Colonna come segmento di moto Anemia e

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Colonna come
segmento di moto
Fratture vertebrali e soluzioni terapeutiche:
l’importanza della prima valutazione del traumatizzato
La maggior parte dei traumi
a livello della colonna vertebrale si attua attraverso i più
svariati meccanismi d’azione: dalla combinazione di
forze durante un evento
traumatico, siano esse in
flessione, in estensione o di
taglio, alle più semplici fratture conseguenti a cedimenti per ridotta massa ossea
nell’osteoporosi.
Le sedi preferite
dalle fratture
Esistono tuttavia sedi di elezione a livello della colonna
vertebrale nelle quali la
fisiologia della struttura
scheletrica porta ad un
aumento della frequenza
degli episodi fratturativi: la
giunzione toracolombare ad
esempio è un punto critico
che pone in contrasto la rigidità del tratto toracico (vincolato dall’ apparato constale) con quello sicuramente
più mobile a livello lombare.
Ma non solo la giunzione
toraco lombare è sede di una
fisiologica inversione di
curva: dalla cifosi toracica si
passa alla lordosi del tratto
lombare.
Movimenti di rotazione predominanti da T1 a T12
lasciano il posto a movimenti di flesso estensione tipici
delle vertebre lombari.
Tutte queste caratteristiche,
che rappresentano la fisiologica costituzione della
colonna vertebrale, rendono
tuttavia il passaggio toracolombare sede favorita per le
lesioni traumatiche.
A prescindere da queste
considerazioni di carattere
generale, che si completano
con lo sviluppo del concetto
di stabilità e instabilità delle
fratture, è importante considerare la colonna vertebrale non più come singoli
corpi vertebrali sede di singoli eventi traumatici, ma
passare al concetto di segmento di moto (idea sviluppata
da
Junghans).
Attraverso il concetto di
segmento di moto non si
identifica più solamente una
vertebra come punto di partenza della nostra analisi, ma
si intende una coppia di vertebre adiacenti, comprese le
strutture che le vincolano
l’una all’altra.
A sua volta è possibile suddividere il segmento di
moto in una componente
anteriore ed in una posteriore. È in questo particolare concetto che applica la
“stabilità” o la “non stabilità” di una frattura.
I presuposti
di una corretta
strategia terapeutica
Corretta diagnosi e coretto
inquadramento permettono
evidentemente di arrivare ad
un corretto approccio terapeutico.
Le classificazioni alle quali
abbiamo assistito cambiare
nome e scopritore nel corso
degli anni, ogni volta sono
state aggiornate al meglio
partendo dal principio cardine per cui le fratture si dividono in stabili ed instabili: le
prime passibili di un trattamento conservativo che,
nella maggior parte dei casi,
non coinvolge la chirurgia,
mentre la seconda categoria
assolutamente di tipo chirurgico.
Se ci rifacciamo alla classificazione di F. Denis troviamo
la colonna vertebrale suddivisa in tre segmenti longitudinali precisi: colonna anteriore, media e posteriore.
Accanto a questo semplice
schema mentale le tre
colonne di “stabilità” ci permettono di dare una valutazione sulla tipologia di evento traumatico che ha coinvolto il rachide e quindi
decidere quale approccio
terapeutico applicare.
Se l’evento scatenante il
trauma ha compromesso più
di una delle colonne longitudinali, la frattura deve
essere giudicata instabile: ne
consegue un inevitabile
orientamento chirurgico.
Soluzioni chirurgiche
Entrando nel merito quindi
dell’approccio chirurgico
restano validi i principi utilizzati per qualsiasi frattura
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instabile: riduzione dei segmenti ossei (garantendo
così una reale possibilità di
guarigione) alle quali si
aggiunge la decompressione
delle strutture nervose e del
midollo (con eventuale
asportazione anche attraverso tempi in micrichirugia di frammenti ossei), stabilizzazione della frattura in
posizione quanto più possibile fisiologica.
La strumentazione vertebrale non ha solo il compito di riportare le vertebre
ad una condizione fisiologica ma anche di ridistribuire
il peso sorretto dal rachide
bilanciando i vettori di
forza.
Strumenti di fissazione
quali viti trans-peduncolari
e barre, uncini sottolaminari o peduncolari, placche
laterali, devono necessariamente garantire il supporto
del peso corporeo a livello
del rachide e soprattutto
devono strutturalmente
impedire alle vertebre coinvolte nel trauma di avere
dei movimenti paradossi
(gradi di libertà) che possano non permettere una corretta solidificazione della
frattura.
Il principio che regola la
stabilizzazaine delle fratture
vertebrali non è diverso da
quello che regola la gestione e il trattamento di ogni
altra frattura del segmento
scheletrico.
Di cruciale importanza
la valutazione iniziale
L’aspetto più impegnativo
è la valutazione iniziale
con un criterio clinico che
sia il più accurato possibile
attraverso una visione critica di ogni elemento
sospetto. Una mancanza
da parte di chi osserva il
paziente può avere conse-
Anemia e riabilitazione
È ormai noto l'effetto negativo dell'anemia sulle condizioni di salute dei pazienti anziani.
Nel soggetto anemico, il
sangue ha una ridotta capacità di trasporto di ossigeno, ne seguono variazioni
fisiopatologiche che possono generare astenia, facile
stancabilità e ridotta tolleranza all'esercizio fisico. È
dunque immaginabile che il
recupero della capacità di
svolgere le attività quotidiane dopo un trauma sia
più difficoltoso e in effetti
alcuni studi hanno evidenziato questo problema nei
pazienti anziani ricoverati
in ospedale (1).
Che succede dunque al
paziente anemico che deve
sottoporsi a intervento chirurgico per frattura dell’anca? Si tratta di una delle
principali cause di ospedalizzazione e di lunga degenza tra le persone anziane e si
associa spesso a indebolimenti, ad altre disabilità e
infine a un elevato tasso di
mortalità.
Due recenti studi cercano
di far luce sulle capacità di
recupero dopo un’operazione all’anca in pazienti
anziani con bassi livelli di
emoglobina: offrono un
utile
contributo,
ma
mostrano risultati contrastanti.
Risultati contraddittori
Il primo lavoro (2) è stato
condotto da un gruppo
danese guidato dal professor
Nicolai B. Foss ed è stato
eseguito presso lo Hvidovre
University Hospital di
Copenhagen, in cui la riabilitazione inizia lo stesso
giorno dell'intervento.
Si è trattato di uno studio
prospettico che ha coinvolto 487 pazienti trattati con
un consolidato programma
riabilitativo. I livelli di
emoglobina sono stati
misurati nei primi tre giorni
successivi all’intervento e
la condizione di anemia è
stata definita per valori di
Hb inferiori a 100 g/l; è
stata inoltre valutata la
mobilità funzionale - in termini
di
Cumulated
Ambulation Score (CAS) ed è stata osservata una correlazione significativa tra i
due indici. La presenza di
anemia si è rivelata fattore
determinante nel condizionare un precoce recupero
nella capacità di camminare anche dopo l’aggiustamento per le covarianti.
Lo studio presenta molti
punti di forza. Prima di
tutto, il set-up perioperativo standardizzato ha evitato
che prevalessero le opinioni
dei singoli medici e ha
garantito uniformità sia nei
trattamenti che nelle misurazioni. Anche la terapia
trasfusionale è stata strutturata in modo da essere coordinata con i prelievi per il
rilevamento dei livelli di
emoglobina. Inoltre, i
pazienti sono stati sottoposti a un programma riabilitativo molto attento sia dal
punto di vista farmacologico che fisioterapico. Infine,
il numero elevato di partecipanti allo studio ne ha
reso i risultati statisticamente significativi.
Eppure, come si diceva, un
altro studio (3) ha ottenuto
risultati che vanno in controtendenza e non possono
passare inosservati perché
si parla di un gruppo di
grande esperienza, quello
del
dottor
Abraham
Adunski di Tel Aviv, noto
per aver ideato il modello
ortogeriatrico Sheba, basato sul concetto che la frattura dell’anca rappresenti
una malattia geriatrica
prima che ortopedica.
guenze anche drammatiche: il paziente non deve
mai essere sottovalutato
una vota giunto in Pronto
Soccorso. La valutazione
attraverso le corrette indagini strumentali, infatti, ci
pone davanti già ad una
scelta precisa. Le indagini
devono essere condotte
per gradi, con attenta
valutazione prima di tutto
della storia clinica, della
descrizione (se il paziente
è cosciente) riguardo i
fatti,
ottenendo
dal
paziente una dettagliata
descrizione della meccanica con il quale ha subito il
trauma.
Capire se gli effetti a livello della colonna vertebrale
dipendono da un meccanismo a “strappo” in flesso
estensione forzata o piuttosto che da un trauma
diretto ci può aiutare a
valutare eventuali danni
neurologici. Le fratture da
scoppio con plurima frammentazione del corpo vertebrale possono dare fenomeni periferici o centrali:
con sintomatologia a volte
sfumata o non riferita con
precisione dal paziente.
È da tener presente che
spesso sono soggetti che
giungono dopo un trauma
di media/grave entità e
spesso risultano sotto
shock, confusi, disorientati anche sulla descrizione
della sintomatologia.
È importante poi tenere
presente che lesioni motorie e sensitive con manifestazioni anche gravi possono essere transitorie se
diagnosticate in tempi
brevi e affrontate chirurgicamente in modo più che
corretto: un quadro di
paralisi completa sensitiva
e motoria, ad esempio,
non è sempre compatibile
con un danno irreversibile
del midollo spinale.
La clinica e le indagini
diagnostiche
che
la
moderna tecnologia ci permettono di utilizzare devono necessariamente portare il chirurgo a porre una
diagnosi precoce e quindi
decidere quale grado di
priorità e di urgenza merita il paziente e la frattura
identificata.
Si è trattato in questo
caso di uno studio retrospettivo in cui le abilità
funzionali dei pazienti
precedentemente operati
all’anca sono state valutate in due momenti, prima
e dopo il trattamento riabilitativo, tramite l’indice
FIM
(Functional
I n d e p e n d e n c e
Measurement). Il dottor
Adunski non ha riscontrato alcuna correlazione
fra il livello emoglobinico
al termine della riabilitazione e il grado di autonomia raggiunta, anche se è
opportuno notare che nel
gruppo studiato i valori
medi di emoglobina erano
mediamente elevati.
Al momento di trarre le
conclusioni del loro lavoro, sono gli stessi autori a
raccomandare ulteriori
studi, possibilmente di
tipo longitudinale, che
consentano di osservare
l’evoluzione nel tempo
della capacità di recupero
dei pazienti in relazione ai
livelli di emoglobina.
Approfondimenti risulta-
no tanto più necessari nel
confrontare lo studio
israeliano con quello
danese che, pur tenendo
conto della diversa impostazione delle ricerche,
sembrano arrivare a risultati contraddittori.
Lorenzo Castellani
Matteo Laccisaglia
Renato Torlaschi
1) Maraldi C, Volpato S,
Cesari M, Cavalieri M, Onder
G, Mangani I, Woodman RC,
Fellin R, Pahor M; GIFA.
Anemia and recovery from
disability in activities of daily
living in hospitalized older persons. J Am Geriatr Soc 2006
Apr;54(4):632-6.
2) Foss NB, Kristensen MT,
Kehlet H. Anaemia impedes
functional mobility after hip
fracture surgery. Age and
Ageing 2008; 37: 173–178
3) Adunsky A, Arad M,
Blumstein T, Weitzman A,
Mizrahi EH. Discharge hemoglobin and functional outcome
of elderly hip fractured patients
undergoing rehabilitation. Eur J
Phys Rehabil Med 2008
Dec;44(4):417-22.
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