AZIONI PARALLELE 2014 FASCICOLO 1 Azioni Parallele è una rivista on line a periodicità annuale, che continua in altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós. La direzione di Azioni Parallele è composta da Gabriella Baptist, Aldo Meccariello e Andrea Bonavoglia. La distribuzione è affidata a Ergonet (VT). La sede della rivista è Roma. 2 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 FASCICOLO 1 2014 DIMENTICARE materiali Per far memoria dell’oblio e ricordarsi di dimenticare Gemme di primavera, foglie d’autunno. Introduzione ad Alexandru Dragomir editoriale di Gabriella Baptist Sull’oceano dell’oblio di Alexandru Dragomir saggi The Internet is forever di Andrea Bonavoglia Oblio e memoria di Massimo Piermarini itinerari Mnemosine e Lete di Giuseppe D'Acunto Dimenticare Palermo di Antonino Infranca Berlino. Topografie della memoria di Andrea Bonavoglia discussioni Matteo Borri, Storia della malattia di Alzheimer di Giovanna Frongia Gűnther Anders, Dopo Holocaust, 1979 di Aldo Meccariello Marco Fortunato, L’offesa, la colpa, il fantasma. di Aldo Meccariello Tony Judt, L'età dell'oblio di Aldo Meccariello 3 4 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 AZIONI PARALLELE on line 2014 www.azioniparallele.it Visti: New York, Agosto 2014 di Andrea Bonavoglia Letti: Salvatore Natoli, Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio di Roberto Caracci Letti: Micaela Latini e Aldo Meccariello, L’uomo e la (sua) fine. Saggi su Günther Anders di Massimo Piermarini Letti: Materiali per una bibliografia italiana di Günther Anders di Devis Colombo Letti: Adolf Loos, Parole nel vuoto di Andrea Bonavoglia Letti: Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi di Silvia Baglini e Antonino Infranca 5 6 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 DIMENTICARE materiali 7 8 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Per far memoria dell’oblio e ricordarsi di dimenticare Saper dimenticare è una fortuna più che un’arte. Le cose che si vorrebbero dimenticare sono quelle di cui meglio ci si ricorda. La memoria non solo ha l’inciviltà di non sopperire al bisogno, ma anche l’impertinenza di capitare spesso a sproposito B. Gracián, Oráculo manual y arte de la prudencia A Simonide, il virtuoso della memoria che voleva insegnargli come ricordare tutto, Temistocle, il grande politico e militare ateniese ormai bandito dalla patria, avrebbe risposto di preferire piuttosto apprendere l’arte di dimenticare, in modo da evitare la sofferenza ossessiva che impongono i traumi e gli scacchi: “nam memini etiam quae nolo, oblivisci non possum quae volo” – infatti ricordo anche ciò che non voglio, e non riesco a dimenticare ciò che vorrei (Cicerone, De fin., II, 32, § 104). Se l’antichità e la modernità sono state caratterizzate piuttosto dall’esaltazione della memoria e delle sue tecniche, il Novecento più tragico, certamente anche in seguito alle sue esperienze estreme che ci impongono il dovere di non dimenticare, ha dato spunto a riflessioni che, senza tradire l’imperativo del ricordare – quello Zahor che invita a onorare le vittime e il debito verso i trapassati –, hanno inteso restituire l’onore perduto al gesto misurato, giusto e pacificatore del voler sorvolare, si pensi solo agli studi di Paul Ricœur o alle indagini di Harald Weinrich. Ma si pensi anche alle esperienze storiche che hanno evidenziato lo spessore politico del perdono difficile, arendtianamente capace di sciogliere il passato alleggerendone il fardello, perdono che pure non sconfessa l’imprescrittibilità del crimine contro l’umanità, da contrapporre come un monito ai tradizionali usi tattici e strategici dell’amnistia, della grazia o del condono. 9 Nei tempi stressati e stressanti che indeboliscono il pensiero a favore dell’efficienza, che cosa dobbiamo ricordare, che cosa dobbiamo ad ogni costo dimenticare? Sono quesiti urgenti che si impongono alle nostre società multimediali, caratterizzate da un eccesso di conoscenze e di saperi che si accumulano in maniera impressionante, al punto da mettere in forse, in senso nietzscheano, i modi e la possibilità stessa di rievocare il passato. Si insegue, infatti, una memoria forsennata sempre più bulimicamente memorizzante fino al parossismo del non poter più cancellare da archivi mostruosamente onnipresenti ciò che magari imbarazza o offende;. Nelle realtà sociali e politiche che invecchiando e declinando da un lato si affannano in rottamazioni e discariche e dall’altro si consegnano alla demenza e alla regressione, forse è necessario saper dare nuovo lustro anche al cesello selezionatore e inventariante dell’oblio, perché quando si parla di oblio non si deve pensare necessariamente al contrario della memoria, piuttosto a ciò che rende possibile la memoria stessa: certamente non si tratterebbe di celebrare demolizioni scriteriate, ma di fare spazio a un dimenticare illuminato che, non più antagonista del ricordo, anzi come suo più geloso custode, additi la finitezza e la vulnerabilità, rammemorandone disfatte e conquiste. L’oblio non è solo il segno del reale, e del reale come evento, ma è esso stesso evento, e come tale, passibile di oblio. Il memento più radicale non sarà più solo allora quello, ancora narcisistico, che ci richiama alla nostra individuale mortalità, ma l’appello a ricordare che saremo dimenticati e ad essere perciò finalmente anche un po’ più dimentichi di noi stessi, consapevoli dell’incompiutezza, ma anche della bellezza e libertà del finito. 10 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Gabriella Baptist Gemme di primavera, foglie d’autunno. Introduzione ad: Alexandru Dragomir, Sull’oceano dell’oblio Non si può certo sostenere che Alexandru Dragomir sia un filosofo dimenticato, giacché questo presupporrebbe che egli sia stato precedentemente riconosciuto o che si sia affermato in qualche modo. Invece la sua vicenda è quella di chi è stato sommerso dai tempi bui nei quali è vissuto e ai quali si è voluto opporre nell’unica postura onesta della sottrazione assumibile dall’intellettuale che non voglia essere un ciarlatano; ma la sua storia è stata anche quella di chi poi però è stato salvato dal naufragio definitivo nell’oblio grazie alla generazione successiva dei più giovani filosofi romeni, che nel suo destino hanno voluto riconoscere il compito del riscatto loro affidato. Allievo di Heidegger e da lui altamente apprezzato per la lucida intelligenza nel partecipare alle discussioni del celebre Oberseminar, come testimonia Walter Biemel, suo compagno di studi a Freiburg, nell’ottobre del 1943 Dragomir è costretto a lasciare gli studi perché reclutato in guerra. 1 Dopo il ’45, impossibilitato a proseguire le ricerche dottorali, che comunque risultavano ormai sospette per la nuova realtà politica romena, si guadagnerà la vita con disparati lavori subordinati e modesti, mai abbandonando peraltro gli interessi filosofici e le letture poliglotte, clandestinamente perseguite. Solo nell’ultimo scorcio degli anni Ottanta e negli anni Novanta del secolo scorso si presterà a tenere seminari privati che lo faranno presto diventare una specie di segreto e leggendario campione della filosofia romena, rimasta ardente anche sotto la cenere delle devastazioni novecentesche. 1 W. Biemel, Erinnerungen an Dragomir, in «Studia Phænomenologica. Romanian Journal for Phenomenology», IV, 2004, n. 3-4: The Ocean of Forgetting. Alexandru Dragomir. A Romanian Phenomenologist 1916-2002, pp. 13-15. Le informazioni su Alexandru Dragomir sono in gran parte riprese dai saggi pubblicati nel numero a lui dedicato dalla citata rivista fenomenologica romena, cfr. in part. G. Liiceanu, The Notebooks from Underground, in ivi, pp. 17-64. 11 Più o meno della stessa generazione dei vari Eliade, Ionesco, Noica, Cioran o Celan, nasce a Zalău, in Transilvania, nel 1916 da una famiglia di intellettuali. Dopo studi di lettere e legge presso l’Università di Bucarest e dopo ripetute interruzioni per il servizio militare, dal settembre del ’41 è dottorando in filosofia a Friburgo grazie a una borsa di studio della Fondazione “Alexander von Humboldt”.2 Di Heidegger segue le celebri lezioni sugli Inni di Hölderlin, su Parmenide ed Eraclito, oltre che seminari sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel e sulla Metafisica di Aristotele.3 Spirito socratico, in vita non volle pubblicare nulla, ma alla sua morte, nel minuscolo appartamento in cui abitava sono stati ritrovati centinaia di quaderni con commenti, appunti, microanalisi fenomenologicamente condotte su temi spesso tratti dalla banalità della vita quotidiana (quali lo specchio – breve saggio che aveva preparato per la “scuola del sapere” di Constantin Noica –, l’errore, il risveglio, l’usura), ma anche analisi sulle grandi questioni filosofiche del Novecento (per esempio sul tempo, l’unicità, l’attenzione).4 2 Il progetto di tesi sul concetto hegeliano di spirito, inizialmente concertata con Martin Heidegger, successivamente evolverà in un proposito di dissertazione, peraltro mai presentata, su intuizione e dialettica in Platone, come scriverà dalla Romania in una lettera a Heidegger del 1947, fino all’autoironica considerazione, riportata in una nota dell’8 gennaio del 1993, in cui Dragomir, ormai quasi ottantenne, riconosce di star preparando una tesi di dottorato sotto la supervisione del buon Dio. 3 Di Heidegger tradurrà in romeno con Walter Biemel, nella prima metà degli anni Quaranta, Was ist Metaphysik?, pubblicazione però rifiutata in Romania giacché l’autore era considerato persona non gradita agli occupanti tedeschi del tempo; la traduzione sarà successivamente pubblicata in Francia nel 1956 a cura di Virgil Ierunca in una rivista della diaspora intellettuale romena: «Caiete de Dor». 4 A partire dal 2004 la casa editrice Humanitas di Bucarest ha pubblicato diverse raccolte di suoi testi ( Crase banalităţi metafizice, Cinci plecări din prezent. Exerciţii fenomenologice , Caietele timpului, Seminţe, Meditaţii despre epoca modernă) in parte accessibili anche in altre lingue, cfr. Banalités métaphysiques, éd. par G. Liiceanu et C. Partenie, Paris, Vrin, 2008; Id., Les Cahiers du temps, tr. par R. Otal, Paris, Vrin, 2010; Chronos. Notizbücher über Zeit, hrsg. von B. Mincă, C. Partenie, Würzburg, Königshausen & Neumann, in corso di stampa, annunciato in uscita per l’ottobre 2014. Su Dragomir si veda anche C. Ciocan, Philosophy without Freedom: Constantin Noica and Alexandru Dragomir, in I. Copoeru, H.R. Sepp (ed. by), Phenomenology 2005, vol. III: Selected Essay from Euro-Mediterranean Area, Bucharest, Zeta Books, 2007, pp. 63-79, in part. pp. 74-78 (accessibile anche in rete all’indirizzo: www.academia.eu/176069/Philosophy_without_Freedom_Constantin_Noica_and_Alexandru_Dragomir). Si veda anche il sito dello “Alexandru Dragomir – Institute for Philosophy”, fondato nel 2009 sotto gli auspici della Società romena di Fenomenologia e diretto da Cristian Ciocan: institute.phenomenology.ro 12 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 In uno dei suoi frammenti, datato al 28 dicembre 1988, così scrive: I pensieri sono come alberi che gemmano in primavera, promesse di frutti, carichi di futuro; gli scritti sono come foglie d’autunno, estremamente colorate, ma presto disseccate, piene di nostalgia. Come le foglie d’autunno, scrivere ha la morte nel cuore.5 Lasciamo al lettore la scelta di decidere se la breve riflessione sull’oblio che presentiamo rechi in sé piuttosto gemme foriere di maturazioni future o non sia invece un’altra fascinosa foglia d’autunno che aggiungiamo alla raccolta di analisi sul tempo che il Novecento filosofico, scientifico e artistico ha prodotto in grande quantità. Certamente vi si ritroverà l’eco delle celebri riflessioni fenomenologiche a proposito di ritenzioni e protensioni che Husserl aveva affidato alle sue analisi sulla coscienza interna del tempo, notoriamente edite da Heidegger negli anni Venti.6 Si potranno poi anche leggere le riflessioni di Dragomir nella sequela delle prospettive agostiniane e parallelamente alle coeve indagini ricœuriane su La memoria, la storia, l’oblio.7 Indubbiamente alcuni tratti dovranno essere considerati nella loro originalità, suggestione e profonda dirittura intellettuale: per esempio la stessa immagine dell’oceano dell’oblio – il cui solo orizzonte certo è nel soccombere – e del lago del ricordo che garantisce riparo e salvataggio, quasi a sottolineare la consustanzialità liquida di memoria e oblio, riformulando al tempo stesso la celebre metafora kantiana dell’oceano tempestoso della parvenza che circonderebbe l’isola dell’intelletto.8 Interessante risulta anche 5 Cit. in C. Partenie, Archive Relief. Dragomir’s Perspective, in «Studia Phænomenologica», IV, 2004, n. 3-4, cit. alla nota 1, p. 96. 6 E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins , hrsg. von M. Heidegger, Halle, Niemeyer, 1928 («Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», Bd. 3); cfr. anche Id., Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917) , hrsg. von R. Boehm, Husserliana. Gesammelte Werke, Bd. 10, Den Haag, Nijhoff, 1966; tr. it. di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917) , Milano, Franco Angeli, 1981. 7 P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Seuil, 2000; tr. it. di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003. 8 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 235/B 294-295; tr. it. di P. Chiodi, Critica della ragion pura, Torino, UTET, 1967, p. 264. Per Paul Ricœur i ricordi si distribuiscono in arcipelaghi separati da abissi, cfr. P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 116; tr. it. cit., p. 137. 13 la messa in guardia contro gli errori e le distorsioni della memoria, così come lo scetticismo sull’onestà selettiva del “canone” culturale, spesso ispirato dalla moda del momento. Ma soprattutto colpisce il tratto socratico dell’accentuazione di un non sapere/dimenticare al quale siamo inevitabilmente consegnati e poi commuove, perché ha il tono amaro della testimonianza, la consapevolezza dolorosa del fatto che anche le civiltà muoiono, che la regola è il naufragio, rispetto al quale assai poco riesce a salvarsi e a sopravvivere. La riflessione di Alexandru Dragomir sull’oceano dell’oblio diventa allora un appello ad essere consapevoli dell’immane lavoro di cernita affidato ad ogni tradizione e insieme un invito a ricordare tutti quei cadaveri abbandonati sul fondo, nell’auspicio che, con Shakespeare/Benjamin/Arendt, i loro occhi possano diventare perle e coralli le loro ossa, invulnerabili alla decomposizione indotta dagli elementi e ormai solo in attesa di un palombaro.9 9 Cfr. H. Arendt, Walter Benjamin, in “Merkur”, XII, 1968, pp. 305-315; tr. it. a cura di L. Ritter Santini, Walter Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle , in Il futuro alle spalle, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 86-103 (il riferimento è a W. Shakespeare, The tempest, 1,2: “Full fathom five thy father lies; / Of his bones are coral made: / Those are pearls that were his eyes” – A cinque tese tuo padre è sepolto; / coralli gli si son fatte le ossa; / son perle gli occhi nel suo volto). 14 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Alexandru Dragomir Sull’oceano dell’oblio * Non intendo avanzare una tesi particolare; la mia sola ambizione è quella di condividere con voi ciò che mi sembra essere l’oblio.10 Tutto ciò che ci accade è còlto. Per dire il modo in cui cogliamo tutto ciò che ci accade Husserl ha utilizzato il termine “ritenzione”. Tutto ciò che mi accade mi è dato in modo ritenzionale, il che significa, per esempio, che quando ricordo che qualcuno mi ha detto una certa cosa – diciamo: che avevo detto una stupidaggine – io ricordo sia quando, sia in quale occasione questo mi è stato detto. Certamente è possibile che io abbia trattenuto erroneamente nella memoria qualcosa che mi è successo: non era stata quella persona a dire che avevo detto una stupidaggine, ma un’altra; non lo aveva detto esattamente a quel modo, ma in un altro; anche il momento in cui lo ha detto può essere stato memorizzato in maniera erronea. In ogni caso la costituzione della nostra memoria ha comunque queste due caratteristiche: riteniamo nella memoria ciò che ci accade e ricordiamo sempre anche le circostanze dell’evento e una certa data a questo connessa. Questa “ritenzione”, come la chiama Husserl, costituisce man mano il nostro capitale di ricordi, * La traduzione è stata inizialmente effettuata a partire dalla versione inglese ( About the Ocean of Forgetting) pubblicata in «Studia Phaenomenologica», IV (2004), n. 3-4, pp. 183-186, è stata successivamente confrontata con la traduzione in francese, Sur l’océan de l’oubli, in A. Dragomir, Banalités métaphysiques, Paris, Vrin, 2008, pp. 240-244, così come con il testo originale in lingua romena, Despre oceanul uitării, in Id., Crase banalităţi metafizice, Bucuresti, Humanitas, 20102, pp. 120-125. La traduzione in italiano avviene grazie alla gentile autorizzazione della casa editrice Humanitas, detentrice dei diritti d’autore, e grazie alla generosa mediazione del prof. Cristian Ciocan, direttore dello “Alexandru Dragomir – Institute for Philosophy”, fondato nel 2009 sotto gli auspici della Società romena di Fenomenologia. Ringraziamo entrambi con viva cordialità. [Nota del traduttore]. 10 Questo testo raccoglie una delle numerose “piccole conferenze” tenute da Alexandru Dragomir a partire dal 1995. Queste erano presentate nel corso dei nostri incontri come delle “comunicazioni brevi” di 15 o 20 minuti, di fatto si trattava in genere di meditazioni ispirate dalle realtà con le quali tutti ci confrontavamo dopo il dicembre del 1989. Il testo si basa sulla trascrizione di una registrazione approntata da Sorin Vieru [nota dell’editore]. 15 indipendentemente dal fatto che questi ricordi possano alterarsi con il passare del tempo, sia riguardo al loro contenuto che rispetto alla loro datazione. Di fatto, se rifletto su che cosa accade alle cose che tratteniamo nella memoria, posso distinguere tre situazioni: in primo luogo queste possono essere trattenute correttamente per un lungo periodo, cosicché me le ricordo dopo qualche giorno, dopo un anno o dopo diversi anni. Oppure, in secondo luogo, posso trattenerne il ricordo, ma, come stavo dicendo, con errori di contenuto o di datazione. Oppure, infine, posso semplicemente dimenticare sia che cosa è accaduto, sia in quali circostanze, sia quando esattamente. Se le cose stanno così, allora dovremmo chiedere – anche se la questione può forse essere mal posta – quanta oggettività abbiano i nostri ricordi. Quante delle cose che ci sono successe sono ritenute nella memoria e quante di quelle trattenute lo sono correttamente sotto ogni aspetto? Coloro che hanno una buona memoria preservano i loro ricordi nel loro contenuto e secondo la loro datazione. Se, d’altro canto, alteriamo qualcosa di ciò che è avvenuto, questo significa che avviene una deformazione della facoltà della memoria. Questo non significa affatto che si ha a che fare con una malattia mentale. Un gran numero di motivi possono indurre una persona a deformare i suoi ricordi, sia poi che questo avvenga coscientemente o resti inconscio. Ma che cosa significa dimenticare? La risposta è alla portata di ciascuno: dimenticare significa perdere qualcosa di ciò che so o di ciò che ho saputo una volta. È evidente che non posso dimenticare qualcosa che non ho mai saputo. Comunque a questo punto sento il bisogno di sollevare un problema che solitamente non siamo soliti porre e al quale non è facile dare una risposta: quanto si dimentica, e perché, e quanto si ritiene invece nella memoria, e perché, di ciò che si è saputo una volta? Una risposta indubbiamente corretta, ma solo provvisoriamente, potrebbe essere: noi tratteniamo nella memoria e ci ricordiamo quando e per tutto il tempo in cui siamo interessati all’oggetto ricordato. Oggetti che non hanno per noi più alcun interesse hanno la massima probabilità di essere dimenticati e perduti. E allo stesso modo, quando non dimentichiamo che cosa ci è successo e ciò che abbiamo saputo? Quando il ricordo resta vivo in noi per ragioni che riguardano la nostra vita interiore. 16 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Comunque nel dare una risposta del genere restiamo, con Husserl, su un piano soggettivo. Ma mi interesserebbe sapere quanto si trattiene nella memoria e quanto si dimentica oggettivamente di tutto ciò che avviene e di tutto ciò che sappiamo. E qui la risposta, sebbene sia evidente e semplice, è in realtà sorprendente: si perde molto di più di quanto si tiene a mente. Un vero e proprio oceano di cose entra nel regno dell’oblio in confronto con la scarsità di ciò di cui ci ricordiamo e che sappiamo. E giacché esiste un vero e proprio baratro tra quanto avviene realmente e quanto si trattiene nella memoria, il lavoro della ritenzione di quanto è successo diventa subito significativo. E qui di nuovo è importante constatare che alcune cose accadono e il loro ricordo è coltivato, mentre altre sono abbandonate all’oblio, come si dice in romeno. Parte delle responsabilità dei ministeri della cultura dappertutto nel mondo consiste precisamente in questo mantenimento del ricordo di ciò che è unanimemente considerato degno di essere ricordato e che perciò non deve essere lasciato in preda all’oblio. Tutto rientra in questa rubrica, dalle pietre tombali, alle chiese, ai monumenti e persino i discorsi. Si tratta sempre di due piani distinti: l’evento in quanto tale e il lavoro necessario a mantenere il ricordo di questo evento. E se parliamo di oblio è precisamente perché ci preoccupiamo del lavoro necessario a mantenere il ricordo. Quando parlo de “il lavoro del mantenere il ricordo”, ho in mente una delle più importanti attività umane, un’attività che ha le sue tecniche, che comporta un’istituzionalizzazione e fa ricorso a specifici mezzi di azione nella sfera interiore e spirituale. Nonostante esista tutta questa attività, nonostante tutti gli sforzi umani possano ottenere risultati importanti, resta il fatto oggettivo che la maggior parte della realtà finisce nel dominio dell’oblio. Come ho già detto, abbiamo un intero oceano dell’oblio in confronto col minuscolo lago del ricordo. Ma ciononostante lo sforzo immenso del preservare deve essere considerato separatamente. È impressionante il fatto che possiamo ancora leggere – dopo 2.800 anni! – l’Iliade e l’Odissea. In linea generale tutta la nostra cultura consiste in effetti di tutto ciò che si è potuto salvare dal naufragio dell’oblio. Comunque, si profila un nuovo problema: nel salvare tutto ciò che riesce a salvare, lo spirito umano applica sempre una giusta misura? Ci affrettiamo a rispondere: se oggi sappiamo chi è Omero è solamente perché 2.800 anni fa egli ha creato dei veri e propri capolavori. Diciamo lo stesso di Shakespeare e 17 di un gran numero di altri eiusdem farinae. Siamo poi inclini a credere, quando si tratta delle creazioni dei nostri tempi, che si preserverà ciò che è di maggior valore e solo per il fatto che ha un valore. Ma ho molti dubbi in proposito. Perché? Perché la misura che si applica a queste creazioni, in altre parole il nostro giudizio, appartiene ad un certo Zeitgeist. Consentitemi di proporre il primo esempio che mi viene in mente. Quando ero uno studente, ci chiedevamo chi fosse il più grande poeta del nostro tempo. Come gli altri, io credevo e insistevo fortemente sul fatto che, per quanto riguardava la poesia, Rilke, l’autore dei Sonetti e delle Elegie, fosse insuperabile. Che egli fosse né più e né meno che un nec plus ultra. Soprattutto dopo essermi sforzato di padroneggiare il tedesco dei Sonetti a Orfeo, tutto mi sembrava essere di una bellezza senza pari. Dopo la grande stagione di Goethe e Schiller, gli altri poeti sembravano dei pigmei in confronto con Rainer Maria Rilke. Egli saliva sul podio della poesia universale ottenendo la medaglia di bronzo, se non la medaglia d’argento. Così ho incominciato a pensare che Rilke rappresentasse il culmine insuperabile della poesia e che nulla potesse più venire dopo di lui. Oggi non credo affatto che la selezione operata abbia un significato assoluto. Mi chiederete allora chi metterei al suo posto e come sarebbe articolata una selezione giusta. Risponderei innanzitutto che si potrebbero citare anche altri nomi e risponderei soprattutto che, in generale, non ci si pone più il problema di scegliere chi sia il più grande tra i poeti, gli autori o le correnti. E in secondo luogo risponderei che nel frattempo ho imparato che anche le culture e le civiltà muoiono. Che cosa merita di essere ritenuto nella memoria di tutto ciò che ho detto finora? In primo luogo che la norma è l’oblio e che, sebbene rappresenti un fenomeno negativo e che non sembra essere necessario, l’oblio è parte della nostra natura e ha effetti decisivi sulla natura della realtà. Ne risulta un secondo aspetto, e cioè che l’evento non può essere preservato senza uno sforzo di mantenimento, che il nostro passato è fatto di ciò che è stato preservato, che la nostra storia e ogni sua parte è tutto ciò che si è potuto salvare da un naufragio. Non credo ne siano consapevoli né l’uomo comune né l’uomo di cultura. Quest’ultimo lavora con materiali che tende a confondere con la realtà passata, piuttosto che vedervi quel poco che se ne è potuto conservare. In altri termini, non è affatto consapevole che si tratta di un resto salvato dal naufragio dell’oblio. Per finire, l’aspetto più vulnerabile di tutta questa storia è che la conservazione presuppone una selezione e non 18 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 abbiamo argomenti e prove per dimostrare che questa selezione è stata effettuata in maniera obiettiva. Tutto il resto non selezionato – il cumulo di fatti, eventi e canali attraverso i quali circola l’informazione e anche i documenti – è condannato, attraverso l’oblio, a non essere. Da questo punto di vista, il lavoro culturale sembra derisorio in confronto a tutto ciò che rimane destinato all’oblio. Ciò che ho voluto comunicarvi è che siamo tutto il tempo installati dentro un oceano di oblio. (Traduzione di Gabriella Baptist) 19 20 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 DIMENTICARE saggi 21 22 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Andrea Bonavoglia The Internet is forever Anche se gli utenti di Internet nei paesi occidentali sono diventati la maggioranza assoluta tra i cittadini e quindi si calcolano in varie centinaia di milioni, non sono molti tra loro gli utenti accorti e informati su ciò che Internet è realmente. Ad esempio, il rapporto tra Internet e Google è molto poco chiaro e, anche qui, solo pochissimi sanno che cos'è realmente Google. Di fondo, prevale l'idea che Google sia una specie di padron di casa che ci fa da guida nei meandri delle stanze: per molti, assurdamente, “Google è Internet”. Le spiegazioni che cercherò di fornire su questo argomento nascono da una esperienza ventennale, da una conoscenza non professionale ma appassionata dei meccanismi della rete e dalla curiosa congruenza tra alcuni recenti aspetti della storia di Google e il tema socio-filosofico dell'oblio. Capita spesso che qualche amico o collega mi rivolga domande semplici: “Dopo quanto tempo una notizia entra in Google?”; oppure, “Posso cancellare un sito da Google?”, e anche “Cosa significa che Google fornisce la possibilità di recuperare l'oblio?”. Ma le risposte non sono così semplici, e per definirle bisogna prima capire che cos'è Google, prima ancora che cos'è Internet e al principio di tutto che cosa è un server. Che cos'è Google? I server sono computer grandi, o meglio molteplici, in grado di registrare documenti e di metterli a disposizione tramite una linea telefonica che trasmette dati. È utile sottolineare come i termini “registrare” e “cancellare” (in inglese, 23 “save” e “delete”) siano in questa dimensione trattabili come sinonimi di ricordare e dimenticare. Un server connesso a Internet, che è l'insieme di alcuni milioni di server, può quindi fornire documenti registrati da un utente americano a un utente italiano che li stia cercando. Il modo in cui questa fornitura di documenti avviene è vario, ma da vent'anni la forma popolare del passaggio di documenti è il World Wide Web, cioè un meccanismo di trasferimento dati, denominato HTTP (HyperText Transfer Protocol), molto intuitivo, di facile accessibilità e dotato di veste grafica. Quando sul nostro schermo appare un articolo con una fotografia di Obama, noi stiamo aprendo grazie a un browser (Chrome, Explorer, Firefox, …) un documento che si trova su un server probabilmente americano, e di fatto quel server americano ce lo sta fornendo tramite la rete telefonica e il protocollo HTTP. La fotografia e il testo si trovano peraltro inseriti tra altri testi e altre immagini, video, reclame: la pagina composta da tutti questi elementi si definisce un ipertesto ed è la risultante di un montaggio voluto da un impaginatore, il webmaster, che è in grado di costruire quelle pagine usando un codice denominato HTML (HyperText Markup Language). Internet è solo un gigantesco magazzino Non andiamo oltre nell'ambito del codice HTML, ma limitiamoci a determinare che l'ipertesto che compone una pagina web è composto da vari documenti diversi e che di pagine web oggi nel mondo ne esistono alcuni miliardi. Come fare a rintracciare in questo gigantesco archivio o magazzino le cose che ci interessano? Vent'anni fa in Internet i dati erano molti di meno, la velocità di trasferimento mille volte più lenta di oggi, la posta elettronica lo strumento più usato, il web agli albori, e le ricerche basate su elementi semplici; il magazzino era ordinato e si cercava di tenerlo ordinato, e infatti con un po' di esperienza le ricerche 24 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 (effettuate tramite programmi che oggi sembrano ridicoli, come Gopher e Veronica) avvenivano in tempi accettabili, magari alcuni minuti. Certamente, vent'anni fa in rete c'erano soprattutto documenti recenti, pochissime immagini, nessun video e quindi Internet era utile soprattutto ai professionisti di alcuni settori per trasferire notizie, o a chi, come me, trovava straordinario scambiare opinioni tramite email con altri studiosi sparsi nel mondo. In seguito, in parallelo col progredire del Web, i sistemi di ricerca si affinarono e nacquero i primi veri Search Engines, i motori di ricerca, cioè siti web che dispongono di un sofware per cercare altre pagine web. La risposta alle ricerche degli utenti avveniva in modo quasi casuale e i siti venivano elencati senza criterio apparente; stava all'utente cercarsi tra tanti il sito giusto, che in qualche caso non era neppure presente. Yahoo!, Lycos e Altavista sono stati per qualche anno i motori più usati, fino all'avvento improvviso e prepotente di Google, nato nel 1997, che a partire dal 2000 all'incirca ha soppiantato tutti gli altri sistemi creando un vero e proprio monopolio e generando una società informatica gigantesca. Si pensi che i server utilizzati da Google sono oltre un milione e non si dimentichi che Google possiede anche Youtube, Gmail, Android e molti altri marchi. Perchè Google è il motore migliore? I creatori di Google hanno visto l'errore di fondo dei loro predecessori e hanno basato la ricerca su un algoritmo, cioè su una procedura che elenca i siti in base alla loro popolarità; la popolarità non si basa - come molti credono - sul numero dei visitatori, ma soprattutto sull'interconnessione di un sito dentro la rete. Ma come fa Google a risponderci in micosecondi, se la rete è fatta di miliardi di pagine web? Innanzitutto, Google effettua la ricerca sui suoi server e non sul web; infatti, Google dispone di una serie di programmi automatici, sempre in funzione, detti spider, che perennemente analizzano tutti i dati pubblici dei 25 server di tutto il mondo e li registrano. Sia chiaro che gli spider non possono accedere in siti protetti, quindi l'interno delle pagine di Facebook o i clienti di una banca o i libri di una biblioteca restano invisibili. I dati raccolti vengono indicizzati, cioè rapidamente analizzati e catalogati in un indice di veloce consultazione. Quando uno spider trova un sito nuovo, lo colloca in un limbo d'attesa; semplificando, si può dire che la “scoperta” di un sito nuovo viene registrata da Google nell'arco di 24 ore dalla sua pubblicazione (la brevità di tempo ci dice qualcosa sulla mostruosa efficienza degli spider). Questo non significa tuttavia che il sito entri nelle ricerche degli utenti così presto, anzi; l'algoritmo di Google usa un sistema a livelli (rank) per cui la miglior posizione di un sito negli indici è determinata da molti fattori, tra cui semplificando - la presenza del suo indirizzo nelle pagine di altri siti (tanto più è interconnesso tanto più il sito è rilevante), la sua mutevolezza (tanto più cambia tanto più un sito è attivo) e naturalmente il rilievo che il termine cercato ha nella pagina web (se si trova nel titolo o meno). Un esempio personale Per evitare di fare solo teoria, parliamo ora di casi reali; il mio nome è presente non solo nel mio sito personale ma anche in molti altri, e alla ricerca “andrea bonavoglia” (se i termini sono messi tra virgolette diventano un unico termine di ricerca) Google risponde in 30 centesimi di secondo che ricorre in oltre 2600 pagine web. Analizzando con attenzione gli elenchi forniti da Google, posso tuttavia stabilire che - a parte pochi omonimi - i siti che ospitano il mio nome sono molti di meno; al termine delle pagine di ricerca, che si raggiunge in pochi secondi, appare una dicitura in cui Google segnala che un numero altissimo delle 2600 pagine ha indirizzo “molto simile” ed è stato per praticità ignorato; i siti principali quindi sono soltanto 178. La spiegazione è semplice: in uno stesso sito sono spesso proposti elenchi e indici nelle parti fisse dell'impaginato (i 26 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 menu, i moduli, le sezioni, le annate, ecc.); il nome di un autore può trovarsi scritto e indicizzato in tutte le 100 pagine di un sito se anche in una sola di quelle pagine appare un suo scritto. Cancellarsi Poniamo ora che io decida di cancellare la mia presenza in rete. La cosa ha implicazioni interessanti da un punto di vista psicologico e antropologico, ma in questa sede le ignoreremo, facendo finta appunto che io stesso - che di Internet sono un profondo sostenitore - sia entrato in una crisi esistenziale e abbia preso la drastica decisione di sparire dalla rete. Per i motivi che abbiamo detto prima, molta gente crede che cancellarsi da Internet o da Google sia la stessa cosa, e la società californiana ha dovuto adeguarsi al fatto che gli utenti le si rivolgano per ottenere l'oblio. Google ha ricevuto un'ingiunzione dall'Unione Europea, ma poteva benissimo rifiutarsi di farlo, e chi ha seguito i miei ragionamenti avrà capito perché; sta di fatto che una buona politica societaria prescrive che i clienti, più che le autorità, hanno sempre ragione. Quindi Google ha preparato il modulo (vedi qui sopra) per richiedere l'oblio, nel senso che la società si impegna per quanto possibile a cancellare l'utente dai propri server; è evidente che Google non può cancellare alcunché da siti che non possiede, ma si suppone che una volta oscurata la ricerca, quel nome sia di fatto oscurato a sua volta. Tutto ciò ricorda la famosa poesia di Bertolt Brecht, “Die unbesiegliche Inschrift” (la scritta invincibile, che è poi un evviva a Lenin): cercare di cancellare la scritta da un muro è impossibile, l'unica soluzione è togliere il muro. Il nostro risultato in definitiva è questo: non sto cancellando i miei dati dal magazzino, ma sto chiedendo al magazziniere di non trovarmi più. Una simile 27 scelta ha dei limiti evidenti, e in particolare si poggia su un'ipotesi falsa, che Google resti per sempre il miglior motore di ricerca. The Internet is forever In una qualche serie poliziesca americana i detective ottengono prove risalendo a dati molto vecchi della rete e chiosano l'indagine con la battuta “The Internet is forever”. Non è del tutto vero, ma molte cose in rete sopravvivono al di là delle aspettative e procurano non solo affollamento di dati, ma anche una grande confusione. Molte pagine web non sono datate in modo visibile e la loro lettura può generare equivoci notevoli. Google - come detto - abbassa di rank le pagine che non cambiano, ma non le cancella dai suoi archivi; in una ricerca selettiva, è quindi facile incorrere in dati antiquati che appaiono attuali. Tornando al mio caso, 178 siti mi citano, e quindi a parte l'invio del modulo a Google, potrei chiedere ai webmaster dei 178 siti di cancellare ciò che mi riguarda. Posso farlo, con evidente fatica, ma resta un problema: con quale diritto lo chiedo? Ho messo io a disposizione della rete i miei articoli e le mie costruzioni web, e quindi le citazioni, i riferimenti, le repliche ai miei lavori sono state sempre benvenute; inoltre, molte citazioni del mio nome sono automatiche, perché risalgono ad esempio alla pubblicazione di un libro. Se ora, in preda a depressione, voglio cancellarmi dalla rete, devo anche cancellare alcuni fatti concreti della mia vita. Nel mio caso, dovrei cancellare molte pagine di carta, la mia attività di insegnante, il mio ruolo stesso di progettista web, la mia partecipazione a seminari e conferenze, ecc. ecc. Si vede bene, credo, che tutto ciò è da un lato impossibile, dall'altro inutile. E quindi, cercare l'oblio di Google non equivale forse a cercare l'oblio assoluto? In questa meraviglia/follia di un mondo che non nasconde più nulla, ha senso cercare di nascondersi? Come si può cancellare/dimenticare ciò che comunque è destinato a restare, per quanto sommerso nel caos delle cose? Il confine tra rete 28 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 e vita si manifesta nella sua totale precarietà, molto semplicemente perché la rete ormai è parte della vita. 29 30 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Massimo Piermarini Oblio e memoria Non c’è fuoco o gelo che possa sfidare ciò che un uomo può immagazzinare nella memoria F. Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby Sembra che il pensiero occidentale, da Platone in poi, non sappia muoversi al di fuori dell’anamnesi e che il desiderio di ricordare risponda ad un’esigenza profonda di sicurezza.11 Ma l’uomo è un essere che dimentica. Il rovesciamento dell’orizzonte platonico, lo smemoramento contro la rammemorazione (l’Andenken heideggeriano) è il rischio sempre presente, nell’ambito della memoria, individuale e collettiva. I ricordi sono circoscritti dall’oblio, come i concetti sono circoscritti dal caos del divenire: si pensa sempre contro l’impensabile, il caos, si ricorda ai bordi dell’oblio, circondati da esso e attraverso di esso, incapaci di mantenere il governo della nave della memoria.12 La conoscenza è, per Deleuze, un taglio, una coupure nel divenire13 e, rispetto alla continua azione dell’oblio, una specie di durasiana diga contro l’Oceano. Il principio di sicurezza esige un orientamento nel 11Platone, Menone, 811, c-d. Sul ricordo dell’antica Grecia, patria della libertà-uguaglianza, si fonda la poesia-filosofia di Hölderlin, per cui l’allontanamento dall’En kai Pan, in direzione eccentrica, è l’inizio del grande inverno, in cui gli dei sono volati via, senza lasciare traccia di loro, eccetto che nell’entusiasmo e nell’ispirazione poetica, nella Begeisterung dionisiaca. Nell’orientamento verso il passato lo stesso Heidegger conferma il problema della metafisica: l’oblio dell’essere. Cfr. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari, 1991, pp. 78-79. La dimenticanza dell’Essere a favore dell’ente è all’origine della “deviazione dell’Occidente”. Questo è un occultamento, perché l’Essere non scompare. Heidegger indica, ispirandosi a Hölderlin, nell’Andenken, la rammemorazione come il compito del pensiero, la retrospezione verso ciò che non è ancora pensato. Cfr. sull’essenza del pensiero poetante M. Heidegger, Rammemorazione, in Id., La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano, 1988, pp. 95-180. 12«Ogni concetto ha un contorno irregolare, definito dalla cifra delle sue componenti. È per questo che, da Platone a Bergson, si ritrova l’idea che il concetto sia una questione di articolazione, di ritaglio e di accostamento. È un tutto, perché totalizza le sue componenti, ma è un tutto frammentario. Soltanto a questa condizione il concetto può uscire dal caos mentale che lo attende al varco e non cessa di minacciarlo per riassorbirlo». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, Torino,Einaudi, 1996, p. 23. 31 tempo, un’organizzazione delle sue latitudini, una disciplina dell’immaginario, una classificazione dei frammenti del passato, sotto forma di ricordi, tracce, rilievi, per disegnare mappe e topiche in cui si eserciti il nostro potere di saltare nel passato, installarsi nei suoi livelli, catturarlo, e ricondurne alla coscienza immagini e segni. Nella memoria il “soggetto” cerca essenzialmente la sicurezza di sé, costruisce un piano stabile, in cui insediarsi, per penetrarne il paesaggio. I gradi di tensione della memoria e lo sforzo di espansione che compie per localizzare i ricordi possono però fallire. L’oblio si presenta come una rottura della nostra storia individuale 14 che rivela la natura della memoria: non un deposito di cose morte, ma un campo di forze e di molteplici piani, in cui la coscienza, contraendosi ed espandendosi, gioca le sue chances. «La statua glorifica il marmo» scriveva Blanchot. La statua è però il prodotto di una demolizione, di una sottrazione di marmo. Lo stesso si può dire dell’oblio. Ma chiediamoci: l’oblio è veramente la negazione della memoria? Nell’oblio si elimina la solidarietà tra memoria-abitudine e memoria integrale del passato, ricordi recenti e remoti? I risultati delle indagini cliniche e delle esplorazioni filosofiche convergono: l’oblio è un sistema dinamico di strati e livelli, si articola in una molteplicità di modi, proprio come la memoria, ed è sempre legato ad affetti, a situazioni emotive, patologiche e normali, in cui si vive la temporalità. La potenza selettiva dell’oblio – come avviene nell’Eterno ritorno dell’Identico nietzscheano15 – glorifica la materia del passato: gli oggetti, gli atti, i simboli, le cifre del suo passaggio, le stazioni e i transiti e i passaggi del suo snodarsi. 13«Il piano di immanenza è come un taglio del caos e agisce come un setaccio. Il caos, in realtà, non è tanto caratterizzato dall’assenza di determinazioni quanto dalla velocità infinita con cui queste si profilano e svaniscono […]. Il caos non è uno stato inerte o stazionario, non è un miscuglio casuale. Il caos rende caotica e scioglie nell’infinito ogni consistenza». Ivi, p. 51. Cfr. H. Bergson, L’évolution créatrice, ed. digit. in Classiques des sciences sociales, Chicoutimi, Université du Québec, 2003, p. 149 sul taglio (coupe) operato dall’intelligenza sul flusso del reale, sul divenire universale: «Les choses se constituent par la coupe instantanée que l’entendement pratique, à un moment donné, dans un flux de ce genre, et ce qui est mystérieux quand on compare entre elles les coupes devient clair quand on se reporte au flux». La stessa intelligenza, d’altra parte, è «ritagliata» da una realtà più vasta e creatrice, la vita come slancio, H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Milano, Raffaello Cortina, p. 48. Sull’immagine del corpo come «taglio trasversale del divenire universale» si veda H. Bergson, Materia e memoria, in Opere 1889-1896, Milano, Mondadori, 1986, p. 259. 14Cfr. H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 275. 15Cfr. infra, le note n. 42 e 43. 32 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 L’attualizzazione dei ricordi puri, virtuali, rappresenta sempre, congiuntamente, un taglio, un’esclusione: il presente, l’attuale si colloca su un piano diverso dal virtuale, il passato puro. È inevitabile il rischio di perdita, di abbandono del passato: l’oblio. Noi non portiamo il presente nel passato, perché esso lo è già da sempre. Scaviamo i giacimenti della memoria, per corroborare il nostro senso di sicurezza, la posizione di soggetto, in vista dell’azione, che può aprirsi, almeno sul piano etico “spinoziano”, ad un’avventurosa esplorazione di dimensione “cosmica”. 16 In quanto “soggetti” ci rendiamo estranei alle linee divergenti e anomale che il divenire produce, al mondo dei viventi o cosmo in nome di un retro-mondo o sovra-mondo che la metafisica spaccia per fondamento, guadagnandone in attribuzione di senso, in identità certa. Il mondo nel quale viviamo si colloca in una rete che, in termini deleuziani, si può definire uno “spazio mentale striato”, cioè gerarchizzato. Una memoria gerarchica sarà uno spazio di questo tipo, che cerca di sradicare la possibilità stessa del fallimento, dell’abbandono all’oblio. Ma, per Deleuze, il Piano di consistenza o di immanenza ignora le differenze di livello, gli ordini di grandezza e le distanze […] tra l’artificiale e il naturale. Ignora la distinzione dei contenuti e delle espressioni, come quella delle forme e delle sostanze formate, che esistono solo mediante gli strati e rispetto agli strati.17 Ciò può significare che è il passaggio allo spazio mentale “liscio” ad incaricarsi di affrontare il disordine di un ordine fittizio (quello delle metafisiche e dei poteri) come il suo problema principale. Il caos e l’oblio diventano la sfida della sua attività. Se Paul Ricœur, nell’opera Dell’interpretazione. Saggio su Freud, ha indicato l’oblio come origine della riflessione, situazione iniziale a partire dalla quale si possa recuperare “qualcosa che dapprima è stato perduto”, separato dall’io e divenuto estraneo, per cui ricordare diventa, in tale contesto, un compito di valenza morale, Gilles Deleuze collega invece la memoria alla fenomenologia del desiderio e all’intervento attivo della potenza di oblio, che si declina necessariamente nel 16Questa esplorazione e il pathos gioioso dell’ascesi filosofica aderiscono alla condotta di vita in cui ci si istalla nel piano di immanenza e lo si costruisce, cfr. G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Milano, Guerini e associati, 1991, cap. 6: “Spinoza e noi”. 17G. Deleuze. F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, ed. digitale, Roma, Cooper, 2003, p. 273. 33 dispositivo di memoria. La memoria inizia con uno “scarto” che è l’alba della soggettività e si compie nella contrazione in cui, nella coesistenza di passato integrale e presente, essa si inverte e si converte, per vibrare verso il futuro. 18 Ricordare, dunque, ha sempre a che fare con una distanza e con un divenire, cioè con il desiderio, che non è altro che un passare per i divenire, una relazione tra due termini eterogenei che si deterritorializzano e, dal punto di vista del soggetto, l’apertura ad un’altra maniera di sentire e vivere, che s’inviluppa nella nostra e la fa fuggire. Il desiderio ha, infatti, delle linee profonde di relazione, che congiungono il “cuore” della “piega”, cioè della soggettività prodotta dall’essere e messa a punto come abito e punto di vista, con il corpo. Il sopravvenire del desiderio, la sua pienezza che non manca di nulla è, allora, per noi, un evento, una cesura, un punto di disgiunzione nella serie cronologica dei presenti, che, in un certo senso, interrompe il tempo per riprendere, con uno slittamento di senso, su un altro piano. L’evento insomma si produce nel tempo, ma non vi si riduce, costituendo un tempo vuoto o morto, condizione stessa delle serie cronologiche. Solo degli uomini “semplici”, i più “naturali”, o degli scrittori maledetti, i più possibilmente “anormali”, sembra, secondo Deleuze, che abbiano familiarità con esso, emancipandosi dalla soggezione ad un’eternità mitologica, “fuori del tempo” e trascendente. Soffermiamoci un momento sulla nozione di “piega” in rapporto alla coppia “memoria-oblio”. Non bisogna pensare, per Deleuze, la piega a partire da un centro “puro”. La piega è un taglio dell’Essere, una replicazione-sdoppiamento-piegatura del suo dispositivo ontologico. È il Fuori che genera un dentro.19 Lo stesso piano di immanenza, il movimento assoluto al di là dell’oggetto e del soggetto, in Che cos’è la filosofia, non è concepibile senza riferirsi alla piega, figura centrale del saggio su Leibniz e il Barocco.20 Il risultato de La piega. Leibniz e il Barocco (già intravisto nel 18G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Torino, Einaudi, 2001, pp. 42-43. Ma sulla contrazione-concentrazione di energie e di emozioni-eccitazioni operata dalla memoria, che mostra così di appartenere appieno alla dinamica del desiderio e del piacere cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 100, 106. Sull’apertura al futuro della sintesi ordinale “scardinata” del tempo, connessa alla ripetizione, vedi le pp. 119, 120-121. 19G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 2004, pp. 73 sgg., si veda in particolare pp. 83 sgg. sul nuovo statuto del soggetto. 20«Il movimento infinito è definito da un’andata e ritorno, perché esso non va verso una destinazione senza fare già ritorno su se stesso, essendo l’ago anche il polo. […]. Il movimento infinito è doppio, tra l’uno e l’altro non c’è che una piega [...]. I diversi movimenti dell’infinito 34 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 volume su Foucault) è la scoperta della possibilità di una nuova posizione della soggettività come espressione del piano di immanenza. Il “residuo minimo” di soggettività di Mille piani viene così, nella elaborazione successiva, riletto in chiave ontologica. Che cosa accade? Avvolgendosi, piegandosi, ripiegandosi su di sé, l’Essere definisce, con il limite, anche un dentro, a partire dal quale il pensiero svolge ciò che avvolge, dal dentro al fuori. Il pensiero si flette perché riflette le forze del fuori, la cui attività definisce un limite. La riflessione diventa il prodotto di un rapporto di forze, in cui il dentro e il fuori si forzano e si sforzano: Il momento più profondo dell’intuizione è dunque quello in cui il limite è pensato come piega, e in cui di conseguenza l’esteriorità si rovescia in interiorità. Il limite non è più quel che intacca il fuori, ma una piega del fuori. È un’auto-affezione del fuori (o, il che è uguale, della forza […] il limite comune delle forze eterogenee, che esteriorizzano completamente gli oggetti o le forme, è l’azione stessa dell’Uno come piegamento di sé.21 L’identità di pensiero ed essere, invocata da tanti pensatori come principio dell’ontologia, diventa così possibile, e dunque reale, quando esso diventa una piega, «la cui essenza vivente è la piega dell’Essere». 22 Questo intreccio modifica lo statuto dell’intuizione filosofica, la funzione della memoria e dell’oblio, con inevitabili connessioni che, a partire dall’idea di “soggettivazione”, si riflettono sulla concezione del tempo, che si emancipa dal movimento in senso fisico-matematico, e sulla concezione del mondo, che si emancipa dalla trascendenza.23 L’interiorità diventa uno spazio del dentro, co-presente e coestensivo allo spazio del fuori, sulla linea della piega e cessa di presentarsi come un principio ontologico indipendente dall’Essere sono talmente mischiati gli uni con gli altri che, lungi dal rompere l’Uno-Tutto del piano di immanenza, ne costituiscono la curvatura variabile, le concavità e le convessità e, in qualche modo, la natura frattale». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 47 (il corsivo è nostro, cito dall’ed. dig.). 21A. Badiou, Deleuze, il ‘clamore dell’essere’, Torino, Einaudi, 2004, p. 218 (cito dall’ed. dig.). 22Ivi, p. 219. 23La linea anticartesiana di Deleuze non scende a patti né con l’idealismo né con la fenomenologia: la piega non si può scambiare per l’Io dell’idealismo o della fenomenologia e rompe altresì con la tradizione neoplatonica e agostiniana-creazionista di un’origine unitaria (e trascendente) del tempo. 35 univoco24 nella piega, diventando il raddoppiamento, la piegatura del fuori in un dentro. Ora, nella piega, è l’Essere stesso che si fa Memoria, memoria di sé e del mondo, integrale memoria del passato o intuizione della Durata. La formula rinvia alla riflessione bergsoniana, 25 che Deleuze accoglie e di cui formalizza l’impianto immanentistico. L’essere del Tempo, in cui la Memoria è iscritta, si “soggettivizza” grazie alla piega e sotto la condizione della piega, ma la memoria non può più in nessun caso considerarsi un’attività del soggetto, sottoposto com’è, in quanto isola di ordine, punto di vista, al continuo costruirsi e svanire e ridotto, quindi, ad una forma in continua formazione-deformazione: inflessione, piegatura, spiegatura, ripiegatura del Fuori. Non si tratta più soltanto, come avveniva in Mille piani,26 di conservare un’oncia di soggettività, necessaria a quel “piano di immanenza”, che tende ad assorbire la Terra, il cui compito è il taglio del caos delle forze del divenire. Si tratta invece di risolvere la soggettività, che si dilata e si contrae nel ricordare, nell’ontologico puro o nell’essere in sé, il Virtuale del passato.27 L’Essere si dà dunque come Memoria o meglio come Durata. La memoria non è la creazione di un soggetto ipostatizzato e di un’interiorità presupposta e trascendente gli eventi, come in Platone, che 24Sulla tesi ontologica dell’Univocità dell’essere in rapporto alla ripetizione dell’Eterno ritorno si veda G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 53-61. 25Si veda H. Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 258-259 per la distinzione tra due memorie, la memoria-abitudine, “fissata nell’organismo” e condizionata dall’adattamento alla situazione presente e la vera memoria “coestensiva alla coscienza” che evoca l’esperienza passata, svincolandosi dal presente e dai suoi meccanismi. Cfr. sul rapporto soggetto-oggetto, memoriapercezione, e quindi spirito-materia, il ruolo centrale della concentrazione-contrazione della memoria che collega le visioni istantanee, spaziali, del reale, ivi, pp. 192-193. 26G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., pp. 583-584: «Dell’organismo bisogna conservare quanto basta perché si riformi a ogni alba; […] bisogna conservare piccole razioni di soggettività, in quantità sufficiente per poter rispondere alla realtà dominante. […] Siamo in una formazione sociale; vedere innanzitutto come è stratificata per noi, in noi, nel posto in cui ci troviamo; risalire dagli strati al concatenamento più profondo in cui siamo presi; far capovolgere il concatenamento con molta precauzione, farlo passare dalla parte del piano di consistenza». 27G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, cit., p. 45; cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 119. L’abitudine a ricondurre ogni manifestazione della memoria al presente, alla presenza e al riconoscimento del ricordo ci confina nel regno della psicologia, dell’io o dell’Es, e della sua temporalità, Chronos, ma nulla ha a che fare con la concezione bergsoniana e deleuziana della durata. 36 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 mette il tempo nel concetto ma questo tempo deve essere l’Anteriore. Costruisce il concetto ma come testimone della preesistenza di un’oggettività, sotto forma di una differenza di tempo capace di misurare la distanza o la prossimità dell’eventuale costruttore. […] La verità si pone come presupposta, come già esistente.28 Uscire dalle nomenclature concettuali del platonismo, rovesciare le sue scatole vuote, confutarne le pretese di verità è l’esigenza imperativa di Deleuze. Gli Universali della metafisica sono soltanto grida nel deserto, vibrazioni minime, movimenti di palpebre in una fossa oceanica. La dimensione di “piega” della soggettività, emancipata dalla trascendenza e dall’ordine plurivoco (o “analogico”) dell’essere, si appresta alle sue catture, alle sue “cacce sottili”, ai tagli delle forze caotiche del divenire nel piano di immanenza, che i concetti popolano senza dividere […]. Il piano assicura il raccordo dei concetti con delle connessioni in perenne aumento e i concetti assicurano il popolamento del piano su una curvatura sempre rinnovata, sempre variabile.29 La soggettività, si è visto, non scompare, ma riforma radicalmente se stessa, si configura nella dimensione virtuale dei suoi divenire, dei suoi flussi e delle sue metamorfosi.30 Gli io si confermano esistere soltanto come «soggetti larvali».31 Punto di oblio Ogni vita è, si capisce, un processo di demolizione G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani Avviciniamoci alla memoria, a quella memoria pura che è tangente non soltanto al piano della percezione presente, secondo la nota immagine del 28G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 37. 29Ivi, p. 44. 30«I flussi d’intensità, i loro fluidi, le loro fibre, i loro continua e le loro congiunzioni d’affetti, il vento, una segmentazione fine, le micropercezioni hanno sostituito il mondo del soggetto. I divenire, divenir-animali, divenire-molecolari, prendono il posto della storia, sia essa individuale o generale». G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 587. 31G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 106. 37 “cono rovesciato”32 ma anche al punto di oblio,33 da cui parte la strategia di attacco del complotto (la “pretesa”) in cui il soggetto-piega opera, con la disposizione d’animo della sorpresa, con la velocità infinita del Piano d’immanenza. Il soggetto minoritario non cessa, malgrado tutto, di svolgere il suo ruolo e non si dissipa senza residui nei flussi di divenire. 34 La coppia categoriale striato-liscio (attribuita allo “spazio”, ma ad uno “spazio mentale”) di Mille piani, consente infatti di ridefinire i rapporti della memoria con l’oblio. In particolare lo spazio mentale liscio o nomadico significa cancellazione dei ricordi, l’oblio relativo e la negazione-scomposizione della sua organizzazione arborescente o striata. Ogni sedimento di memoria striata è connesso sia al “punto di vista” in cui il soggetto ha voce, che allo slancio di un sorvolo assoluto, alla velocità infinita del Piano di Immanenza. Si presenta così, nell’attualizzazione dei ricordi, in tutta la sua forza, quel radicamento della memoria nel territorio dell’oblio, da cui si generano le linee irregolari e le asimmetrie della memoria. Forse l’oblio non si può più pensare, secondo la celebre immagine dell’Introduzione alla Metafisica di Bergson, come un “fondo” inerte dal quale i ricordi affiorano per guadagnare la superficie (la coscienza), né come un limite che minaccia la memoria. Esso è potentemente attivo nel piano in cui la memoria opera il taglio dei ricordi e connette il passato recente con la memoria profonda, accessibile soltanto, nei suoi livelli molteplici e nei piani in cui cerchiamo di collocarli, nel sogno. Il carattere di flusso della realtà pura, la Durata, che incontriamo, secondo Bergson, procedendo dalla periferia verso il centro del soggetto, è infatti 32H. Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 259-260. 33Il mutuo appoggio, la solidarietà tra memoria-abitudine del corpo e dei suoi meccanismi senso-motori e vera memoria del passato (dei ricordi in sé) non è garantita per Bergson che dalla normalità, cioè dall’equilibro degli individui ben adattati alla vita, cfr. ivi, p. 260. La sfera del patologico e della sperimentazione-costruzione di vita dell’arte (o della filosofia in senso deleuziano) ne sono dunque escluse. Se la parte immediata del passato che, proteso sul futuro lavora per realizzarlo e annetterselo, può essere schiarita dal bagliore della coscienza, il resto, afferma Bergson, «rimane nell’oscurità», ivi, p. 258. 34G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 588. Con riferimento al libro di Carlos Castaneda sugli insegnamenti esoterici di Don Juan, Deleuze e Guattari scrivevano: «Non è più un Io che sente, agisce e si ricorda, è “una bruma brillante, una nebbia gialla e scura” che ha affetti e prova movimenti, velocità. Ma l’importante è che non si disfa il Tonal distruggendolo di colpo. Occorre diminuirlo, restringerlo, pulirlo e per giunta soltanto in certi momenti. Occorre conservarlo per sopravvivere, per poter sventare l’assalto del Nagual» (corsivo nostro). 38 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 prima e fuori del taglio dei ricordi (“cristalli ben tagliati”) e della superficie delle percezioni di oggetti. La continuità di flusso fa sì che gli stati successivi si prolunghino l’uno nell’altro35 e siano più simili all’arrotolarsi «come quello di un filo sul gomitolo»36 in cui si costruisce la coscienza, cioè la memoria, con un’operazione nella quale la contrazione-tensione della “piegatura” assume un rilievo essenziale. Per Deleuze l’immersione nel caos del divenire spinge la memoria a varcare i bordi dell’oblio, a forzarne i limiti. Nell’inseguire i ricordi siamo inseguiti dall’oblio e incapaci di mantenere durevolmente la nostra direzione di viaggio, centrata sul presente di un ordine cardinale del tempo.37 La conoscenza si conferma essere un taglio (una coupure)38 del divenire: ciò che si conosce è circoscritto dal divenire caotico, ciò che si ricorda è circoscritto e definito dall’oblio, relativamente impenetrabile. Il caos mentale non cessa di esercitare la sua presa. La stessa biografia dei romanzi – la letteratura lo testimonia – e, aggiungiamo, quella continua biografia che scriviamo di noi stessi in ogni concatenamento, non riproduce e salva, ma elimina e demolisce porzioni del passato, ripetendolo su livelli e modalità sempre nuovi. La critica senza sconti del platonismo e della sua anamnesi, della psicoanalisi col suo psicologismo, mira alla costruzione speculativa di un percorso di uscita da tali territori: Dove la psicoanalisi dice: Fermatevi, ritrovate il vostro Io, bisognerebbe dire: Andiamo ancora più lontano, non abbiamo ancora trovato il nostro CsO [Corpo senza Organi], non abbiamo ancora disfatto abbastanza il nostro Io. Sostituite l’anamnesi con l’oblio, l’interpretazione con la sperimentazione. Trovate il vostro corpo senza organi, sappiatelo fare, è una questione di vita o di morte, di giovinezza e di vecchiaia, di tristezza e di allegria. Ed è qui che tutto si gioca.39 35H. Bergson, Introduzione alla Metafisica, Laterza, Bari, 1983, p. 48. 36Ibidem. 37Il presente, nella sua posizione intratemporale, non è altro che «la concentrazione massima di tutto il passato» con cui coesiste e che coesiste in sé (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 111) e appartiene al tempo cronologico. 38G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 21. 39G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 553 (corsivo nostro). 39 Il paradigma del rizoma o del “corpo senza organi” elabora una via d’uscita nel movimento del nomadismo, il viaggio continuo e immobile in cui è possibile sperimentare e costruire la soggettivazione, al di là di ogni organizzazione e fissazione: Consideriamo i tre grandi strati rispetto a noi, cioè quelli che ci imprigionano più direttamente: l’organismo, la significanza e la soggettivazione. La superficie d’organismo, l’angolo di significanza e d’interpretazione, il punto di soggettivazione o d’assoggettamento. […] Sarai un soggetto, e fissato come tale, soggetto d’enunciazione ripiegato sopra un soggetto d’enunciato, altrimenti non sarai che un vagabondo. All’insieme degli strati, il CsO [Corpo senza organi] oppone la disarticolazione (o le n articolazioni) come proprietà del piano di consistenza, la sperimentazione come operazione su questo piano (nessun significante, non interpretate mai!), il nomadismo come movimento (muovetevi anche stando fermi, non cessate di muovervi, viaggio immobile, desoggettivazione).40 Due memorie: lunga e corta La filosofia deleuziana liquida l’immagine classica del pensiero e [del]la striatura dello spazio mentale che essa opera […] con due “universali”, il Tutto come ultimo fondamento dell’essere od orizzonte che ingloba, il Soggetto come principio che converte l’essere in essere per-noi. Imperium e repubblica. Fra l’uno e l’altro, tutti i generi del reale e del vero trovano il loro posto in uno spazio mentale striato, dal duplice punto di vista dell’Essere e del Soggetto, sotto la direzione di un “metodo universale”.41 Confutata la tesi di un’appropriazione da parte del Soggetto umano della Realtà del passato (la Durata è l’essenza variabile delle cose, come insegna Bergson nel primo capitolo di Materia e memoria), Deleuze accoglie la divisione di due memorie: lunga e corta, arborescente e rizomatica. La memoria corta non comprende soltanto la dimenticanza, l’oblio, nel suo processo, ma, si potrebbe dire, che fa centro sull’oblio, cioè contrae, concentrandola al massimo, quella memoria del passato che saltando e istallandosi in esso, cioè dilatandosi, ha conquistato, secondo una 40Ivi, p. 579. 41Ivi, p. 1306. 40 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 modulazione e un’inclinazione asimmetrica. Le due modalità di memoria sono molto diverse: Ora la differenza non è soltanto quantitativa: la memoria corta è del tipo rizoma, diagramma, mentre la lunga è arborescente e centralizzata (impronta, engramma, calco o foto). La memoria corta non è per nulla sottomessa a una legge di continuità o di immediatezza con il suo oggetto, essa può essere a distanza, venire o rivenire molto tempo dopo, ma sempre in condizioni di discontinuità, di rottura e di molteplicità. Ancor più, le due memorie non si distinguono come due modi temporali di percezione della stessa cosa; non è la stessa cosa, non è lo stesso ricordo, non è neppure la stessa idea che colgono entrambe.42 La memoria corta rappresenta, paradossalmente, l’oblio, la dimenticanza, rispetto alla memoria lunga. Essa non ricorda ciò che ricorda la memoria lunga e non si confonde con l’istante presente, ma con il rizoma collettivo, temporale e nervoso.43 Liscio e striato, curvatura del tempo Ciò che si “salva”, nella memoria, sembra dunque salvarsi grazie all’oblio, attraverso l’oblio. Il momento migliore della memoria è la sua curvatura, la sua conversione, la sua vocazione “liscia”, l’emissione delle sue grida.44 Tale lisciatura dello striato appare agli occhi della normalità come una cancellazione, una demolizione dei ricordi, un passo indietro, apparentemente, della memoria rispetto alla potenza dell’oblio. La memoria vi guadagna invece il suo modo di essere più proprio, la sua virtualità potenziata. Mostra di possedere il potere di svincolarsi dalla ricostruzione del passato e dal mero riconoscimento nel presente del ricordo. Tale forzatura è il 42Ivi, p. 103. Sulla memoria in rapporto al tempo soggettivo e al tempo vissuto in patologia si veda E. Borgna, Noi siamo un colloquio, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 62 e passim, testo ricco di suggestioni filosofiche e letterarie, che conferma, con l’esperienza clinica, la tesi delle molteplicità di memoria. 43«La memoria lunga (famiglia, razza, società o civiltà) ricalca e traduce, ma ciò che traduce continua ad agire in essa, a distanza, in contro tempo, “intempestivamente”, non istantaneamente». G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 103. 44Sono le stesse grida lanciate da Spinoza: «voi non sapete ciò di cui siete capaci, nel bene e nel male, non sapete in anticipo ciò che può un corpo o un’anima, in un dato incontro, in una data concatenazione, in una certa combinazione». G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, cit., p. 270. 41 suo potere di oblio, di cancellazione rispetto alla memoria-ricordo. L’orientamento inverso del Tempo, d’altra parte, in direzione del futuro e non del passato, è sempre immanente alla sua attività. Il presente, non più una dimensione del tempo tra due altre dimensioni del tempo, è vòlto in direzione del futuro come attesa e costruzione e si immerge nel passato. La memoria, come ricordo puro, sempre virtuale, non si disloca nel presente ma vale, per così dire, per l’insieme del tempo. È la memoria-mondo, liberata dalla prigionia della psicologia individuale, in forza 1) della stessa desoggettivazione relativa del “punto di vista”, che la dottrina della “piega” ha messo a punto e 2) dell’incrinatura che la memoria corta, liscia, produce nell’edificio apparentemente inattaccabile della memoria lunga, striata. L’Immagine-tempo di Bergson, che la cinematografia contemporanea ha attuato nell’arte, si presenta così completamente emancipata dal mito della Verità e dal Movimento preordinato e auto-celebrativo in cui si costruisce la catena concettuale delle metafisiche, la processione delle loro ipostatizzazioni. Nell’immagine-tempo il Tempo diventa la declinazione molteplice degli eventi, la curvatura-contrazione, il movimento delle individuazioni all’interno del Piano di Immanenza o dell’Uno-Tutto. Oblio e memoria Ricorda il tempo, quando la notte saliva al monte con noi, ricorda il tempo, ricorda che io ero ciò che sono: un maestro delle torri e prigioni, un alito nei tassi, un bevitore in mare, una parola su cui bruciando ti accasci Paul Celan, Acqua e fuoco La vera memoria non è percezione, né abitudine o memoria del corpo, ma memoria “pura”, che conserva l’indistinzione e la coesistenza di tutti i movimenti del tempo. Come Memoria-mondo sembra che la memoria, nelle sue direzioni imprevedibili, sia debitrice dell’orgiaco (che ricorda l’ aorgico hölderliniano45) o del Chaos, sino al punto di sorvolo in cui cessa di essere 45Cfr. sul rapporto tra Tempo, Ripetizione, Eterno ritorno G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 120-121. Il tempo come forma pura e “vuota” diventa il protagonista dell’eterno ritorno come «circolo decentrato della differenza» in cui la forma del tempo sta per la rivelazione dell’informale (nell’accezione 42 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 prossima ad una individuazione, ad una “ecceità”, per rivendicare la totalità del Tempo. In sintesi: la Memoria o il Tempo senza dimensioni e senza misura del movimento è ciò che si attua attraverso la forzatura, la manipolazione, la resezione di frammenti seriali, che imprigionano gli eventi in un ordine dicibile, narrabile, in funzione delle istanze dell’azione presente. Essa opera inevitabilmente l’azzeramento, la “lisciatura” di quello spazio mentale striato nel quale il tempo e la memoria-mondo si traducevano in rappresentazione, secondo le pretese del soggetto di coscienza. La stessa forzatura dell’immagine-ricordo, immessa nella sfera molare e striata, viene “piegata”, riconducendola al piano liscio, al molecolare, e ricondotta alla memoria creatrice. Nella Durata, come pensiero dell’Essere, l’intero passato è mobilitato e l’intero Tempo è convocato, per coincidere, allora, con l’Eterno: gli eventi si riuniscono (svaniscono) nella Durata.46 Quando una memoria “gigantesca”, “totale”, prende il posto della memoria “psicologica” e coincide, come durata pura, non temporale, con il Tutto virtuale e aperto del tempo, il Tempo stesso diventa la verità, così che ogni presente (e ogni ricordo del passato ricondotto al presente) viene azzerato, cade nell’oblio. Nulla si perde. Ogni passato (un passato reversibile e illimitato perché virtuale, che vibra nell’attesa di futuro 47) si “conserva”, virtualmente, nella Memoria totale. Il Tempo-Soggetto inaugura, nel dispositivo di potenza che virtualizza il passato totale, l’irruzione del futuro. Tutti gli oggetti, i movimenti, i piani che tagliano il caos perdono allora i loro contorni nella durata pura e si riuniscono nella concentrazione massima della memoria. Il Tempo non ha cronometri che lo registrino, né bilance che possano pesarlo né metri e scale matematiche di misurazione. Ci invita a salire sulla sua altalena e ad oscillare tra prossimità e distanza, congiunzione e hölderliniana) nell’eterno ritorno (ivi, pp. 122-123). Si veda F. Hölderlin, La morte di Empedocle, Milano, Garzanti, 1998 e M. Piermarini, Diotima, Introduzione all’Iperione di F. Hölderlin, Massarosa, Del Bucchia, 1998, cap. I. 46Aìon, il tempo indefinito dell’“evento”, è il tempo paradossale, la linea instabile che conosce solo le velocità. Esso fonda Chronos, il tempo cronologico, secondo la distinzione stoica ripresa da Deleuze, cfr. F. Zourabichvili, Le vocabulaire de Deleuze, Paris, Ellipses Édition, 2003, alla voce “Aiôn” e G. Deleuze, Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 134-135 sulla coppia Kronos-Aion. Cfr. anche G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 898. 47Lo stesso circolo dell’Eterno ritorno «non fa ritornare che l’a-venire» (ivi, p. 122) e nella terza e ultima sintesi del tempo «il presente e il passato non sono più a loro volta che dimensioni dell’avvenire: il passato come condizione, il presente come agente», ivi, p. 123. 43 separazione, memoria ed oblio. Cullati dal suo movimento, assumiamo il ritmo dei nostri piegamenti, cerchiamo di fonderci con il suo slancio. Non possiamo scendere dall’altalena, ma possiamo partecipare alle intensità del suo dondolio. Il nostro corpo diventa allora la punta dello slancio della materia che avanza nel tempo, nel suo movimento puro. Questo slancio genera serie divergenti. Ci è data allora una chance: incidere nella nostra carne-corpo il marchio del rifiuto della “biografia”, che in ultima istanza è un cerimoniale di morte, un legame tra inumazione, memoria, compimento di una vita singola e rappresentazione artistica (M. Bachtin). Possiamo cioè attivare le strategia del nascondimento, dell’occultamento, per mezzo della cancellazione della memoria, l’interruzione delle sue cerimonie. Infine, col dispositivo della simulazione teatrale barocca – penso soprattutto a El eroe di Baltasar Gracian e al rapporto tra segreto, eccesso e sovranità della volontà – ci è data un’altra chance: avviare il complotto dei nostri desideri, dei nostri processi emergenti e svilupparne la virtualità in potenza. La dimenticanza, frutto amaro della seduzione dell’oblio, immanente alla stessa concentrazione-tensione della memoria, è sempre un rifiuto o prepara un rifiuto, un giudizio in cui si condanna la celebrazione del passato al suo lutto lamentoso. La volontà di ricordare, di trovare un termine in cui la ricostruzione-scrittura del passato si compia, è sempre legata all’idea della morte e della tragica contraddizione «tra l’infinità della vita e la finitezza della vita umana», manifestazione particolare di quella tra codice genetico e l’essere individuale dell’organismo (J. Lotman).48 In essa si celebra il trionfo nefasto di quella tristitia, ragione del passaggio ad una minore perfezione della mente, che genera la melanconia.49 L’oblio è sempre, come sconnessione tra i livelli di memoria e tentativo fallito di aggancio tra i suoi piani molteplici, interruzione dei ricordi, l’azzeramento che consente l’apertura al nuovo, l’interruzione della “storia” individuale,50 il punto in cui 48Cfr. J.M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità , Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 199-200. 49B. Spinoza, Etica, III, prop. 11, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 181. 50Alain Badiou, in dissenso con Bergson e Deleuze circa il primato della Memoria scrive: «Ma se il “c’è” (“il y a”) è pura molteplicità, se tutto è attuale, se l’Uno non è, non è più dal lato della memoria che bisogna cercare la verità. La verità è al contrario carica di oblio, è addirittura, al contrario di quanto pensa Heidegger, l’oblio dell’oblio, l’interruzione radicale, catturata nella sequenza dei suoi effetti. E questo oblio non è oblio di questo o quello, ma l’oblio del tempo stesso, il momento in cui viviamo come se il tempo (questo tempo) non fosse mai esistito. O se 44 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 la vita riprende sempre il suo slancio, si rianima, attiva e attua le sue virtualità, le modula secondo altre linee di sviluppo e altri flussi. Prende commiato da quel passato, che, con la sua massiccia presenza sullo sfondo, sembra imprigionare le nostre energie. È un abbandono. Ma l’abbandono che significa un lasciare, un consegnare a sé ciò che impetrava un segno, una rappresentazione accettabile.51 La memoria e l’oblio, insieme, costruiscono e decostruiscono trame, organizzano complotti, cui si dà il nome di “io”. Declinano un processo il cui soggetto spesso non è assegnabile o si riduce ad una fluttuazione. La letteratura ne è testimone: si presenta come un teatro interno, una rappresentazione che seleziona personaggi e azioni, taglia flussi e mobilizza istanti vissuti espandendoli, ripetendoli, contaminandoli con serie eterogenee di “ricordi-stati dell’essere”, attraverso l’ablazione, la consegna all’oblio. Essa cattura, attua un concatenamento, che lega degli eterogenei e forma quel teorema di deterritorializzazione in cui ciascuno dei termini o degli individui biologici, sociali, noetici si riterritorializza sull’altro, senza imitazione e senza somiglianza, entrando in rapporti variabili che ne operano la trasformazione. Questa selezione52 della memoria sulla linea dell’oblio53 è una costruzione, in termini di individuazione, del tempo che si dice ritrovato vogliamo, in linea con la profonda massima di Aristotele, dato che l’essere comune a ogni tempo è la morte, come se fossimo immortali»” (A. Badiou, Deleuze, il ‘clamore dell’essere’, cit., p. 159). Il tempo vuoto o istantaneo (Aion) dell’evento deleuziano sembra rispondere a tale esigenza di radicale novità senza sdoppiare il reale in eternità (trascendente) e temporalità. 51«Ogni movimento percorre tutto il piano facendo immediatamente ritorno su se stesso, piegandosi ma anche piegandone altri o lasciandosi piegare, generando delle retroazioni, delle connessioni, delle proliferazioni, nella frattalizzazione di questa infinità infinitamente ripiegata (curvatura variabile del piano)». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 48. 52Evidente il riscontro con il carattere selettivo che assume la dottrina nietzscheana dell’Eterno ritorno dell’identico, la cui forza centrifuga espelle, nella ripetizione, il nichilismo e ogni negatività e passione triste (cfr. G. Deleuze, Nietzsche, Milano, SE, 1997, pp. 36-37) per elevare il molteplice e il divenire alla più alta potenza, che genera la gioia del diverso come «il solo impulso a filosofare» (ivi, pp. 33-34). Ma cfr. Henri Bergson, che considera i ricordi celati nelle profondità oscure dei “fantasmi” che, nel sonno, nella notte dell’inconscio, eseguono una danza macabra e vogliono accedere alla “porta” che sta per schiudersi della coscienza, «Ma non possono. Sono troppi». H. Bergson, Il sogno, in Id., L’energia spirituale, Milano, Raffaello Cortina, 2008, pp. 195-197, ed. dig. 53Il dimenticare non è il segno di una privazione, ma una risorsa del ricordare, ossia selezionare. Ma la selezione diviene, dal punto di vista del divenire, possibile soltanto come Ripetizione, nel rapporto tra volontà di potenza ed eterno ritorno. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi, 2002, pp. 101-107. 45 dalla coscienza. Essa giustifica la molteplicità di memorie possibili e la stessa divaricazione tra memoria lunga e corta. La memoria in realtà dispiega le sue linee divergenti, proprio a partire da ciò che cancella. L’omesso, il rimosso, l’innominato, il non-detto costituiscono il punto di forza, di massima concentrazione e di discriminazione tra ricordo-oblio. Paradossalmente il pieno di conoscenza del passato, la sua virtualità, è anche, sempre, il suo vuoto, la sua attualità. Soltanto allo stato virtuale i ricordi, che esistono in sé, si “conservano” sul piano ontologico, ma non sempre si attualizzano su quello psicologico. La coesistenza bergsoniana delle dimensioni del tempo (o dei tempi) esige anche la coesistenza e l’interazione di memoria e oblio. La potenza di oblio-memoria trascrive nella “scrittura” gli eventi sacrificandone migliaia in nome di un singolo, di una singolarità, di una ecceità. Senza riferirci al sogno, in cui è evidente la condensazione di segni, azioni e personaggi sulla base della cancellazione di molte identità e contrassegni originari, troviamo numerosi esempi di questo processo in letteratura.54 La memoria molecolare, minoritaria ed estremamente concentrata dello scrittore non si occupa più di storie individuali e di ricordi, ma di blocchi deterritorializzati: Il divenire è un’anti-memoria. Probabilmente c’è una memoria molecolare, ma come fattore di integrazione a un sistema molare o maggioritario. Il ricordo ha sempre una funzione di riterritorializzazione. Un vettore di deterritorializzazione, invece, non è per nulla indeterminato, ma in presa diretta sui livelli molecolari e tanto più in presa quanto più è deterritorializzato: è la deterritorializzazione a far “tenere” insieme le componenti molecolari.55 La memoria “pura”, erroneamente riferita ad un soggetto psicologico, normale o patologico, esiste soltanto, in sede ontologica, come essere in sé del Tempo. La memoria liscia, proprio perché “impura”, non subisce ascesi, non disciplina i suoi slanci, non moltiplica rinunce. Non si consegna alle 54I personaggi, i luoghi e i nomi, evocati nella Recherche da Marcel Proust, costituiscono una macchina di oblio, un’esplosione di silenzio e di non-detto in cui il loro potere rappresentativo si riproduce. Lo stesso avviene in Virginia Woolf per i ricordi d’infanzia. Nella sua scrittura «si oppone un blocco d’infanzia, o un divenire-bambino, al ricordo d’infanzia: “un” bambino molecolare è prodotto […] “un” bambino coesiste con noi in una zona di vicinanza o in un blocco di divenire, su una linea di deterritorializzazione che ci trasporta entrambi – contrariamente al bambino che siamo stati, di cui ci ricordiamo o fantasmiamo, il bambino molare di cui l’adulto è l’avvenire» G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 997. 55Ivi, p. 997. 46 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 passioni tristi, ma contrae le eccitazioni del desiderio contemplandole, nel ruolo insieme di Narciso e di Atteone.56 Non si riduce all’immediatezza della bruta natura, dello strato inorganico, ma si mischia ai corpi e agli affetti, ai luoghi e ai percetti, agli ambienti e alle fisionomie in cui si individuano i flussi, li avvolge, li incorpora e si traduce in essi. Il linguaggio, da parte sua, tradisce il reale-visibile e presenta i suoi enunciati come codificazioni, in realtà prodotte da una selezione che scaturisce soltanto in rapporto ad una potenza di oblio. La stessa scrittura, secondo Blanchot, è oblio e morte. L’individuo umano non è affatto «l’arca intima e pura di tutte le cose, il rifugio in cui esse si mettono al riparo», ma colui che le immerge «in un diluvio più profondo, in cui scompaiono in modo prematuro e radicale». 57 Pensiamo alla forza di annichilimento, vero trionfo dell’oblio, della poesia di Celan. La scrittura è il silenzio. La sua lingua è la lingua straniera di chi dà la morte. Non cifra il dicibile ma lo cancella. Nessuno e niente è il suo campo. La storia di nessuno e di niente. Il non-luogo di nessuno e di niente: «noi un Nulla / fummo, siamo resteremo, fiorendo: / la rosa del Nulla, / la rosa di Nessuno».58 L’omissione della parola, la dimenticanza – il silenzio dell’esistenza, l’oblio della memoria – segnano degli scarti dell’essere. Con essi si replica il rifiuto di nominare l’essere e gli enti e di sacrificare sull’altare della rappresentazione, del racconto-storia, la velocità “infinita” del Tempo e i flussi asimmetrici della sua memoria. 56G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 101. 57M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975, p. 119. 58P. Celan, Salmo, in Poesie, Milano, Mondadori, 1999, p. 379. 47 48 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 DIMENTICARE itinerari 49 50 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Giuseppe D’Acunto Mnemosine e Lete Weinrich a proposito di oblio e memoria Nel 1997, Harald Weinrich (1927) pubblica il volume: Lethe. Kunst und Kritik des Vergessens (Lete. Arte e critica dell’oblio).1 Nella «Premessa», egli muove da una definizione dell’uomo come quell’«animale che dimentica (animal obliviscens)» (L VII). Per cui ritiene necessaria una ricognizione tesa a valorizzare non solo l’arte dell’oblio, ma anche la critica che, nel corso del tempo, ad una tale arte è stata mossa. Riguardo al primo punto, Weinrich parte dall’interrogare la «saggezza discreta» che è implicita nell’uso linguistico ordinario dei termini che afferiscono alla costellazione semantica dell’oblio. Si inizia con il latino oblivisci, un verbo che, per le sue caratteristiche strutturali, ben si addice al significato che esso veicola. In quanto deponente ha, infatti, una forma passiva e un contenuto semantico attivo, esattamente come il dimenticare «si trova in una posizione intermedia tra attività e passività» ( L 7). Ma, nella nostra lingua, accanto al verbo “obliare”, da tempo sono di uso comune anche altri due verbi: “dimenticare”, nel senso di perdere dalla mente o dalla memoria, e “scordare”, nel senso di perdere dal cuore. Per cui, colpisce come, 1 Tr. it. di F. Rigotti, il Mulino, Bologna 1999. D’ora in poi, le citazioni tratte da questa opera saranno inserite direttamente nel testo, con indicazione della pagina, preceduta dalla sigla L. Iniziamo ricordando anche che una bibliografia completa della produzione scientifica di Weinrich, dagli inizi (1956) fino al 2006, dove sono elencati ben 308 titoli, si trova nel volume che comprende la sua Lectio magistralis, tenuta presso l’Università di Cagliari, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Lingue e Letterature Moderne Euroamericane: Quante lingue per l’Europa?, a cura di F. Ortu, Cagliari, CUEC, 2006, pp. 37-95. 51 nella lingua italiana, in particolare, «le espressioni […] per oblio siano illuminate da una luce negativa».2 Una differente prospettiva presentano, invece, le lingue germaniche. In inglese, ad esempio, (to) forget è composto da get, ricevere, e dal prefisso for-, con cui si produce una conversione del movimento verbale “da” nel movimento, opposto, “verso”. Abbiamo così il significato di «“ricever via (qualcosa)” nel senso di allontanare», il quale è «già quasi una definizione di oblio» (L 9). Costruzione, questa, la quale, in modo meno evidente, sta alla base anche del verbo tedesco vergessen [= Weg-(be)kommen]. Il termine “dimenticare” tende, inoltre, ad essere frequentemente associato ad espressioni modali, per cui si viene a produrre un autentico gioco di incastro nella lingua, nel senso che la negazione lessicale della memoria, rappresentata dall’oblio, può essere raddoppiata da una seconda negazione che produce un significato, questa volta, affermativo.3 Passando a prendere in considerazione la metaforica dell’oblio, Weinrich nota che essa è strettamente imparentata con quella della memoria. Nel senso che, laddove la seconda sta per un paesaggio rigoglioso naturale, il primo sta, invece, per un tratto desertico «in cui le cose da dimenticare vengono soffiate via dal vento» (L 11). Oppure, laddove la memoria si è data, tradizionalmente, come referente l’immagine del libro, l’oblio si è configurato, invece, come una lacuna nel testo, un vuoto che va sì riempito, 2 Weinrich ha delucidato i significati che i termini italiani mente e memoria rivestono in Dante, dove ricoprono due campi semantici ben distinti l’uno dall’altro, nel suo La memoria di Dante, Firenze, Accademia della Crusca, 1994, pp. 9-10. Sotto lo stesso titolo, questo testo è stato poi ripreso in H. Weinrich, Il polso del tempo, a cura di F. Bertoni, tr. it. di F. Bertoni, D. Giglioli, D. Meneghelli, C. S. Nobili, F. Vittorini, F. Cilia e A. Zagatti, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 23-45. 3 Circa il fatto che la linguistica, fino ad oggi, si è occupata poco delle strategie della negazione, all’interno del discorso, si veda anche H. Weinrich, Lingua e linguaggio nei testi, tr. it. di E. Bolla, Milano, Feltrinelli, 1988. Qui leggiamo che bisognerebbe cercare di rimediare ad una tale carenza, «tramite l’immissione [nella linguistica] di più logica e forse anche tramite una maggiore severità nella formalizzazione» (p. 81). 52 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 ma che, al tempo stesso, «rende enigmatico e interessante proprio il testo lacunoso» (L 13). Con l’evoluzione della funzione dello scrivere, si sono modificate poi anche le metaforiche della memoria e dell’oblio. Dimenticare qualcosa di scritto sulla carta è diventato sinonimo di cancellato o, se era scritto su una lavagna, di spazzato via con un colpo di spugna. L’«Introduzione» al volume si chiude con una ricognizione genealogica della figura dell’oblio nella mitologia greca. Lete, divinità femminile che fa coppia oppositiva con Mnemosine, dea della memoria e madre delle Muse, nasce dalla stirpe della Notte e ha per madre Eris: la Discordia. Ma Lete è anche il nome di un fiume degli Inferi, la cui acqua, se bevuta, dispensa dimenticanza alle anime dei defunti, liberandole dalla loro precedente esistenza, nonché facendole rinascere in un corpo nuovo. Naturalmente, ciò che qui non va perduta è la connessione fra l’oblio e l’elemento liquido dell’acqua. Il volume si articola, da questo punto in poi, in nove capitoli, il primo dei quali («Oblio mortale e immortale») parte da una ricognizione dell’atto di nascita della mnemotecnica, fatta risalire da Cicerone ( De Oratore, Libri II, 357 e III, 160) al poeta lirico greco Simonide di Ceo. L’espediente utilizzato da quest’ultimo sarebbe dato da una spazializzazione topica della memoria, pensata come una costellazione fissa strutturata in “luoghi” ( topoi, loci) che ospitano contenuti convertiti in immagini, le quali possono essere rapidamente percorse nel pensiero, ogni volta che qualcosa deve essere richiamato a mente. Qui, «tutto ciò che deve essere ricordato ha una sua precisa allocazione. Solo l’oblio non vi trova posto» (L 21).4 Ma le fonti ci raccontano anche un altro aneddoto che, avendo di nuovo per protagonista Simonide, finisce per stringere un nesso molto stretto fra oblio e memoria. Mentre il poeta avrebbe chiesto al politico Temistocle se era 4 Sulla spazializzazione topica della memoria, si veda anche H. Weinrich, Il polso del tempo, cit., pp. 247-256. 53 interessato ad apprendere un’arte della memoria (ars memoriae), il secondo gli avrebbe risposto che egli non era interessato tanto a quest’ultima, quanto ad apprendere un’arte dell’oblio (ars oblivionis). Alla ricerca dello statuto di questa seconda arte, Weinrich ne individua le prime tracce nell’Odissea di Omero, laddove Ulisse, narrando ai Feaci le sue peregrinazioni per mare (canti IX-XII), riferisce di tre episodi al cui centro c’è il tema dell’oblio: l’approdo alla terra dei Lotofagi, nonché le sue permanenze temporanee presso la maga Circe e presso la ninfa Calipso. Un altro esempio in cui l’arte della memoria è messa al servizio dell’arte dell’oblio ci è dato poi da Ovidio, il quale, nel suo poema didattico Remedia amoris, elargendo consigli per coloro che soffrono di mal d’amore, stabilisce il precetto secondo cui, per dimenticare l’amata, la prima cosa da fare è richiamare alla memoria, il più chiaramente possibile, tutti i suoi difetti, nonché tutte le pene che ci ha procurato. E arriviamo così alla teoria della reminiscenza di Platone, per il quale nascita significa ipso facto oblio. Oblio però non totale, in quanto, grazie al metodo maieutico, è possibile richiamare alla memoria le conoscenze apprese nella nostra esistenza prenatale. Decisivo, in una tale teoria, è il paragone dell’anima, quando prende dimora in un corpo, con una tavoletta di cera su cui non è incisa nessuna impronta. Paragone cui va aggiunta anche la critica del filosofo nei confronti della scrittura, capace di prestare soccorso alla memoria solo dall’esterno. Dopo Platone, chi riflette sullo stretto intreccio fra oblio e memoria è Agostino. Anzi, è prima di tutto la sua vita a fornire una grande testimonianza in tal senso: vita divisa fra una prima metà, che precede la conversione, segnata dalla dimenticanza di Dio, e una seconda, successiva ad essa, segnata dal ricordo devoto di Lui. Sul modello della mnemotecnica antica, la memoria è configurata nelle Confessioni (Libro X) come un paesaggio, fatto 54 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 di interminabili spazi, fra le cui componenti c’è persino l’oblio. È il luogo in cui Dio stesso ha preso dimora, anche nel peccatore, e dove attende il giorno in cui quest’ultimo, convertendosi, ritroverà la strada che lo riporta a Lui. Si è parlato della mnemotecnica. Ebbene, non sono mancate le possibilità di leggere proprio in questa chiave la Divina Commedia di Dante, nel senso che le anime dei morti, in cui il poeta si imbatte nel suo viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba, possono essere viste come immagini mnemoniche che egli si imprime nella memoria, insieme ai luoghi che le ospitano, così che, quando, una volta ritornato fra i vivi, scriverà il suo poema, potrà rievocarle nell’ordine esatto in cui le ha incontrate.5 Dante fa inoltre sua la corrispondenza agostiniana fra le figure della Trinità e la triade delle facoltà dell’animo: memoria/intelletto/volontà. Ora, poiché Dio Padre, che rappresenta la memoria, è anche il creatore del mondo, ecco che quest’ultimo ha il suo essere proprio nel venire conservato da essa, per cui la Commedia può anche dirsi come un’indagine poetica, condotta dalla memoria umana, che ha per oggetto la memoria divina. È così che, nel poema in questione, la memoria è onnipresente, anche nel senso che essa, in tutte le anime incontrate, si conserva come un possesso che rimane sempre inalterato.6 Fra i tre regni descritti da Dante, Weinrich ritiene che, dal punto di vista della memoria, il più interessante sia senz’altro il Purgatorio. Rispetto agli altri due regni, qui le anime penitenti hanno un destino non ancora completamente segnato, tant’è che il tempo che vi devono passare non è stabilito una volta 5 Circa il fatto che Dante, nel presentare i dannati, penitenti o salvati, nei tre regni dell’al di là, si attiene sempre alla «regola della localizzazione» dell’ars memoriae classica, giacché li “colloca” tutti entro spazi determinati cui essi sono consegnati, così che «ogni anima […] si definisce per il luogo […] assegnatole nell’oltretomba», cfr. H. Weinrich, La memoria di Dante, cit., p. 15. 6 Scrive Weinrich che, nell’interazione fra le anime dell’altro mondo e Dante, queste «hanno buona memoria per tutti gli eventi della loro vita, cosicché si manifestano capaci di raccontarli fedelmente al loro interlocutore». Egli, «da parte sua, si fregia ugualmente di una memoria “finissima”, non solo per gli eventi della sua propria vita, ma anche per i racconti uditi dalle anime incontrate nell’altro mondo. In questo modo, la memoria è onnipresente in tutte le interazioni della Divina Commedia». Cfr. ivi, p. 16. 55 per tutte, per cui la grazia divina può sempre intervenire. 7 Per accelerare il loro accesso al Paradiso, decisive sono le preghiere dei vivi o, in altre parole, il fatto che questi ultimi devono praticare sempre la commemoratio mortuorum. Si stabilisce così una vera e propria catena di intercessioni che va dal penitente, attraverso Dante, cui si chiede di intervenire presso i vivi, a questi ultimi, ai santi e, finalmente, a Dio stesso: catena di cui nessun passaggio deve mai cedere il passo all’oblio.8 Proprio per vincere il pericolo dell’oblio, che incombe sempre sulla nostra mente, nella Commedia si trovano ben due invocazioni alle Muse, all’inizio della discesa all’Inferno e alla fine, Muse che aiutano la memoria, proprio promuovendo le arti che sono di loro competenza. Dopo Dante si passa, nel II capitolo («L’ingegno smemorato»), all’Umanesimo e al fondatore della pedagogia moderna: Juan Luis Vives. In diversi scritti sulle arti liberali, egli si occupa di incrementare lo sviluppo artificiale della memoria, fornendo consigli pratici atti a promuovere una vera e propria «dietetica mnemotecnica» (L 61), al fine di sradicare del tutto la dimenticanza nella vita del discente. In Montaigne, all’opposto, cade completamente in discredito il precetto di imparare a memoria e comincia a prendere vita l’idea secondo cui il vero sapere è quello non formato sui libri, ma derivato dall’esperienza, per cui, più che alla memoria verborum, si invita a prestare attenzione alla memoria rerum. 7 Nella voce Zeit in der Literatur, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel, vol. XII, Basel, Schwabe, 2004, coll. 1254-1258, Weinrich, ribadendo questo motivo, afferma quanto segue: «A differenza dei luoghi dell’Inferno e del Paradiso, il Purgatorio è, per Dante, interamente sottomesso ad un computo divino del tempo» (col. 1257). In tal senso, il Purgatorio è il regno più interessante fra i tre descritti da Dante, proprio perché segnerebbe la conquista del «tempo degli uomini», collocato «tra la duplice eternità, dell’Inferno da una parte e del Paradiso celeste dall’altra». Nel Purgatorio, la pena stessa «va intesa […] anche quantitativamente», ossia «va misurata in termini temporali», per cui la giustizia divina è qui «soprattutto una giustizia temporale». Cfr. H. Weinrich, Il tempo stringe. Arte ed economia della vita a termine, tr. it. di F. Rigotti, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 90 e 92. 8 Scrive Weinrich: «tutti gli anelli di questa catena dipendono dal buon funzionamento della memoria. Se solo un anello si rompe, […] tutta la catena di preghiere si spezza per sempre». Cfr. H. Weinrich, La memoria di Dante, cit., p. 22. 56 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Una contrapposizione che ricorre frequentemente in età moderna è quella fra ingegno (ingenium, esprit, agudeza, Witz)9 o intelletto e memoria. La si ritrova in J. Huarte, in G. de Cordemoy, in C.-A. Helvétius e, infine, anche in Kant. Nel III capitolo («Oblio illuminato») si muove dal fatto che oblio e memoria sono al centro anche del nuovo metodo prospettato da Cartesio. Dopo una prima fase in cui sono obliati sistematicamente tutti i contenuti che si sono annidati in noi contro la nostra stessa volontà, c’è una seconda in cui interviene un «ri-cordare metodologicamente controllato» (L 89). Prende inizio qui un discredito nei confronti della memoria, che – nell’Illuminismo – finirà per collegarla, piuttosto che al giudizio, al pregiudizio. Nel Dictionnaire philosophique (1764) di Voltaire, ad esempio, la voce memoria (come, del resto, la voce oblio) non compare affatto. E, non diversamente, Rousseau ritiene che, nella prassi educativa della sua epoca, la memoria giochi un ruolo decisamente esagerato. Kant poi non elabora una vera e propria teoria mnemonica, ma, nelle sue lezioni di pedagogia e di antropologia, tratta della memoria e dell’oblio solo dal punto di vista pratico. Nelle seconde, distingue la memoria in meccanica, ingegnosa e giudiziosa: del tutto priva di valore è, la prima, problematica, la seconda invece è razionale, la terza infine è l’unica in grado di promuovere l’istanza critica di pensare autonomamente. Sembra così che egli «si trovi più a suo agio con l’oblio che con la memoria» (L 104), perché solo chi 9 Sull’ingegno, di Weinrich si veda anche la voce Ingenium, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. IV, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1976, coll. 360-3. Significativamente, il primo vol. pubblicato da Weinrich è dedicato proprio all’ingegno, in connessione con la figura di Don Chisciotte: cfr. H. Weinrich, Das ingenium Don Quijotes. Ein Beitrag zur literarischen Charakterkunde, Münster, Aschendorff, 1956. Sulla figura dell’ingenioso hidalgo, Weinrich ritorna anche in Id., Il polso del tempo, cit., pp. 89-105. Qui leggiamo che Cervantes, descrivendo con ironia Don Chisciotte, lo fa proprio perché quest’ultimo è «totalmente privo di ironia» (p. 95). Infine, un riferimento a Don Chisciotte si trova anche in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. IV, cit., coll. 577-582, in part. 579. 57 dimentica, non assecondando alcuna opinione errata, può dar prova di essere davvero illuminato. Nel IV capitolo («Rischi della memoria, rischi dell’oblio»), si riferisce di un caso, raccontato dal neuropsichiatra russo A.R. Lurija nel suo volume Un piccolo libro, una grande memoria (1965), relativo ad uno mnemonista: un uomo che non poteva dimenticare, che soffriva di ipermnesia, ossia di un eccesso patologico di memoria. Egli aveva difficoltà a pensare per concetti, in quanto, per formare questi ultimi, bisogna lasciar cadere tutte le proprietà particolari dei singoli individui. Sorge così la domanda: in che modo quest’uomo può riuscire a dimenticare? Lurija conia, al riguardo, il termine «letotecnica», ossia una strategia per favorire l’oblio, come, ad esempio, scrivere su carta ciò che si intende dimenticare. In tal modo, dopo Platone, la scrittura è accusata, ancora una volta, di essere nemica della memoria naturale. Un altro esempio di ipermnesia è fornito da Borges con il suo racconto Funes, o della memoria (1942). Qui il protagonista deve far ricorso anch’egli a strategie dell’oblio, per riuscire ad addormentarsi, visto che, assecondando questo bisogno, finirebbe per perdere qualsiasi possibilità di presa sul mondo. Nel V capitolo («Nuova forza sorta dall’arte dell’oblio»), le figure dell’oblio studiate sono quelle corrispondenti ai nomi di Goethe, Nietzsche e Freud. Nel Faust del primo, chi rappresenta l’arte dell’oblio è Mefistotele, il quale, in diverse situazioni, la mette a punto sperimentandola proprio su Faust.10 In Nietzsche l’oblio si configura come quel principio che apre la strada al nuovo. Il riferimento è, ovviamente, alla seconda delle sue Considerazioni inattuali: Dell’utilità e del danno della storia per la vita (1873), dove il filosofo fa espressamente appello alla forza e all’arte del poter dimenticare. Si chiede, a questo punto, Weinrich: «Che cosa vuole dimenticare Nietzsche, e 10Su questo punto, si veda anche H. Weinrich, Faust’s Forgetting, in «Modern Language Quaterly», 1994, n. 3, pp. 281-295. 58 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 dimenticarlo ad arte? La risposta sommaria è: la storia ( Historie)» (L 175), ossia ciò che, gravando con il suo peso opprimente sulla coscienza dello storico, fa sì che quest’ultimo smarrisca quella capacità di agire per la quale è richiesta, appunto, la dote dell’oblio. Ma la seconda delle Considerazioni inattuali non è l’ultima parola di Nietzsche sull’arte del dimenticare. Torna sul tema anche nella Genealogia della morale (1887), dove celebra nella dimenticanza attiva la forma più alta e vigorosa di salute.11 Significativamente, proprio da queste riflessioni «si svilupperà in seguito un brano importante del pensiero utopico» (L 178). Freud «comincia a occuparsi del fenomeno dell’oblio in relazione alla sintomatologia dei lapsus e degli atti mancati» ( L 181). Quando poi scopre l’inconscio, lo intende come un deposito in cui giace non un che di semplicemente non-conosciuto, ma tutto ciò che è stato dimenticato. Con lo psicoanalista viennese, l’oblio perde così la sua innocenza, in quanto chi dimentica o vuole dimenticare qualcosa è costretto, d’ora in poi, a giustificarsi. Il VI capitolo («Poesia dell’oblio») prende in considerazione due fra i massimi poeti nell’arco che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento: Mallarmé e Valéry, nonché lo scrittore a cui dobbiamo, forse, il più grande affresco letterario dedicato alla memoria: Proust. Il primo dei tre si accosta al tema dell’oblio, prima che nella sua produzione poetica, nella sua riflessione teorica. Nella prefazione, del 1885, al Trattato del verbo del collega R. Ghil, l’oblio è elevato a principio grazie a cui il linguaggio poetico consegna al regno dell’assenza, ossia alla purezza astratta della visione mentale, la cosa presente nominata. È questo un principio che Mallarmé segue pure nella sua poesia, per cui si può dire essa si caratterizza 11Sull’arte e il potere del dimenticare in Nietzsche, cfr. anche H. Weinrich, Nietzsche’s art and power of forgetting, in «Social Science Information», 1997, n. 1, pp. 7-14. 59 per il fatto che il poeta, estraendo dall’oblio ciò che manca nelle cose, lo lascia risplendere limpidamente nelle parole.12 Non diversamente da Mallarmé, in Valéry, il tema dell’oblio appartiene alla dimensione più profonda della poesia, nonché si trova sviluppato anche nella sua riflessione teorica. Al riguardo, suo intento – mai però realizzato – era di elaborare una compiuta teoria della memoria, tracciando con nettezza i confini che separano il ricordo dall’oblio. Ciò che egli ha fatto è, però, di aver distinto fra due tipi di memoria: una memoria grezza, che trattiene con fedeltà assoluta tutto ciò che è accaduto, e una memoria intelligente, selettiva. Ora, lo strumento di cui noi ci serviamo per operare una tale selezione è proprio l’oblio, il quale è distinto, a sua volta, in un qualcosa che comporta una pura perdita, oppure che può aiutare il pensiero a giudicare. In Proust, si può trovare poi una vera e propria ontologia della memoria, in quanto egli è convinto che la realtà inizia a prendere forma proprio nella sua sfera. Famosa è la sua distinzione fra memoria volontaria o dell’intelligenza e memoria involontaria. La prima, a differenza della seconda, è inutile per la letteratura, appunto perché non ci fornisce nessuna vera immagine del passato. Nello scrittore francese, Weinrich rinviene così ciò che egli chiama una «mnemopoetica», che presenta caratteristiche «molto diverse da quelle della mnemotecnica» (L 207), la quale, stando ai parametri del primo, sarebbe da ricondurre, piuttosto, sotto il regime della memoria volontaria.13 Nel VII capitolo («Diritto all’oblio, pace dall’oblio?»), il primo personaggio letterario oggetto di interesse è il protagonista del romanzo di Pirandello Il fu 12Alcune riflessioni di taglio linguistico sulla lirica moderna, in riferimento anche a Mallarmé, sono condotte in H. Weinrich, Literatur für Leser. Essays und Aufsätze zur Literaturwissenschaft, München, dtv, 19862, pp. 132-48. 1313 Weinrich chiama la «mnemopoetica» di Proust anche «mnemologia». Quest’ultima sarebbe la «base teorica» della Recherche e si qualifica per il fatto che i sensi non hanno, in essa, «una portata spaziale [come nel caso della vista], bensì temporale». Cfr. H. Weinrich, Il senso sensuale della memoria, in Aa. Vv., Il senso della memoria, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2003, pp. 135-142, in part. p. 139. 60 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Mattia Pascal (1904): «uomo in stato di oblio», come viene definito. Naturale si impone il parallelismo fra un tale personaggio e il Peter Schlemihl di Chamisso: «uomo senz’ombra», il secondo, e «ombra senz’uomo» ( L 218) invece il primo. Le differenze stanno nel fatto che lo scrittore italiano, che scrive quasi un secolo dopo lo scrittore tedesco, accentua, rispetto a quest’ultimo, gli aspetti sociali del tema dell’oblio e della memoria, presentando il suo personaggio come qualcuno che non può ricevere nessuna soddisfazione quanto alla sua onorabilità pubblica. Altri esempi letterari presi in considerazione sono dati dalle storie di amnesia raccontate da Giraudoux, in una versione prima romanzata (Sigfried et le Limousin, 1922) e poi drammatica (Siegfried, 1928), da Anouilh (Il viaggiatore senza bagaglio, 1936),14 nonché dalla poesia di Celan Vigore e dolore (1967/68), dove si parla di una ferita che, poiché non si cicatrizza, mai potrà essere dimenticata: la Shoah.15 Proprio a questo tema è dedicato l’VIII capitolo («Auschwitz e l’oblio impossibile»). Qui si parla di letteratura dell’Olocausto, nelle figure di Elie Wiesel, che inizia a scrivere, dieci anni dopo la liberazione, per il voto di non dimenticare, da lui fatto la prima notte passata ad Auschwitz, di Primo Levi, secondo cui, nella vita del lager, «il prigioniero deve fare un uso parsimonioso persino della memoria» (L 266) e di Jorge Semprún. Quest’ultimo fu sì detenuto in un campo di concentramento, ma era un repubblicano spagnolo, non un ebreo. È autore di un libro di testimonianza dal titolo La scrittura o la vita (1994), che allude al fatto che egli si decide a 14Agli esempi letterari, appena visti, costituiti dai nomi di Pirandello, Giraudoux e Anouilh, Weinrich si riferisce anche al termine della sua voce Vergessen, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel, vol. XI, Basel, Schwabe, 2001, coll. 671-676, dove afferma che essi risentono chiaramente dell’influsso delle ricerche mediche sull’amnesia, condotte negli anni del primo dopoguerra. 15Su Celan cfr. anche H. Weinrich, Kontrationen. Paul Celans Lyrik und ihre Atemwende, in Aa. Vv., Über Paul Celan, a cura di D. Meinecke, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970, pp. 214-225. 61 scrivere cinquant’anni dopo i fatti che racconta, optando per una vita che ricorda piuttosto che per un oblio liberatorio. Il capitolo si chiude con un’analisi del romanzo Estinzione. Uno sfacelo (1986) di Thomas Bernhard, dove oblio e memoria si intrecciano fra loro, a tal punto che il narratore non solo può ricordare, con la massima chiarezza, un trauma da lui subito in passato, ma può «anche “estinguerlo” con tutta la forza dell’oblio. Il che si verifica scrivendo i ricordi proprio in questo libro dal titolo Estinzione» (L 282). L’ultimo capitolo, il IX («“Salvare in memoria”, ovvero dimenticare»), dove si fa riferimento al titolo di una poesia di H.M. Enzensberger, si apre con l’analisi del racconto Il cestinatore (1957) di Heinrich Böll. Qui il protagonista eccelle nell’arte del “cestinare”, la quale altro non è che una variante di quella dell’oblio, attività che egli conduce, in segreto, nelle cantine dell’archivio presso cui lavora, allusione possibile ai luoghi sotterranei della memoria. Archivio fa da pendant con biblioteca. Direttore di biblioteca, nella vita, è stato Borges, non solo, è anche una metafora che ricorre frequentemente nella sua opera, si pensi, ad esempio, a La biblioteca di Babele (1941). Nello scrittore argentino, oblio e memoria sono così strettamente legati che il primo è configurato come il luogo sotterraneo della seconda, la faccia segreta di questa. Per non dire poi che quando, da anziano, Borges divenne cieco, lodando i doni dell’oblio, egli viveva «solo leggendo “ancora nella memoria”» (L 293). La fine del capitolo è costituita da un paragrafo che funge da epilogo al libro. Raccogliendo le fila dell’argomentazione svolta fin qui, si ribadisce che, se la scienza antica era fondata sull’alleanza fra la scienza stessa e la memoria, oggi il carico schiacciante di informazioni con cui veniamo a contatto in qualsiasi disciplina fa sì che nessuna di esse possa «più essere 62 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 praticata senza una precisa componente di oblio» (L 296). Ogni ricercatore dovrebbe essere in grado così di dominare l’arte corrispondente, «se non vuole che la sua attività scientifica venga paralizzata da un’iperinformazione cronica», fenomeno che Weinrich definisce, appunto, come «oblivionismo della ricerca scientifica» (L 297).16 In questo, dal punto di vista metodologico, egli vede «una sinossi dell’insegnamento di Kuhn e Popper», ossia che l’impresa scientifica, conscia delle condizioni della sua memoria, progredendo «da una spinta all’oblio all’altra», perviene così «verso nuove conoscenze, che in caso fortunato saranno anche le migliori» ( L 300). Tale istanza deve farsi valere, naturalmente, non solo nelle scienze esatte, ma anche in quelle umane e sociali. La difficoltà sta proprio nel farsi artefici di un nuovo, «moderato politeismo» che, «a dispetto del principio di non contraddizione», tenga insieme il culto di due opposte divinità: «Mnemosine e Lete» (L 301).17 16Weinrich ribadisce questo motivo, secondo cui «di fronte alla memoria tecnica ed elettronica artificiale [è] necessaria un’arte dell’oblio», anche nell’intervista da lui rilasciata a U.M. Olivieri, Arte della memoria, arte dell’oblio, in «Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura», 2001, n. 1, pp. 23-30. Oggi, noi dobbiamo non solo «archiviare informazioni di cui non si conosce bene l’uso», ma anche imparare ad apprendere «l’arte di rifiutare e di scegliere cosa conservare»: «un’operazione necessaria per ritrovare la tranquillità della nostra anima nell’epoca moderna e postmoderna», ivi, p. 26. 17Al riguardo, ricordiamo che, per Weinrich, la metaforicità essenziale del linguaggio si dà quando, sospendendo il paradigma binario imposto dal principio di non contraddizione e riabilitando il “terzo escluso”, noi apriamo così il linguaggio stesso all’orizzonte della multivocità semantica. Cfr. H. Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, a cura di L. Ritter Santini, tr. it. di P. Barbon, I. Battafarano e L. Ritter Santini, Bologna, il Mulino, 1976, in part. il cap. V: «Metafora e contraddizione», pp. 99-108. Qui, leggiamo: «Le metafore sono […] una forma di enunciato contraddittorio al di là dei rigidi confini dei paradigmi binari. Con la regola del terzo escluso la logica si protegge perciò da problemi indesiderati» (p. 108). Il che è proprio ciò cui intende alludere il sottotitolo stesso del presente fascicolo, quando stabilisce il principio secondo cui si dovrebbe «far memoria dell’oblio», nonché «ricordarsi di dimenticare». Sulla metafora si veda, infine, anche la voce H. Weinrich, Metapher, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. V, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1980, coll. 1179-1186. 63 64 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Antonino Infranca Dimenticare Palermo Si può dimenticare Palermo? La domanda appare sicuramente assurda a chi non è palermitano, e anche a un siciliano che non è mai vissuto a Palermo risulta eccessiva. Una cosa è certa: l’autrice di quell’incredibile libro che è Dimenticare Palermo (tr. it. L. Magrini, Milano, Bompiani, 1989, II ed., pp. 366), cioè Edmonde Charles-Roux, non può dimenticare Palermo, non perché la ricordi in forma indelebile, ma perché non l’hai mai conosciuta, eppure ha scritto forse il libro più evocativo su Palermo, ha trasformato la bellissima e struggente capitale della Sicilia in un luogo della memoria, in una sorta di struttura dell’anima dei personaggi del suo romanzo, che vi sono vissuti. Come abbia fatto a narrare una città come una struttura dell’anima, pur non essendoci mai stata, è il segreto dell’arte di Edmonde Charles-Roux. Ma appunto l’ha narrata, perché non poteva descriverla, non avendola mai vista, l’ha in pratica ricreata, sapendone cogliere quel carattere decadente, struggente, ma invasivo dell’anima, quel carattere che riempie lo spirito e non solo gli occhi, perché a Palermo gli occhi, e non solo gli occhi, ma tutti i sensi, sono riempiti di una spiritualità eccessiva. Ecco il senso eccessivo di quella domanda: si può dimenticare Palermo? Se vi si è stati, è difficile dimenticarla; se non vi si è stati è un’arte inventarla. Ma inventarla significa cercarla, cercarla dentro se stessi. Come è noto da quel romanzo, nel 1990, Francesco Rosi trasse un film, a 24 anni dalla pubblicazione del libro. Da quel grande regista che è, ne ha sconvolto la trama, ha fatto sparire l’io narrante del romanzo, ha dato più rilevanza a uno dei protagonisti, Carmine Bonavia, ma ha saputo narrare Palermo con le immagini del film, immagini spesso commoventi, perché riprendevano monumenti importanti della città dal basso, quindi stagliandone alcuni dettagli più elevati sul cielo della città, uno dei cieli più belli del mondo, perché di un azzurro, appunto, celestiale. Una delle riprese, poi, raggiunge il vertice della perfezione filmica: una lunga ripresa su un pavimento a scacchi, poi un balcone, una spiaggia punteggiata di sassi, e 65 infine il mare, dello stesso colore del cielo, cielo e mare si confondono nello stesso celeste, sono la stessa cosa, un colore. Il film riprende praticamente la terza parte del romanzo, vi aggiunge elementi non presenti nella narrazione, come la legalizzazione della droga avanzata da Carmine Bonavia nella sua campagna elettorale, e personaggi come il principe che vive rinchiuso nell’Hotel delle Palme di Palermo, interpretato superbamente da Vittorio Gassman. In verità questo personaggio è l’unico personaggio effettivamente esistito. Si tratta del barone Giuseppe Di Stefano, che per aver compiuto uno sgarro all’Onorata Società, fu condannato all’esilio nel ricco albergo palermitano e non ne uscì, se non con i piedi davanti, cioè in una bara. Visse per più di cinquant’anni nell’Hotel più lussuoso di Palermo e se ne allontanò solo in incognito e molto raramente. Nel film assume una funzione speciale di memoria corporea dell’esistenza della mafia che nel romanzo è appena citata, visto che se ne nota la terribile esistenza soltanto indirettamente al momento dell’uccisione di Carmine Bonavia, che negli Stati Uniti aveva sempre cercato di evitarla e, appunto, per questa misura di prudenza sarà ucciso a Palermo. Nel romanzo, invece, i colori e le immagini non si presentano così imperiosamente, anzi ad un lettore attento non sfugge il fatto che Palermo non è mai descritta precisamente come avrebbe fatto chiunque l’avesse conosciuta effettivamente. Palermo è uno stato d’animo, la dimensione psicologica della memoria, di una memoria che si vorrebbe dimenticare, ma che rimane radicata nell’anima come le cozze rimanevano aggrappate agli scogli, come ricorda una felice immagine di Verga a proposito dei siciliani. Nel film si guarda a Palermo con meraviglia e stupore per la sua stranezza, cioè con gli occhi del personaggio della moglie di Carmine Bonavia – Carrie nel film, Babs nel romanzo. Nel romanzo soltanto i personaggi siciliani o di origine siciliana sono ovviamente portatori di questa memoria scomoda, mentre i personaggi statunitensi sono portatori di una cultura dell’effimero e della superficialità, della banalità contro la verità: «Succede spesso che la banalità espressa a voce alta finisca col soffocare così la verità che si tiene segreta» (p. 15). Per essere vera questa situazione richiede che chi esprime la banalità a voce alta sia un essere umano effimero e superficiale, oppure un uomo di potere, cioè deve essere agli estremi della scala sociale, chi è in mezzo è costretto invece a sostenere il potere o a esserne schiacciato, come 66 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 sarà il caso di Carmine Bonavia, o ad aiutare chi è in basso, come farà Gianna Meri e, soprattutto, suo padre, medico di tutti, ricchi e poveri, che morirà in guerra e non se ne ritroverà più il corpo, stesso destino del fidanzato di Gianna, Antonio: di loro sopravvive soltanto il ricordo di Gianna. Logica conseguenza è che «la verità non è una, muta secondo la bocca che la esprime» (p. 32). I personaggi statunitensi, non hanno queste ricchezze di dimensioni, sono monodimensionali, sono interamente tesi al successo e alla ricchezza – «È il dollaro la vostra cancrena» (p. 101) dirà uno dei personaggi principali del romanzo rivolto agli statunitensi. Il romanzo ha, quindi, uno spessore antropologico molto forte, ma è anche altrettanto psicologicamente forte. In alcune parti del romanzo c’è un Io narrante, Gianna Meri – che nel film è interpretata da Carolina Rosi, la figlia del regista, a cui cambiano il cognome in Magnardi –, combattuta tra la memoria e la dimenticanza: «Vivevo in agguato delle sorprese che avrebbero saputo rendere infedele la mia memoria» (p. 14). Questa memoria è ingombrante da un lato, ma struggente da un altro, è difficile dimenticarla, piacevole conservarla. Sono gli elementi di una psicologia degli opposti, che spesso si ritrova nell’animo dei siciliani, non perché siciliani, ma perché esclusi o dominati da un potere assoluto che è invisibile, ma potentissimo, che vive intorno a loro e dentro di loro. Carmine Bonavia ne farà mortale esperienza personale, come l’aveva fatta il barone Di Stefano, che accettò la condanna all’esilio in patria a cui Cosa Nostra lo aveva sottoposto. In un mondo – perché la Sicilia è un mondo – così dominato dal potere, l’unica certezza che rimane è quell’immensa menzogna che è la vita (cfr. p. 153), constata il barone di D., altro personaggio del romanzo, a cui è sottratta la moglie e la gioia della vita matrimoniale, nonché la passione per la musica, da Enrico Caruso, il famoso tenore. La storia di questa conquista sentimentale è inventata, l’unico dato certo è il fallimento da tenore di Caruso nella natia Napoli, di cui si narra rapidamente nel romanzo. Altro fallimento da tenore di Caruso, di cui si parla fugacemente nel romanzo, fu Trapani, e chi scrive si ricorda di quanto abbia ascoltato questa narrazione, nella propria infanzia trapanese, come una sorta di mito, un’altra forma di memoria collettiva di una disgrazia, di un incidente professionale. 67 Rispetto ai personaggi statunitensi, però, nei personaggi siciliani c’è una punta di orgoglio, un riconoscimento di superiorità, atteggiamento tipico di chi autocostruisce psicologicamente una situazione di superiorità a partire dalla propria inferiorità, è una forma di autodifesa della propria dignità, perché non riesce ad uscire da questo stato di minorità, per dirla alla Kant del Che cos’è l’illuminismo. Questa situazione psicologicamente è palese soprattutto in Gianna Meri, l’Io narrante siciliano, quando, riflettendo sulla propria formazione educativa in convento e su quella della sua amica Babs, osserva: «Eravamo libere, sì, lo confermo, mille volte più libere tra i nostri muri ruinanti, sotto le nostre coltri di divieti, che tutte le Babs d’America, ossessionate di riuscire, oppresse da insegnamenti ricevuti non come un arricchimento, ma come mezzo per far fuori l’asso: l’uomo» (p. 32), il maschio da sposare per avere successo sociale e scalare la gerarchia della società statunitense. Gianna sa che non ha fatto parte di una teleologia sociale preordinata e preesistente, non è stata una portatrice di valori estranianti, semmai di oppressione, ma nessuno le impediva di vivere liberamente entro l’oppressione, se veniva accettata. È la libertà che decantava la Alliata a proposito dell’harem islamico, è la riconoscenza verso il padrone che non è perfido, che rispetta i limiti del proprio dominio, è la libertà delle vittime conviventi della mafia. Nella citazione c’è un accenno allo spazio, “i muri ruinanti”, e proprio sullo spazio ci sono alcune interessanti osservazioni sulla diversa concezione dello spazio urbano e architettonico tra Sicilia e Stati Uniti, tra uno spazio carico di storia e, quindi, di memoria e uno spazio privo di questa dimensione temporale. A Palermo si puntella, cercando di conservare, tutte le vestigia del passato, fosse anche quello con minor valore artistico e architettonico, in modo che il passato sia sempre attuale, e si ricordi sempre che in quello spazio/tempo vigono leggi eterne e immodificabili; mentre a New York si distrugge, in modo che non rimanga nulla del passato, perché si possa ricostruire continuamente il presente, perché il presente sia sempre attuale, e si sia consapevoli che tutto cambia velocemente, che nessuna legge è eterna e immodificabile. Anche chi fugge da quel mondo eterno, come Alfio, il padre di Carmine Bonavia, o il barone di D., o la stessa Gianna Meri, continuano a vivere con la memoria dentro quello spazio/tempo, perché quella memoria è una forma di difesa rispetto al presente estraneo dentro al quale si vive: «Considerare il presente solo il tempo necessario per spogliarsene, evitare il 68 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 passato prossimo, aggirare l’ieri, dimenticarlo, sottrarsi alle sollecitazioni della pena, affondare sempre più lontano nel passato, incontrare il vuoto, il buco spalancato, l’oblio, credersi perduta e ritrovare come una dimora segreta, il paesaggio dell’infanzia» (p. 27). Qui il ricordo è una riserva di sicurezza, è l’infanzia trasformata in una dimensione temporale mitica in cui viveva incontrastata la serenità. In conclusione i personaggi siciliani vivono una vita bidimensionale, vivono nella vita quotidiana, o negli Stati Uniti, o in Sicilia, in mezzo agli altri, ma per loro è una vita estraniata; la vita autentica è dentro di loro non in mezzo agli altri o con gli altri, è la vita che hanno vissuto, la vita passata, che rivivono continuamente con la memoria. È una condizione psicologica che permette di vivere in mezzo alle difficoltà e non è una soluzione a una vita estraniata, è scambiata con la stessa condizione umana, come se non si potesse vivere altrimenti. C’è un forte senso di abisso interiore, alla Kierkegaard, perché si vive continuamente in confronto con l’estremo assoluto dell’essere umano, la morte. Il senso della morte è fortissimo nei personaggi siciliani del romanzo, anzi sono soltanto loro a morire; possono anche vivere, ma sono morti dentro, come il barone di D., che, tradito dalla moglie, si sceglie un esilio interno, si richiude nel suo castello di Solánto, e ne esce soltanto alla nascita del nipote, Antonio, il quale morirà in guerra, quindi il barone soffrirà un altro esilio, questa volta a New York. I siciliani vivono perennemente nella condizione di vittime, in attesa di qualche evento mortifero e definitivo e hanno adeguato la loro psicologia a questo modo di vivere. La conseguenza più forte è la totale incomprensione della psicologia monodimensionale dei personaggi statunitensi, che invece vivono sulla superficie della vita, scivolano facilmente da una situazione all’altra, non sentono il peso della vita, perché non hanno passato, né tradizioni, né valori ponderosi, sono semplici, banali, piatti. Questa situazione psicologica ha anche un corrispettivo nella lingua parlata dai siciliani, che usano il passato remoto e non il passato prossimo, come spesso avviene nell’italiano parlato, che imita in ciò l’inglese degli Stati Uniti. E poi, per chi non lo sappia, rifletta sul fatto che in siciliano sono assenti i verbi che si formano dall’infinito, quindi manca il futuro, espresso da un eterno presente (“tra 30 anni moro”, in italiano: “tra 30 anni morirò”), o ancor peggio il condizionale, espresso dal congiuntivo infinito (“su sapessi u 69 facissi”, in italiano: “se lo sapessi, lo farei”). Quindi ogni siciliano, se pensa nella propria lingua nativa, non ha futuro e non ha alcuna condizione, è totalmente libero, niente lo costringe, anche se vive in una condizione di costrizione. Chiudo queste note da lettore con un augurio: Dimenticare Palermo è un romanzo talmente bello che non si vede l’ora di dimenticarlo, per poterlo rileggere di nuovo. 70 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Andrea Bonavoglia Berlino. Topografie della memoria Veduta dall'alto di Topographie des Terrors Il Monumento agli ebrei d'Europa assassinati di Peter Eisenman, inaugurato a Berlino nella primavera del 2005 in occasione del 60° anniversario dell'Olocausto e della fine della seconda guerra mondiale, venne ad affiancarsi idealmente all'altra grande iniziativa realizzata nella capitale tedesca, la costruzione nel 1998 del nuovo Museo Ebraico, progettato da Daniel Libeskind. In seguito, nel 2010, sulla base di un progetto nato nel 1987 le cui primarie intenzioni erano la catalogazione, la documentazione e la pubblicazione di ogni atto del regime hitleriano nei suoi dodici anni di vita, il Senato di Berlino ha aperto una terza struttura fisica legata alla memoria, il Museo Topographie des Terrors , sulla Niederkirchnerstraße 8, là dove si trovavano la sede centrale della Gestapo e il comando delle SS. Le storie progettuali ed esecutive di questi tre monumenti sono complesse, tra concorsi conclusi e poi riaperti, costi sempre troppo alti, progettisti non confermati o 71 divisi tra loro, ma i risultati sono straordinari e sono tuttora premiati da un numero di visitatori altissimo. La capitale tedesca sembra attirare folle di turisti soprattutto desiderosi di vedere e ricordare le tracce del Muro, gli orrori del nazismo, e le nuove grandiose architetture amministrative: uno strano connubio. In verità, la Germania ha scelto di ricordare, e ricordare vuol dire soprattutto non dimenticare. Gli orrori del nazismo sono presenti nella coscienza del popolo tedesco, che cerca ancora oggi di capire che cosa ha potuto permettere lo svolgersi di un simile atroce percorso, una topografia, appunto, del terrore e dell'omicidio di massa. La capitale oggi sfavillante e riunificata rivela ed espone le cicatrici della sua divisione - sfregi curati ma sempre in vista - e non nasconde ciò che fu abbattuto e cancellato, dopo i bombardamenti bellici, nel periodo di dominio sovietico tramite la DDR. Scomparsi il palazzo imperiale, la cupola del Reichstag, la nuova grandiosa Cancelleria di Hitler, le sedi dei Ministeri, la sede della Gestapo, oggi i berlinesi ricostruiscono (come la cupola e in futuro lo Schloss) o rievocano le immagini o ricostruiscono i frammenti di quel mondo e di quel tempo maledetti. Come è tipico della cultura tedesca, un enorme sforzo è rivolto alla documentazione e alla catalogazione, che razionalizza e trasforma il passato in un terribile archivio della memoria. Topographie des Terrors sorge nell'area sotto il livello stradale che fungeva da fondamenta per gli uffici della Gestapo e delle SS. Siamo a due passi da Potsdamer Platz, affiancati al Martin-Gropius-Bau e sul versante orientale della città divisa; un frammento autentico del Muro fa da sponda al museo, sulla strada. L'accesso è libero e ciò che è esposto è semplicemente la narrazione degli anni del regime nazista; il museo peraltro organizza seminari, ospita una biblioteca e rende partecipi dell'esistenza di una 72 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Fondazione che lo gestisce. Perduto nella burocrazia il progetto poderoso di Peter Zumthor, l'attuale struttura semplice e giustamente anonima è stata progettata da Ursula Wilms e da Heinz W. Hallmann. La visita informa e rivela, tramite tabelloni, fotografie, filmati, la storia di un orrore. I lavori di Libeskind e Eisenman sono legati invece, nel panorama unico e sensazionale dell'architettura della nuova Berlino, a un'interpretazione espressionista e drammatica dell'arte in genere. Dopo le informazioni meticolose di Topographie des Terrors, è quindi il momento delle emozioni e della meditazione. Per la pianta del nuovo Museo Ebraico, sua prima grande realizzazione, Daniel Libeskind ha immaginato una saetta, un fulmine, una gigantesca scarica elettrica a forma di zigzag, una linea a suo dire derivata dalla stella di Davide; nel grande volume creato su questo zigzag nulla ha l'aspetto consueto di una parete, di una finestra, di un cortile. Le simbologie e i numeri usati come elementi generatori, secondo un metodo caro tanto alla cultura ebraica quanto a quella musicale, si perdono sicuramente nella normale utilizzazione dell'architettura, ma contribuiscono al carico di fascinazione e di mistero. L'allestimento del museo, nei piani superiori piuttosto abbondante e ricco di oggetti ed immagini legati a una chiara vocazione didattica e informativa, ha nascosto e mascherato molte scelte spaziali, ma non ha cancellato l'aura che avvolge e penetra l'edificio. Dal piano sotterraneo, dove si trovano spazi di informazione e di incontro, si accede a una torre vuota e a un giardino, che quindi fuoriescono a livello del terreno senza essere accessibili dall'esterno; la Torre commemora l'Olocausto, un vuoto della ragione tagliato da ferite luminose, e il Giardino con i suoi 49 pilastri cavi di cemento, disposti su una griglia inclinata e ricolmi di terra per nutrire gli alberi d'olivo piangente piantati dentro, ricorda l'Esilio. Questa idea di oggetti 73 geometrici disposti regolarmente a formare stretti percorsi che appaiono labirintici, ma che sono in realtà del tutto aperti, è la stessa di Eisenman nel suo Monumento. Al piano terra del Museo si propone il vuoto come esposizione; spazi obliqui e tagliati da aperture irregolari conducono a uno stretto cortile chiuso tra pareti di cemento. Percorrendo il vuoto della galleria, un rumore misterioso e spiacevole può accogliere i visitatori, come di ferraglia lavorata in una fabbrica. Poco oltre, nel cortile, una singolarissima opera, "Shalechet" ("Foglie cadute" in ebraico) di Menashe Kadishman, svela il mistero di quel rumore, prodotto da altri eventuali visitatori, invitati dai cartelli a utilizzare l'opera camminandoci sopra. Sono centinaia di tondeggianti pezzi di ferro, forati per creare la traccia infantile di un viso sofferente e buttati per terra come foglie, per ricoprire più volte, su più strati, la superficie del cortile: un'immagine terribile e inquietante del dolore e un modo inusuale di fruire di un'opera d'arte. Shalechet (Foglie cadute in ebraico), di Menashe Kadishman 74 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Il Museo di Libeskind rappresenta l'ingrandimento di una struttura culturale già esistente, fondata nel 1962 e ospitata in un edificio ottocentesco piuttosto anonimo, che oggi funziona da ingresso e da spazio per esposizioni temporanee; il contrasto tra quella semplice facciata e le lucide pareti metalliche, incise dalle aperture oblique, del nuovo edificio, è fortissimo e rientra nella forza espressiva del progetto. Siamo nel quartiere di Kreuzberg, non lontani dalla piazza dedicata al ponte aereo che nel dopoguerra salvò la città dall'assedio sovietico. Veduta esterna della vecchia e della nuova parte del Museo Ebraico Per trovare il Monumento di Eisenman dobbiamo invece ritornare nel pieno centro della città, non lontano da Topographie des Terrors. L'area prescelta e il monumento sono il frutto di un dibattito politico, culturale e artistico che ebbe inizio nel 1983 e che sicuramente non si è ancora concluso. Senza entrare nel dettaglio di una storia complessa e intricata tanto per la scelta del sito, quanto per la scelta del monumento stesso, basti ricordare che il progetto vincitore dell'ultimo concorso, nel 1997, portava la firma non solo di Eisenman, ma anche di Richard Serra e che quest'ultimo rinunciò all'incarico nel 1998. Altri cinque anni di polemiche e di compromessi 75 dovevano passare prima che il tenace Eisenman potesse vedere l'inizio dei lavori nell'area occupata in epoca nazista dai giardini del Ministero degli Interni, a pochi passi dagli scomparsi centri del potere hitleriano e praticamente sul retro della ricostruita Pariser Platz, la piazza simbolo di Berlino, dove si trova la Porta di Brandeburgo e dove gli americani e i francesi hanno costruito le loro nuove ambasciate (a poche decine di metri si trovano anche l'ambasciata russa e quella britannica). Il monumento con lo sfondo del retro di Pariser Platz Si può entrare nel Monumento quando e dove si vuole, non ci sono cancelli; potrà dare fastidio, a volte, che qualche visitatore corra o scherzi dentro questo luogo inquietante che a volte rimanda a un labirinto, senza 76 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 esserlo affatto, più spesso a un cimitero le cui normali strutture si stringano intorno a noi, ma è nella normalità delle cose che ciò accada. I visitatori diventano parte dell'opera e reciproco riferimento visivo. Ma si tratta di una scultura o di un'architettura? Eisenman, architetto di fama sin dalla sua inclusione nei Five Architects di New York, e saggista teorico di profonda capacità analitica, ha spesso dichiarato la sua ammirazione per Adolf Loos; qui forse ha voluto costruire un luogo che corrispondesse alla perentoria affermazione di Loos nel celebre saggio Architettura del 1910, "Solo una piccola parte dell'architettura appartiene all'arte: il cimitero e il monumento".59 59Nur ein ganz kleiner Teil der Architektur gehört der Kunst an: das Grabmal und das Denkmal. 77 Una superficie di due ettari non può essere la base di una scultura e una scultura non può possedere mille vedute interne e mille vedute esterne; nonostante le indicazioni di qualche guida turistica o di qualche interprete superficiale, allora, il Monumento di Eisenman è senza alcun dubbio una geniale, discutibile, controversa e memorabile opera di architettura, costruita nel centro della capitale della nuova Germania e costituita da una selva di parallelepipedi di cemento grigio distribuiti su una griglia ortogonale di vicoli percorribili solo a piedi. La pianta del monumento presenta infatti uno schema regolare a scacchiera, come la pianta di certe antiche città greche e romane o di molte moderne città americane. Non è per nulla regolare invece l'andamento verticale, perchè le stele, tutte uguali alla base, sono tutte diverse per l'altezza e per la lieve inclinazione, creando così una forma globale imprevedibile e tormentata. Anche i vicoli, di eguale larghezza, pavimentati da grigi cubetti stesi regolarmente, non sono piani, ma si inclinano senza logica apparente, giungendo a sprofondare nel terreno in corrispondenza delle stele più alte. In un livello sotterraneo è inoltre ospitata la Fondazione che si occupa di catalogare e censire i nomi di tutti gli ebrei sterminati dalla follia nazista. Alcuni numeri possono fornire una pallida indicazione sulla singolarità di questa costruzione: la superficie è di 19.000 metri quadrati; il primo progetto firmato da Eisenman e Serra prevedeva 4200 stele, il progetto realizato 2711; le stele sono di calcestruzzo, prodotto in modo tale da garantire una facile pulizia della superficie esterna, larghe alla base 95 centimetri, lunghe 2 metri e 38, alte da zero fino a 4 metri e 70, inclinate tra 0,5 e 2 gradi; il peso medio di una stele è di 8 tonnellate; i vicoli sono 54 in direzione nord-sud e 87 in direzione est-ovest; l'illuminazione è fornita da 180 lampade fisse. Sul lato della Ebertstrasse sono stati piantati 41 alberi. 78 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Nel suo discorso all'inaugurazione del Monumento, il 10 maggio del 2005, Eisenman ha detto: "Non mi resta che tacere adesso e consegnare questo monumento al popolo tedesco, adesso e per il futuro, e lasciare che il vostro monumento parli a e per il popolo tedesco, e al mondo intero. Nel cuore io sono un newyorkese, ma da oggi parte della mia anima resterà per sempre qui a Berlino"60. 60For now it remains for me to become silent, to give this memorial to the German people, now and in the future, and to let your memorial speak to and for the German people and to the world. At heart I am a New Yorker, but from today, part of my soul will always remain here in Berlin. 79 80 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 DIMENTICARE discussioni 81 82 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Matteo Borri Storia della malattia di Alzheimer Bologna, il Mulino, 2012, pp. 181, ISBN 978-88-15-23365-3, € 16,00 recensione di Giovanna Frongia «La lettura storica di un fatto scientifico comporta il non dimenticare le caratteristiche dei vari momenti che lo hanno definito» (p. 164). È questo il principio sotteso al saggio Storia della malattia di Alzheimer di Matteo Borri che, nel descrivere in maniera dettagliata e minuziosa il percorso che ha portato alla sistematizzazione nosografica della Alzheimer’s Disease, ci svela la storia di un vero e proprio processo scientifico che non procede in forma lineare: «È possibile affermare che questa storia della malattia di Alzheimer ha le caratteristiche di un “particolare” intreccio fra motivi scientifici e motivi comunicativi, un processo di costruzione di un sapere attraverso l’unificazione di più saperi diversi. La storia della malattia di Alzheimer è così una storia esemplificativa di un processo scientifico che, come tale, rimane ancora oggi aperto» (pp. 147-148). Paolo Rossi, nella sua bella “Presentazione” al testo (pp. 7-23), ci ricorda come la dimensione della dimenticanza sia caratteristica essenziale del procedere della scienza che, per costruirsi come sapere sistematico e organico, avanza dimenticando le vecchie teorie superate e le riflessioni critiche costruite intorno ad esse, ma anche le stesse relazioni fra le teorie e l’ambiente scientifico nel quale si sono generate per diventare «qualcosa di simile ad un organismo, a un corpus coerente e compatto di definizioni, 83 teorie, esperimenti» (p. 17). A perdere la memoria non è solo il paziente diagnosticato Alzheimer, anche la visione organicista della malattia come correlazione tra sintomo e lesione organica rischia di cancellare lo stesso individuo malato e le sue sofferenze: «Quando è diagnosticata una malattia mentale cronica come la malattia di Alzheimer le persone scompaiono dalla vita sociale. L’individuo e la sua storia attraverso l’etichetta della malattia, resa realtà ontologica con il nome della diagnosi, entrano in un mondo che non ne riconosce più l’individualità, riducendo il soggetto a un insieme di sintomi, di mancanze, di disgregazione. Nella malattia di Alzheimer scompaiono i neuroni e scompare anche l’individuo» (p. 168). Lo studio minuzioso di tali fatti dimenticati, intersecati dall’analisi di un secolo di storia della psichiatria, è il vero oggetto del volume, che ripercorre la storia della malattia di Alzheimer a partire dal 25 novembre 1901, giorno in cui il medico tedesco Aloysius – Alois – Alzheimer incontra per la prima volta la paziente Auguste Deter nell’istituto psichiatrico di Francoforte sul Meno. Lo studio di una malattia, afferma Borri nell’“Introduzione”, «riguarda sia i fatti scientifici e la loro descrizione, sia quei particolari rapporti umani che si instaurano fra il paziente e il suo medico» (p. 25). Il primo capitolo, intitolato “Trovare” (pp. 31-78), si apre con l’incontro tra la signora Auguste e il giovane medico Alois Alzheimer. Il quadro clinico della paziente e soprattutto i severi disturbi del linguaggio manifestati in età non avanzata – 51 anni – colpiscono subito il medico, che continuerà a seguire il suo caso anche dopo aver abbandonato l’istituto di Francoforte per recarsi a Monaco a lavorare nella clinica dello psichiatra Emil Kraepelin. Alla morte della paziente, Alzheimer si fa inviare il cervello per effettuare un’autopsia, scoprendo nell’indagine istologica un fatto da lui stesso definito come un “insolito” caso, un quadro anatomopatologico non ancora descritto dalla 84 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 comunità scientifica del tempo. L’esame istologico mostrerà infatti la degenerazione delle neurofibrille e il nuovo caso clinico sarà comunicato alla comunità scientifica nel 1906, senza però riscuotere particolare interesse. È solo a partire dal 1910, anno in cui Kraepelin inserisce la malattia nell’ottava edizione del suo manuale di psichiatria, che si apre un primo fecondo periodo di studi sulla nuova forma patologica, nel riferimento a diversi ambiti disciplinari. Utilizzando per la prima volta il termine Alzheimerische Krankheit per indicare quello specifico insieme di dati clinici e anatomopatologici osservati da Alzheimer e confermati da altri casi studiati dai suoi collaboratori italiani Gaetano Perusini e Francesco Bonfiglio, Kraepelin propone una nuova categoria nosografica supportata da prove istopatologiche. Nel secondo capitolo – “Cercare” (pp. 79-118) – Borri analizza il contesto scientifico nel quale si inserisce la scoperta del medico tedesco, nonché le metodologie di indagine da lui utilizzate. Per la psichiatria di inizio Novecento la malattia mentale aveva come causa principale lesioni cerebrali e doveva essere quindi compresa correlando i sintomi della demenza con le caratteristiche del tessuto cerebrale. Alzheimer impostò la sua carriera di studioso intorno all’anatomopatologia del cervello, ma fu anche un bravo clinico e proprio attraverso il colloquio clinico e l’attenta osservazione della sua paziente il medico tedesco fu spinto ad approfondire l’insolito caso, confermato poi collegando i comportamenti patologici intra vitam con specifiche alterazioni corticali esaminate post mortem. Analizzando il testo originale di Alzheimer del 1907, qui presentato per la prima volta in una traduzione integrale dello stesso autore, Borri afferma: «In realtà pur in presenza di dati diversi e di diversa natura, il medico ha comunque di fronte a sé una concreta unicità: l’individuo in situazione di malattia e questo porta il 85 suo sistema conoscitivo a cercare una sintesi concettuale. L’occhio del clinico assume dunque tutto il complesso dei fatti che si sviluppano e si intersecano nella storia dell’ammalato, storia che può essere oggetto di un racconto» (pp. 39-40). Il terzo capitolo – “Comunicare” (pp. 119-161) – ripercorre il processo di “giustificazione” che ha portato alla visione condivisa del concetto di malattia di Alzheimer, dai primi del Novecento fino all’attuale sistematizzazione nel manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (DSM). L’analisi di Borri si concentra sul periodo 1910-1974 e offre una dettagliata indagine sul contributo degli studiosi italiani, tra i quali spicca Ugo Cerletti, al tema delle demenze e alla malattia di Alzheimer, per passare poi all’analisi delle categorizzazioni delle demenze presenti nei DSM, dalla prima versione del 1952 fino al DSM-IV del 2004. Tale analisi mostra come nella psichiatria moderna assuma un’importanza primaria, rispetto al passato, il sintomo connesso alla perdita della memoria e il tema della personalità e dell’individualità. La malattia di Alzheimer non deve essere compresa solo attraverso la correlazione tra sintomi della demenza e caratteristiche del tessuto cerebrale, ma anche come il risultato di una serie di deficit cognitivi dovuti a diverse cause. Negli studi sulla malattia di Alzheimer riveste particolare importanza l’analisi dei disturbi del linguaggio di un individuo affetto da demenza, il che non riguarda solo una precisa e localizzata disfunzione organica, ma la persona nella sua integrità. Nella presa in carico di pazienti Alzheimer, suggerisce l’autore, la direzione che oggi si auspica è quella di porre una sempre maggiore attenzione agli aspetti residui del linguaggio che presenta il paziente per «andare al di là di un’ottica centrata su ciò che viene a mancare» (p. 159). 86 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Nel quarto capitolo – “Casi clinici, ricerche in laboratorio e domande ancora aperte: bastava leggere?” (pp. 163-173) – Borri offre notevoli spunti di riflessione su questioni tuttora aperte nel dibattito contemporaneo sulla malattia di Alzheimer. Una lettura attenta mostra come tante delle riflessioni epistemologiche odierne sulla malattia siano le stesse presenti all’inizio del Novecento, in particolare il rapporto fra l’etiologia della malattia e la senilità. Se restiamo all’interno dell’ottica centrata sulla malattia, rischiamo di dimenticare «come la struttura del problema della Alzheimer’s Disease non sia “solo” un fatto scientifico, ma anche un tema profondamente umano» (p. 26), che non deve quindi essere letto soltanto da un punto di vista biomedico, ma anche contemplare un ambito più esteso che prenda in considerazione persino i fattori psico-sociali dell’individuo malato. Tali aspetti non si esauriscono nella cura dell’organo o della disfunzione, ma si inseriscono in un sistema più complesso di relazioni sociali, di sofferenza e di affetti, dimostrando come la malattia sia in primo luogo un nuovo modo di esistere per l’individuo. L’attenzione degli studiosi oggi è centrata non solo sulla malattia, ma sulla sofferenza della persona affetta da Alzheimer e sul miglioramento della qualità di vita attraverso strategie di arricchimento e valorizzazione delle sue abilità residue. La storia di una malattia, infatti, è sempre la storia di quel malato particolare e in un’ultima analisi, conclude l’autore, «La comprensione della storia naturale della malattia si concretizzerà nelle storie degli individui che vivranno un invecchiamento accolto come una vera realtà personale, anche se di tipo Alzheimer. Questa però è un’altra storia, ancora da costruire e documentare» (p. 173). 87 88 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Günther Anders Dopo Holocaust , 1979 Torino, Bollati Boringhieri, 2014, pp. 97 ISBN 978-88-339-2588-2, € 13,00 recensione di Aldo Meccariello Può un film provocare lacerazioni nella coscienza di un intero popolo e allo stesso tempo aprire un dibattito storiografico, culturale e civile? Quando Holocaust, una miniserie americana diretta da Marvin Chomsky con James Woods e Meryl Streep apparve nel 1979 sugli schermi televisivi in Europa e in Germania, pochi avrebbero scommesso sulle reazioni contrastanti e sulle infinite discussioni che ne seguirono. Holocaust raccontava in modo molto convenzionale ed hollywoodiano la genesi dello sterminio degli ebrei nel duro decennio 1935-1945 attraverso la storia di due famiglie tedesche, una ebrea, i Weiss, e l’altra ariana, i Dorf, il cui padre di famiglia, spinto dalla disoccupazione, si arruola nelle SS fino a diventare un criminale di guerra al fianco di Hitler. Il film, che non piacque a Claude Lanzmann, il regista di Shoah, era un’occasione per rappresentare l’atrocità e la follia dei crimini nazisti contro gli ebrei, trattando direttamente argomenti come la creazione dei ghetti e l’uso delle camere a gas. Dopo tribunali e processi, il popolo tedesco sembrava rimuovere l’interrogazione su ciò che era accaduto e già nel 1946 il grande filosofo tedesco Karl Jaspers, alla fine della guerra, invitava tutti a guardare nelle stratificazioni della colpa e della responsabilità della Germania, ma tale monito rimase confinato in ristrette discussioni filosofiche di natura accademica, se non risultò addirittura un ingombro fastidioso di cui liberarsi. Come è noto, Jaspers elencava quattro distinti gradi di colpa (criminale, politica, morale e metafisica) da cui muovere per un generale scuotimento delle coscienze. Ebbene, trentatré anni dopo, nel 1979, un altro filosofo ebreo-tedesco, Günther Anders, l’allievo irregolare di Cassirer e Heidegger, il primo marito di Hannah Arendt, rilancia il monito jaspersiano approfittando della proiezione sugli schermi televisivi tedeschi nel gennaio 89 del 1979 di Holocaust, che è visto da venti milioni di tedeschi. L’impatto è forte sul piano mediatico, poco rilevante su quello storiografico, culturale e civile. In realtà ciò che Anders scrive dopo nei suoi appunti è uno straordinario compendio di estetica negativa, perché ciò che Holocaust trasmette «è l’orribile parvenza o meglio la parvenza dell’orrore, che la realtà che percepiamo non riesce a trasmettere come invece riesce a fare il mezzo artistico. E ciò che percepiamo non è la “parvenza”, bensì la realtà di allora che, per essere colta, doveva essere innanzi tutto trasformata in fiction» (p. 59). Proviamo a seguire le annotazioni diaristiche andersiane in Dopo Holocaust, 1979 (con una Prefazione di David Bidussa e la traduzione e la Postfazione di Sergio Fabian), che in parte rinviano al suo precedente diario di viaggio, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966 (Torino, Bollati Boringhieri, 2008) e lo faremo montando alcune parole essenziali. Colpa. Holocaust spalanca il vortice oscuro della vita collettiva tedesca. Perché senza Holocaust, verosimilmente, non sarebbe riaffiorato nulla. «Quando le potenze vincitrici coniarono l’espressione “colpa collettiva” non si trattò semplicemente di una formula psicologica astratta o irrazionale, ma della più che comprensibile reazione dei vincitori al totalitarismo» (p. 55). Anders ritiene che sia giusto parlare di colpa collettiva perché vi fu una mancata ribellione collettiva contro lo stato nazista che si era macchiato di crimini efferati. E nessuno poteva dire di non sapere. Dunque, il silenzio, l’omissione sono espressioni della colpa. Ebrei. Hitler ha trasformato in un postulato la tesi darwinistica che per vivere dobbiamo sopravvivere agli altri. Lo sterminio degli ebrei non fu mezzo bensì un fine e fu il prodotto di un lavoro industriale, compiuto da milioni di uomini medi e insignificanti che il nazismo seppe però trasformare in nobiltà, in élite di massa di milioni di nobili e puri chiamati a realizzare la purificazione del paese dagli ebrei impuri. Anders ricostruisce con straordinaria lucidità l’identificazione di ebraismo e capitalismo stigmatizzata dal dittatore nazista che aveva già sorprendenti progeniture nella Questione ebraica di Marx fino a Grosz e a Weber. «La condizione dell’essere è l’assassinio. […] Modello e personificazione della vittima indispensabile per 90 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 la sopravvivenza è dunque […] l’ebreo. Auschwitz […] è piuttosto l’incarnazione dell’ontologia nazionalsocialista» (p. 79). I tedeschi non vollero vedere prima né capire dopo ciò che era accaduto. Etica. «Siamo all’anno zero della nuova etica» (p. 52). Le categorie etiche tradizionali, le filosofie morali con Auschwitz e Hiroshima sono diventate obsolete e superflue. Ma ha ancora senso fondare un’etica che sia all’altezza delle sfide di un mondo senza Dio e prossimo ad essere un mondo senza uomo? L’analisi andersiana è implacabile nella presa d’atto che «da un momento all’altro il nostro mondo può rovesciarsi dallo stadio finale in quello della fine del tempo» (p. 52). Allora occorre muovere dal postulato dell’elaborazione nato in ambito psicoanalitico che può fornire in sequenza (trauma – rimozione – presa di coscienza del rimosso – guarigione) gli strumenti necessari perché il popolo tedesco faccia i conti col proprio passato non lasciandosi, però, guarire, ma lasciandosi traumatizzare (pp. 41-42). Holocaust ha messo in moto questo processo e il turbamento che ha provocato in milioni di tedeschi è la condizione possibile per una «guarigione morale» (p. 42). Il filosofo morale non può più far finta di nulla, deve prendere atto che amore e odio, bene e male sono sentimenti antiquati e perciò posizionarsi dentro le questioni drammatiche che riguardano la sopravvivenza del genere umano. Fiction. Scrive Anders che «solo attraverso la finzione, solo attraverso i casi singoli, l’accaduto e l’innumerabile possono essere resi perspicui e rammemorabili […]. In realtà, il 1978 è il 1945 dal momento che solo oggi è sopraggiunto quello schock che avrebbe dovuto prodursi allora» (p. 30). Essere stati ignoranti o inconsapevoli è la vera colpa dei tedeschi. La finzione richiama la possibilità che il cinema con le sue peculiari strutture narrative possa contribuire a focalizzare il discorso storico assai più dei documentari o degli stessi libri di storia. Prima Marc Ferro, poi Pierre Sorlin hanno spiegato a lungo interferenze e confluenze tra cinema e storia. ll film Holocaust è l’occasione che deve costringere i tedeschi a confrontarsi con il tragico della loro storia. «Ciò che dobbiamo fare, e ciò che il film ha fatto, è ritrasformare le cifre in esseri umani. E mostrare come i sei milioni di gassati siano stati sei 91 milioni di individui» (p. 34). La finzione che fornisce i fatti diventa indispensabile proprio «perché la mostruosità e la dismisura di ciò che accadde, oggi non è più percepibile e conoscibile. […] Questa invisibilità deve essere revocata […] e per questo abbiamo bisogno di lenti, e precisamente non di lenti di ingrandimento, ma di lenti di rimpicciolimento» (pp. 63-64). Male. Auschwitz e Hiroshima. Auschwitz o Hiroshima? È possibile quantificare e qualificare il male? Furono più malvagi gli auguzzini di Auschwitz o i piloti di Hiroshima? Anders si interroga, propone diagnosi, prospetta epiloghi, lui che aveva dialogato col pilota di Hiroshima Eatherly e si era spinto a scrivere una lunga lettera al figlio di Eichmann, Klaus. «Non esiste solo l’innocenza del male (Eatherly) e la banalità del male (Eichmann), ma anche – anzi non “anche” ma “soprattutto” la malvagità del vero male» (p. 66). Tempi molto diversi erano quelli in cui il male si manifestava nel maligno e in cui dunque si poteva sperare di «vincere il male combattendo contro il male», mentre oggi esso si presenta irriconoscibile e sfuggente perché il male non è più distinguibile dal fondale di un universo quotidiano moralmente indifferente, essendo divenuto esso stesso il mondo (p. 67). Sottolinea con grande acume Sergio Fabian nella magistrale postfazione: «Più il male è abnorme e lontano, più la coscienza fallisce e, proprio dal suo scacco, dice Günther Anders, deriva il senso d’integrità morale, l’attestato di buona condotta che sbianca le coscienze» (pp. 91-92). Rimozione. Holocaust non solo è l’occasione per ripensare ciò che è accaduto, ma ha il merito di far affiorare il rimosso. È un film magnanimo e filosofico insieme. Dice il trauma o qualcosa di più, innesca procedimenti autoriflessi mai provocati prima nella coscienza di ogni tedesco. «Non solo non ci sono ricordi ma non ci sono nemmeno traumi. Furono indifferenti o si assuefecero all’indifferenza» (p. 37). Se non c’è ricordo non c’è nemmeno trauma. 92 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Questo improvvisato e parziale vocabolario andersiano estrapolato dal testo riproduce rotazioni e derive del pensiero dell’Autore: il ritmo è incalzante, i concetti si solidificano, lo scacco dei sentimenti dilaga in superficie, il male, cambiando segno nella percezione di tanti altri olocausti che si compiono ogni giorno nel mondo dopo il tragico 1945, si fa sempre più attivo e produttivo, il tempo della storia sembra ingovernabile e sgretolarsi in un imminente tempo della fine. Che cosa resta? Quale responsabilità o compito abbiamo di fronte? Forse l’attitudine a camminare in un universo di segni come scuciti (per dirla con Claudio Magris), a condizione che si apra un nuovo capitolo dell’etica che Anders chiama: MAXIMA MORALIA (p. 83). 93 94 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Marco Fortunato, L’offesa, la colpa, il fantasma. Muovendo da Caducità di Freud Prefazione di Elio Matassi Genova, il melangolo, 2013, pp. 195, ISBN 9788870189193, € 22,00 recensione di Aldo Meccariello Marco Fortunato coniuga in questo libro l’offesa, la colpa e il fantasma, esplorando con grande rigore analitico ed intelligenza ermeneutica i loro effettivi rapporti e i loro transiti interdisciplinari. Si tratta di tre nozioni complesse che rientrano tra quelle più dibattute soprattutto in ambito psicoanalitico e trovano una propria collocazione esplicita in un celebre testo di Freud, Caducità, del 1915, pubblicato a Stoccarda un anno dopo nel cuore della catastrofe della Grande guerra che «depredò il mondo delle sue bellezze». Nel tardo autunno, o all’inizio dell’inverno del 1915, Freud scrive di una passeggiata «attraverso una contrada estiva in piena fioritura» avvenuta nell’estate prima del conflitto mondiale, dunque nel 1913. Freud è in compagnia di Rainer Maria Rilke, il poeta delle Elegie Duinesi e di Lou Andreas Salomé, che era stata l’amica prediletta di Friedrich Nietzsche. Tema della conversazione è la caducità, ossia il valore della caducità, l’evidenza che il nostro dominio sul mondo è precario e la certezza che ogni cosa perirà. Freud avverte in questo splendido testo che la percezione della caducità anticipa lo choc della morte, dell’inabissarsi di tutte le cose, ma allo stesso tempo si può intravedere una nuova luce che le avvolge e le protegge. «Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata le aggiunge un nuovo incanto». Il volume di Fortunato prende le mosse da Caducità, isolando dal testo freudiano «i tre più salienti approcci speculativo-esistenziali al problemavulnus della caducità/della mortalità: la prima posizione è la consolazione 95 metafisico-religiosa, la seconda posizione è la consolazione laica e la terza posizione è la non consolazione. Proviamo ad esplorare ciascun approccio, evidenziando punti di forza e punti di debolezza, nonché il punto di vista dell’Autore. Certamente la prima posizione è quella classica di tanta filosofia e di tanta teologia, perché guarda oltre/dietro/al di sopra della caducità, aggirandola con un richiamo alla dimensione trascendente della realtà, «ad un alternativo binario di realtà, un livello della redenzione, della salvezza e della pienezza che smentisca - neutralizzi - rovesci quel dramma e che sia, esso sì, la vera ultima parola» (p. 24). Il positivista, l’illuminista, l’ateo Freud, osserva Fortunato, non è tenero con questa posizione ritenuta non seria e poco rispettosa sul piano logico. Si tratta di una posizione ingenua che segna in maniera fin troppo evidente «il trionfo del desiderio e della speranza sull’esperienza e sulla ragione, del sogno sulla dura effettualità, del principio di piacere su quello della realtà» (p. 26). Ma per il grande filosofo russo Šestov, che Fortunato interroga nella discussione della prima posizione, questo cosmo della ragione è destinato a rivelare il suo carattere mendace e a crollare di fronte ad alcune esperienze decisive dell’esistenza che ci toccano personalmente e ci restituiscono alla nostra realtà di individui concreti, e quindi alla nostra paura. Tale è l’esperienza del dolore, legata alle disgrazie, alla malattia, alla vecchiaia, all’esperienza della morte, la cui deformità mostruosa e le cui sofferenze ci costringono a dimenticare ogni cosa, comprese le nostre verità evidenti, e a partire alla ricerca di una verità nuova. Queste esperienze, infatti, ci aprono gli occhi su un universo di dis-armonie, di caos che recidono i legami con la nostra precedente esistenza e ci inducono a pensare che è il momento di compiere il salto ad un’altra metafisica, o, in altri termini, ad un’altra ontologia. Nessuna scienza può venire a capo dell’enigmaticità dell’esistenza, sostiene Šestov richiamando echi pascaliani e kierkegaardiani. Semmai, l’uomo deve trarre dalla disperazione estrema l’energia e l’audacia per resistere al male e provocare il suo ribaltamento in un bene ancora più grande perché ripristini la sua piena padronanza e la sua piena felicità, «qui nel mondo reale creato da Dio» (p. 33). Il ritmo di scrittura di Fortunato è serrato, dialettico, in specie quando, dopo aver illustrato la tesi, la ribalta, ne coglie i lati più problematici. Al bel 96 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 raccontare di Šestov egli contrappone la linea Spinoza-Nietzsche, cui si aggiunge anche il Leopardi del Cantico del gallo silvestre, secondo cui lo scenario del completo annientamento del mondo lascia ben poco sperare nella felicità o infelicità dell’uomo. La seconda posizione che Fortunato isola nel testo freudiano è quella laica e sobria rispetto al problema-vulnus della caducità e mortalità di ogni cosa. Tutt’altro che un’umiliazione, la caducità è un dato di fatto, una verità inconcussa che semmai ha il valore della rarità. Lo stesso Freud sembra riconoscerlo quando stabilisce una superiorità in fatto di valore del caduco/del mortale rispetto a quello che non lo è. Infatti Freud, durante la passeggiata, si accorge del turbamento del giovane amico e gliene chiede la ragione. Il giovane poeta gli risponde che è diventato triste al pensiero che tutta quella bellezza intorno presto perirà con l’inverno. Freud rovescia l’interpretazione del poeta. Non è la bellezza che perirà, ma è l’uomo che scomparirà a causa della sua condizione umana. Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna a fiorire ogni anno dopo l’inverno e questo ritorno in rapporto alla durata della vita è un eterno ritorno. Caducità dunque davanti all’eterno alternarsi delle stagioni: l’uomo, al contrario delle piante, non rinasce in primavera dopo la sua morte e un doloroso conflitto gli impedisce, dunque, di godere pienamente della bellezza della vita. Ciò che Freud – osserva l’Autore – non può approvare, anzi sembra giudicare con severità, è che l’individuo-uomo tenga fermo, con rammemorazione commossa e addolorata, a un oggetto d’amore quando ormai è finito/perduto/morto in quanto realtà rilevabile e tangibile (p. 86). La terza posizione è la non consolazione, di gran lunga quella preferita dall’Autore, al punto che occupa la metà del volume. L’argomentazione è sorretta da una sorta di «‘gusto’ paranarrativo» di cui parla Elio Matassi nella breve e agile prefazione al volume. Il lettore è invitato ad inoltrarsi in un repertorio di testi non solo filosofici, ma anche narrativi e filmici, che meglio danno conto di quella «pre-visione della rovina, del destino di caducità e di morte cui è consegnato il grande e il bello» (p. 95). Il giovane poeta di Caducità che rivela i sicuri tratti di Rainer Maria Rilke non potrà mai ricavare piacere dall’incontro con tutto ciò che è bello e la sua «Stimmung melanconica è-non può che essere permanente e assoluta, inconsolabile, perché qui, chiunque e qualunque cosa si incontri-si veda-si tocchi (verrebbe fatto di dire: ovunque ci si giri), si incontra-si vede-si tocca 97 sempre e comunque un caduco/caducità, un mortale/mortalità» (p. 95). Del resto il grande tema delle rilkiane Elegie Duinesi è che dallo spaventoso e, nel terribile di ciò che rapidamente muta, si possono costruire le ragioni della nostra esistenza. A questo punto si può dire «che siano state poste le premesse necessarie all’espressione della nostra posizione circa l’idea del poeta di Caducità secondo cui le cose-gli individui sarebbero svalorizzati dalla loro finitezza/dalla condanna a morte che è emessa contro di loro» (p. 136), ossia esposte all’offesa del tempo. Il lettore in questo punto del libro è affascinato da un’analisi sottile e raffinata del film Dimenticare Venezia, di Franco Brusati (1979), che Fortunato eleva a modello esemplare per questo tipo di considerazioni. Il film racconta una comunità tutta al femminile che vive in una fattoria veneta; ci sono due giovani donne, Claudia e Anna, zia Marta e la balia/servitrice della casa, l’anziana Caterina. Le quattro donne convivono senza grossi problemi. Anna è in pratica colei che si occupa della fattoria, dei raccolti e della gestione vera e propria della casa, che è di proprietà di Marta, una ex cantante lirica a riposo dal bel passato e dal carattere gioviale. Claudia invece è un’orfana accolta nella casa e che lavora come maestra insegnando ai bambini del vicinato e gestendo anch’essa la fattoria, alla quale presta la sua opera. L'efficace titolo rimanda a Venezia, città cristallizzata nella storia e nella memoria, «terra maliosa ma potenzialmente paralizzante dei ricordi» (p. 137). Lo snodo principale del film è probabilmente questo, il momento cruciale in cui il peso dei ricordi deve fare i conti con il presente, con l’età adulta dei protagonisti che oscuramente sentono di dovere un pesante tributo proprio alla loro adolescenza. Claudia, la più giovane, vorrebbe che tutto restasse così per sempre, che nulla mutasse più per loro, che non si verificasse più alcun cambio di scena. Il tempo, però, non lo si ferma, i ricordi devono restare tali per poter vivere il presente. Ma è un bene che l’uomo esiga immortalità e unicità o l’immutabilità del tempo? Non si rende forse conto di commettere un errore di valutazione, di contrarre la colpa, la massima colpa? L’Autore sviluppa su questo punto un complesso ragionamento che muove dall’antico detto di Anassimandro fino ad Heidegger passando per Romano Guardini e Simone Weil. A rimuovere ogni residua traccia di violenta affermazione dell’uomo è proprio Weil, che si è sottratta a qualsiasi sospetto di colpevolezza, lasciandosi morire fino all’in-esistenza, assecondando così la propria estinzione fisica ad appena trentaquattro anni. 98 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Infine, resta il fantasma, il terzo termine del trittico che dà il titolo al libro di Fortunato. Qual è la natura del fantasma? L’inconsistenza, la fuggevolezza, l’inafferrabilità, l’evanescenza, l’invisibilità, tratti che aboliscono essenzialmente «la pressione percettivo-sensoriale, che è la componente principale della generale e complessiva pressione e fatica della realtà» (p. 182). Il fantasma impegna la vista, sia pure solo quella interna, e scorre nel silenzio di un solitario auto-ascolto, come nel caso in cui si riceve senza preavviso un telegramma che preannuncia l’imminente visita di un amico perso di vista da tempo. Quello del fantasma o dei fantasmi è il tema caro a tanto cinema e a tanta letteratura (da Visconti a Borges, da Marias a Cardarelli), come Fortunato evidenzia con raffinati ed efficaci commenti ad Un cuore così bianco, il romanzo di Marias, a Funes o della memoria, il celebre racconto di Borges, a Passato, la struggente poesia di Vincenzo Cardarelli, o a La tragedia dell’Infanzia di Savinio. Richiami puntuali e stringenti per esplicitare quella che l’Autore chiama l’esperienza del fantasma, che si situa «fra le sole forme e situazioni sublimi di trascendenza divina – di permanenza nel mondo che però lo eccede, di uscita dal mondo che però rimane nel mondo – possibili e “frequentabili” dall’uomo, accanto al dolore, alla dis-interessata e in-utile dépense, al sacrificio di sé e a certe folgorazioni offerte dall’arte» (p. 186). Si chiude qui l’indagine che Marco Fortunato ha condotto in maniera eccedente ed estrema rispetto ai canoni tradizionali dell’argomentazione filosofica, il cui significato resta tutto da cercare, dentro la trama o l’altrove di una scrittura che mima l’im-possibile oblio. 99 100 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 Tony Judt L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900 Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 485 ISBN 978-88-420-9632-0, € 20,00 recensione di Aldo Meccariello Sulle rimozioni del ’900 Il libro di Tony Judt su L’età dell’oblio affronta le «rimozioni del ’900», attraverso una raccolta di saggi pubblicati su varie riviste internazionali tra il 1994 e il 2006 e divisi in quattro sezioni (Il cuore di tenebra, La politica del compromesso intellettuale, «Lost in transition»: luoghi e memorie, Il (mezzo) secolo americano). L’Autore, che è professore di Studi europei e direttore del Centro Remarque presso la New York University, disegna un intrigante affresco composto di vari blocchi tematici che si integrano coerentemente alla luce di un filo conduttore: la sua vibrante denuncia della rimozione dell’eredità intellettuale, economica e istituzionale del Secolo breve. Nel dibattito pubblico e in certe tendenze storiografiche e politologiche è infatti diffusa l’errata convinzione che nell’ultimo decennio del secolo scorso si sia entrati in un mondo nuovo, in un’era progressiva e di gran lunga migliore che non ha bisogno di apprendere alcunché dal passato. Lo storico americano afferma ironicamente che «il passato non ha nulla di interessante da insegnarci», una convinzione largamente influente, a partire dalla fine del comunismo nel 1989-91, vissuta come il «trionfo dell’Occidente» e la «fine della Storia». A dire dell’Autore, però, la fretta di lasciare un secolo alle nostre spalle lascia stupefatti: invece che ricordare, si tende a dimenticare e si dipinge il ’900 come «un palazzo della memoria morale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui stazioni sono “Monaco”, “Pearl Harbor”, “Auschwitz”, “Gulag”, “Armenia”, “Bosnia”, “Ruanda”» (p. 6). Persino gli snodi cruciali del secondo dopoguerra (dalla Guerra dei sei giorni alla crisi cubana, dalla caduta dei paesi comunisti alla politica estera americana negli anni della guerra fredda), costituiscono invece uno strumento essenziale per una lettura politica della storia presente. Ma tra le più rilevanti esperienze che abbiamo dimenticato vi sono, secondo Judt, il significato della guerra, l’ascesa e il conseguente declino dello Stato come Stato-nazione e come Stato politico, lo sviluppo e la 101 dissoluzione definitiva del marxismo, il ruolo pubblico degli intellettuali. «Il Novecento è stato il secolo degli intellettuali […] per definizione “impegnati”: di solito a perseguire un ideale, un dogma o un progetto» (pp. 14-15), come è stato sin dai tempi dell’ affaire Dreyfus. E molti sono gli intellettuali presenti in questo libro: da Arthur Koestler a Manès Sperber, da Hannah Arendt ad Albert Camus, da Primo Levi a Louis Althusser. Judt non solo tratteggia biografie esemplari del secolo trascorso, ma ne coglie linee di continuità e di discontinuità rispetto al ritmo impetuoso ed incalzante degli avvenimenti. Particolarmente acuto è il ritratto che l’Autore fa di un suo collega più celebre in: Eric Hobsbawm e il fascino del comunismo (p. 116). In realtà si tratta della recensione dell’autobiografia di Hobsbawm pubblicata da Judt nel 2003 sulla «New York Review of Books». Judt non è affatto tenero con l’autorevole storico inglese che non si accorge della disastrosa esperienza del comunismo novecentesco, né si sforza di capire le tragedie del 1956 e del 1968, provocate dall’invasione dei carri armati sovietici. «Hobsbawm, in breve, è un mandarino – un mandarino comunista – con la sicurezza e i pregiudizi della sua casta» (p. 122). Di tutt’altro tenore è il ritratto che Judt fa di Edward Said, il cosmopolita senza radici, il celebre autore di Orientalismo scomparso nel 2003, che è riuscito con la sua opera, «praticamente da solo, a mantenere aperto in America un dibattito su Israele, la Palestina e i palestinesi» (p. 173). Tuttavia il saggio di Judt non diagnostica soltanto macerie e fallimenti delle ideologie novecentesche, ma dilata i confini storico-geografici dell’Europa dopo il 1945 indicando cicli e crisi di assetti geopolitici che stanno rimodellando la politica mondiale. La parte terza del libro esplora luoghi e memorie (la catastrofe della Francia nel 1940, l’Inghilterra di Tony Blair, il Belgio nella storia del ’900, la Romania dopo la dittatura di Ceausescu, Israele e la guerra dei sei giorni del 1967) mentre la parte quarta si spinge ad analizzare gli snodi della storia americana durante la guerra fredda, anche nei suoi rapporti con il vecchio continente. L’Autore in più passaggi della sua esplorazione rammenta che «viviamo con il timore crescente di dimenticare il passato, pensando che in qualche modo si perderà tra le cianfrusaglie del presente. Commemoriamo un mondo che abbiamo perduto, a volte prima ancora di averlo perso» (pp. 192-193). Non ci si può proiettare verso il futuro ignorando i fatti che vengono dal passato, rimuovendo con un colpo di spugna tutto ciò che il ’900 ha prodotto nel bene e nel male. L’ovvietà di questa affermazione è presa invece tremendamente sul serio da Judt, che stigmatizza un vero mutamento del senso storico e della sua relazione con la memoria e l’oblio. Il nuovo senso storico tende a sopraffare la memoria e ad isolare nuovi nuclei fondativi come nel caso degli Stati Uniti d’America, che guardano all’11 settembre 2001 come data simbolica e materiale di una rinascita della nazione. Si sta 102 AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014 affermando la pericolosa tendenza di un recupero della memoria che è piegata sempre più a fini politici e comunque legati alle esigenze attuali, senza rispetto per la dimensione storica nel vero senso del termine. Questo libro robusto e ricco di stimoli può essere letto in molti modi come un’infinita argomentazione intorno alla perdita della memoria storica e collettiva che, per essere rianimata, deve attraversare deserti senza più stelle polari. 103 104