Il diritto - Edu.lascuola

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Luciano Lanzi
Roberto Rossi
Il diritto
I principi e l’amministrazione del diritto nell’antica
Grecia
Premessa. Il “diritto greco” ha una configurazione radicalmente diversa da quello moderno (strettamente dipendente dal diritto romano), e non si può esaminare con uno sguardo di sintesi, vista la frammentazione degli
ordinamenti delle singole πόλεις e la scarsità delle informazioni che noi abbiamo, che si riducono quasi esclusivamente al diritto attico, soprattutto grazie alla testimonianza delle orazioni giudiziarie a noi pervenute.
La mancanza di “specialisti”. Mancavano, del resto, figure professionali di riferimento, che potessero offrire un
orientamento all’interpretazione delle leggi: competenze specifiche mancavano sia ai giudici popolari, gli eliasti
(semplici cittadini estratti a sorte nelle varie tribù per amministrare il tribunale popolare), sia ai logografi, che
– dietro lauto compenso – scrivevano le orazioni destinate a essere pronunciate dalle controparti coinvolte nel
processo.
I processi. Il diritto attico prevedeva la distinzione di due tipologie di processi: δίκαι e γραφαί. Il primo termine
individua le cause che riguardavano sostanzialmente la tutela del diritto famigliare, che venivano istruite per
iniziativa del diretto interessato; le γραφαί erano invece quelle cause che ciascun singolo cittadino poteva intentare per punire i reati che mettevano a repentaglio gli interessi generali della πόλις (ad es. i reati di empietà,
di ὕβρις, i tentativi di sovvertimento delle istituzioni).
Il processo si svolgeva in due fasi: l’istruttoria davanti all’arconte βασιλεύς (per vagliare il materiale prodotto
dalle parti in causa e assegnare la causa al tribunale competente) e il dibattimento vero e proprio, davanti ai giudici, in tribunale. Nel caso di processo per omicidio (δίκη φόνου), vi erano ben cinque tribunali, ciascuno con
una sua propria specializzazione: l’Areopago per l’omicidio volontario (φόνος ἐκ προνοίας), il Palladio per
quello involontario (φόνος μὴ ἐκ προνοίας o ἀκούσιος), il Delfinio per l’omicidio legittimo (φόνος δίκαιος),
il Pritaneo per quello causato da ignoti, da animali o da oggetti e infine il Freatto, per omicidio commesso da chi
era stato condannato e si trovava allontanato dalla πόλις.
L’interessato doveva presentarsi in tribunale al momento stabilito per il processo, ma esistevano anche procedure straordinarie: la ἀπαγωγή (l’arresto immediato del reo, colto in flagranza di reato, che veniva condotto,
ἀπάγω, davanti al magistrato); la ἐφήγησις (il magistrato veniva condotto, ἐφηγέομαι, sul luogo del reato per
procedere direttamente all’arresto); la ἔνδειξις (da ἐνδείκνυμι, era la denuncia davanti al magistrato, al fine
di procedere all’arresto).
Nel corso del processo erano le parti in causa a pronunciare direttamente i discorsi di accusa e di difesa, anche
se esisteva la possibilità di ricorrere a un συνήγορος, una persona competente e abile nel parlare che interveniva per soccorrere chi non fosse all’altezza, per motivi di età o di salute. Le due parti si alternavano, pronunciando ciascuna due discorsi, la cui durata era regolata dalla clessidra, senza possibilità di contraddittorio diretto
(secondo lo schema: discorso accusa – discorso difesa – replica accusa – replica difesa): il primo discorso era
della durata di venti-quaranta minuti (a seconda della tipologia di processo), il secondo di una decina di minuti. Alla fine i giudici procedevano alla votazione: in caso di assoluzione il processo era concluso, in caso di
condanna dell’imputato si applicava la pena prevista dalla legge (ἀγὼν ἀτίμητος), oppure si effettuava una seconda votazione per stabilire se infliggere la pena richiesta dall’accusa (τίμημα) o la pena alternativa suggerita
dall’imputato stesso (ἀντιτίμημα). In quest’ultimo caso ci si trovava di fronte a un ἀγὼν τιμητός, un processo
come quello affrontato da Socrate.
Per una trattazione di maggior dettaglio, proponiamo una lettura di Robert Flacelière, tratta da un suo saggio
molto fortunato del 1959 (tradotto per la prima volta in Italia nel 1983).
Il funzionamento della giustizia ci è noto solo per quanto riguarda Atene. Per le altre città greche abbiamo solo
informazioni scarse e insufficienti. A Sparta, città aristocratica, la giustizia doveva essere molto più sbrigativa che
ad Atene. Tucidide ci narra minuziosamente come Pausania, accusato di tradimento, fu messo sotto accusa dagli
efori e murato vivo nel tempio di Atena Calkioecos dove si era rifugiato ma non ci dice se era comparso davanti
a un tribunale.
Il potere di esercitare la giustizia era un privilegio reale: in Omero ed Esiodo erano i re, portatori di scettro, a
emettere le sentenze (θέμιστες). Nell’Atene democratica di Pericle tale potere reale era esercitato dal popolo che
lasciava alla venerabile assemblea dell’Areopago solo certe cause di assassinio. Come proclamava fieramente
R. Rossi, L. Lanzi • Con parole ornate • Cappelli Editore 2010
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Filocleone nelle Vespe di Aristofane:
«Questo nostro potere di giudicare non cede di fronte a nessuna regalità. Che felicità, che fortuna possono essere
complete come quelle di un giudice? … Non è grande la mia potenza, grande quanto quella di Zeus?».
Una differenza fra l’organizzazione della giustizia nell’antichità e quella dei giorni nostri nei paesi civili consiste
nel fatto che, almeno ad Atene, non esisteva un «pubblico ministero»: la giustizia non perseguiva autonomamente
i reati, i magistrati prendevano solo molto raramente l’iniziativa di una incriminazione e non c’erano «procure
della Repubblica». In tutte le cause private (δίκαι) solo la persona che si riteneva lesa o un suo rappresentante legale (in caso di minori, donne, meteci e schiavi) poteva intentare un processo, fare una citazione e farsi
ascoltare in udienza, talvolta col sostegno di una specie di avvocato, chiamato sinègoro. Per le cause pubbliche
(γραφαί), quando cioè si trattava di atti presunti lesivi dell’interesse generale, ogni cittadino, chi «lo volesse» (ὁ
βουλόμενος), poteva decidere di considerarsi leso in quanto membro della comunità e aveva dunque il diritto, se
non addirittura il dovere, di “venire in aiuto” alla legge presentando una denuncia presso il magistrato. Da questo
stato di cose derivava il fatto che lo stato era praticamente costretto a incoraggiare la denuncia e ciò favoriva lo
sviluppo dei fenomeno dei sicofanti.
In caso di danno materiale causato alla città dall’infrazione delle leggi sul commercio, le dogane e le miniere, i
singoli che prendevano l’iniziativa erano «interessati» al processo che provocavano: se l’accusato veniva giudicato colpevole, avevano un premio che nel V secolo ammontava ai tre quarti, e nel IV alla metà della multa inflitta.
Ma per evitare che venissero intentate troppe azioni per ragioni di interesse o per semplice desiderio di nuocere,
per le δίκαι, le due parti interessate dovevano consegnare prima del processo una certa somma come rimborso
delle spese processuali (πριτάνεια); nelle γραφαί solo l’accusatore era tenuto al deposito (παράστασις). Se
desisteva o non otteneva almeno un quinto dei voti al processo, doveva pagare una multa di 1000 dracme. In
entrambi i casi, il dibattito (ἀγών) si svolgeva solo fra le due parti: il magistrato istruttore era incaricato solo di
raccogliere le dichiarazioni formulate, di registrare le prove e le testimonianze presentate dagli avversari poi, di
solito, di presiedere il tribunale. Esso, in tutti i casi, si comportava da giuria muta, che ascoltava le tesi avverse e
si pronunciava alla fine. Ma i giudici, molto numerosi, manifestavano talvolta i loro sentimenti con «movimenti
diversi» (θόρυβος).
I magistrati istruttori erano, nella maggior parte dei casi, gli arconti: l’arconte re per le cause relative al culto e gli
omicidi, l’arconte eponimo per il diritto privato relativo ai cittadini, il polemarco per gli affari che interessavano
i meteci e gli stranieri, i tesmoteti quando erano in gioco gli interessi materiali della città. Così Platone ci mostra,
all’inizio dell’Eutifrone, l’indovino così chiamato e Socrate che si incontrano davanti al Portico Reale dove aveva
il suo seggio l’arconte re: Eutifrone viene a deporvi un’accusa contro suo padre, colpevole ai suoi occhi di avere
violato la «pietà» lasciando morire di fame uno schiavo assassino, e Socrate è convocato dall’arconte re a causa
della denuncia fatta da Meleto che lo accusa di empietà e di corruzione della gioventù, accusa per la quale sarebbe
morto.
Tuttavia ad Atene c’era una polizia. I capi erano i magistrati chiamati «gli Undici» o «sorveglianti dei malfattori»,
incaricati di arrestare qualsiasi ladro o criminale fosse colto in flagrante; se confessava, facevano eseguire la pena
immediatamente, altrimenti lo portavano in tribunale. Potevano anche farlo incarcerare, sorvegliavano le prigioni
e seguivano tutte le cause a procedura sommaria che presupponevano la detenzione preventiva. Intervenivano
soprattutto quando un cittadino arrestava lui stesso un delinquente (ἀπαγωγή) o quando era necessario che un
magistrato si recasse nel luogo dove si trovava un criminale per arrestarlo (ἐφήγησις) o, infine, in casi di denuncia (ἔνδειξις). Erano anche incaricati delle esecuzioni: fu un servo degli Undici a portare a Socrate la cicuta.
Molti erano i tribunali ad Atene. Il più antico e venerabile era certamente l’Areopago che dai tempi di Pericle
aveva perso ogni potere politico ma che continuava a giudicare i casi di delitto premeditato, di ferite inflitte con
l’intenzione di uccidere, di incendio di una casa abitata e di avvelenamento; poteva condannare a morte in caso
di assassinio o all’esilio, con confisca dei beni, in caso di ferite.
I Cinquanta e un efeto (giudici delle cause criminali) si suddividevano in tre tribunali: il Palladio giudicava le
cause di omicidio involontario e di istigazione all’omicidio e pronunciava la pena dell’esilio a tempo determinato,
senza confisca dei beni. II Delfinio era competente se l’arconte re, incaricato dell’istruttoria, aveva deciso che
l’omicidio era scusabile o legittimo. Un terzo tribunale, a Freatto sulle rive del mare, giudicava coloro che, temporaneamente esiliati per omicidio involontario, commettevano un nuovo delitto con premeditazione: l’accusato,
ancora contaminato e quindi nella impossibilità di entrare in città, presentava la sua difesa da una barca di fronte
ai giudici seduti lungo la spiaggia.
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Infine un quinto «tribunale del sangue» era formato dall’arconte re e dai re delle tribù, radunati di fronte al Pritaneo. La natura delle cause ivi giudicate dimostra che la sua origine è antichissima: «condanna in contumacia il
criminale ignoto e giudica gravemente l’animale o l’oggetto di pietra, ferro o legno che ha causato la morte di un
uomo, prima di purificare il territorio facendolo trasportare o gettare al di là delle frontiere».
Ma non erano i «tribunali del sangue» che davano ad Atene il suo carattere particolare nel campo della giustizia
e che la differenziavano dalle altre città greche. Era la giurisdizione popolare dell’Eliea, le cui attribuzioni erano
quasi universali e lasciavano fuori solo gli omicidi. Certamente molti atti della vita pubblica erano puniti dalla
Bulé e anche l’Ecclesia, assemblea plenaria del popolo, aveva il diritto di giudicare i reati più gravi contro la sicurezza dello stato; nel 406 infatti gli strateghi vincitori alle Arginuse, ma accusati di aver trascurato il salvataggio
dei soldati periti nel naufragio, furono giudicati e condannati in due drammatiche sedute dell’assemblea.
L’assemblea dei popolo deteneva tutti i poteri, ivi compresi quelli giudiziari, ma non poteva bastare a tutto ed era
la sua emanazione, l’Eliea, a sua volta molto numerosa, che giudicava nelle sue diverse sezioni la maggior parte
dei processi. Ogni cittadino di almeno 30 anni e non privo dei diritti politici poteva farne parte. Il numero degli
eliasti o δικασταί era fissato in 6.000, che era il quorum delle sedute plenarie dell’Ecclesia, la frazione del popolo che si considerava equivalente, in pratica, al popolo intero; abbiamo infatti detto che erano necessari almeno
6.000 suffragi per rendere valido l’ostracismo.
Se ogni ateniese, volendolo, aveva molte possibilità di diventare buleuta e pritano almeno una volta nella vita,
ne aveva ancor di più di diventare giudice, perché la Bulé comprendeva solo 500 membri e l’Eliea era 10 volte
più numerosa.
Ogni anno, i nove arconti, assistiti dal loro segretario, procedevano all’estrazione a sorte di 600 nomi di ognuna
delle 10 tribù su una lista di candidati preparata dai demi in proporzione alla popolazione. La procedura dell’estrazione a sorte era analoga a quella in uso per la designazione dei buleuti.
I diversi tribunali dell’Eliea (molti potevano funzionare contemporaneamente) avevano delle giurie di 501 e talvolta di 1001, 1501 e persino 200l persone. Il numero più frequente era però 501.
La ripartizione degli eliasti fra i diversi tribunali era eseguita con infinite precauzioni, destinate a impedire alle
parti di conoscere anticipatamente il nome di qualche giudice.
Naturalmente i tribunali dell’Eliea non potevano tenere le loro sedute nei giorni in cui si tenevano le sedute
dell’Assemblea perché tutti gli eliasti erano cittadini e membri dell’Ecclesia. Non si riunivano nemmeno, per
ragioni religiose, nei giorni di festa, ritenuti nefasti. Il corso della giustizia era quindi spesso ritardato.
Finalmente gli eliasti arrivano nel tribunale loro assegnato. Ricevono un gettone (σύμβολον) che, al momento
del voto, scambieranno con un altro che darà loro diritto all’indennità. Si siedono nei banchi di legno ricoperti
da trecce di giunco. Il magistrato che presiede l’udienza siede su un’alta cattedra (βῆμα) in fondo alla sala, circondato dal suo segretario o cancelliere, da un araldo pubblico e dagli arcieri sciti che garantivano l’ordine nei
tribunali come in Assemblea. Di fronte a lui si trova la tribuna dei difensori, fiancheggiata a destra e a sinistra da
quelle delle due parti. C’è anche una tavola sulla quale si contano i voti. Il pubblico che può assistere alle udienze
tranne nei casi di processo a porte chiuse si ammassa vicino all’ingresso ed è separato dai giudici con una barriera.
Appena inizia l’udienza, a un segnale dato dal presidente, la porta viene chiusa.
All’inizio dell’udienza del tribunale, il cancelliere legge l’atto d’accusa e la risposta scritta della difesa, contenute
nel dossier. Poi il presidente dà la parola successivamente all’accusa e alla difesa. Ogni cittadino implicato in un
processo poteva parlare personalmente. Se si giudicava incapace di farlo, affidava la propria causa a un uomo del
mestiere (logografo) e la imparava a memoria: molte orazioni che ci sono state trasmesse, di Lisia, Demostene
ecc., vennero scritte su commissione di un cliente. Si poteva anche chiedere al tribunale il permesso, in genere
accordato, di farsi aiutare, o talvolta sostituire, da un amico più eloquente (συνήγορος) che non era un avvocato
di mestiere e non veniva retribuito. Gli ateniesi non ancora maggiorenni, gli schiavi e gli affrancati venivano rappresentati in tribunale dai rispettivi padri, mariti, tutori legali, padroni o protettori (προστάτης).
Tranne che nel caso in cui un presagio atmosferico di cattivo augurio facesse sospendere la seduta, come avveniva per l’assemblea, i dibattiti si svolgevano senza interruzione e dovevano chiudersi il giorno stesso. Si doveva
limitare energicamente il tempo entro il quale le parti potevano parlare e replicare. Per questo si usava la clessidra
o l’orologio ad acqua. Per tutta la durata del dibattimento gli eliasti si limitavano ad ascoltare. Subito dopo l’araldo li chiamava a votare. Ognuno di loro doveva farlo secondo coscienza e seguendo gli estremi del giuramento
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prestato, senza consultazioni reciproche o discussioni. Nel V secolo, ogni giudice poneva un sassolino (ψῆφος)
o una conchiglia in una delle due urne davanti alle quali passava, una destinata ai voti favorevoli all’accusato,
l’altra per quelli di condanna. Nel IV secolo, per tutelare la segretezza del voto si escogitò un altro sistema: ogni
giurato riceveva due rotelline di bronzo con inserito dentro due asticelle di metallo, una piena e l’altra vuota. Sono
state trovate alcune di queste rotelline con l’iscrizione «voto pubblico» (ψῆφος δημοσία). Gli eliasti sfilavano
ancora davanti alle urne ma solo la prima era valida. Essi tenevano le rotelline nascondendo l’estremità dell’asticella fra il pollice e l’indice e ponevano nella prima urna la rotellina con l’asticella vuota per condannare, quella
piena per assolvere, poi mettevano la rotellina rimanente nella seconda urna.
Quando l’accusato era giudicato colpevole a maggioranza, la sua pena poteva essere già fissata per legge, ma ci
poteva anche essere la necessità di una «fissazione della pena», quindi di una successiva votazione, Quest’ultimo
caso, ad esempio, si verificò al processo di Socrate nel 399 a.C. La parola spettava allora all’accusato che indicava la pena che gli sembrava più giusta. Socrate dichiarò che la sua coscienza gli diceva di non meritare nessun
castigo ma piuttosto una ricompensa per i servigi resi agli ateniesi, e chiese di essere nutrito nel Pritaneo come i
grandi benefattori dello stato, come gli olimpionici. Tali affermazioni in bocca a un accusato giudicato colpevole
sfioravano l’insolenza ed egli fu condannato a morte: gli eliasti non apprezzavano che ci si prendesse gioco di
loro.
Quando l’accusato veniva assolto, e se il suo accusatore non aveva ottenuto nemmeno 1/5 dei voti, questi veniva
condannato a una multa e talvolta persino all’atimia, cioè alla perdita dei diritti civili. È quanto accadde a Eschine, nel 330, quando perse il processo intentato contro Ctesifonte, cioè contro Demostene, nell’affare della corona:
fu condannato alla pesantissima multa di 1000 dracme. Una disposizione di questo tipo si rese necessaria per limitare l’attività dei sicofanti sempre pronti ad accusare un loro concittadino. Come abbiamo detto, in mancanza del
pubblico ministero, le leggi incoraggiavano i delatori assegnando loro una parte dei beni confiscati all’accusato
se questi veniva riconosciuto colpevole.
Il rischio di incorrere essi stessi nella pena se non provavano la loro accusa era la logica controparte di tale vantaggio e doveva indurli a riflettere prima di intentare un’azione giudiziaria.
Evidentemente un sistema giudiziario così particolare, che esigeva la partecipazione di vere e proprie folle di
eliasti, non poteva che sviluppare in molti ateniesi il gusto della procedura giudiziaria e della lite al punto che
Atene poteva essere chiamata una «città dei tribunali», una Dicaiopolis. Le vespe di Aristofane, di cui Racine si
è ricordato scrivendo i suoi Plaideurs. denunciano scherzosamente tale pericolo. Ciò che soprattutto Le vespe
criticavano erano le conseguenze della indennità giudiziaria istituita come risarcimento per la perdita di tempo
provocata dalla frequenza alle sedute: gli oziosi, gli incapaci si precipitavano ai tribunali per prendere il gettone
di presenza. Si sarebbe potuto organizzare la giustizia con una procedura più snella e con un minor numero di
giurati. Ma dobbiamo riconoscere nelle istituzioni giudiziarie di Atene lo stesso spirito democratico che affidava
in ultima istanza al popolo il governo della città. L’Ecclesia, come abbiamo visto, deteneva il potere giudiziario,
come tutti gli altri e molti processi politici venivano decisi al suo interno, soprattutto quando accusati erano gli
strateghi. Ma l’assemblea non poteva esaurire tutto, L’Eliea, delegazione dell’Assemblea, composta, come il consiglio, da cittadini di tutte le tribù, quindi veramente rappresentativa del popolo ateniese, doveva comprendere un
numero abbastanza elevato di membri per conservare un carattere popolare che ne giustificasse la sovranità, dato
che i giudizi erano senza appello.
Nel corso dell’istruttoria, le testimonianze degli schiavi non erano valide se non venivano ottenute con la tortura
(fustigazione, cavalletto, manette o ruota), ma l’uso di questi sistemi era sempre preceduto da una contrattazione:
una parte offriva di sottoporre i suoi schiavi alla «questione », o metteva la parte avversa in condizione di dover
sottoporre i suoi. Forse la tortura non era molto crudele e costituiva una specie di «formalità richiesta dalla situazione dello schiavo che avrebbe potuto temere la vendetta del padrone se avesse parlato senza esservi costretto
con la forza». È comunque certo che nessun cittadino libero, ateniese, meteco o straniero veniva mai sottoposto
a tortura.
Come la procedura del giudizio, anche le pene differivano a seconda che colpissero cittadini, meteci o schiavi. Le
pene pecuniarie erano: la multa, il pagamento delle spese, la confisca totale o parziale dei beni; le pene afflittive
erano l’esilio a tempo (φυγή) o definitivo (ἀειφυγία), la privazione dei diritti civili (ἀτιμία), la prigione (che
era applicata ai cittadini solo se in attesa di giudizio, o ai non cittadini), la flagellazione sulla ruota, la marcatura
a ferro rovente, e la gogna (ξύλα), supplizi riservati agli schiavi, infine la morte di cui parleremo più avanti. Esistevano anche pene infamanti di carattere arcaico e religioso come l’interdizione, rivolta alle donne adultere, di
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portare ornamenti e di entrare nei templi, l’imprecazione contro i sacrileghi, pronunciata in contumacia, l’iscrizione ignominiosa su una stele e la privazione della tomba.
Il magistrato che aveva presieduto il tribunale faceva stilare dal cancelliere l’atto di giudizio e lo inviava ai magistrati incaricati di farlo eseguire: agli Undici, capi dei carcerieri e del boia, o ai practores che esigevano le multe,
o ai poleti incaricati di vendere in asta pubblica i beni confiscati, e di consegnare, se del caso, all’accusatore il
premio dovuto e ai tesorieri di Atena la decima legale.
Molti cittadini e stranieri condannati a pene pecuniarie al di sopra dei loro mezzi potevano sottrarsi alla condanna
con un volontario esilio: così fece Eschine dopo il processo della Corona e Demostene stesso dopo l’affare di
Arpalo. Anche Socrate avrebbe potuto, dopo la condanna a morte, uscire di prigione e andare in esilio. Bevve la
cicuta, un sistema di esecuzione non crudele, una specie di suicidio tollerato. Quale era invece la sorte normale
dei condannati a morte? .
Nelle Eumenidi di Eschilo Apollo, cacciando dal suo tempio delfico l’orrido coro delle Erinni che inseguivano
Oreste, dice loro:
«Non siete degne di avvicinarvi a questa dimora. Il vostro posto è nei luoghi della giustizia dove si mozzano le
teste, si strappano gli occhi, sì squarciano le gole o, per inaridirne la fecondità, si porta via ai fanciulli il fiore della
loro giovinezza, dove si mutila o si lapida, o dove si sciorina il lungo lamento degli uomini impalati».
Non si deve per questo supporre che Eschilo, come spesso molti tragici greci, pensasse a realtà ateniesi del suo
tempo: in particolare la castrazione dei fanciulli corrispondeva a un costume orientale sconosciuto in Grecia.
Qual era dunque il sistema più frequente di esecuzione capitale?
Nel 1915 in una fossa comune scoperta al Falero, anteriore all’età classica, si scoprirono 17 cadaveri che portavano una gogna metallica al collo e intorno a entrambi i polsi e entrambi i piedi. Tali scheletri senza dubbio appartenevano a condannati che, prima di spirare, erano esposti alla gogna su una grande piattaforma (resti di legno
aderivano ancora alle maniglie metalliche). Si trattava probabilmente di pirati catturati e messi a morte.
Erodoto ci informa che gli ateniesi nel 479, «catturarono il persiano Artaÿctes, governatore di Sestos e lo legarono
vivo su una tavola». Plutarco ci narra che Pericle dopo aver domato la rivolta dell’isola di Samo, nel 439, fece
legare un certo numero di abitanti di Samo a dei pali nell’Agorà di Mileto e glieli lasciò per 10 giorni di seguito
per poi farli finire a colpi di mazza. Aristofane ci mostra Mnesiloco attaccato a una piattaforma da un arciere scita
e così esposto, come Andromeda sulla roccia. Parla anche, altrove, dello «strumento di legno a cinque fori», al
quale Cleone doveva essere applicato, che corrispondevano evidentemente alle cinque maniglie, una per la testa
e quattro per le estremità.
L. Gernet scrive:
«Testimonianze archeologiche e letterarie ci permettono di ricostruire con precisione questo atroce supplizio.
Il condannato, nudo, era attaccato con cinque maniglie e un palo piantato al suolo, era vietato portargli alcun
soccorso o sollievo fino a morte. Tale supplizio aveva qualche analogia con la crocifissione, nella quale però la
perdita di sangue dovuta al fatto che mani e piedi erano inchiodati, abbreviava l’esecuzione. Uno degli elementi
essenziali (di tale supplizio) era la gogna che comprimeva la mascella inferiore e che, per il peso del corpo, aggiungeva strazio alla sofferenza. Si può immaginare quale fosse l’agonia del suppliziato, prolungata per giorni e
giorni. Che tale sistema di esecuzione sia stato praticato dagli ateniesi non può che modificare le nostre idee sul
loro diritto penale... ; se ne possono seguire le tracce fino alla fine del IV secolo».
Era questo l’ἀποτυμπανισμός, termine che in genere ad Atene designava l’esecuzione capitale? Lo si è pensato
ma non è certo. In che cosa consisteva l’ἀποτυμπανισμός? Era una bastonatura a morte? o forse la decapitazione? Attualmente è impossibile dirlo.
I supplizi avevano comunque luogo fuori città, vicino alle Lunghe Mura del Nord fra Atene e il Pireo: un giorno,
ci dice Platone, «Leontias risalendo dal Pireo fiancheggiando il muro settentrionale, scorse dei cadaveri nel luogo
dei supplizi». Tale luogo era diverso dal baratro, un antico precipizio situato a ovest dell’Acropoli dove, fin dalla
remota antichità, venivano precipitati certi condannati a morte.
La precipitazione nel baratro sembra esser stata riservata ai casi di sacrilegio e ai delitti politici. La lapidazione,
raramente attestata, sembra essere stata destinata anch’essa agli empi e ai traditori ma come forma di esecuzione sommaria compiuta dal popolo stesso sotto la spinta dell’indignazione; nel 479 il buleuta Licida, che aveva
proposto di accettare le offerte di Mardonio, venne lapidato immediatamente dai colleghi e dai cittadini presenti.
L’esposizione a una tavola puniva soprattutto i pirati e i colpevoli colti in flagrante di furto e delitti infami. Gli
altri condannati a morte, se non avevano il permesso di bere la cicuta in prigione, subivano il misterioso supplizio
dell’ἀποτυμπανισμός.
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Certamente il funzionamento della giustizia ad Atene non era del tutto soddisfacente e molte delle critiche di Aristofane nelle Vespe erano fondate. Bisogna spingersi anche più in là e riconoscere che i principi stessi del diritto
in Attica non erano né fermi né costanti. L’assenza di un codice lasciava troppo spazio ai giudici popolari che,
nella loro immensa maggioranza, non avevano nessuna formazione giuridica e si lasciavano spesso trascinare
dalle loro passioni, secondo simpatie e antipatie profonde; basta leggere qualche brano di orazione giudiziaria per
rendersi conto che la captatio benevolentiae consisteva di solito nel lusingare l’orgoglio popolare e nel far passare
l’accusato per un modesto uomo del popolo, nemico naturale dei ricchi e dei potenti. L’« apologia» di Socrate
come ce l’ha tramandata Platone dovette essere un’eccezione quasi unica per il tono di aristocratica altezzosità
che l’anima. Il sistema giudiziario ateniese favoriva anche la moltiplicazione dei sicofanti.
Ma bisogna anche tener conto dell’evoluzione del diritto e riconoscere che, dalla legislazione di Dracone (VII
secolo), che già rappresentava un miglioramento rispetto all’epoca anteriore, il diritto e la giustizia avevano
compiuto in Atene grandi progressi. Il più importante fu l’abolizione delle pene collettive e il riconoscimento
della responsabilità personale, perché in età arcaica non solo il colpevole, l’assassino erano colpiti ma tutta la sua
famiglia. Il vecchio principio della legge del taglione «occhio per occhio, dente per dente» in Atene era applicato
solo eccezionalmente all’età di Pericle, quando le pene pecuniarie, almeno per i cittadini, tendevano a sostituire
quelle afflittive.
Quella che va invece criticata è l’efficacia pratica di tale sistema giudiziario. Gli ateniesi si preoccupavano molto
di esercitare il giudizio con equità, con ogni tipo di garanzia di imparzialità e conformandosi il più possibile alle
idee morali del loro tempo. Tutti i giudici dell’Eliea prestavano un giuramento nell’atto di assumere le loro funzioni e lo si può ricostruire combinando diversi passi di autori antichi. Eccolo: «Voterò adeguandomi alle leggi e
ai decreti, quelli dell’Assemblea del popolo e quelli della Bulé. Nei casi che il legislatore non ha previsto adotterò
la soluzione più giusta senza lasciarmi guidare da amicizia o ostilità. Ascolterò con la stessa attenzione le due
parti. Lo giuro per Zeus, per Apollo, per Demetra. Se sarò fedele a questo giuramento, che la mia vita sia felice;
se spergiuro, maledizione ricada su di me e sulla mia famiglia».
Perché idealizzare, come ha teso a fare, fra gli altri G. Glotz, le istituzioni giuridiche ateniesi, come le altre istituzioni democratiche del secolo di Pericle? Un sistema giudiziario che ha prodotto la condanna di Socrate, «l’uomo
del quale possiamo dire che fra tutti quelli del suo tempo fu il migliore, insieme il più saggio e il più giusto» era
certamente ben lungi dall’essere perfetto, anche in rapporto al suo tempo. Bisogna riconoscere che Atene, nonostante meritori sforzi, non arrivò, nel campo della giustizia, a quella acmé, a quel punto di perfezione al quale
arrivò nelle lettere, nelle arti, nella filosofia. Certamente non aveva le capacità giuridiche che avrebbero avuto
i romani ai quali è giusto attribuire questa parte nella creazione di quel patrimonio di cultura che ha contribuito
all’origine della nostra stessa cultura.
[R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, Milano, BUR 1983, 285-306 passim]
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La distinzione delle parti di un’orazione giudiziaria
Secondo la tradizione, fu in Sicilia a metà del V secolo che si sviluppò la τέχνη ῥητορική, grazie al siracusano Corace (a cui fu attribuita l’«invenzione» della tecnica argomentativa nell’oratoria giudiziaria)
e al suo discepolo Tisia. Proprio quest’ultimo avrebbe composto un “manuale” in cui erano codificati i
procedimenti retorici tesi a conferire la massima persuasività all’esposizione e alla dimostrazione dei
fatti in ogni singolo caso giudiziario. Si doveva trattare di una serie di precetti strutturati in modo funzionale, a seconda delle casistiche processuali.
Da questo schema si sviluppa la struttura quadripartita che caratterizza, con varianti più o meno significative, tutta la produzione giudiziaria a noi pervenuta.
1. Προοίμιον, lat. exordium, «esordio»: è la parte che apre l’orazione, in cui viene esposto, sempre
che non sia già noto, l’oggetto della contesa (πρότασις). L’oratore cerca fin dall’inizio di condizionare favorevolmente i giudici, spesso ricorrendo all’espediente della captatio benevolentiae e
presentandosi come cittadino impeccabile e rispettoso delle leggi. Altrimenti fa leva sull’insinuatio
nell’animo degli ascoltatori, evitando di parlare dei propri punti deboli per mostrare invece quelli
degli avversari.
2. Διήγησις, lat. narratio, «racconto dei fatti»: l’esposizione degli avvenimenti e degli antefatti significativi è proposta in modo succinto, verisimile e il più possibile chiaro. I contenuti possono essere
disposti secondo l’ordo naturalis, che segue lo svolgimento logico e cronologico degli eventi, o l’ordo
artificialis, che privilegia la resa estetica attraverso figure retoriche, digressioni e altri procedimenti
stilistici.
3. Πίστις (o ἀπόδειξις), lat. argumentatio, «argomentazione»: si tratta del “cuore” del discorso, nel
quale è proposto il resoconto delle prove a sostegno della tesi che l’oratore vuole imporre. Molto
spesso è previsto anche l’affondo contro le tesi avversarie (διάλυσις, «confutazione»), condotto in
modo rapido e stringente. Le prove vengono da Aristotele distinte in “prove non tecniche” (πίστεις
ἄτεχνοι) e “prove tecniche” (πίστεις ἔντεχνοι): le prime (πίστεις ἄτεχνοι) sono quelle che non
dipendono dalla bravura del retore (confessioni di imputati, testi di legge, sentenze precedenti, deposizione di testimoni); le “prove tecniche” (πίστεις ἔντεχνοι), invece, sono quelle che derivano
dall’arte retorica e possono essere di due tipi:
3.1. Παράδειγμα, «esempio»: si tratta di un fatto, reale o inventato (ma comunque verisimile),
che ha attinenza con l’oggetto dell’orazione.
3.2. Ἐνθύμημα, «deduzione»: è un sillogismo basato su premesse verisimili, spesso frutto di
opinioni comuni. Le premesse, a loro volta, possono essere di tre tipi:
a) Τεκμήρια, «indizi sicuri» e incontrovertibili, in quanto verificati dai nostri sensi.
b) Εἰκότα, «fatti verisimili», accettati dal sentire comune, perché fissati da una legge o dalla
morale.
c) Σημεῖα, «segni», basati per lo più sull’associazione di idee (es. la presenza di sangue può
richiamare alla mente un omicidio, ma non si tratta di associazione necessaria).
4. Ἐπίλογος, lat. peroratio, « conclusione»: si tratta della parte finale dell’orazione, in cui il discorso
viene rapidamente ricapitolato, cercando di offrire un quadro d’insieme di quanto è stato precedentemente sostenuto. È la sede della vera e propria “perorazione”, nella quale l’oratore cerca di
coinvolgere emotivamente la giuria, facendo leva sui sentimenti e ricorrendo a topoi (luoghi comuni)
atti a provocare indignazione o commiserazione.
R. Rossi, L. Lanzi • Con parole ornate • Cappelli Editore 2010
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Lisia, orazione XXII
Contro i mercanti di grano
Nell’orazione XXII di Lisia Contro i mercanti di grano riscontriamo una struttura particolare: nel προοίμιον
ha grande posto la πρότασις, ovvero la rievocazione di vicende precedenti, collegate con il caso in
discussione. Prima della διήγησις si verifica poi un rapido interrogatorio (ἐρώτησις) degli imputati,
che costituisce un evento molto raro, nell’oratoria giudiziaria a noi pervenuta. Particolarmente rapida
è la διήγησις, cui segue la sezione della πίστις organizzata sostanzialmente in demolizione delle tesi
contrarie attraverso l’anticipazione (προκατάληψις, lat. praeoccupatio) e la διάλυσις, «confutazione»
vera e propria, interrotta da una testimonianza orale non pervenuta. L’epilogo è condotto attraverso
una perorazione serrata, che si conclude in modo perentorio e quasi brusco, con un appello agli interessi generali della città, che coincidono con quelli dei singoli cittadini, fra cui appunto anche i giudici.
[1] Molte persone sono venute da me, giudici, meravigliandosi del Προοίμιον (§§ 1-4)
fatto che proprio io in Consiglio abbia accusato i mercanti di grano I primi quattro paragrafi costituiscono l’esore facendomi presente che voi, se pure siete convintissimi della loro dio e concernono i precedenti processuali, ricolpevolezza, nondimeno ritenete dei calunniatori coloro che muo- salenti all’anno precedente, in sede di Boulé:
l’oratore prende adesso la parola per scagiovono accuse nei loro riguardi. Voglio dunque parlarvi prima di tutto narsi dall’accusa calunniosa di connivenza
dei motivi che mi hanno spinto a formulare la mia accusa.
con i mercanti di grano, mossagli quando egli
[2] Quando i pritani hanno portato la questione che riguardava i mer- si oppose alla proposta, avanzata da alcuni
canti davanti al Consiglio, l’indignazione dei presenti contro di loro buleuti, di condannare a morte gli imputati,
era tale che alcuni dei retori gridavano che bisognava consegnarli senza concedere loro le normali garanzie di
legge. Intende anche difendersi dall’accusa
agli Undici senza processo, perché fossero messi a morte. Siccome di “sicofantia” e spiegare il motivo che lo ha
ritenevo un fatto molto grave che simili comportamenti del Con- indotto a depositare l’accusa, una volta che,
siglio diventassero abituali, mi alzai e dissi che il mio parere era da accurate indagini, sono emerse le responche si giudicassero i mercanti di grano secondo la legge, perché ero sabilità degli imputati.
convinto che, se avevano commesso reati meritevoli della pena di
morte, voi avreste saputo dare un verdetto giusto non meno di noi; se invece erano innocenti, non era giusto che
morissero senza processo. [3] Poiché il Consiglio accolse la mia proposta, qualcuno cercava di calunniarmi, insinuando che parlavo così per garantire la salvezza ai mercanti. Di fronte al Consiglio, dunque, in sede di giudizio
preliminare, mi sono difeso da questa accusa coi fatti: mentre tutti gli altri se ne stavano zitti, io mi sono levato ad
accusare i mercanti, e ho reso chiaro a tutti che non parlavo certo in difesa di quegli uomini, ma a sostegno invece
delle leggi vigenti. [4] Questo dunque è il motivo per cui ho cominciato ad accusarli: il timore delle calunnie. E
mi sembrerebbe un’azione indegna abbandonare l’accusa prima che voi abbiate espresso su di loro il voto che
riterrete giusto.
[5] Innanzitutto, salite sulla tribuna. Dimmi, tu, sei un meteco?
«Sì.» E vivi qui da meteco con l’intenzione di obbedire alle leggi
della città o per fare quello che vuoi? «Con l’intenzione di obbedire.» Non pensi di meritare la pena di morte se hai violato in qualche
modo le leggi per cui la pena stabilita è la morte? «Certamente.»
Allora rispondimi: ammetti di aver acquistato assieme a loro una
quantità di grano superiore a cinquanta phormoi, che è la misura
permessa dalla legge? «Sì, l’ho acquistato, ma seguendo un consiglio dei magistrati.»
Ἐρώτησις: interrogatorio (§ 5)
L’accusatore procede all’interrogatorio degli
imputati, i quali ammettono la loro colpa, ma
adducono come scusante il motivo di essere
stati autorizzati dagli stessi ispettori, addetti
al commercio di grano.
R. Rossi, L. Lanzi • Con parole ornate • Cappelli Editore 2010
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[6] Bene, giudici, se costui riesce a dimostrare che c’è una legge che
consente ai mercanti di fare incetta di grano se lo ordinano i magistrati, assolvetelo pure; altrimenti è giusto che lo condanniate. Noi,
per parte nostra, vi abbiamo presentato la legge che vieta a chiunque in città di comprare una quantità di grano superiore a cinquanta
phormoi.
[7] A questo punto, giudici, la mia accusa dovrebbe già essere sufficiente, poiché costui ammette di aver acquistato il grano in grande
quantità, mentre la legge espressamente lo vieta e voi avete giurato di votare secondo la legge; tuttavia, perché vi convinciate che i
mercanti mentono anche riguardo ai magistrati, è necessario che mi
soffermi ancora un poco su di loro.
[8] Visto che essi rigettavano la responsabilità su di loro, abbiamo
convocato i magistrati e li abbiamo interrogati. Bene, gli altri quattro
dicevano di non saper nulla di quella storia; Anito invece ci ha raccontato come l’inverno passato, visto il rincaro del grano, siccome i
mercanti si facevano concorrenza ed erano in lotta l’uno con l’altro,
aveva consigliato loro di smetterla di accapigliarsi, perché credeva
che per voi, che avreste comprato il grano da loro, la cosa più conveniente fosse che essi lo acquistassero al prezzo migliore possibile; infatti dovevano poi rivenderlo aumentando il prezzo di un solo
obolo. [9] Che non ha ordinato loro di acquistarlo per farne incetta,
bensì li ha solo esortati a non farsi concorrenza a vicenda, ve lo farò
testimoniare da Anito in persona.
Inoltre Anito ha fatto le sue proposte ancora sotto il Consiglio passato, mentre risulta che costoro hanno acquistato il grano quest’anno.
Διήγησις (§§ 6-7)
Non può sussistere alcun dubbio sulla colpevolezza dei mercanti, che hanno ammesso le
circostanze dei fatti: essi devono quindi subire le sanzioni di legge, anche a prescindere
dal consenso dei magistrati, che vanno comunque trattati come complici.
Διάλυσις: prima parte (§§ 8-10)
L’oratore confuta in anticipo (seguendo il
procedimento della προκατάληψις, lat. praeoccupatio) le possibili argomentazioni della
difesa: gli ispettori non possono essere oggetto di alcuna imputazione, infatti quando
essi hanno cercato di mettere d’accordo i
mercanti sui prezzi del frumento, non intendevano certo indurli ad acquisti illegali.
TESTIMONIANZA
[10] Dunque avete udito che non hanno affatto comprato il grano
su ordine dei magistrati; e io sono convinto che, se anche dicessero
proprio la verità su questo punto, non porterebbero comunque un
argomento a loro difesa, ma semplicemente accuserebbero i magistrati; in un campo in cui vi sono delle leggi scritte con chiarezza,
non deve forse pagare tanto chi disobbedisce alle leggi quanto chi
induce a violarle?
Μαρτυρία (testimonianza)
[11] Comunque, giudici, non credo che tireranno fuori questo discorso: forse diranno, come già hanno fatto in Consiglio, che avevano
acquistato il grano per favorire la città, per potervelo poi vendere al
miglior prezzo. Ma io vi porterò una prova sicura ed evidentissima
che mentono: [12] se davvero agivano così nel vostro interesse, dovrebbe risultare che hanno venduto il grano allo stesso prezzo per
parecchi giorni, almeno finché si fossero esaurite le scorte acquistate; in realtà, nell’arco di uno stesso giorno, a volte lo vendevano più
caro anche di una dracma, come se l’avessero acquistato a medimni.
E di questo chiamo a testimoni voi stessi.
Διάλυσις: seconda parte (§§ 11-12)
Come prevede la prassi processuale, a questo punto viene introdotto l’ispettore Anito,
che depone la propria testimonianza orale, che non è pervenuta, in quanto non era
sentita come parte integrante dell’orazione,
poiché la clessidra veniva fermata per tutto il
tempo della deposizione.
Viene completamente smantellata anche la
seconda argomentazione addotta a difesa
dai mercanti: non è vero che l’incetta di grano sia un mezzo per assicurare l’approvvigionamento della città, a vantaggio dei cittadini
stessi, perché l’occultamento del grano è stata una mera operazione speculativa, volta a
far lievitare fortemente il prezzo.
R. Rossi, L. Lanzi • Con parole ornate • Cappelli Editore 2010 10
[13] Mi sembra davvero strano che, quando si deve versare un tribu- Διάλυσις: conclusione (§§ 13-16)
to, di cui tutti verranno a conoscenza, questa gente si rifiuti, addu- Non sono stati sentimenti filantropici a indurre
cendo a pretesto la propria povertà; mentre poi, quando si tratta di i mercanti all’incetta e all’accumulo del grano,
ma si è trattato di torbide manovre speculaazioni punibili con la morte e che a loro converrebbe che restassero tive, per far rialzare i prezzi e incrementare
nascoste, sostengono di averle commesse preoccupandosi del vostro follemente i guadagni. Per questo motivo i
bene. Eppure tutti sapete che sono proprio le persone meno indicate mercanti meritano che venga loro comminata
per inventare chiacchiere simili! [14] Il loro interesse sta esattamen- la pena di morte.
te all’opposto di quello degli altri cittadini: traggono infatti il massimo guadagno quando, in occasione dell’annuncio di qualche situazione difficile per la città, il prezzo del grano
sale. Vedono tanto di buon occhio le vostre disavventure, che di alcune vengono a conoscenza prima di tutti gli
altri, altre addirittura sono loro a inventarsele e a metterne in giro la voce, come ad esempio un disastro navale
nel Ponto, oppure la cattura delle navi da parte degli Spartani durante la traversata, la chiusura degli empori o una
prossima rottura della tregua; e sono arrivati a tal punto d’odio contro di voi che in queste circostanze tramano a
vostro danno, proprio come farebbero i nemici. [15] Infatti, proprio nel momento in cui avete maggior bisogno
di approvvigionamento, sottraggono il grano e rifiutano di vendervelo, per evitare che ci mettiamo a discutere sul
prezzo; vorrebbero invece che ce ne andassimo a casa contenti, a qualsiasi prezzo lo abbiamo comprato: tanto
che anche nei periodi di pace siamo sottoposti al loro assedio. [16] Ma la città si è resa conto della loro ribalderia
e disonestà da così gran tempo, che, mentre di tutte le altre vendite voi avete assegnato il controllo agli ispettori
del mercato, soltanto per questo commercio sorteggiate a parte degli ispettori del grano; e già molte volte avete
punito questi magistrati – che sono dei cittadini! – con la pena più severa, perché non riuscivano ad aver ragione
della disonestà di questa gente. E allora, che punizione dovete infliggere ai delinquenti, se mandavate a morte
anche chi non riusciva a prevenire i loro reati?
[17] Dovete anche considerare che vi è impossibile assolverli. Infat- Ἐπίλογος: la perorazione (§§ 17-22)
ti, se li assolverete, nonostante abbiano ammesso di essersi alleati Il discorso procede verso la stretta finale: cocontro i mercanti marittimi, sembrerà che voi siate parte di un com- loro che hanno speculato sulle sventure della
polis sono rei confessi di un crimine che deve
plotto contro gli importatori. Se facessero ricorso a qualche altro essere punito nell’interesse di tutta la comuargomento difensivo, nessuno potrebbe biasimare chi eventualmente nità. Se la giustizia fa sentire tutto il suo peli assolvesse, giacché voi avete facoltà di credere a chi volete; ma so, i cittadini guarderanno alle istituzioni con
ora non sembrerà che abbiate commesso un’ingiustizia gravissima, maggiore fiducia e la punizione dei colpevoli
se manderete assolti degli imputati che hanno confessato di aver costituirà un esempio e un deterrente per il
futuro, oltre che costituire una vendetta per le
violato la legge? [18] Ricordatevi, giudici, che avete condannato a vittime di delinquenti del genere.
morte molti altri accusati di un reato simile, nonostante negassero e
adducessero testimoni, dando maggior credito alle parole degli accusatori. Perciò non ci sarebbe da stupirsi se
giudicando dello stesso reato foste più pronti a infliggere la punizione a chi nega che a chi confessa? [19] Del resto, giudici, penso sia chiaro a tutti che i processi di questo genere sono quelli che più catalizzano l’attenzione dei
cittadini, cosicché tutti verranno a sapere qual è il vostro parere sulla questione, convinti che se punirete costoro
con la morte gli altri diverranno tutti più onesti; se invece li lascerete impuniti, avrete in pratica decretato la totale
libertà per loro di fare impunemente il loro comodo. [20] Giudici, bisogna punirli non soltanto in considerazione
del passato, ma soprattutto per avere un esempio per il futuro; solo così i mercanti saranno sopportabili – seppure
a fatica. Considerate che molti che praticano questo mestiere hanno subito processi che comportano la pena capitale; e hanno tratto dal loro lavoro tanti guadagni che preferiscono rischiare la vita ogni giorno che smettere di
guadagnare disonestamente alle vostre spalle. [21] Del resto neppure se vi supplicassero e scongiurassero sarebbe
giustificata la vostra compassione per loro: dovete aver pietà semmai dei cittadini morti a causa della loro malvagità, e degli importatori contro i quali costoro si sono consociati. Punendo questi mercanti farete loro cosa gradita
e li renderete assai meglio disposti nei vostri confronti. Altrimenti cosa credete che penseranno quando sapranno
che avete assolto i rivenditori che hanno ammesso di aver tramato ai danni degli importatori?
[22] Non vedo cos’altro dovrei aggiungere; quando si processano persone imputate di altri reati bisogna apprendere dall’accusatore di quale delitto si tratta, ma in questo caso la disonestà di costoro la conoscete tutti. Se li
condannerete, dunque, agirete secondo giustizia e comprerete in futuro il grano a prezzo migliore; altrimenti vi
costerà più caro!
[Traduzione di Enrico Medda, 1995]
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