FOCUS ON nota x grafico diventa pagina 16 qui paginone pubblicitario Colonna come segmento di moto Fratture vertebrali e soluzioni terapeutiche: l’importanza della prima valutazione del traumatizzato La maggior parte dei traumi a livello della colonna vertebrale si attua attraverso i più svariati meccanismi d’azione: dalla combinazione di forze durante un evento traumatico, siano esse in flessione, in estensione o di taglio, alle più semplici fratture conseguenti a cedimenti per ridotta massa ossea nell’osteoporosi. Le sedi preferite dalle fratture Esistono tuttavia sedi di elezione a livello della colonna vertebrale nelle quali la fisiologia della struttura scheletrica porta ad un aumento della frequenza degli episodi fratturativi: la giunzione toracolombare ad esempio è un punto critico che pone in contrasto la rigidità del tratto toracico (vincolato dall’ apparato constale) con quello sicuramente più mobile a livello lombare. Ma non solo la giunzione toraco lombare è sede di una fisiologica inversione di curva: dalla cifosi toracica si passa alla lordosi del tratto lombare. Movimenti di rotazione predominanti da T1 a T12 lasciano il posto a movimenti di flesso estensione tipici delle vertebre lombari. Tutte queste caratteristiche, che rappresentano la fisiologica costituzione della colonna vertebrale, rendono tuttavia il passaggio toracolombare sede favorita per le lesioni traumatiche. A prescindere da queste considerazioni di carattere generale, che si completano con lo sviluppo del concetto di stabilità e instabilità delle fratture, è importante considerare la colonna vertebrale non più come singoli corpi vertebrali sede di singoli eventi traumatici, ma passare al concetto di segmento di moto (idea sviluppata da Junghans). Attraverso il concetto di segmento di moto non si identifica più solamente una vertebra come punto di partenza della nostra analisi, ma si intende una coppia di vertebre adiacenti, comprese le strutture che le vincolano l’una all’altra. A sua volta è possibile suddividere il segmento di moto in una componente anteriore ed in una posteriore. È in questo particolare concetto che applica la “stabilità” o la “non stabilità” di una frattura. I presuposti di una corretta strategia terapeutica Corretta diagnosi e coretto inquadramento permettono evidentemente di arrivare ad un corretto approccio terapeutico. Le classificazioni alle quali abbiamo assistito cambiare nome e scopritore nel corso degli anni, ogni volta sono state aggiornate al meglio partendo dal principio cardine per cui le fratture si dividono in stabili ed instabili: le prime passibili di un trattamento conservativo che, nella maggior parte dei casi, non coinvolge la chirurgia, mentre la seconda categoria assolutamente di tipo chirurgico. Se ci rifacciamo alla classificazione di F. Denis troviamo la colonna vertebrale suddivisa in tre segmenti longitudinali precisi: colonna anteriore, media e posteriore. Accanto a questo semplice schema mentale le tre colonne di “stabilità” ci permettono di dare una valutazione sulla tipologia di evento traumatico che ha coinvolto il rachide e quindi decidere quale approccio terapeutico applicare. Se l’evento scatenante il trauma ha compromesso più di una delle colonne longitudinali, la frattura deve essere giudicata instabile: ne consegue un inevitabile orientamento chirurgico. Soluzioni chirurgiche Entrando nel merito quindi dell’approccio chirurgico restano validi i principi utilizzati per qualsiasi frattura 10 instabile: riduzione dei segmenti ossei (garantendo così una reale possibilità di guarigione) alle quali si aggiunge la decompressione delle strutture nervose e del midollo (con eventuale asportazione anche attraverso tempi in micrichirugia di frammenti ossei), stabilizzazione della frattura in posizione quanto più possibile fisiologica. La strumentazione vertebrale non ha solo il compito di riportare le vertebre ad una condizione fisiologica ma anche di ridistribuire il peso sorretto dal rachide bilanciando i vettori di forza. Strumenti di fissazione quali viti trans-peduncolari e barre, uncini sottolaminari o peduncolari, placche laterali, devono necessariamente garantire il supporto del peso corporeo a livello del rachide e soprattutto devono strutturalmente impedire alle vertebre coinvolte nel trauma di avere dei movimenti paradossi (gradi di libertà) che possano non permettere una corretta solidificazione della frattura. Il principio che regola la stabilizzazaine delle fratture vertebrali non è diverso da quello che regola la gestione e il trattamento di ogni altra frattura del segmento scheletrico. Di cruciale importanza la valutazione iniziale L’aspetto più impegnativo è la valutazione iniziale con un criterio clinico che sia il più accurato possibile attraverso una visione critica di ogni elemento sospetto. Una mancanza da parte di chi osserva il paziente può avere conse- Anemia e riabilitazione È ormai noto l'effetto negativo dell'anemia sulle condizioni di salute dei pazienti anziani. Nel soggetto anemico, il sangue ha una ridotta capacità di trasporto di ossigeno, ne seguono variazioni fisiopatologiche che possono generare astenia, facile stancabilità e ridotta tolleranza all'esercizio fisico. È dunque immaginabile che il recupero della capacità di svolgere le attività quotidiane dopo un trauma sia più difficoltoso e in effetti alcuni studi hanno evidenziato questo problema nei pazienti anziani ricoverati in ospedale (1). Che succede dunque al paziente anemico che deve sottoporsi a intervento chirurgico per frattura dell’anca? Si tratta di una delle principali cause di ospedalizzazione e di lunga degenza tra le persone anziane e si associa spesso a indebolimenti, ad altre disabilità e infine a un elevato tasso di mortalità. Due recenti studi cercano di far luce sulle capacità di recupero dopo un’operazione all’anca in pazienti anziani con bassi livelli di emoglobina: offrono un utile contributo, ma mostrano risultati contrastanti. Risultati contraddittori Il primo lavoro (2) è stato condotto da un gruppo danese guidato dal professor Nicolai B. Foss ed è stato eseguito presso lo Hvidovre University Hospital di Copenhagen, in cui la riabilitazione inizia lo stesso giorno dell'intervento. Si è trattato di uno studio prospettico che ha coinvolto 487 pazienti trattati con un consolidato programma riabilitativo. I livelli di emoglobina sono stati misurati nei primi tre giorni successivi all’intervento e la condizione di anemia è stata definita per valori di Hb inferiori a 100 g/l; è stata inoltre valutata la mobilità funzionale - in termini di Cumulated Ambulation Score (CAS) ed è stata osservata una correlazione significativa tra i due indici. La presenza di anemia si è rivelata fattore determinante nel condizionare un precoce recupero nella capacità di camminare anche dopo l’aggiustamento per le covarianti. Lo studio presenta molti punti di forza. Prima di tutto, il set-up perioperativo standardizzato ha evitato che prevalessero le opinioni dei singoli medici e ha garantito uniformità sia nei trattamenti che nelle misurazioni. Anche la terapia trasfusionale è stata strutturata in modo da essere coordinata con i prelievi per il rilevamento dei livelli di emoglobina. Inoltre, i pazienti sono stati sottoposti a un programma riabilitativo molto attento sia dal punto di vista farmacologico che fisioterapico. Infine, il numero elevato di partecipanti allo studio ne ha reso i risultati statisticamente significativi. Eppure, come si diceva, un altro studio (3) ha ottenuto risultati che vanno in controtendenza e non possono passare inosservati perché si parla di un gruppo di grande esperienza, quello del dottor Abraham Adunski di Tel Aviv, noto per aver ideato il modello ortogeriatrico Sheba, basato sul concetto che la frattura dell’anca rappresenti una malattia geriatrica prima che ortopedica. guenze anche drammatiche: il paziente non deve mai essere sottovalutato una vota giunto in Pronto Soccorso. La valutazione attraverso le corrette indagini strumentali, infatti, ci pone davanti già ad una scelta precisa. Le indagini devono essere condotte per gradi, con attenta valutazione prima di tutto della storia clinica, della descrizione (se il paziente è cosciente) riguardo i fatti, ottenendo dal paziente una dettagliata descrizione della meccanica con il quale ha subito il trauma. Capire se gli effetti a livello della colonna vertebrale dipendono da un meccanismo a “strappo” in flesso estensione forzata o piuttosto che da un trauma diretto ci può aiutare a valutare eventuali danni neurologici. Le fratture da scoppio con plurima frammentazione del corpo vertebrale possono dare fenomeni periferici o centrali: con sintomatologia a volte sfumata o non riferita con precisione dal paziente. È da tener presente che spesso sono soggetti che giungono dopo un trauma di media/grave entità e spesso risultano sotto shock, confusi, disorientati anche sulla descrizione della sintomatologia. È importante poi tenere presente che lesioni motorie e sensitive con manifestazioni anche gravi possono essere transitorie se diagnosticate in tempi brevi e affrontate chirurgicamente in modo più che corretto: un quadro di paralisi completa sensitiva e motoria, ad esempio, non è sempre compatibile con un danno irreversibile del midollo spinale. La clinica e le indagini diagnostiche che la moderna tecnologia ci permettono di utilizzare devono necessariamente portare il chirurgo a porre una diagnosi precoce e quindi decidere quale grado di priorità e di urgenza merita il paziente e la frattura identificata. Si è trattato in questo caso di uno studio retrospettivo in cui le abilità funzionali dei pazienti precedentemente operati all’anca sono state valutate in due momenti, prima e dopo il trattamento riabilitativo, tramite l’indice FIM (Functional I n d e p e n d e n c e Measurement). Il dottor Adunski non ha riscontrato alcuna correlazione fra il livello emoglobinico al termine della riabilitazione e il grado di autonomia raggiunta, anche se è opportuno notare che nel gruppo studiato i valori medi di emoglobina erano mediamente elevati. Al momento di trarre le conclusioni del loro lavoro, sono gli stessi autori a raccomandare ulteriori studi, possibilmente di tipo longitudinale, che consentano di osservare l’evoluzione nel tempo della capacità di recupero dei pazienti in relazione ai livelli di emoglobina. Approfondimenti risulta- no tanto più necessari nel confrontare lo studio israeliano con quello danese che, pur tenendo conto della diversa impostazione delle ricerche, sembrano arrivare a risultati contraddittori. Lorenzo Castellani Matteo Laccisaglia Renato Torlaschi 1) Maraldi C, Volpato S, Cesari M, Cavalieri M, Onder G, Mangani I, Woodman RC, Fellin R, Pahor M; GIFA. Anemia and recovery from disability in activities of daily living in hospitalized older persons. J Am Geriatr Soc 2006 Apr;54(4):632-6. 2) Foss NB, Kristensen MT, Kehlet H. Anaemia impedes functional mobility after hip fracture surgery. Age and Ageing 2008; 37: 173–178 3) Adunsky A, Arad M, Blumstein T, Weitzman A, Mizrahi EH. Discharge hemoglobin and functional outcome of elderly hip fractured patients undergoing rehabilitation. Eur J Phys Rehabil Med 2008 Dec;44(4):417-22.