità per la vita”, il concetto di verità ha alla fine un fondamento che è vitalistico e pragmatico insieme. Nietzsche giunge così a mettere radicalmente in questione i tradizionali concetti di soggetto e di coscienza. Interno al gioco delle interpretazioni, il soggetto è esso stesso semplicemente una posizione prospettica tra le altre, un “effetto di superficie” privo di quei caratteri di unità e di ultimità che la filosofia ci ha trasmesso, da Cartesio a Kant. Riprendendo un tema già spinoziano e leibniziano, Nietzsche sottolinea che ogni rappresentazione del soggetto deriva da un conatus o appetitus di quest’ultimo nei confronti dell’oggetto; poiché tuttavia questo tendere si radica in ultima analisi nella stessa biologia del soggetto, la rappresentazione non è necessariamente accompagnata dalla coscienza, la quale è anzi un suo accidens, una concomitanza non necessaria. Il soggetto, di conseguenza, non è un io autocosciente e trasparente, come vuole la tradizione razionalistica e idealistica, ma un complesso conflittuale di “centri di forza” senzienti e attivi secondo una loro propria istintualità. L’io autocosciente è una “piccola ragione” di fronte alla “grande ragione” del corpo, che è una multiforme attività di rappresentazione e appetizione di cui la coscienza non percepisce che una minima parte. CRITICA DELLA CULTURA ED ELOGIO DEL GENIO I temi che abbiamo visto emergere in maniera così prepotente nella Nascita della tragedia si arricchiscono di nuove suggestioni, tra il 1873 e il 1876, con la pubblicazione delle quattro Considerazioni inattuali. La direzione in cui muove il pensiero di Nietzsche è ora quella della critica della cultura. Il progetto di una rinascita della cultura tragica, di cui sono auspicio i suoi scritti giovanili, spinge la riflessione nietzscheana verso la critica della civiltà occidentale. L’obiettivo del filosofo tedesco non è tuttavia quello della fondazione di una cultura “diversa”, di cui egli non vede né l’attualità, né la necessità. Egli non delinea affatto un progetto di civiltà alternativo alla società decadente della sua epoca, né intende auspicare per il futuro un rinnovato e più integrato rapporto fra l’uomo di cultura e il suo tempo. La prospettiva nietzscheana è piuttosto quella di fare appello alle forze sane e creative della cultura, le quali, dentro la civiltà, sappiano interpretare un momento potentemente “critico”. L’artista wagneriano” e il “filosofo schopenhaueriano” sono per Nietzsche — come sappiamo — i protagonisti della rinascita della cultura tragica nel mondo attuale. Nella Nascita della tragedia, Nietzsche aveva enunciato la sua concezione del mondo, rappresentando la grecità dell’“età tragica” nel suo fondamento mitico, nella sua energia creativa, nella totalità del suo stile artistico quale risulta rappresentata nell’opera d’arte tragica. Ora questa concezione diventa l’unità di misura per una diagnosi radicale della cultura del suo tempo. La prima Inattuale, David Strauss, l’uomo di fede e lo scrittore, ha il carattere di un’aspra invettiva contro un uomo che pure aveva incarnato uno dei suoi miti giovanili e il cui pensiero viene invece ora liquidato come uno «svergognato ottimismo da filisteo». La Vita di Gesù di Strauss — l’opera che nel 1835 aveva aperto la strada alla cosiddetta “teologia liberale” — era stata una delle letture preferite da Nietzsche negli anni dell’università: in essa egli aveva visto l’esercizio di uno spirito libero dalla superstizione e dall’oscurantismo religioso. Possiamo comprendere il mutamento di giudizio da parte di Nietzsche solo riferendoci all’occasione che motiva lo scritto. L’opera viene composta nella primavera del 1873 — su incarico di Wagner, il quale aveva un vecchio conto da regolare con il teologo liberale — per stroncare il nuovo libro di Strauss dal titolo L’antica e la 5 nuova fede, in cui l’autore avvicinava la propria prospettiva alle vedute ateistiche del positivismo evoluzionistico. A Nietzsche questa operazione appare un tradimento della libertà di pensiero; di qui il suo violento attacco. Sarebbe tuttavia errato ridurre la prima Inattuale a un mero scritto su commissione. In Ecce homo, Nietzsche dirà retrospettivamente della sua opera giovanile: «Non attacco mai persone, mi servo della persona come di una forte lente di ingrandimento, con cui si può rendere visibile una crisi generale». Dietro all’attacco al teologo “filisteo” sta dunque il violento disprezzo per la nuova cultura tedesca, figlia della fondazione del Reich e succube della ragione e del progresso, cultura che gli appare «senza senso, senza sostanza, senza scopo». Più intensa e meditata è la riflessione che Nietzsche esercita nella seconda Inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, del 1874, dove la critica si concentra sulla storia (…). «Inattuale è questa considerazione — scrive il filosofo tedesco — perché cerco di intendere qui come danno, colpa e difetto dell’epoca qualcosa di cui l’epoca va a buon diritto fiera, la sua formazione storica». Di qui l’enunciazione della tesi dell’opera: «Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia: ma c’è un modo di coltivare la storia e una valutazione di essa, in cui la vita intristisce e degenera». Dopo aver criticato, nelle pagine della Nascita della tragedia, l’ottimismo scientistico, ora Nietzsche prende a bersaglio un altro dei tratti dominanti della cultura ottocentesca, lo storicismo, non solo e non tanto nella sua forma hegeliana, quanto come espressione di quella mentalità storicistica che, a suo parere, è tipica dell’educazione del tempo. L’intero Ottocento soffre di una «malattia storica», i cui sintomi sono l’eccessivo legame con il passato e l’atrofizzazione di ciò che in ogni cultura è l’elemento creativo e attivo. L’eccesso di senso storico diventa così il segno della decadenza: gli uomini si riducono a vivere solo nel passato, senza più stimoli a creare “nuova storia”, spettatori rassegnati del corso inarrestabile degli eventi. Quando un uomo, un popolo o una civiltà intera sono dominati dalla mentalità storiografica insorge in essi la convinzione che niente di nuovo possa mai esserci sotto il sole e che tutto sia già stato deciso: viene meno la convinzione che abbia senso impegnarsi a costruire ciò che in un futuro prossimo si pensa sia destinato a scomparire nel fluire inarrestabile delle cose. Come un semplice punto su una linea, costituito interamente dalla sua relazione con il passato e con il futuro, l’uomo cessa in questo modo di essere protagonista del presente. Questa “saturazione di storia” è in particolare pericolosa per la vita. La personalità dell’uomo ne risulta infatti indebolita. L’enorme sviluppo di conoscenze storiche che si è realizzato nel secolo XIX ha dato all’individuo più cultura di quanta egli riesca a digerire; trasformati in «enciclopedie ambulanti» riempite di «epoche, costumi, arti, filosofie, religioni», noi uomini moderni «non caviamo niente da noi stessi», perdiamo il contatto con la nostra interiorità, indossiamo l’abito logoro delle convenzioni e dell’imitazione, abbracciamo una cultura ormai solo riproduttiva. In questa «mancanza di stile» sta la decadenza dell’uomo occidentale, ridotto dal suo eccesso di coscienza storica a passivo spettatore degli eventi. L’uomo moderno — scrive Nietzsche, lucido premonitore della società di massa del XX secolo — «si fa preparare dai suoi artisti della storia la festa di un’esposizione universale [...]. Ancora non è finita la guerra, e già essa è convertita in carta stampata in centomila copie, già viene presentata come nuovissimo stimolante al palato estenuato dei bramosi di storia». Per combattere la «malattia storica», Nietzsche reclama la possibilità di vivere e di agire in modo «non storico». La vita ha bisogno di «oblio»; l’uomo deve imparare «l’arte del dimenticare», così da poter agire secondo quel certo grado di incoscienza, senza il quale non c’è felicità, non c’è grandezza ma solo paura. Il motivo qui è pienamente romantico: «chi non sa fissarsi sulla soglia dell’attimo dimenticando tutto il passato — scrive —non saprà mai che cosa sia la felicità». E ancora una volta, Nietzsche fa appello all’arte come a quella potenza sovrastorica che è in grado di guarire la civiltà dalla decadenza orientandola verso l’eterno. Ciò non significa tuttavia che la conoscenza del passato non abbia alcuna utilità per la vita e che non sia possibile instaurare un rapporto vitale e produttivo con il proprio passato. Anzi, «ciò che non è storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà», purché la 6 storia sia al servizio della vita e non si erga al contrario come “scienza pura”, avida solo di sapere. Nietzsche distingue tre modi fondamentali di porsi in un rapporto non dannoso con la storia, i quali a loro volta danno luogo a tre forme positive di storiografia: la storiografia monumentale, quella antiquaria e quella critica. Ognuna di queste forme presenta dei limiti e dei rischi, i quali tuttavia vengono compensati dalle due forme rimanenti. La storiografia monumentale corrisponde all’atteggiamento di chi è attivo e ha aspirazioni e, come tale, si proietta nel futuro. Essa occorre all’individuo potente che combatte grandi battaglie, che ha bisogno di modelli e di maestri e che non può trovarli nel presente. La meta di costui è la felicità propria e dell’umanità intera, per la quale non lo attende nessuna ricompensa se non la gloria. A quest’uomo la storia serve come mezzo contro la rassegnazione: dai grandi momenti della storia passata egli deduce che «la grandezza fu comunque una volta possibile e perciò anche sarà possibile un’altra volta». Il rischio al quale soggiace la storiografia monumentale è tuttavia quello di falsare il passato, di mitizzarlo per renderlo degno di imitazione. Essa, in questo caso, inganna e seduce, eccitando il coraggioso alla temerarietà e l’entusiasta al fanatismo. Se l’uomo vuol creare cose grandi si impossessa del passato per mezzo della storiografia monumentale, chi invece ama perseverare nella tradizione coltiva il passato come uno storico antiquario. La storiografia antiquaria appartiene a una specie umana conservatrice e veneratrice, la quale ha cura delle proprie origini e assume la tutela della tradizione come compito. Vita è per gli uomini di questo tipo essenzialmente memoria e fedeltà. Carichi di questa pietà essi pagano il debito di riconoscenza per la propria esistenza. Guardando oltre la propria caduca esistenza individuale, essi ritrovano se stessi nella città e nella stirpe a cui appartengono. Il loro scopo è servire la vita, preservando le condizioni in cui sono nati per coloro che verranno dopo di loro. Il limite di questo atteggiamento è quello di servire la storia passata fino al punto di mummificare la vita. La storiografia antiquaria degenera nel momento in cui inaridisce il presente e si mostra incapace di generare il nuovo. Chi al contrario «soffre e ha bisogno di liberazione» è indotto, per poter vivere, a gettar via da sé il passato che avverte come peso. Molto spesso dunque l’uomo ha bisogno anche di un terzo modo di considerare il passato, quello critico. La storiografia critica esprime un atteggiamento aperto al presente, in grado di assumerlo come unità di misura per giudicare il passato, trascinando per così dire la storia passata dinanzi al tribunale del presente. E tuttavia — osserva Nietzsche — noi siamo sempre i figli del nostro passato, anche dei suoi errori e dei suoi traviamenti: staccarsi dal passato è dunque sempre un processo pericoloso, pericoloso per la vita stessa. «Uomini o tempi che servono la vita a questo modo, giudicando e annientando un passato, sono sempre uomini e tempi pericolosi». Solo se la vita sa porsi grandi compiti, conclude Nietzsche, ha ancora un senso guardare nel passato. Solo chi esprime una potente volontà di futuro sa scoprire il futuro che vive nel passato stesso. Se il progetto per il futuro viene a crollare, allora tutto il sapere storico diventa un peso morto, anzi un pericolo per la vita: l’uomo imparerà dalla storia solo la rassegnazione e la vita stessa, svuotata da impulsi creativi, si rifugerà nel passato ossia nell’illusoria pienezza di una vita già vissuta. La terza e la quarta Inattuale, Schopenhauer come educatore (1874) e Richard Wagner e Bayreuth (1875), rappresentano l’ultimo compiuto omaggio agli uomini che Nietzsche ha fin qui venerato appassionatamente. Schopenhauer è la figura esemplare di maestro ed educatore, che ha perseguito un ideale di filosofia come denuncia del conformismo e come ricerca della libertà. Wagner incarna la figura del “redentore”, colui che sa indicare all’uomo la via della sola verità possibile, quella che rinasce dalle ceneri della catastrofe, come indica la grandiosa parabola epicomusicale wagneriana dell’Anello del Nibelungo. Nello scritto su Schopenhauer, in particolare, sviluppando una concezione già presente nella Nascita della tragedia, Nietzsche vagheggia un progetto di rinascita della cultura che ha per protagonista la figura ascetico-eroica del “filosofo”. Mentre “l’uomo di Goethe” è ancora l’uomo contemplativo che, viaggiatore del mondo, «raccoglie per il suo nutrimento tutto ciò che di grande e memorabile» la vita produce, “l’uomo di Schopenhauer” è il devoto ricercatore della verità: egli possiede l’“intuizione del tutto” e la sua saggezza assume la forma di una «grande illuminazione sull’esistenza». Come l’uomo goetheano, 7 egli si sforza di “conoscere tutto”, ma per un doloroso amore per il vero che lo costringe anche a sacrificare se stesso. Nietzsche disegna così l’idea del Genio come strumento essenziale di una cultura non ancora presente — giacché il Genio si comporta sempre in modo “inattuale” — ma futura; idea che egli ora vede incarnata nei due “eroi” della sua giovinezza. È chiaro che questa esaltazione del genio acquista maggiore consistenza se collegata alla concezione tragica del mondo che ne costituisce tuttora lo sfondo. La filosofia di Nietzsche è ancora governata dall’impostazione della Nascita della tragedia e dalla concezione “grecizzante” dell’uomo che vi aveva trovato espressione: l’uomo, in quanto sapiente, artista che inventa e produce cultura, è investito di una missione cosmica che ne determina il destino. Consacrato alla verità, ossia all’intuizione dell’essenza tragica della vita, il Genio è strumento di una finalità sovrumana, è esso stesso la manifestazione del destino. In questa sorta di divinizzazione del Genio e nell’elogio del “grande uomo” che ne segue troviamo il primo abbozzo della concezione nietzscheana del “superuomo” (Uebermensch). Con ciò abbiamo toccato dunque uno dei motivi fondamentali della filosofia nietzscheana. A questo proposito, Eugen Fink — uno dei più acuti interpreti di Nietzsche — ha tuttavia osservato come l’idea nietzscheana di uomo sia già segnata qui da una radicale ambiguità: «Nietzsche oscilla — scrive Fink — tra una concezione che rimane nel puramente umano, in cui distingue gli estremi del genio e dell’uomogregge, e una più profonda interpretazione dell’umanità, che va al di là di ogni umanesimo, e concepisce l’uomo secondo la sua missione cosmica, che è quella di essere il depositario della verità». IL TRAMONTO DEI MITI GIOVANILI Nel maggio del 1879, il manifestarsi in forme sempre più acute della malattia che lo porterà alla follia costringe Nietzsche a lasciare definitivamente l’insegnamento di filologia classica a Basilea. Vivendo di una modesta pensione, il filosofo dà ora inizio a quelle incessanti e sempre più sofferte peregrinazioni attraverso l’Italia, la riviera francese e le valli svizzere che segneranno la sua esistenza, di qui in avanti, fino allo spegnersi della sua mente nelle drammatiche giornate torinesi del Natale del 1888. Già nel 1876-77, l’insegnamento di Nietzsche si era tuttavia sostanzialmente interrotto e il filosofo tedesco aveva soggiornato a lungo a Sorrento ospite dell’amica Malwida von Meysenburg. Sono di questi anni gli abbozzi di una nuova opera che uscirà nel 1878 con il titolo di Umano troppo umano, sottotitolo Un libro per spiriti liberi. A partire da quest’opera Nietzsche muta il corso della propria riflessione, cambia l’orizzonte dei propri interessi. Significativamente, si trasforma anche il linguaggio attraverso cui egli dà corso alle proprie riflessioni: alle forme del saggio, della dissertazione, subentra la scrittura franta e a lampi della composizione aforistica. Lo stile si fa più aggressivo e polemico; il tono è ora spesso quello dell’invettiva, ironica e tagliente. A lungo gli studiosi si sono interrogati se si sia davanti a un cambiamento radicale, a un “secondo periodo” del filosofo, oppure se si tratti piuttosto di una sostanziale evoluzione di motivi e di interessi, ancorché segnata da brusche novità. Non c’è dubbio che, da un punto di vista biografico, il periodo che si inaugura con Umano troppo umano è segnato dalla rottura insanabile con gli “eroi” della propria giovinezza, dal distacco interiore da Wagner e da Schopenhauer. Esso avviene di colpo: sembra che il filosofo rinneghi improvvisamente ciò che aveva amato e bruci quegli idoli nel nome dei quali aveva fin qui pensato e scritto. Come scrive Fink, Nietzsche si sveglia dal sogno romantico «una più fresca, più fredda aria lo avvolge»: si libera dalla metafisica schopenhaueriana e dalla divinizzazione wagneriana dell’arte e cerca una nuova e più propria espressione. In realtà — come si è detto — già nella Nascita della tragedia Nietzsche non aveva condiviso il pessimismo di Schopenhauer. L’esperienza non del tutto riuscita del Feltspielhaus di Bayreuth, che Wagner realizza nel1876, come centro di diffusione della propria opera, convince poi Nietzsche dell’irrealizzabilità di un progetto di rinascita della cultura tragica fondata sul dramma musicale wagneriano. L’anno seguente, quando Nietzsche viene a conoscenza del progetto wagneriano del Parsifal — l’opera ispirata alla leggenda del santo Graal, il calice dell’ultima cena, in cui l’epopea romantica 8 dell’Anello del Nibelungo si salda con la prospettiva cristiana della redenzione — l’incontro dell’artista che aveva fin qui esaltato con il cristianesimo gli appare come un tradimento, un segno di debolezza. Scriverà più tardi, in Nietzsche contra Wagner: «All’improvviso Richard Wagner, apparentemente il più ricco di vittorie, in verità un disperato décadent putrefatto, si prosternò, derelitto e a brandelli, dinanzi alla croce cristiana». Sulla rottura con Wagner Umano troppo umano svolge una funzione decisiva nella stessa autobiografia interiore di Nietzsche: in Ecce homo, egli chiamerà il libro «il monumento di una crisi», intendendo che con esso il processo sotterraneo di allontanamento da Wagner si trasforma in una crisi acuta. Quando Nietzsche spedisce l’opera a Wagner, gli giunge “per un miracolo del caso” una copia del Parsifal con la dedica «Al suo fedele amico Friedrich Nietzsche, Richard Wagner, consigliere». «Questo incrociarsi dei due libri — scriverà più tardi Nietzsche — mi sembrò che avesse un suono di presagio. Non suonava come se si fossero incrociate due spade? In ogni modo così lo sentimmo noi: perché entrambi tacemmo». Il distacco da Wagner non si consuma tuttavia solo su un piano biografico e psicologico. Da un punto di vista filosofico, Nietzsche ha smesso di pensare che il rinnovamento della cultura possa avvenire attraverso una sorta di riscatto estetico dell’esistenza. Decisive, nel determinare i nuovi orientamenti, sono le amicizie che Nietzsche stringe nell’ultimo periodo di Basilea e nei primi mesi delle sue peregrinazioni: il sodalizio con il teologo e storico Franz Overbeck, che rimarrà l’amico più fedele fino ai giorni della follia torinese; il dialogo con Jacob Burckhardt, che aveva già influito sulle tesi della seconda Inattuale; l’incontro con il giovane medico e pensatore Paul Rée, che lo avvicina agli studi di morale e di psicologia. Nuove e più intense sono anche le letture cui Nietzsche si dedica, spinto dal desiderio di formarsi una cultura scientifica (che tuttavia non riuscirà mai ad avere in modo compiuto): trattati di fisica, di antropologia, di paleontologia lamarckiana, storie della chimica, le opere di Boscovich; ma anche i grandi moralisti francesi: Montaigne, La Rochefoucauld, Fontenelle, Pascal. La massa di stimoli e di riflessioni suscitata da queste e da altre letture sfocerà nella mole enorme di frammenti e di aforismi raccolti nelle opere di questi anni: Umano troppo umano (1878) e poi Aurora (1881), Gaia scienza (1882). Tratto da Cioffi, Gallo, Luppi et Al. Il testo filosofico, B. Mondadori, vol. 3.1 9