FONTI PER LA STORIOGRAFIA GRECA

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FONTI PER LA STORIOGRAFIA GRECA • 2
VI. Erodoto
1. Il proemio delle Storie
Prooemium: Ἡροδότου Ἀλικαρναςςέωσ ἱςτορίησ ἀπόδεξισ ἥδε, ὡσ μήτε τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων τῷ
χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται, μήτε ἔργα μεγάλα τε καὶ θωμαςτά, τὰ μὲν Ἕλληςι, τὰ δὲ βαρβάροιςι
ἀποδεχθέντα, ἀκλέα γένηται, τά τε ἄλλα καὶ δι᾽ ἣν αἰτίην ἐπολέμηςαν ἀλλήλοιςι.
Questo è il risultato della ricerca di Erodoto di Alicarnasso, [compiuta] affinché né gli avvenimenti umani
col tempo divengano opachi né le imprese grandi e ammirabili, sia quelle dei Greci sia quelle dei Barbari,
diventino prive di gloria, e – quanto al resto – anche [per chiarire] per quale ragione portarono guerra gli
uni contro gli altri.
2. Il logos di Creso
I 30-32; 86: [Il saggio ateniese Solone], giunto in Egitto, fu ospitato da Creso nella reggia. Due o tre giorni
dopo, per ordine del re, alcuni servitori lo condussero a visitare i tesori e gli mostrarono quanto vi era di
straordinario e sontuoso. Creso aspettò che Solone avesse osservato e considerato tutto per bene, poi al
momento giusto gli chiese: «Ospite ateniese, ai nostri orecchi è giunta la tua fama, che è grande sia a
causa della tua sapienza sia per i tuoi viaggi, dato che per amore di conoscenza hai visitato molta parte
del mondo: perciò ora m’ha preso un grande desiderio di chiederti se hai mai conosciuto qualcuno che
fosse veramente il più felice di tutti». Faceva questa domanda perché riteneva di essere lui l’uomo più
ricco, ma Solone, evitando l’adulazione e badando alla verità, rispose: «Certamente, signore: Tello di
Atene». Creso rimase sbalordito da questa risposta, e lo incalzò con un’altra domanda: «E in base a
quale criterio giudichi Tello l’uomo più felice?». Solone spiegò: «Tello in un periodo di prosperità per la
sua patria ebbe dei figli sani e intelligenti e tutti questi figli gli diedero dei nipoti, che crebbero tutti; lui
stesso, poi, già così fortunato in vita a mio giudizio, ha avuto la fine più splendida: durante una battaglia
combattuta a Eleusi dagli Ateniesi contro una città confinante, accorso in aiuto mise in fuga i nemici e
morì gloriosamente; e gli Ateniesi gli celebrarono un funerale di stato nel punto esatto in cui era caduto
e gli resero grandissimi onori».
[31] Quando Solone gli ebbe presentato la storia di Tello, così ricca di eventi fortunati, Creso gli
domandò chi avesse conosciuto come secondo dopo Tello, convinto di avere almeno il secondo posto.
Ma Solone disse: «Cleobi e Bitone (...)». [32] A quei due dunque Solone assegnava il secondo posto nella
graduatoria della felicità. Creso si irritò e gli disse: «Ospite ateniese, la nostra felicità l’hai svalutata al
punto da non ritenerci neppure pari a cittadini qualunque?» E Solone rispose: «Creso, tu interroghi sulla
condizione umana un uomo che sa quanto l’atteggiamento divino sia pieno di invidia e pronto a sconvolgere ogni cosa. (...) Vedo bene che tu sei ricchissimo e re di molte genti, ma ciò che mi hai chiesto io
non posso attribuirlo a te prima di aver saputo se hai concluso felicemente la tua vita. Chi è molto ricco
non è affatto più felice di chi vive alla giornata, se il suo destino non lo accompagna a morire serenamente ancora nella sua prosperità. (...) Ma prima che sia morto bisogna sempre evitare di dirlo felice,
soltanto fortunato. (...) Di ogni cosa bisogna indagare la fine: a molti il dio ha fatto intravedere la felicità
e poi ne ha capovolto radicalmente il destino». Creso non rimase per niente soddisfatto di questa spiegazione. Non tenne Solone nella minima considerazione, e lo congedò; considerava senz’altro ignorante
chi trascurava i beni presenti e di ogni cosa esortava a osservare la fine. (...)
[86] I Persiani occuparono Sardi e fecero prigioniero Creso al quattordicesimo anno del suo regno e
al quattordicesimo giorno di assedio: Creso, come aveva previsto l’oracolo, pose fine a un grande regno,
il proprio. I Persiani, catturatolo, lo condussero davanti a Ciro. Ciro ordinò di erigere una grande pira e vi
fece salire Creso legato in catene e con lui quattordici giovani Lidi: la sua intenzione era di consacrare
queste primizie a qualche dio, o forse voleva sciogliere un voto; o forse addirittura, avendo sentito parlare della devozione di Creso, lo destinò al rogo curioso di vedere se qualche dio lo avrebbe salvato dal
bruciare vivo. Così agiva Ciro; ma a Creso, ormai in piedi sopra la pira, nonostante la drammaticità del
momento, venne in mente il detto di Solone: «Nessuno che sia vivo è felice»; e gli parvero parole ispiraPag. 1
te da un dio. Con questo pensiero, sospirando e gemendo, dopo un lungo silenzio, pronunciò tre volte il
nome di Solone. Ciro lo udì e ordinò agli interpreti di chiedere a Creso chi stesse invocando; essi gli si avvicinarono e lo interrogarono. Creso dapprima evitò di rispondere alle domande, poi, cedendo alle insistenze rispose: «Uno che avrei dato molto denaro perché fosse venuto a parlare con tutti i re». Ma poiché queste parole suonavano incomprensibili, gli chiesero ulteriori spiegazioni. Visto che continuavano a
infastidirlo con le loro insistenze, raccontò come una volta si fosse recato da lui Solone di Atene e dopo
aver visto le sue ricchezze le avesse disprezzate; ne riferì anche le affermazioni e narrò come poi tutto si
fosse svolto secondo le parole che Solone aveva rivolto non soltanto a lui, Creso, ma a tutto il genere
umano e specialmente a quanti a loro proprio giudizio si ritengono felici. Mentre Creso raccontava questi fatti, la pira, a cui era stato appiccato il fuoco, bruciava ormai tutto intorno. Ciro udì dagli interpreti il
racconto di Creso e cambiò parere: pensò che lui, semplice essere umano, stava mandando al rogo, ancora vivo, un altro essere umano, che non gli era stato inferiore per fortune terrene; inoltre gli venne
timore di una vendetta divina, al pensiero che nella condizione dell’uomo non vi è nulla di stabile e sicuro, e ordinò di spegnere al più presto il fuoco ormai divampante e di far scendere Creso e i suoi compagni. Ma nonostante tutti i tentativi non riuscivano ad avere ragione delle fiamme.
3. La sventura di Adrasto
I 34-45. Dopo la partenza di Solone Creso subì la vendetta del dio: la subì, per quanto si può indovinare,
perché aveva creduto di essere l’uomo più felice del mondo. Non era trascorso molto tempo quando nel
sonno ebbe un sogno rivelatore: sognò le sventure che sarebbero poi effettivamente capitate a suo figlio. Creso aveva due figli, uno dei quali menomato (era muto), mentre l’altro, di nome Atis, primeggiava
fra i suoi coetanei in ogni attività; il sogno indicò a Creso chiaramente che Atis sarebbe morto colpito da
una punta di ferro. Al risveglio, quando si rese conto del contenuto del sogno, ne provò orrore; allora fece prendere moglie al figlio e siccome prima era abituato a guidare l’esercito lidio, non lo inviò più in
nessun luogo per incarichi di questo tipo. Frecce, giavellotti e tutti quegli strumenti che si usano per
combattere, li fece asportare dalle sale degli uomini e ammucchiare nelle stanze delle donne, perché
nessuno di essi, rimanendo appeso alle pareti, potesse cadere accidentalmente sul figlio.
35. Quando il figlio era impegnato nelle nozze, giunse a Sardi uno sventurato di nazionalità frigia e di
stirpe reale, le cui mani erano impure. Costui si presentò alla reggia di Creso e chiese di ottenere la purificazione secondo le norme locali, e Creso lo purificò. Il rituale di purificazione dei Lidi è pressoché identico a quello dei Greci. Compiuti gli atti rituali, Creso gli chiese chi fosse e da dove venisse: «Straniero,
chi sei? Da quale parte della Frigia sei venuto a rifugiarti presso il mio focolare? Quale uomo o quale
donna hai ucciso?» E quello rispose: «Signore, io sono nipote di Mida e figlio di Gordio, il mio nome è
Adrasto; sono qui perché senza volerlo ho ucciso mio fratello e perché sono stato scacciato da mio padre e privato di ogni cosa». Al che Creso disse: «Si dà il caso che tu sia discendente di persone legate a
noi da vincoli di amicizia; e fra amici pertanto tu sei arrivato. Se rimani con noi non ti mancherà nulla e
se vivrai di buon cuore questa tua disgrazia, avrai molto da guadagnarci».
36. E così Adrasto soggiornava presso Creso quando comparve sul monte Olimpo di Misia un grosso
esemplare di cinghiale che muovendo dalla montagna distruggeva le coltivazioni dei Misi; più di una volta i Misi avevano organizzato battute di caccia, senza però riuscire ad arrecargli alcun danno, subendone
anzi da lui. Infine dei messaggeri Misi si recarono da Creso e gli dissero: «O re, nella nostra regione è
comparso un gigantesco cinghiale che ci distrugge le coltivazioni; e noi, con tutto l’impegno che ci mettiamo, non riusciamo ad abbatterlo. Perciò ora ti preghiamo di mandare tuo figlio insieme con giovani
scelti e cani, così potremo allontanarlo dai nostri territori». Queste erano le loro richieste, ma Creso,
memore del sogno, rispose: «Quanto a mio figlio non se ne parla nemmeno: non lo posso mandare con
voi perché si è appena sposato e ora ha da pensare a ben altro. Manderò invece uomini scelti e ogni sorta di equipaggiamento utile alla caccia, e ordinerò agli uomini della spedizione di garantire tutto il loro
impegno nell’aiutarvi a scacciare il cinghiale dal vostro paese».
37. Ma mentre i Misi erano soddisfatti della risposta ricevuta, si fece avanti il figlio di Creso, che aveva udito le richieste dei Misi; visto che suo padre si era rifiutato di inviarlo con loro, il giovane gli disse:
«Padre, una volta per noi l’aspirazione più bella e più nobile consisteva nel meritarsi gloria in guerra o
nella caccia, ma ora tu mi vieti entrambe le attività; eppure non hai certamente scorto in me qualche segno di vigliaccheria o di paura. Con quale faccia ora devo mostrarmi fra la gente andando e venendo attraverso la città? Che opinione avranno di me i cittadini, e mia moglie, che mi ha appena sposato? Con
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quale marito crederà di convivere? Adesso perciò o tu mi lasci partecipare alla caccia, oppure mi dai una
spiegazione sufficiente a convincermi che è meglio non farlo».
38. E Creso rispose: «Figlio mio, io non agisco così perché abbia scorto in te vigliaccheria o qualche
altra cosa spiacevole; ma una visione apparsami nel sonno mi disse che tu avresti avuto una vita breve,
che saresti morto colpito da una punta di ferro. Perciò dopo il sogno affrettai le tue nozze e perciò ora
non invio te per l’impresa che ho accettato: agisco con cautela per vedere se in qualche modo, finché
sono vivo, riesco a sottrarti alla morte. Il destino vuole che tu sia il mio unico figlio: l’altro infatti, che è
menomato, non lo considero tale».
39. E il giovane gli rispose: «Ti capisco, padre, e capisco le precauzioni che hai nei miei riguardi dopo
un simile sogno. Ma di questo sogno ti è sfuggito un particolare ed è giusto che io te lo faccia notare. Dal
tuo racconto risulta che il sogno ti annunciava la mia morte come causata da una punta di ferro: e quali
mani possiede un cinghiale? Quale punta di ferro di cui tu possa avere paura? Se ti avesse annunciato la
mia morte come provocata da una zanna o da qualcosa del genere, allora sarebbe stato tuo dovere agire
come agisci, ma ha parlato di una punta. E allora, visto che non si tratta di andare a combattere contro
dei guerrieri, lasciami partire».
40. E Creso concluse: «Figlio mio, si può dire che nell’interpretare il mio sogno tu batti le mie capacità di giudizio: e io, in quanto sconfitto da te, cambio parere e ti lascio partecipare alla caccia».
41. Detto ciò, Creso fece chiamare il frigio Adrasto al quale, quando lo ebbe davanti, pronunciò il seguente discorso: «Adrasto, - disse - tu eri stato colpito da una dolorosa disgrazia, che non ti rimprovero,
e io ti ho purificato e accolto nella mia casa dove ora ti ospito offrendoti ogni mezzo di sussistenza; adesso dunque, visto che per primo ti ho concesso enormi favori, tu sei in debito verso di me di favori uguali; io desidero che tu vegli su mio figlio che sta partendo per una battuta di caccia, che lungo la strada
non vi si parino davanti pericolosi ladroni armati di cattive intenzioni. Oltre tutto non puoi esimerti dal
recarti là dove tu possa segnalarti con qualche bella impresa: così facevano i tuoi antenati, senza contare
che le tue forze te lo consentono ampiamente».
42. E Adrasto gli rispose: «Sovrano, se non me lo chiedessi tu, io non parteciperei a una simile impresa, perché non è decoroso per me, con la disgrazia che ho avuto, accompagnarmi a giovani della mia età
dalla vita felice: non è quanto io voglio, anzi ne farei volentieri a meno. Ma ora, poiché sei tu a spingermi
e verso di te io devo mostrarmi cortese, in debito come sono di enormi favori, ora sono disposto a farlo;
tuo figlio, che affidi alla mia sorveglianza, per quanto dipende da me fai pure conto di vederlo tornare
sano e salvo».
43. Quando Adrasto ebbe dato a Creso la sua risposta, la spedizione partì, con ampio seguito di giovani scelti e di cani da caccia. Giunsero al monte Olimpo e cominciarono a cercare il cinghiale; trovatolo
lo circondarono e presero a scagliargli addosso i loro giavellotti: a questo punto l’ospite, proprio quello
purificato da Creso, Adrasto, nel tentativo di centrare il cinghiale finì per sbagliarlo colpendo invece il figlio di Creso. Questi, trafitto dalla punta, dimostrò l’esattezza profetica del sogno. Qualcuno corse ad
annunciare a Creso l’accaduto: come giunse a Sardi gli raccontò della battuta di caccia e della disgrazia
del figlio.
44. Creso, sconvolto dalla morte del figlio, fu ancora più dispiaciuto per il fatto che a ucciderlo era
stato l’uomo da lui purificato da un omicidio. Prostrato dalla sciagura, invocava con rabbia Zeus Purificatore, chiamandolo a testimone di ciò che aveva sofferto per mano del suo ospite, e lo invocava come
protettore del focolare e dell’amicizia, sempre lo stesso dio ma con attributi diversi: in quanto protettore del focolare perché, avendo accolto nella propria casa lo straniero, senza saperlo aveva dato da mangiare all’uccisore di suo figlio, in quanto protettore dell’amicizia perché lo aveva inviato come difensore
e se lo ritrovava ora odiosissimo nemico.
45. Più tardi tornarono i Lidi portando il cadavere e dietro li seguiva il responsabile della disgrazia:
Adrasto, in piedi di fronte al cadavere, si consegnava a Creso protendendo le mani, invitandolo a immolarlo sul corpo del figlio; ricordava la precedente sventura e sosteneva di non avere più diritto di vivere
dato che aveva rovinato chi a suo tempo si era fatto suo benefattore. Creso, nonostante il grande dolore
per la disgrazia abbattutasi sulla sua famiglia, udendo queste parole ebbe compassione di Adrasto e gli
disse: «Ho già da parte tua ogni soddisfazione visto che tu stesso ti assegni la morte come punizione. Tu
non hai colpa di questa sciagura se non in quanto ne sei stato strumento involontario: il responsabile
forse è un dio, che già da tempo mi aveva preannunciato quanto sarebbe accaduto». Poi Creso diede al
figlio degna sepoltura; Adrasto, discendente di Gordio e di Mida, uccisore del proprio fratello e uccisore
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di chi da quell’omicidio lo aveva purificato, riconoscendo di essere l’uomo più sciagurato del mondo, attese che tutti si fossero allontanati dal sepolcro e lì, proprio sulla tomba, si tolse la vita.
4. La partenza della flotta persiana nel 480 a.C.
VII 44-47: Quando furono ad Abido Serse volle vedere l’esercito nel suo insieme. Proprio a tale scopo gli
avevano allestito su una collina un trono di marmo bianco (...); quando fu là seduto, Serse osservò
dall’alto sulla riva le truppe di terra e le navi. (...)
[45] Nel vedere l’intero Ellesponto coperto dalle navi e tutte le rive e le piane di Abido formicolanti di
uomini subito Serse si ritenne felice, ma poi pianse. [46] Se ne accorse Artabano, suo zio, lo stesso che
già in precedenza si era espresso con franchezza sconsigliando a Serse la spedizione contro la Grecia. Egli, avendo notato le lacrime di Serse, gli disse: «Mio re, che reazioni diverse hai avuto, ora e poco fa:
dopo esserti ritenuto beato, adesso piangi».
E Serse rispose: «Ho provato un senso di pietà a pensare quanto sia breve la vita di un uomo, se nessuno di tutti costoro, che sono così numerosi, vivrà ancora fra cento anni». Replicò Artabano: «Cose ben
più tristi di questa soffriamo nel corso dell’esistenza. Non c’è uomo, né fra di loro né in tutto il mondo,
che nell’arco di una vita così breve sia tanto felice da non anteporre, non dico una volta soltanto, ma
spesso, la morte alla vita. Le disgrazie che ci colpiscono e le malattie che ci affliggono ci fanno ritenere
lunga l’esistenza, mentre essa è breve. E così la morte, essendo la vita un cumulo di affanni, è divenuta
per l’uomo un rifugio ben preferibile; e il dio, dopo averci fatto assaporare la dolcezza della vita, si rivela
invidioso».
[47+ Replicò a sua volta Serse: «Artabano, l’esistenza umana è proprio come la giudichi tu. Ma smettiamo di parlarne: via le sventure dai nostri pensieri! Adesso tante belle cose abbiamo per le mani (...)».
5. La battaglia di Maratona
VI 102-106; 108-117. Dopo la presa di Eretria e pochi giorni di sosta colà, salparono verso la terra
d’Attica, stringendo gli Ateniesi in una morsa, convinti di destinarli alla stessa fine degli Eretriesi. E poiché Maratona era, in Attica, la località più adatta a operazioni di cavalleria, e vicinissima a Eretria, qui li
guidò Ippia, figlio di Pisistrato.
103. Gli Ateniesi, come lo seppero, accorsero anche loro a Maratona per difendersi, al comando di
dieci strateghi; tra i dieci c’era Milziade, il cui padre Cimone, figlio di Stesagora, era stato costretto ad
abbandonare Atene da Pisistrato figlio di Ippocrate. Mentre era in esilio, poi, gli capitò di vincere alle Olimpiadi nella corsa delle quadrighe: riportando questa vittoria ripeteva l’impresa di suo fratello Milziade, figlio della stessa madre. Quindi, trionfando all’Olimpiade successiva con le stesse cavalle, cedette a
Pisistrato l’onore di essere proclamato vincitore e avendogli lasciato la corona poté, grazie a espliciti accordi, rientrare in patria. Gli toccò poi di morire, dopo aver vinto un’altra Olimpiade con le stesse cavalle, e quando ormai Pisistrato non era più in vita, per mano dei figli di Pisistrato. Essi lo fecero uccidere in
una imboscata notturna nei pressi del Pritaneo. Cimone giace sepolto fuori città, al di là della strada che
attraversa la cosiddetta «Cava». Di fronte a lui stanno sepolte le cavalle che vinsero a tre Olimpiadi. Già
altre cavalle, quelle di Evagora figlio di Lacone, avevano compiuto la stessa impresa, ma sono i due soli
casi. Il maggiore dei figli di Cimone, Stesagora, era in quel periodo in casa dello zio Milziade, nel Chersoneso; il più giovane si trovava ad Atene presso Cimone stesso e si chiamava Milziade, proprio come il colonizzatore del Chersoneso.
104. Allora, insomma, questo Milziade, comandava l’esercito ateniese; era arrivato dal Chersoneso
ed era scampato due volte alla morte. Infatti non solo i Fenici che gli avevano dato la caccia fino a Imbro
ci tenevano assai a catturarlo e a consegnarlo al re, ma per giunta, proprio quando, sfuggito ai Fenici e
arrivato in patria, era ormai convinto di essere in salvo, i suoi nemici, che lo avevano atteso al varco, lo
perseguirono penalmente accusandolo di essersi reso tiranno del Chersoneso. Sfuggito anche a questi
accusatori fu proclamato stratego di Atene, per scelta popolare.
105. E per prima cosa gli strateghi, mentre erano ancora in città, inviarono a Sparta come araldo il
cittadino ateniese Filippide, che era, di professione, un messaggero per le lunghe distanze. Filippide,
come lui stesso raccontò e riferì ufficialmente agli Ateniesi, nei pressi del monte Partenio, sopra Tegea,
s’imbatté in Pan. Pan, dopo aver gridato a voce altissima il nome di Filippide, gli ingiunse di chiedere agli
Ateniesi perché mai non si curavano affatto di lui, benché fosse loro amico e li avesse aiutati molte volte
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in passato e fosse pronto a farlo per il futuro. E gli Ateniesi, una volta ristabilitasi la situazione, avendo
creduto veritiero tale racconto, edificarono ai piedi dell’acropoli un tempio di Pan, che venerano ogni
anno, dopo quel messaggio, con sacrifici propiziatori e una corsa di fiaccole.
106. Filippide, inviato dagli strateghi, proprio quella volta lì, in cui disse che gli era apparso Pan, era
già a Sparta il giorno dopo la sua partenza dalla città di Atene. Presentatosi ai magistrati spartani, disse:
«Spartani, gli Ateniesi vi pregano di venire in loro soccorso e di non permettere che una città fra le più
antiche della Grecia cada in schiavitù per opera di genti barbare; è così: ora gli Eretriesi sono schiavi e la
Grecia risulta più debole, perché le manca una città importante». Egli dunque comunicava il messaggio
che gli era stato affidato; gli Spartani decisero sì di inviare aiuti, ma non erano in grado di provvedere
subito, perché non volevano violare la legge: era infatti il nono giorno della prima decade del mese, e il
nono giorno non potevano partire, specificarono, perché non c’era ancora il plenilunio.
108. Ippia interpretò che la sua visione così aveva avuto compimento. Agli Ateniesi schierati nell’area
del santuario di Eracle giunsero in soccorso i Plateesi tutti; in effetti i Plateesi si erano messi sotto la protezione di Atene, e gli Ateniesi si erano già sobbarcati varie gravose imprese per loro. Ecco come si erano
svolte le cose. Oppressi dai Tebani, i Plateesi si erano rivolti in un primo momento a Cleomene figlio di
Anassandride e agli Spartani, che si trovavano per caso da quelle parti; ma essi non accettarono, con
questa spiegazione: «Noi abitiamo lontano, e quindi il nostro soccorso si rivelerebbe inefficace; più
d’una volta rischiereste di essere ridotti in schiavitù, prima che qualcuno di noi venga a saperlo. Vi consigliamo di affidarvi agli Ateniesi: stanno qui vicino e non sono alleati di poco conto». Gli Spartani diedero questo suggerimento non tanto per simpatia verso i Plateesi quanto desiderando dare noie agli Ateniesi impegnati contro i Beoti. Tale dunque il consiglio degli Spartani ai Plateesi, ed essi non lo trascurarono, anzi mentre gli Ateniesi offrivano sacrifici ai dodici dèi, si piazzarono come supplici presso l’altare e
si posero sotto la loro protezione. I Tebani, quando lo seppero, marciarono contro Platea, e gli Ateniesi
accorsero a difendere i Plateesi. Stavano già per ingaggiare battaglia, ma i Corinzi non lo consentirono; si
trovavano nei paraggi e riconciliarono i due contendenti, che si erano rimessi a loro, delimitando i rispettivi territori, alla condizione che i Tebani lasciassero liberi i Beoti non più disposti a far parte della
lega beotica. I Corinzi, deciso così, se ne andarono; i Beoti assalirono gli Ateniesi mentre si allontanavano, ma nella battaglia seguita all’assalto ebbero la peggio. Gli Ateniesi violarono i limiti territoriali fissati
per i Plateesi dai Corinzi, li superarono e stabilirono come confine per i Tebani, dalla parte di Platea e di
Isie, lo stesso fiume Asopo. Così dunque, come ho raccontato, i Plateesi si erano posti sotto la protezione degli Ateniesi, allora poi erano giunti a Maratona per battersi al loro fianco.
109. Le opinioni degli strateghi ateniesi erano discordi: mentre alcuni non volevano ingaggiare battaglia (sostenendo che erano pochi per misurarsi con l’esercito medo) altri invece, tra i quali Milziade,
spingevano in tal senso. Erano dunque così divisi e stava prevalendo l’opinione peggiore; ma esisteva
una undicesima persona con diritto di voto, e cioè il cittadino estratto a sorte per la carica di polemarco
in Atene (anticamente, infatti, gli Ateniesi attribuivano al polemarco lo stesso diritto di voto degli strateghi). In quel momento era polemarco Callimaco di Afidna; Milziade si recò da lui e gli disse: «Callimaco,
ora dipende da te rendere schiava Atene, oppure assicurarle la libertà e lasciare di te, finché esisterà il
genere umano, un ricordo quale non lasciarono neppure Armodio e Aristogitone. Oggi gli Ateniesi si trovano di fronte al pericolo più grande mai incontrato dai tempi della loro origine: se chineranno la testa
davanti ai Medi, è già deciso cosa patiranno una volta nelle mani di Ippia; ma se vince, questa città è tale
da diventare la prima della Grecia. E ora ti spiego come ciò sia possibile e come l’intera faccenda sia venuta a dipendere da te. Noi strateghi siamo dieci e siamo divisi fra due diversi pareri: alcuni di noi sono
propensi a combattere, altri no. Ebbene, se non scendiamo in campo io mi aspetto che una ventata di
discordia investa gli Ateniesi e ne sconvolga le menti, inducendoli a passare con i Medi. Se invece attacchiamo prima che questa peste si propaghi ai cittadini, se gli dèi si mantengono imparziali, noi siamo in
grado di uscire vincitori dalla lotta. Tutto questo riguarda te e da te dipende; infatti se tu ti schieri sulle
mie posizioni, per te la patria sarà salva e Atene la prima città della Grecia. Se invece ti schieri con chi è
per il no, accadrà esattamente il contrario di quanto ti ho detto in positivo».
110. Con tali parole Milziade si garantì l’appoggio di Callimaco, e grazie al voto aggiuntivo del polemarco si decise di dare battaglia. Dopodiché gli strateghi favorevoli allo scontro, quando a ciascuno di
loro toccava il turno di comando, lo cedevano a Milziade; Milziade accettava, ma non attaccò battaglia
finché non giunse il suo turno effettivo.
111. Quando toccò a lui, allora gli Ateniesi si schierarono in ordine di combattimento. Alla testa
dell’ala destra c’era il polemarco *Callimaco+. Infatti all’epoca la consuetudine ateniese voleva così, che il
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polemarco guidasse l’ala destra. Da lì si allineavano le tribù, una accanto all’altra, secondo il loro numero; l’ultimo posto, cioè l’ala sinistra, l’occupavano i Plateesi. E dal giorno di questa battaglia, quando gli
Ateniesi offrono sacrifici durante le feste quadriennali, l’araldo di Atene invoca prosperità per i suoi concittadini e insieme anche per i Plateesi. Ma ecco cosa si verificò allorquando gli Ateniesi si schierarono a
Maratona: il loro schieramento rispondeva in lunghezza a quello dei Medi, ma il centro era composto di
poche file, e in questo punto l’esercito era assai debole, le due ali erano invece ben munite di soldati.
112. Quando furono ai loro posti e i sacrifici ebbero dato esito favorevole, gli Ateniesi, lasciati liberi
di attaccare, si lanciarono in corsa contro i barbari; fra i due eserciti non c’erano meno di otto stadi. I
Persiani vedendoli arrivare di corsa si preparavano a riceverli e attribuivano agli Ateniesi follia pura, autodistruttiva, constatando che erano pochi e che quei pochi si erano lanciati di corsa, senza cavalleria,
senza arcieri. Così pensavano i barbari; ma gli Ateniesi, una volta venuti in massa alle mani con i barbari,
si battevano in maniera memorabile. Furono i primi fra tutti i Greci, a nostra conoscenza, a tollerare la
vista dell’abbigliamento medo e degli uomini che lo vestivano; fino ad allora ai Greci faceva paura anche
semplicemente udire il nome dei Medi.
113. A Maratona si combatté a lungo. I barbari ebbero il sopravvento al centro dove erano schierati i
Persiani stessi e i Saci; qui i barbari prevalsero, sfondarono le file dei nemici e li inseguirono nell’interno.
Invece alle due ali la spuntavano gli Ateniesi e i Plateesi; essi, vincendo, lasciarono scappare i barbari
volti in fuga, e operata una conversione delle due ali affrontarono quelli che avevano spezzato il loro
centro; gli Ateniesi ebbero la meglio. Inseguirono i Persiani in fuga facendone strage, finché, giunti sulla
riva del mare, ricorsero al fuoco e cercarono di catturare le navi.
114. In questa impresa morì il polemarco [Callimaco], dimostratosi un uomo valoroso, e fra gli strateghi Stesilao, figlio di Trasilao; inoltre Cinegiro, figlio di Euforione, mentre si afferrava agli aplustri di
una nave cadde con la mano troncata da un colpo di scure; e perirono molti altri illustri Ateniesi.
115. In tal modo gli Ateniesi catturarono sette navi nemiche; sulle rimanenti i barbari presero il largo
e, caricati gli schiavi di Eretria dall’isola dove li avevano lasciati, doppiarono il Capo Sunio, con
l’intenzione di arrivare ad Atene prima delle truppe ateniesi. In Atene corse poi la voce accusatrice che
essi avessero concepito questo piano grazie alle macchinazioni degli Alcmeonidi. Essi, infatti, d’accordo
con i Persiani avrebbero fatto segnali con uno scudo quando questi erano già sulle navi.
116. I Persiani, insomma, doppiavano il Sunio. Gli Ateniesi il più velocemente possibile corsero a difendere la città, e riuscirono a precedere l’arrivo dei barbari; partiti dal santuario di Eracle a Maratona,
vennero ad accamparsi in un’altra area sacra ad Eracle, quella del tempio di Cinosarge. I barbari, giunti
in vista del Falero (era quello allora il porto di Atene), sostarono alla sua altezza e poi volsero le prue e
tornarono in Asia.
117. Nella battaglia di Maratona morirono 6400 barbari circa e 192 Ateniesi. Tanti caddero da una
parte e dall’altra; lì accadde pure un fatto prodigioso: un soldato ateniese, Epizelo figlio di Cufagora,
mentre combatteva nella mischia comportandosi da valoroso, perse la vista, senza essere stato ferito o
colpito da lontano in alcuna parte del corpo, e, da allora in poi, per tutto il resto della sua vita, rimase
cieco. Ho sentito dire che lui a proposito della sua disgrazia raccontava così: a Epizelo era parso di avere
di fronte un oplita gigantesco, la cui barba faceva ombra a tutto lo scudo; questa apparizione gli era poi
solo passata accanto, ma aveva abbattuto il soldato al suo fianco. Così, mi dissero, raccontava Epizelo.
6. L’ultima pagina delle Storie: la presa di Sesto sull’Ellesponto
IX 117-121: L’assedio si prolungava e sopraggiunse l’autunno. Gli Ateniesi erano avviliti perché si trovavano lontano dal proprio paese e perché non riuscivano a conquistare la fortezza, e chiedevano agli strateghi di ricondurli indietro; ma questi si rifiutavano di farlo prima di averla conquistata o di essere richiamati dallo stato ateniese. (...)
[118+ All’interno della cinta erano ormai giunti all’estremo, al punto di bollire e di mangiarsi le cinghie dei letti. Quando non ebbero più nemmeno questo, allora i Persiani, Artaicte ed Eobazo scapparono
di notte e si dileguarono calandosi dal lato posteriore della cinta, dove più scarsa era la presenza dei
nemici. Fattosi giorno, i Chersonesiti dalle mura segnalarono l’accaduto agli Ateniesi e spalancarono le
porte. La maggior parte degli Ateniesi si lanciò all’inseguimento, gli altri occuparono la città. *119] Eobazo, riparato in Tracia, lo catturarono i Traci Absinti e lo sacrificarono al dio indigeno Plistoro, secondo il
loro costume; i suoi compagni li uccisero in altro modo. Artaicte e i suoi uomini, ultimi a darsi alla fuga,
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intercettati poco sopra Egospotami, resistettero a lungo, poi in parte caddero in parte furono fatti prigionieri. I Greci li incatenarono e li condussero a Sesto, e con loro Artaicte, legato, insieme a suo figlio.
[120] I Chersonesiti raccontano che a uno dei suoi custodi accadde un fatto prodigioso mentre stava
cucinando dei pesci disseccati: questi, posti sul fuoco, saltavano e guizzavano come pesci appena pescati. Tutti i presenti erano allibiti; invece Artaicte, come vide il portento, chiamò l’uomo che cucinava i pesci e gli disse: «Straniero di Atene, non avere paura di questo prodigio! Non si è verificato per te: ma
Protesilao di Eleunte vuole farmi sapere che anche da morto e imbalsamato ha dagli dèi la forza di vendicarsi di chi lo ha oltraggiato. Ora io desidero pagare la mia pena e offrire al dio cento talenti in cambio
delle ricchezze che ho asportato dal tempio; se sopravvivo, poi, per me e per mio figlio verserò duecento
talenti agli Ateniesi». Ma pur con queste promesse non persuase lo stratego Santippo. I cittadini di Eleunte, in effetti, per vendicare Protesilao, gli chiedevano di mettere a morte Artaicte, e anche lo stratego inclinava alla stessa idea. Lo trascinarono proprio sulla costa dove Serse aveva aggiogato lo stretto,
altri dicono sulla collina che sovrasta la città di Madito, lo inchiodarono e appesero a una tavola, e sotto
i suoi occhi gli lapidarono il figlio. [121] Fatto ciò, ritornarono in Grecia portandosi via, con tutto il resto,
anche le funi dei ponti, per offrirle in voto ai santuari.
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