primo fascicolo - Azioni Parallele

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AZIONI PARALLELE
2014
FASCICOLO 1
Azioni Parallele è una rivista on line
a periodicità annuale, che continua in altre modalità
la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele è composta da
Gabriella Baptist,
Aldo Meccariello
e Andrea Bonavoglia.
La distribuzione è affidata a Ergonet (VT).
La sede della rivista è Roma.
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
FASCICOLO 1
2014
DIMENTICARE
materiali
Per far memoria dell’oblio e ricordarsi di dimenticare
Gemme di primavera, foglie d’autunno.
Introduzione ad Alexandru Dragomir
editoriale
di Gabriella Baptist
Sull’oceano dell’oblio
di Alexandru Dragomir
saggi
The Internet is forever
di Andrea Bonavoglia
Oblio e memoria
di Massimo Piermarini
itinerari
Mnemosine e Lete
di Giuseppe D'Acunto
Dimenticare Palermo
di Antonino Infranca
Berlino. Topografie della memoria
di Andrea Bonavoglia
discussioni
Matteo Borri, Storia della malattia di Alzheimer
di Giovanna Frongia
Gűnther Anders, Dopo Holocaust, 1979
di Aldo Meccariello
Marco Fortunato, L’offesa, la colpa, il fantasma.
di Aldo Meccariello
Tony Judt, L'età dell'oblio
di Aldo Meccariello
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
AZIONI PARALLELE on line
2014
www.azioniparallele.it
Visti: New York, Agosto 2014
di Andrea Bonavoglia
Letti: Salvatore Natoli, Il buon uso del mondo. Agire nell’età del
rischio
di Roberto Caracci
Letti: Micaela Latini e Aldo Meccariello, L’uomo e la (sua) fine.
Saggi su Günther Anders
di Massimo Piermarini
Letti: Materiali per una bibliografia italiana di Günther Anders
di Devis Colombo
Letti: Adolf Loos, Parole nel vuoto
di Andrea Bonavoglia
Letti: Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi
di Silvia Baglini e Antonino Infranca
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
DIMENTICARE
materiali
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Per far memoria dell’oblio e ricordarsi di dimenticare
Saper dimenticare è una fortuna
più che un’arte. Le cose che si
vorrebbero dimenticare sono
quelle di cui meglio ci si ricorda.
La memoria non solo ha l’inciviltà
di non sopperire al bisogno, ma
anche l’impertinenza di capitare
spesso a sproposito
B. Gracián, Oráculo manual y arte
de la prudencia
A Simonide, il virtuoso della memoria che voleva insegnargli come
ricordare tutto, Temistocle, il grande politico e militare ateniese ormai bandito
dalla patria, avrebbe risposto di preferire piuttosto apprendere l’arte di
dimenticare, in modo da evitare la sofferenza ossessiva che impongono i
traumi e gli scacchi: “nam memini etiam quae nolo, oblivisci non possum
quae volo” – infatti ricordo anche ciò che non voglio, e non riesco a
dimenticare ciò che vorrei (Cicerone, De fin., II, 32, § 104).
Se l’antichità e la modernità sono state caratterizzate piuttosto
dall’esaltazione della memoria e delle sue tecniche, il Novecento più tragico,
certamente anche in seguito alle sue esperienze estreme che ci impongono il
dovere di non dimenticare, ha dato spunto a riflessioni che, senza tradire
l’imperativo del ricordare – quello Zahor che invita a onorare le vittime e il
debito verso i trapassati –, hanno inteso restituire l’onore perduto al gesto
misurato, giusto e pacificatore del voler sorvolare, si pensi solo agli studi di
Paul Ricœur o alle indagini di Harald Weinrich. Ma si pensi anche alle
esperienze storiche che hanno evidenziato lo spessore politico del perdono
difficile, arendtianamente capace di sciogliere il passato alleggerendone il
fardello, perdono che pure non sconfessa l’imprescrittibilità del crimine
contro l’umanità, da contrapporre come un monito ai tradizionali usi tattici e
strategici dell’amnistia, della grazia o del condono.
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Nei tempi stressati e stressanti che indeboliscono il pensiero a favore
dell’efficienza, che cosa dobbiamo ricordare, che cosa dobbiamo ad ogni
costo dimenticare? Sono quesiti urgenti che si impongono alle nostre società
multimediali, caratterizzate da un eccesso di conoscenze e di saperi che si
accumulano in maniera impressionante, al punto da mettere in forse, in senso
nietzscheano, i modi e la possibilità stessa di rievocare il passato. Si insegue,
infatti, una memoria forsennata sempre più bulimicamente memorizzante fino
al parossismo del non poter più cancellare da archivi mostruosamente
onnipresenti ciò che magari imbarazza o offende;. Nelle realtà sociali e
politiche che invecchiando e declinando da un lato si affannano in
rottamazioni e discariche e dall’altro si consegnano alla demenza e alla
regressione, forse è necessario saper dare nuovo lustro anche al cesello
selezionatore e inventariante dell’oblio, perché quando si parla di oblio non si
deve pensare necessariamente al contrario della memoria, piuttosto a ciò che
rende possibile la memoria stessa: certamente non si tratterebbe di celebrare
demolizioni scriteriate, ma di fare spazio a un dimenticare illuminato che, non
più antagonista del ricordo, anzi come suo più geloso custode, additi la
finitezza e la vulnerabilità, rammemorandone disfatte e conquiste. L’oblio
non è solo il segno del reale, e del reale come evento, ma è esso stesso
evento, e come tale, passibile di oblio. Il memento più radicale non sarà più
solo allora quello, ancora narcisistico, che ci richiama alla nostra individuale
mortalità, ma l’appello a ricordare che saremo dimenticati e ad essere perciò
finalmente anche un po’ più dimentichi di noi stessi, consapevoli
dell’incompiutezza, ma anche della bellezza e libertà del finito.
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Gabriella Baptist
Gemme di primavera, foglie d’autunno.
Introduzione ad:
Alexandru Dragomir, Sull’oceano dell’oblio
Non si può certo sostenere che Alexandru Dragomir sia un filosofo
dimenticato, giacché questo presupporrebbe che egli sia stato
precedentemente riconosciuto o che si sia affermato in qualche modo. Invece
la sua vicenda è quella di chi è stato sommerso dai tempi bui nei quali è
vissuto e ai quali si è voluto opporre nell’unica postura onesta della
sottrazione assumibile dall’intellettuale che non voglia essere un ciarlatano;
ma la sua storia è stata anche quella di chi poi però è stato salvato dal
naufragio definitivo nell’oblio grazie alla generazione successiva dei più
giovani filosofi romeni, che nel suo destino hanno voluto riconoscere il
compito del riscatto loro affidato.
Allievo di Heidegger e da lui altamente apprezzato per la lucida
intelligenza nel partecipare alle discussioni del celebre Oberseminar, come
testimonia Walter Biemel, suo compagno di studi a Freiburg, nell’ottobre del
1943 Dragomir è costretto a lasciare gli studi perché reclutato in guerra. 1
Dopo il ’45, impossibilitato a proseguire le ricerche dottorali, che comunque
risultavano ormai sospette per la nuova realtà politica romena, si guadagnerà
la vita con disparati lavori subordinati e modesti, mai abbandonando peraltro
gli interessi filosofici e le letture poliglotte, clandestinamente perseguite. Solo
nell’ultimo scorcio degli anni Ottanta e negli anni Novanta del secolo scorso
si presterà a tenere seminari privati che lo faranno presto diventare una specie
di segreto e leggendario campione della filosofia romena, rimasta ardente
anche sotto la cenere delle devastazioni novecentesche.
1 W. Biemel, Erinnerungen an Dragomir, in «Studia Phænomenologica. Romanian Journal
for Phenomenology», IV, 2004, n. 3-4: The Ocean of Forgetting. Alexandru Dragomir. A
Romanian Phenomenologist 1916-2002, pp. 13-15. Le informazioni su Alexandru Dragomir sono
in gran parte riprese dai saggi pubblicati nel numero a lui dedicato dalla citata rivista
fenomenologica romena, cfr. in part. G. Liiceanu, The Notebooks from Underground, in ivi, pp.
17-64.
11
Più o meno della stessa generazione dei vari Eliade, Ionesco, Noica,
Cioran o Celan, nasce a Zalău, in Transilvania, nel 1916 da una famiglia di
intellettuali. Dopo studi di lettere e legge presso l’Università di Bucarest e
dopo ripetute interruzioni per il servizio militare, dal settembre del ’41 è
dottorando in filosofia a Friburgo grazie a una borsa di studio della
Fondazione “Alexander von Humboldt”.2 Di Heidegger segue le celebri
lezioni sugli Inni di Hölderlin, su Parmenide ed Eraclito, oltre che seminari
sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel e sulla Metafisica di Aristotele.3
Spirito socratico, in vita non volle pubblicare nulla, ma alla sua morte, nel
minuscolo appartamento in cui abitava sono stati ritrovati centinaia di
quaderni con commenti, appunti, microanalisi fenomenologicamente condotte
su temi spesso tratti dalla banalità della vita quotidiana (quali lo specchio –
breve saggio che aveva preparato per la “scuola del sapere” di Constantin
Noica –, l’errore, il risveglio, l’usura), ma anche analisi sulle grandi questioni
filosofiche del Novecento (per esempio sul tempo, l’unicità, l’attenzione).4
2 Il progetto di tesi sul concetto hegeliano di spirito, inizialmente concertata con Martin Heidegger,
successivamente evolverà in un proposito di dissertazione, peraltro mai presentata, su intuizione e
dialettica in Platone, come scriverà dalla Romania in una lettera a Heidegger del 1947, fino
all’autoironica considerazione, riportata in una nota dell’8 gennaio del 1993, in cui Dragomir,
ormai quasi ottantenne, riconosce di star preparando una tesi di dottorato sotto la supervisione del
buon Dio.
3 Di Heidegger tradurrà in romeno con Walter Biemel, nella prima metà degli anni Quaranta, Was ist
Metaphysik?, pubblicazione però rifiutata in Romania giacché l’autore era considerato persona non gradita
agli occupanti tedeschi del tempo; la traduzione sarà successivamente pubblicata in Francia nel 1956 a cura
di Virgil Ierunca in una rivista della diaspora intellettuale romena: «Caiete de Dor».
4 A partire dal 2004 la casa editrice Humanitas di Bucarest ha pubblicato diverse raccolte di suoi testi ( Crase
banalităţi metafizice, Cinci plecări din prezent. Exerciţii fenomenologice , Caietele timpului, Seminţe,
Meditaţii despre epoca modernă) in parte accessibili anche in altre lingue, cfr. Banalités métaphysiques, éd.
par G. Liiceanu et C. Partenie, Paris, Vrin, 2008; Id., Les Cahiers du temps, tr. par R. Otal, Paris, Vrin, 2010;
Chronos. Notizbücher über Zeit, hrsg. von B. Mincă, C. Partenie, Würzburg, Königshausen & Neumann, in
corso di stampa, annunciato in uscita per l’ottobre 2014. Su Dragomir si veda anche C. Ciocan, Philosophy
without Freedom: Constantin Noica and Alexandru Dragomir, in I. Copoeru, H.R. Sepp (ed. by),
Phenomenology 2005, vol. III: Selected Essay from Euro-Mediterranean Area, Bucharest, Zeta Books, 2007,
pp.
63-79,
in
part.
pp.
74-78
(accessibile
anche
in
rete
all’indirizzo:
www.academia.eu/176069/Philosophy_without_Freedom_Constantin_Noica_and_Alexandru_Dragomir). Si
veda anche il sito dello “Alexandru Dragomir – Institute for Philosophy”, fondato nel 2009 sotto gli auspici
della Società romena di Fenomenologia e diretto da Cristian Ciocan: institute.phenomenology.ro
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
In uno dei suoi frammenti, datato al 28 dicembre 1988, così scrive:
I pensieri sono come alberi che gemmano in primavera, promesse
di frutti, carichi di futuro; gli scritti sono come foglie d’autunno,
estremamente colorate, ma presto disseccate, piene di nostalgia.
Come le foglie d’autunno, scrivere ha la morte nel cuore.5
Lasciamo al lettore la scelta di decidere se la breve riflessione sull’oblio
che presentiamo rechi in sé piuttosto gemme foriere di maturazioni future o
non sia invece un’altra fascinosa foglia d’autunno che aggiungiamo alla
raccolta di analisi sul tempo che il Novecento filosofico, scientifico e artistico
ha prodotto in grande quantità. Certamente vi si ritroverà l’eco delle celebri
riflessioni fenomenologiche a proposito di ritenzioni e protensioni che
Husserl aveva affidato alle sue analisi sulla coscienza interna del tempo,
notoriamente edite da Heidegger negli anni Venti.6 Si potranno poi anche
leggere le riflessioni di Dragomir nella sequela delle prospettive agostiniane e
parallelamente alle coeve indagini ricœuriane su La memoria, la storia,
l’oblio.7 Indubbiamente alcuni tratti dovranno essere considerati nella loro
originalità, suggestione e profonda dirittura intellettuale: per esempio la stessa
immagine dell’oceano dell’oblio – il cui solo orizzonte certo è nel
soccombere – e del lago del ricordo che garantisce riparo e salvataggio, quasi
a sottolineare la consustanzialità liquida di memoria e oblio, riformulando al
tempo stesso la celebre metafora kantiana dell’oceano tempestoso della
parvenza che circonderebbe l’isola dell’intelletto.8 Interessante risulta anche
5 Cit. in C. Partenie, Archive Relief. Dragomir’s Perspective, in «Studia Phænomenologica», IV,
2004, n. 3-4, cit. alla nota 1, p. 96.
6 E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins , hrsg. von M.
Heidegger, Halle, Niemeyer, 1928 («Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische
Forschung», Bd. 3); cfr. anche Id., Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917) ,
hrsg. von R. Boehm, Husserliana. Gesammelte Werke, Bd. 10, Den Haag, Nijhoff, 1966; tr. it. di A.
Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917) , Milano, Franco
Angeli, 1981.
7 P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Seuil, 2000; tr. it. di D. Iannotta, La memoria, la
storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003.
8 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 235/B 294-295; tr. it. di P. Chiodi, Critica della ragion pura,
Torino, UTET, 1967, p. 264. Per Paul Ricœur i ricordi si distribuiscono in arcipelaghi separati da
abissi, cfr. P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 116; tr. it. cit., p. 137.
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la messa in guardia contro gli errori e le distorsioni della memoria, così come
lo scetticismo sull’onestà selettiva del “canone” culturale, spesso ispirato
dalla moda del momento. Ma soprattutto colpisce il tratto socratico
dell’accentuazione di un non sapere/dimenticare al quale siamo
inevitabilmente consegnati e poi commuove, perché ha il tono amaro della
testimonianza, la consapevolezza dolorosa del fatto che anche le civiltà
muoiono, che la regola è il naufragio, rispetto al quale assai poco riesce a
salvarsi e a sopravvivere. La riflessione di Alexandru Dragomir sull’oceano
dell’oblio diventa allora un appello ad essere consapevoli dell’immane lavoro
di cernita affidato ad ogni tradizione e insieme un invito a ricordare tutti quei
cadaveri
abbandonati
sul
fondo,
nell’auspicio
che,
con
Shakespeare/Benjamin/Arendt, i loro occhi possano diventare perle e coralli
le loro ossa, invulnerabili alla decomposizione indotta dagli elementi e ormai
solo in attesa di un palombaro.9
9 Cfr. H. Arendt, Walter Benjamin, in “Merkur”, XII, 1968, pp. 305-315; tr. it. a cura di L. Ritter
Santini, Walter Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle , in Il futuro alle spalle, Bologna, il
Mulino, 1995, pp. 86-103 (il riferimento è a W. Shakespeare, The tempest, 1,2: “Full fathom five
thy father lies; / Of his bones are coral made: / Those are pearls that were his eyes” – A cinque tese
tuo padre è sepolto; / coralli gli si son fatte le ossa; / son perle gli occhi nel suo volto).
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Alexandru Dragomir
Sull’oceano dell’oblio *
Non intendo avanzare una tesi particolare; la mia sola ambizione è
quella di condividere con voi ciò che mi sembra essere l’oblio.10
Tutto ciò che ci accade è còlto. Per dire il modo in cui cogliamo tutto ciò
che ci accade Husserl ha utilizzato il termine “ritenzione”. Tutto ciò che mi
accade mi è dato in modo ritenzionale, il che significa, per esempio, che
quando ricordo che qualcuno mi ha detto una certa cosa – diciamo: che avevo
detto una stupidaggine – io ricordo sia quando, sia in quale occasione questo
mi è stato detto. Certamente è possibile che io abbia trattenuto erroneamente
nella memoria qualcosa che mi è successo: non era stata quella persona a dire
che avevo detto una stupidaggine, ma un’altra; non lo aveva detto esattamente
a quel modo, ma in un altro; anche il momento in cui lo ha detto può essere
stato memorizzato in maniera erronea. In ogni caso la costituzione della
nostra memoria ha comunque queste due caratteristiche: riteniamo nella
memoria ciò che ci accade e ricordiamo sempre anche le circostanze
dell’evento e una certa data a questo connessa. Questa “ritenzione”, come la
chiama Husserl, costituisce man mano il nostro capitale di ricordi,
* La traduzione è stata inizialmente effettuata a partire dalla versione inglese ( About the
Ocean of Forgetting) pubblicata in «Studia Phaenomenologica», IV (2004), n. 3-4, pp. 183-186, è
stata successivamente confrontata con la traduzione in francese, Sur l’océan de l’oubli, in A.
Dragomir, Banalités métaphysiques, Paris, Vrin, 2008, pp. 240-244, così come con il testo
originale in lingua romena, Despre oceanul uitării, in Id., Crase banalităţi metafizice, Bucuresti,
Humanitas, 20102, pp. 120-125. La traduzione in italiano avviene grazie alla gentile autorizzazione
della casa editrice Humanitas, detentrice dei diritti d’autore, e grazie alla generosa mediazione del
prof. Cristian Ciocan, direttore dello “Alexandru Dragomir – Institute for Philosophy”, fondato nel
2009 sotto gli auspici della Società romena di Fenomenologia. Ringraziamo entrambi con viva
cordialità. [Nota del traduttore].
10 Questo testo raccoglie una delle numerose “piccole conferenze” tenute da Alexandru
Dragomir a partire dal 1995. Queste erano presentate nel corso dei nostri incontri come delle
“comunicazioni brevi” di 15 o 20 minuti, di fatto si trattava in genere di meditazioni ispirate dalle
realtà con le quali tutti ci confrontavamo dopo il dicembre del 1989. Il testo si basa sulla
trascrizione di una registrazione approntata da Sorin Vieru [nota dell’editore].
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indipendentemente dal fatto che questi ricordi possano alterarsi con il passare
del tempo, sia riguardo al loro contenuto che rispetto alla loro datazione.
Di fatto, se rifletto su che cosa accade alle cose che tratteniamo nella
memoria, posso distinguere tre situazioni: in primo luogo queste possono
essere trattenute correttamente per un lungo periodo, cosicché me le ricordo
dopo qualche giorno, dopo un anno o dopo diversi anni. Oppure, in secondo
luogo, posso trattenerne il ricordo, ma, come stavo dicendo, con errori di
contenuto o di datazione. Oppure, infine, posso semplicemente dimenticare
sia che cosa è accaduto, sia in quali circostanze, sia quando esattamente.
Se le cose stanno così, allora dovremmo chiedere – anche se la questione
può forse essere mal posta – quanta oggettività abbiano i nostri ricordi.
Quante delle cose che ci sono successe sono ritenute nella memoria e quante
di quelle trattenute lo sono correttamente sotto ogni aspetto? Coloro che
hanno una buona memoria preservano i loro ricordi nel loro contenuto e
secondo la loro datazione. Se, d’altro canto, alteriamo qualcosa di ciò che è
avvenuto, questo significa che avviene una deformazione della facoltà della
memoria. Questo non significa affatto che si ha a che fare con una malattia
mentale. Un gran numero di motivi possono indurre una persona a deformare
i suoi ricordi, sia poi che questo avvenga coscientemente o resti inconscio.
Ma che cosa significa dimenticare? La risposta è alla portata di ciascuno:
dimenticare significa perdere qualcosa di ciò che so o di ciò che ho saputo
una volta. È evidente che non posso dimenticare qualcosa che non ho mai
saputo. Comunque a questo punto sento il bisogno di sollevare un problema
che solitamente non siamo soliti porre e al quale non è facile dare una
risposta: quanto si dimentica, e perché, e quanto si ritiene invece nella
memoria, e perché, di ciò che si è saputo una volta? Una risposta
indubbiamente corretta, ma solo provvisoriamente, potrebbe essere: noi
tratteniamo nella memoria e ci ricordiamo quando e per tutto il tempo in cui
siamo interessati all’oggetto ricordato. Oggetti che non hanno per noi più
alcun interesse hanno la massima probabilità di essere dimenticati e perduti. E
allo stesso modo, quando non dimentichiamo che cosa ci è successo e ciò che
abbiamo saputo? Quando il ricordo resta vivo in noi per ragioni che
riguardano la nostra vita interiore.
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Comunque nel dare una risposta del genere restiamo, con Husserl, su un
piano soggettivo. Ma mi interesserebbe sapere quanto si trattiene nella
memoria e quanto si dimentica oggettivamente di tutto ciò che avviene e di
tutto ciò che sappiamo. E qui la risposta, sebbene sia evidente e semplice, è in
realtà sorprendente: si perde molto di più di quanto si tiene a mente. Un vero
e proprio oceano di cose entra nel regno dell’oblio in confronto con la scarsità
di ciò di cui ci ricordiamo e che sappiamo. E giacché esiste un vero e proprio
baratro tra quanto avviene realmente e quanto si trattiene nella memoria, il
lavoro della ritenzione di quanto è successo diventa subito significativo. E qui
di nuovo è importante constatare che alcune cose accadono e il loro ricordo è
coltivato, mentre altre sono abbandonate all’oblio, come si dice in romeno.
Parte delle responsabilità dei ministeri della cultura dappertutto nel mondo
consiste precisamente in questo mantenimento del ricordo di ciò che è
unanimemente considerato degno di essere ricordato e che perciò non deve
essere lasciato in preda all’oblio. Tutto rientra in questa rubrica, dalle pietre
tombali, alle chiese, ai monumenti e persino i discorsi. Si tratta sempre di due
piani distinti: l’evento in quanto tale e il lavoro necessario a mantenere il
ricordo di questo evento. E se parliamo di oblio è precisamente perché ci
preoccupiamo del lavoro necessario a mantenere il ricordo. Quando parlo de
“il lavoro del mantenere il ricordo”, ho in mente una delle più importanti
attività umane, un’attività che ha le sue tecniche, che comporta
un’istituzionalizzazione e fa ricorso a specifici mezzi di azione nella sfera
interiore e spirituale.
Nonostante esista tutta questa attività, nonostante tutti gli sforzi umani
possano ottenere risultati importanti, resta il fatto oggettivo che la maggior
parte della realtà finisce nel dominio dell’oblio. Come ho già detto, abbiamo
un intero oceano dell’oblio in confronto col minuscolo lago del ricordo. Ma
ciononostante lo sforzo immenso del preservare deve essere considerato
separatamente. È impressionante il fatto che possiamo ancora leggere – dopo
2.800 anni! – l’Iliade e l’Odissea. In linea generale tutta la nostra cultura
consiste in effetti di tutto ciò che si è potuto salvare dal naufragio dell’oblio.
Comunque, si profila un nuovo problema: nel salvare tutto ciò che riesce
a salvare, lo spirito umano applica sempre una giusta misura? Ci affrettiamo a
rispondere: se oggi sappiamo chi è Omero è solamente perché 2.800 anni fa
egli ha creato dei veri e propri capolavori. Diciamo lo stesso di Shakespeare e
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di un gran numero di altri eiusdem farinae. Siamo poi inclini a credere,
quando si tratta delle creazioni dei nostri tempi, che si preserverà ciò che è di
maggior valore e solo per il fatto che ha un valore. Ma ho molti dubbi in
proposito. Perché? Perché la misura che si applica a queste creazioni, in altre
parole il nostro giudizio, appartiene ad un certo Zeitgeist. Consentitemi di
proporre il primo esempio che mi viene in mente. Quando ero uno studente,
ci chiedevamo chi fosse il più grande poeta del nostro tempo. Come gli altri,
io credevo e insistevo fortemente sul fatto che, per quanto riguardava la
poesia, Rilke, l’autore dei Sonetti e delle Elegie, fosse insuperabile. Che egli
fosse né più e né meno che un nec plus ultra. Soprattutto dopo essermi
sforzato di padroneggiare il tedesco dei Sonetti a Orfeo, tutto mi sembrava
essere di una bellezza senza pari. Dopo la grande stagione di Goethe e
Schiller, gli altri poeti sembravano dei pigmei in confronto con Rainer Maria
Rilke. Egli saliva sul podio della poesia universale ottenendo la medaglia di
bronzo, se non la medaglia d’argento. Così ho incominciato a pensare che
Rilke rappresentasse il culmine insuperabile della poesia e che nulla potesse
più venire dopo di lui. Oggi non credo affatto che la selezione operata abbia
un significato assoluto. Mi chiederete allora chi metterei al suo posto e come
sarebbe articolata una selezione giusta. Risponderei innanzitutto che si
potrebbero citare anche altri nomi e risponderei soprattutto che, in generale,
non ci si pone più il problema di scegliere chi sia il più grande tra i poeti, gli
autori o le correnti. E in secondo luogo risponderei che nel frattempo ho
imparato che anche le culture e le civiltà muoiono.
Che cosa merita di essere ritenuto nella memoria di tutto ciò che ho detto
finora? In primo luogo che la norma è l’oblio e che, sebbene rappresenti un
fenomeno negativo e che non sembra essere necessario, l’oblio è parte della
nostra natura e ha effetti decisivi sulla natura della realtà. Ne risulta un
secondo aspetto, e cioè che l’evento non può essere preservato senza uno
sforzo di mantenimento, che il nostro passato è fatto di ciò che è stato
preservato, che la nostra storia e ogni sua parte è tutto ciò che si è potuto
salvare da un naufragio. Non credo ne siano consapevoli né l’uomo comune
né l’uomo di cultura. Quest’ultimo lavora con materiali che tende a
confondere con la realtà passata, piuttosto che vedervi quel poco che se ne è
potuto conservare. In altri termini, non è affatto consapevole che si tratta di
un resto salvato dal naufragio dell’oblio. Per finire, l’aspetto più vulnerabile
di tutta questa storia è che la conservazione presuppone una selezione e non
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abbiamo argomenti e prove per dimostrare che questa selezione è stata
effettuata in maniera obiettiva. Tutto il resto non selezionato – il cumulo di
fatti, eventi e canali attraverso i quali circola l’informazione e anche i
documenti – è condannato, attraverso l’oblio, a non essere. Da questo punto
di vista, il lavoro culturale sembra derisorio in confronto a tutto ciò che
rimane destinato all’oblio. Ciò che ho voluto comunicarvi è che siamo tutto il
tempo installati dentro un oceano di oblio.
(Traduzione di Gabriella Baptist)
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DIMENTICARE
saggi
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Andrea Bonavoglia
The Internet is forever
Anche se gli utenti di Internet nei paesi occidentali sono diventati la
maggioranza assoluta tra i cittadini e quindi si calcolano in varie centinaia di
milioni, non sono molti tra loro gli utenti accorti e informati su ciò che Internet
è realmente. Ad esempio, il rapporto tra Internet e Google è molto poco chiaro
e, anche qui, solo pochissimi sanno che cos'è realmente Google. Di fondo,
prevale l'idea che Google sia una specie di padron di casa che ci fa da guida nei
meandri delle stanze: per molti, assurdamente, “Google è Internet”.
Le spiegazioni che cercherò di fornire su questo argomento nascono da una
esperienza ventennale, da una conoscenza non professionale ma appassionata
dei meccanismi della rete e dalla curiosa congruenza tra alcuni recenti aspetti
della storia di Google e il tema socio-filosofico dell'oblio. Capita spesso che
qualche amico o collega mi rivolga domande semplici: “Dopo quanto tempo una
notizia entra in Google?”; oppure, “Posso cancellare un sito da Google?”, e
anche “Cosa significa che Google fornisce la possibilità di recuperare l'oblio?”.
Ma le risposte non sono così semplici, e per definirle bisogna prima capire che
cos'è Google, prima ancora che cos'è Internet e al principio di tutto che cosa è
un server.
Che cos'è Google?
I server sono computer grandi, o meglio molteplici, in grado di registrare
documenti e di metterli a disposizione tramite una linea telefonica che trasmette
dati. È utile sottolineare come i termini “registrare” e “cancellare” (in inglese,
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“save” e “delete”) siano in questa dimensione trattabili come sinonimi di
ricordare e dimenticare.
Un server connesso a Internet, che è l'insieme di alcuni milioni di server, può
quindi fornire documenti registrati da un utente americano a un utente italiano
che li stia cercando. Il modo in cui questa fornitura di documenti avviene è
vario, ma da vent'anni la forma popolare del passaggio di documenti è il World
Wide Web, cioè un meccanismo di trasferimento dati, denominato HTTP
(HyperText Transfer Protocol), molto intuitivo, di facile accessibilità e dotato di
veste grafica. Quando sul nostro schermo appare un articolo con una fotografia
di Obama, noi stiamo aprendo grazie a un browser (Chrome, Explorer, Firefox,
…) un documento che si trova su un server probabilmente americano, e di fatto
quel server americano ce lo sta fornendo tramite la rete telefonica e il protocollo
HTTP. La fotografia e il testo si trovano peraltro inseriti tra altri testi e altre
immagini, video, reclame: la pagina composta da tutti questi elementi si
definisce un ipertesto ed è la risultante di un montaggio voluto da un
impaginatore, il webmaster, che è in grado di costruire quelle pagine usando un
codice denominato HTML (HyperText Markup Language).
Internet è solo un gigantesco magazzino
Non andiamo oltre nell'ambito del codice HTML, ma limitiamoci a determinare
che l'ipertesto che compone una pagina web è composto da vari documenti
diversi e che di pagine web oggi nel mondo ne esistono alcuni miliardi. Come
fare a rintracciare in questo gigantesco archivio o magazzino le cose che ci
interessano?
Vent'anni fa in Internet i dati erano molti di meno, la velocità di trasferimento
mille volte più lenta di oggi, la posta elettronica lo strumento più usato, il web
agli albori, e le ricerche basate su elementi semplici; il magazzino era ordinato e
si cercava di tenerlo ordinato, e infatti con un po' di esperienza le ricerche
24
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
(effettuate tramite programmi che oggi sembrano ridicoli, come Gopher e
Veronica) avvenivano in tempi accettabili, magari alcuni minuti. Certamente,
vent'anni fa in rete c'erano soprattutto documenti recenti, pochissime immagini,
nessun video e quindi Internet era utile soprattutto ai professionisti di alcuni
settori per trasferire notizie, o a chi, come me, trovava straordinario scambiare
opinioni tramite email con altri studiosi sparsi nel mondo.
In seguito, in parallelo col progredire del Web, i sistemi di ricerca si affinarono e
nacquero i primi veri Search Engines, i motori di ricerca, cioè siti web che
dispongono di un sofware per cercare altre pagine web. La risposta alle ricerche
degli utenti avveniva in modo quasi casuale e i siti venivano elencati senza
criterio apparente; stava all'utente cercarsi tra tanti il sito giusto, che in qualche
caso non era neppure presente. Yahoo!, Lycos e Altavista sono stati per qualche
anno i motori più usati, fino all'avvento improvviso e prepotente di Google, nato
nel 1997, che a partire dal 2000 all'incirca ha soppiantato tutti gli altri sistemi
creando un vero e proprio monopolio e generando una società informatica
gigantesca. Si pensi che i server utilizzati da Google sono oltre un milione e non
si dimentichi che Google possiede anche Youtube, Gmail, Android e molti altri
marchi.
Perchè Google è il motore migliore?
I creatori di Google hanno visto l'errore di fondo dei loro predecessori e hanno
basato la ricerca su un algoritmo, cioè su una procedura che elenca i siti in base
alla loro popolarità; la popolarità non si basa - come molti credono - sul numero
dei visitatori, ma soprattutto sull'interconnessione di un sito dentro la rete.
Ma come fa Google a risponderci in micosecondi, se la rete è fatta di miliardi di
pagine web? Innanzitutto, Google effettua la ricerca sui suoi server e non sul
web; infatti, Google dispone di una serie di programmi automatici, sempre in
funzione, detti spider, che perennemente analizzano tutti i dati pubblici dei
25
server di tutto il mondo e li registrano. Sia chiaro che gli spider non possono
accedere in siti protetti, quindi l'interno delle pagine di Facebook o i clienti di
una banca o i libri di una biblioteca restano invisibili.
I dati raccolti vengono indicizzati, cioè rapidamente analizzati e catalogati in un
indice di veloce consultazione. Quando uno spider trova un sito nuovo, lo
colloca in un limbo d'attesa; semplificando, si può dire che la “scoperta” di un
sito nuovo viene registrata da Google nell'arco di 24 ore dalla sua pubblicazione
(la brevità di tempo ci dice qualcosa sulla mostruosa efficienza degli spider).
Questo non significa tuttavia che il sito entri nelle ricerche degli utenti così
presto, anzi; l'algoritmo di Google usa un sistema a livelli (rank) per cui la
miglior posizione di un sito negli indici è determinata da molti fattori, tra cui semplificando - la presenza del suo indirizzo nelle pagine di altri siti (tanto più è
interconnesso tanto più il sito è rilevante), la sua mutevolezza (tanto più cambia
tanto più un sito è attivo) e naturalmente il rilievo che il termine cercato ha nella
pagina web (se si trova nel titolo o meno).
Un esempio personale
Per evitare di fare solo teoria, parliamo ora di casi reali; il mio nome è presente
non solo nel mio sito personale ma anche in molti altri, e alla ricerca “andrea
bonavoglia” (se i termini sono messi tra virgolette diventano un unico termine di
ricerca) Google risponde in 30 centesimi di secondo che ricorre in oltre 2600
pagine web. Analizzando con attenzione gli elenchi forniti da Google, posso
tuttavia stabilire che - a parte pochi omonimi - i siti che ospitano il mio nome
sono molti di meno; al termine delle pagine di ricerca, che si raggiunge in pochi
secondi, appare una dicitura in cui Google segnala che un numero altissimo
delle 2600 pagine ha indirizzo “molto simile” ed è stato per praticità ignorato; i
siti principali quindi sono soltanto 178. La spiegazione è semplice: in uno stesso
sito sono spesso proposti elenchi e indici nelle parti fisse dell'impaginato (i
26
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
menu, i moduli, le sezioni, le annate, ecc.); il nome di un autore può trovarsi
scritto e indicizzato in tutte le 100 pagine di un sito se anche in una sola di
quelle pagine appare un suo scritto.
Cancellarsi
Poniamo ora che io decida di cancellare la mia presenza in rete. La cosa ha
implicazioni interessanti da un punto di vista psicologico e antropologico, ma in
questa sede le ignoreremo, facendo finta appunto che io stesso - che di Internet
sono un profondo sostenitore - sia entrato in una crisi esistenziale e abbia preso
la drastica decisione di sparire dalla rete. Per i motivi che abbiamo detto prima,
molta gente crede che cancellarsi da Internet o da Google sia la stessa cosa, e la
società californiana ha dovuto adeguarsi al fatto che gli utenti le si rivolgano per
ottenere l'oblio. Google ha ricevuto un'ingiunzione dall'Unione Europea, ma
poteva benissimo rifiutarsi di farlo, e chi ha seguito i miei ragionamenti avrà
capito perché; sta di fatto che una buona politica societaria prescrive che i
clienti, più che le autorità, hanno sempre ragione.
Quindi Google ha preparato il modulo (vedi qui sopra) per richiedere l'oblio, nel
senso che la società si impegna per quanto possibile a cancellare l'utente dai
propri server; è evidente che Google non può cancellare alcunché da siti che non
possiede, ma si suppone che una volta oscurata la ricerca, quel nome sia di fatto
oscurato a sua volta.
Tutto ciò ricorda la famosa poesia di Bertolt Brecht, “Die unbesiegliche
Inschrift” (la scritta invincibile, che è poi un evviva a Lenin): cercare di
cancellare la scritta da un muro è impossibile, l'unica soluzione è togliere il
muro.
Il nostro risultato in definitiva è questo: non sto cancellando i miei dati dal
magazzino, ma sto chiedendo al magazziniere di non trovarmi più. Una simile
27
scelta ha dei limiti evidenti, e in particolare si poggia su un'ipotesi falsa, che
Google resti per sempre il miglior motore di ricerca.
The Internet is forever
In una qualche serie poliziesca americana i detective ottengono prove risalendo
a dati molto vecchi della rete e chiosano l'indagine con la battuta “The Internet
is forever”. Non è del tutto vero, ma molte cose in rete sopravvivono al di là
delle aspettative e procurano non solo affollamento di dati, ma anche una grande
confusione. Molte pagine web non sono datate in modo visibile e la loro lettura
può generare equivoci notevoli. Google - come detto - abbassa di rank le pagine
che non cambiano, ma non le cancella dai suoi archivi; in una ricerca selettiva, è
quindi facile incorrere in dati antiquati che appaiono attuali.
Tornando al mio caso, 178 siti mi citano, e quindi a parte l'invio del modulo a
Google, potrei chiedere ai webmaster dei 178 siti di cancellare ciò che mi
riguarda. Posso farlo, con evidente fatica, ma resta un problema: con quale
diritto lo chiedo? Ho messo io a disposizione della rete i miei articoli e le mie
costruzioni web, e quindi le citazioni, i riferimenti, le repliche ai miei lavori
sono state sempre benvenute; inoltre, molte citazioni del mio nome sono
automatiche, perché risalgono ad esempio alla pubblicazione di un libro. Se ora,
in preda a depressione, voglio cancellarmi dalla rete, devo anche cancellare
alcuni fatti concreti della mia vita. Nel mio caso, dovrei cancellare molte pagine
di carta, la mia attività di insegnante, il mio ruolo stesso di progettista web, la
mia partecipazione a seminari e conferenze, ecc. ecc. Si vede bene, credo, che
tutto ciò è da un lato impossibile, dall'altro inutile.
E quindi, cercare l'oblio di Google non equivale forse a cercare l'oblio assoluto?
In questa meraviglia/follia di un mondo che non nasconde più nulla, ha senso
cercare di nascondersi? Come si può cancellare/dimenticare ciò che comunque è
destinato a restare, per quanto sommerso nel caos delle cose? Il confine tra rete
28
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
e vita si manifesta nella sua totale precarietà, molto semplicemente perché la
rete ormai è parte della vita.
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Massimo Piermarini
Oblio e memoria
Non c’è fuoco o gelo che possa sfidare
ciò che un uomo può immagazzinare
nella memoria
F. Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby
Sembra che il pensiero occidentale, da Platone in poi, non sappia
muoversi al di fuori dell’anamnesi e che il desiderio di ricordare risponda ad
un’esigenza profonda di sicurezza.11 Ma l’uomo è un essere che dimentica. Il
rovesciamento dell’orizzonte platonico, lo smemoramento contro la
rammemorazione (l’Andenken heideggeriano) è il rischio sempre presente,
nell’ambito della memoria, individuale e collettiva. I ricordi sono circoscritti
dall’oblio, come i concetti sono circoscritti dal caos del divenire: si pensa
sempre contro l’impensabile, il caos, si ricorda ai bordi dell’oblio, circondati
da esso e attraverso di esso, incapaci di mantenere il governo della nave della
memoria.12 La conoscenza è, per Deleuze, un taglio, una coupure nel
divenire13 e, rispetto alla continua azione dell’oblio, una specie di durasiana
diga contro l’Oceano. Il principio di sicurezza esige un orientamento nel
11Platone, Menone, 811, c-d. Sul ricordo dell’antica Grecia, patria della libertà-uguaglianza,
si fonda la poesia-filosofia di Hölderlin, per cui l’allontanamento dall’En kai Pan, in direzione
eccentrica, è l’inizio del grande inverno, in cui gli dei sono volati via, senza lasciare traccia di loro,
eccetto che nell’entusiasmo e nell’ispirazione poetica, nella Begeisterung dionisiaca.
Nell’orientamento verso il passato lo stesso Heidegger conferma il problema della metafisica:
l’oblio dell’essere. Cfr. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari, 1991, pp. 78-79. La
dimenticanza dell’Essere a favore dell’ente è all’origine della “deviazione dell’Occidente”. Questo
è un occultamento, perché l’Essere non scompare. Heidegger indica, ispirandosi a Hölderlin,
nell’Andenken, la rammemorazione come il compito del pensiero, la retrospezione verso ciò che
non è ancora pensato. Cfr. sull’essenza del pensiero poetante M. Heidegger, Rammemorazione, in
Id., La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano, 1988, pp. 95-180.
12«Ogni concetto ha un contorno irregolare, definito dalla cifra delle sue componenti. È per
questo che, da Platone a Bergson, si ritrova l’idea che il concetto sia una questione di articolazione,
di ritaglio e di accostamento. È un tutto, perché totalizza le sue componenti, ma è un tutto
frammentario. Soltanto a questa condizione il concetto può uscire dal caos mentale che lo attende
al varco e non cessa di minacciarlo per riassorbirlo». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la
filosofia, Torino,Einaudi, 1996, p. 23.
31
tempo, un’organizzazione delle sue latitudini, una disciplina
dell’immaginario, una classificazione dei frammenti del passato, sotto forma
di ricordi, tracce, rilievi, per disegnare mappe e topiche in cui si eserciti il
nostro potere di saltare nel passato, installarsi nei suoi livelli, catturarlo, e
ricondurne alla coscienza immagini e segni. Nella memoria il “soggetto”
cerca essenzialmente la sicurezza di sé, costruisce un piano stabile, in cui
insediarsi, per penetrarne il paesaggio. I gradi di tensione della memoria e lo
sforzo di espansione che compie per localizzare i ricordi possono però fallire.
L’oblio si presenta come una rottura della nostra storia individuale 14 che
rivela la natura della memoria: non un deposito di cose morte, ma un campo
di forze e di molteplici piani, in cui la coscienza, contraendosi ed
espandendosi, gioca le sue chances. «La statua glorifica il marmo» scriveva
Blanchot. La statua è però il prodotto di una demolizione, di una sottrazione
di marmo. Lo stesso si può dire dell’oblio. Ma chiediamoci: l’oblio è
veramente la negazione della memoria? Nell’oblio si elimina la solidarietà tra
memoria-abitudine e memoria integrale del passato, ricordi recenti e remoti? I
risultati delle indagini cliniche e delle esplorazioni filosofiche convergono:
l’oblio è un sistema dinamico di strati e livelli, si articola in una molteplicità
di modi, proprio come la memoria, ed è sempre legato ad affetti, a situazioni
emotive, patologiche e normali, in cui si vive la temporalità. La potenza
selettiva dell’oblio – come avviene nell’Eterno ritorno dell’Identico
nietzscheano15 – glorifica la materia del passato: gli oggetti, gli atti, i simboli,
le cifre del suo passaggio, le stazioni e i transiti e i passaggi del suo snodarsi.
13«Il piano di immanenza è come un taglio del caos e agisce come un setaccio. Il caos, in
realtà, non è tanto caratterizzato dall’assenza di determinazioni quanto dalla velocità infinita con
cui queste si profilano e svaniscono […]. Il caos non è uno stato inerte o stazionario, non è un
miscuglio casuale. Il caos rende caotica e scioglie nell’infinito ogni consistenza». Ivi, p. 51. Cfr. H.
Bergson, L’évolution créatrice, ed. digit. in Classiques des sciences sociales, Chicoutimi,
Université du Québec, 2003, p. 149 sul taglio (coupe) operato dall’intelligenza sul flusso del reale,
sul divenire universale: «Les choses se constituent par la coupe instantanée que l’entendement
pratique, à un moment donné, dans un flux de ce genre, et ce qui est mystérieux quand on compare
entre elles les coupes devient clair quand on se reporte au flux». La stessa intelligenza, d’altra
parte, è «ritagliata» da una realtà più vasta e creatrice, la vita come slancio, H. Bergson,
L’evoluzione creatrice, Milano, Raffaello Cortina, p. 48. Sull’immagine del corpo come «taglio
trasversale del divenire universale» si veda H. Bergson, Materia e memoria, in Opere 1889-1896,
Milano, Mondadori, 1986, p. 259.
14Cfr. H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 275.
15Cfr. infra, le note n. 42 e 43.
32
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
L’attualizzazione dei ricordi puri, virtuali, rappresenta sempre,
congiuntamente, un taglio, un’esclusione: il presente, l’attuale si colloca su
un piano diverso dal virtuale, il passato puro. È inevitabile il rischio di
perdita, di abbandono del passato: l’oblio. Noi non portiamo il presente nel
passato, perché esso lo è già da sempre. Scaviamo i giacimenti della
memoria, per corroborare il nostro senso di sicurezza, la posizione di
soggetto, in vista dell’azione, che può aprirsi, almeno sul piano etico
“spinoziano”, ad un’avventurosa esplorazione di dimensione “cosmica”. 16 In
quanto “soggetti” ci rendiamo estranei alle linee divergenti e anomale che il
divenire produce, al mondo dei viventi o cosmo in nome di un retro-mondo o
sovra-mondo che la metafisica spaccia per fondamento, guadagnandone in
attribuzione di senso, in identità certa. Il mondo nel quale viviamo si colloca
in una rete che, in termini deleuziani, si può definire uno “spazio mentale
striato”, cioè gerarchizzato. Una memoria gerarchica sarà uno spazio di
questo tipo, che cerca di sradicare la possibilità stessa del fallimento,
dell’abbandono all’oblio. Ma, per Deleuze, il Piano di consistenza o di
immanenza
ignora le differenze di livello, gli ordini di grandezza e le distanze […] tra
l’artificiale e il naturale. Ignora la distinzione dei contenuti e delle espressioni,
come quella delle forme e delle sostanze formate, che esistono solo mediante
gli strati e rispetto agli strati.17
Ciò può significare che è il passaggio allo spazio mentale “liscio” ad
incaricarsi di affrontare il disordine di un ordine fittizio (quello delle
metafisiche e dei poteri) come il suo problema principale. Il caos e l’oblio
diventano la sfida della sua attività. Se Paul Ricœur, nell’opera
Dell’interpretazione. Saggio su Freud, ha indicato l’oblio come origine della
riflessione, situazione iniziale a partire dalla quale si possa recuperare
“qualcosa che dapprima è stato perduto”, separato dall’io e divenuto estraneo,
per cui ricordare diventa, in tale contesto, un compito di valenza morale,
Gilles Deleuze collega invece la memoria alla fenomenologia del desiderio e
all’intervento attivo della potenza di oblio, che si declina necessariamente nel
16Questa esplorazione e il pathos gioioso dell’ascesi filosofica aderiscono alla condotta di
vita in cui ci si istalla nel piano di immanenza e lo si costruisce, cfr. G. Deleuze, Spinoza. Filosofia
pratica, Milano, Guerini e associati, 1991, cap. 6: “Spinoza e noi”.
17G. Deleuze. F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, ed. digitale, Roma,
Cooper, 2003, p. 273.
33
dispositivo di memoria. La memoria inizia con uno “scarto” che è l’alba della
soggettività e si compie nella contrazione in cui, nella coesistenza di passato
integrale e presente, essa si inverte e si converte, per vibrare verso il futuro. 18
Ricordare, dunque, ha sempre a che fare con una distanza e con un divenire,
cioè con il desiderio, che non è altro che un passare per i divenire, una
relazione tra due termini eterogenei che si deterritorializzano e, dal punto di
vista del soggetto, l’apertura ad un’altra maniera di sentire e vivere, che
s’inviluppa nella nostra e la fa fuggire. Il desiderio ha, infatti, delle linee
profonde di relazione, che congiungono il “cuore” della “piega”, cioè della
soggettività prodotta dall’essere e messa a punto come abito e punto di vista,
con il corpo. Il sopravvenire del desiderio, la sua pienezza che non manca di
nulla è, allora, per noi, un evento, una cesura, un punto di disgiunzione nella
serie cronologica dei presenti, che, in un certo senso, interrompe il tempo per
riprendere, con uno slittamento di senso, su un altro piano. L’evento insomma
si produce nel tempo, ma non vi si riduce, costituendo un tempo vuoto o
morto, condizione stessa delle serie cronologiche. Solo degli uomini
“semplici”, i più “naturali”, o degli scrittori maledetti, i più possibilmente
“anormali”, sembra, secondo Deleuze, che abbiano familiarità con esso,
emancipandosi dalla soggezione ad un’eternità mitologica, “fuori del tempo”
e trascendente. Soffermiamoci un momento sulla nozione di “piega” in
rapporto alla coppia “memoria-oblio”. Non bisogna pensare, per Deleuze, la
piega a partire da un centro “puro”. La piega è un taglio dell’Essere, una
replicazione-sdoppiamento-piegatura del suo dispositivo ontologico. È il
Fuori che genera un dentro.19 Lo stesso piano di immanenza, il movimento
assoluto al di là dell’oggetto e del soggetto, in Che cos’è la filosofia, non è
concepibile senza riferirsi alla piega, figura centrale del saggio su Leibniz e il
Barocco.20 Il risultato de La piega. Leibniz e il Barocco (già intravisto nel
18G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Torino, Einaudi, 2001, pp. 42-43. Ma sulla
contrazione-concentrazione di energie e di emozioni-eccitazioni operata dalla memoria, che mostra
così di appartenere appieno alla dinamica del desiderio e del piacere cfr. G. Deleuze, Differenza e
ripetizione, Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 100, 106. Sull’apertura al futuro della sintesi
ordinale “scardinata” del tempo, connessa alla ripetizione, vedi le pp. 119, 120-121.
19G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 2004, pp. 73 sgg., si veda in
particolare pp. 83 sgg. sul nuovo statuto del soggetto.
20«Il movimento infinito è definito da un’andata e ritorno, perché esso non va verso una
destinazione senza fare già ritorno su se stesso, essendo l’ago anche il polo. […]. Il movimento
infinito è doppio, tra l’uno e l’altro non c’è che una piega [...]. I diversi movimenti dell’infinito
34
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
volume su Foucault) è la scoperta della possibilità di una nuova posizione
della soggettività come espressione del piano di immanenza. Il “residuo
minimo” di soggettività di Mille piani viene così, nella elaborazione
successiva, riletto in chiave ontologica. Che cosa accade? Avvolgendosi,
piegandosi, ripiegandosi su di sé, l’Essere definisce, con il limite, anche un
dentro, a partire dal quale il pensiero svolge ciò che avvolge, dal dentro al
fuori. Il pensiero si flette perché riflette le forze del fuori, la cui attività
definisce un limite. La riflessione diventa il prodotto di un rapporto di forze,
in cui il dentro e il fuori si forzano e si sforzano:
Il momento più profondo dell’intuizione è dunque quello in cui il limite è
pensato come piega, e in cui di conseguenza l’esteriorità si rovescia in
interiorità. Il limite non è più quel che intacca il fuori, ma una piega del fuori.
È un’auto-affezione del fuori (o, il che è uguale, della forza […] il limite
comune delle forze eterogenee, che esteriorizzano completamente gli oggetti o
le forme, è l’azione stessa dell’Uno come piegamento di sé.21
L’identità di pensiero ed essere, invocata da tanti pensatori come
principio dell’ontologia, diventa così possibile, e dunque reale, quando esso
diventa una piega, «la cui essenza vivente è la piega dell’Essere». 22 Questo
intreccio modifica lo statuto dell’intuizione filosofica, la funzione della
memoria e dell’oblio, con inevitabili connessioni che, a partire dall’idea di
“soggettivazione”, si riflettono sulla concezione del tempo, che si emancipa
dal movimento in senso fisico-matematico, e sulla concezione del mondo, che
si emancipa dalla trascendenza.23 L’interiorità diventa uno spazio del dentro,
co-presente e coestensivo allo spazio del fuori, sulla linea della piega e cessa
di presentarsi come un principio ontologico indipendente dall’Essere
sono talmente mischiati gli uni con gli altri che, lungi dal rompere l’Uno-Tutto del piano di
immanenza, ne costituiscono la curvatura variabile, le concavità e le convessità e, in qualche
modo, la natura frattale». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 47 (il corsivo è
nostro, cito dall’ed. dig.).
21A. Badiou, Deleuze, il ‘clamore dell’essere’, Torino, Einaudi, 2004, p. 218 (cito dall’ed.
dig.).
22Ivi, p. 219.
23La linea anticartesiana di Deleuze non scende a patti né con l’idealismo né con la
fenomenologia: la piega non si può scambiare per l’Io dell’idealismo o della fenomenologia e
rompe altresì con la tradizione neoplatonica e agostiniana-creazionista di un’origine unitaria (e
trascendente) del tempo.
35
univoco24 nella piega, diventando il raddoppiamento, la piegatura del fuori in
un dentro. Ora, nella piega, è l’Essere stesso che si fa Memoria, memoria di
sé e del mondo, integrale memoria del passato o intuizione della Durata. La
formula rinvia alla riflessione bergsoniana, 25 che Deleuze accoglie e di cui
formalizza l’impianto immanentistico. L’essere del Tempo, in cui la Memoria
è iscritta, si “soggettivizza” grazie alla piega e sotto la condizione della piega,
ma la memoria non può più in nessun caso considerarsi un’attività del
soggetto, sottoposto com’è, in quanto isola di ordine, punto di vista, al
continuo costruirsi e svanire e ridotto, quindi, ad una forma in continua
formazione-deformazione: inflessione, piegatura, spiegatura, ripiegatura del
Fuori. Non si tratta più soltanto, come avveniva in Mille piani,26 di conservare
un’oncia di soggettività, necessaria a quel “piano di immanenza”, che tende
ad assorbire la Terra, il cui compito è il taglio del caos delle forze del
divenire. Si tratta invece di risolvere la soggettività, che si dilata e si contrae
nel ricordare, nell’ontologico puro o nell’essere in sé, il Virtuale del passato.27
L’Essere si dà dunque come Memoria o meglio come Durata. La
memoria non è la creazione di un soggetto ipostatizzato e di un’interiorità
presupposta e trascendente gli eventi, come in Platone, che
24Sulla tesi ontologica dell’Univocità dell’essere in rapporto alla ripetizione dell’Eterno
ritorno si veda G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 53-61.
25Si veda H. Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 258-259 per la distinzione tra due
memorie, la memoria-abitudine, “fissata nell’organismo” e condizionata dall’adattamento alla
situazione presente e la vera memoria “coestensiva alla coscienza” che evoca l’esperienza passata,
svincolandosi dal presente e dai suoi meccanismi. Cfr. sul rapporto soggetto-oggetto, memoriapercezione, e quindi spirito-materia, il ruolo centrale della concentrazione-contrazione della
memoria che collega le visioni istantanee, spaziali, del reale, ivi, pp. 192-193.
26G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., pp. 583-584: «Dell’organismo bisogna
conservare quanto basta perché si riformi a ogni alba; […] bisogna conservare piccole razioni di
soggettività, in quantità sufficiente per poter rispondere alla realtà dominante. […] Siamo in una
formazione sociale; vedere innanzitutto come è stratificata per noi, in noi, nel posto in cui ci
troviamo; risalire dagli strati al concatenamento più profondo in cui siamo presi; far capovolgere il
concatenamento con molta precauzione, farlo passare dalla parte del piano di consistenza».
27G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, cit., p. 45; cfr. G. Deleuze, Differenza e
ripetizione, cit., p. 119. L’abitudine a ricondurre ogni manifestazione della memoria al presente,
alla presenza e al riconoscimento del ricordo ci confina nel regno della psicologia, dell’io o
dell’Es, e della sua temporalità, Chronos, ma nulla ha a che fare con la concezione bergsoniana e
deleuziana della durata.
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
mette il tempo nel concetto ma questo tempo deve essere l’Anteriore.
Costruisce il concetto ma come testimone della preesistenza di un’oggettività,
sotto forma di una differenza di tempo capace di misurare la distanza o la
prossimità dell’eventuale costruttore. […] La verità si pone come presupposta,
come già esistente.28
Uscire dalle nomenclature concettuali del platonismo, rovesciare le sue
scatole vuote, confutarne le pretese di verità è l’esigenza imperativa di
Deleuze. Gli Universali della metafisica sono soltanto grida nel deserto,
vibrazioni minime, movimenti di palpebre in una fossa oceanica. La
dimensione di “piega” della soggettività, emancipata dalla trascendenza e
dall’ordine plurivoco (o “analogico”) dell’essere, si appresta alle sue catture,
alle sue “cacce sottili”, ai tagli delle forze caotiche del divenire nel piano di
immanenza, che
i concetti popolano senza dividere […]. Il piano assicura il raccordo dei
concetti con delle connessioni in perenne aumento e i concetti assicurano il
popolamento del piano su una curvatura sempre rinnovata, sempre variabile.29
La soggettività, si è visto, non scompare, ma riforma radicalmente se
stessa, si configura nella dimensione virtuale dei suoi divenire, dei suoi flussi
e delle sue metamorfosi.30 Gli io si confermano esistere soltanto come
«soggetti larvali».31
Punto di oblio
Ogni vita è, si capisce, un processo di demolizione
G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani
Avviciniamoci alla memoria, a quella memoria pura che è tangente non
soltanto al piano della percezione presente, secondo la nota immagine del
28G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 37.
29Ivi, p. 44.
30«I flussi d’intensità, i loro fluidi, le loro fibre, i loro continua e le loro congiunzioni
d’affetti, il vento, una segmentazione fine, le micropercezioni hanno sostituito il mondo del
soggetto. I divenire, divenir-animali, divenire-molecolari, prendono il posto della storia, sia essa
individuale o generale». G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 587.
31G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 106.
37
“cono rovesciato”32 ma anche al punto di oblio,33 da cui parte la strategia di
attacco del complotto (la “pretesa”) in cui il soggetto-piega opera, con la
disposizione d’animo della sorpresa, con la velocità infinita del Piano
d’immanenza. Il soggetto minoritario non cessa, malgrado tutto, di svolgere il
suo ruolo e non si dissipa senza residui nei flussi di divenire. 34 La coppia
categoriale striato-liscio (attribuita allo “spazio”, ma ad uno “spazio
mentale”) di Mille piani, consente infatti di ridefinire i rapporti della memoria
con l’oblio. In particolare lo spazio mentale liscio o nomadico significa
cancellazione dei ricordi, l’oblio relativo e la negazione-scomposizione della
sua organizzazione arborescente o striata. Ogni sedimento di memoria striata
è connesso sia al “punto di vista” in cui il soggetto ha voce, che allo slancio
di un sorvolo assoluto, alla velocità infinita del Piano di Immanenza. Si
presenta così, nell’attualizzazione dei ricordi, in tutta la sua forza, quel
radicamento della memoria nel territorio dell’oblio, da cui si generano le linee
irregolari e le asimmetrie della memoria. Forse l’oblio non si può più pensare,
secondo la celebre immagine dell’Introduzione alla Metafisica di Bergson,
come un “fondo” inerte dal quale i ricordi affiorano per guadagnare la
superficie (la coscienza), né come un limite che minaccia la memoria. Esso è
potentemente attivo nel piano in cui la memoria opera il taglio dei ricordi e
connette il passato recente con la memoria profonda, accessibile soltanto, nei
suoi livelli molteplici e nei piani in cui cerchiamo di collocarli, nel sogno. Il
carattere di flusso della realtà pura, la Durata, che incontriamo, secondo
Bergson, procedendo dalla periferia verso il centro del soggetto, è infatti
32H. Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 259-260.
33Il mutuo appoggio, la solidarietà tra memoria-abitudine del corpo e dei suoi meccanismi
senso-motori e vera memoria del passato (dei ricordi in sé) non è garantita per Bergson che dalla
normalità, cioè dall’equilibro degli individui ben adattati alla vita, cfr. ivi, p. 260. La sfera del
patologico e della sperimentazione-costruzione di vita dell’arte (o della filosofia in senso
deleuziano) ne sono dunque escluse. Se la parte immediata del passato che, proteso sul futuro
lavora per realizzarlo e annetterselo, può essere schiarita dal bagliore della coscienza, il resto,
afferma Bergson, «rimane nell’oscurità», ivi, p. 258.
34G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 588. Con riferimento al libro di Carlos
Castaneda sugli insegnamenti esoterici di Don Juan, Deleuze e Guattari scrivevano: «Non è più un
Io che sente, agisce e si ricorda, è “una bruma brillante, una nebbia gialla e scura” che ha affetti e
prova movimenti, velocità. Ma l’importante è che non si disfa il Tonal distruggendolo di colpo.
Occorre diminuirlo, restringerlo, pulirlo e per giunta soltanto in certi momenti. Occorre
conservarlo per sopravvivere, per poter sventare l’assalto del Nagual» (corsivo nostro).
38
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
prima e fuori del taglio dei ricordi (“cristalli ben tagliati”) e della superficie
delle percezioni di oggetti. La continuità di flusso fa sì che gli stati successivi
si prolunghino l’uno nell’altro35 e siano più simili all’arrotolarsi «come quello
di un filo sul gomitolo»36 in cui si costruisce la coscienza, cioè la memoria,
con un’operazione nella quale la contrazione-tensione della “piegatura”
assume un rilievo essenziale. Per Deleuze l’immersione nel caos del divenire
spinge la memoria a varcare i bordi dell’oblio, a forzarne i limiti.
Nell’inseguire i ricordi siamo inseguiti dall’oblio e incapaci di mantenere
durevolmente la nostra direzione di viaggio, centrata sul presente di un ordine
cardinale del tempo.37
La conoscenza si conferma essere un taglio (una coupure)38 del divenire:
ciò che si conosce è circoscritto dal divenire caotico, ciò che si ricorda è
circoscritto e definito dall’oblio, relativamente impenetrabile. Il caos mentale
non cessa di esercitare la sua presa. La stessa biografia dei romanzi – la
letteratura lo testimonia – e, aggiungiamo, quella continua biografia che
scriviamo di noi stessi in ogni concatenamento, non riproduce e salva, ma
elimina e demolisce porzioni del passato, ripetendolo su livelli e modalità
sempre nuovi. La critica senza sconti del platonismo e della sua anamnesi,
della psicoanalisi col suo psicologismo, mira alla costruzione speculativa di
un percorso di uscita da tali territori:
Dove la psicoanalisi dice: Fermatevi, ritrovate il vostro Io, bisognerebbe dire:
Andiamo ancora più lontano, non abbiamo ancora trovato il nostro CsO [Corpo
senza Organi], non abbiamo ancora disfatto abbastanza il nostro Io. Sostituite
l’anamnesi con l’oblio, l’interpretazione con la sperimentazione. Trovate il
vostro corpo senza organi, sappiatelo fare, è una questione di vita o di morte,
di giovinezza e di vecchiaia, di tristezza e di allegria. Ed è qui che tutto si
gioca.39
35H. Bergson, Introduzione alla Metafisica, Laterza, Bari, 1983, p. 48.
36Ibidem.
37Il presente, nella sua posizione intratemporale, non è altro che «la concentrazione
massima di tutto il passato» con cui coesiste e che coesiste in sé (G. Deleuze, Differenza e
ripetizione, cit., p. 111) e appartiene al tempo cronologico.
38G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 21.
39G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 553 (corsivo nostro).
39
Il paradigma del rizoma o del “corpo senza organi” elabora una via
d’uscita nel movimento del nomadismo, il viaggio continuo e immobile in cui
è possibile sperimentare e costruire la soggettivazione, al di là di ogni
organizzazione e fissazione:
Consideriamo i tre grandi strati rispetto a noi, cioè quelli che ci imprigionano
più direttamente: l’organismo, la significanza e la soggettivazione. La
superficie d’organismo, l’angolo di significanza e d’interpretazione, il punto di
soggettivazione o d’assoggettamento. […] Sarai un soggetto, e fissato come
tale, soggetto d’enunciazione ripiegato sopra un soggetto d’enunciato,
altrimenti non sarai che un vagabondo. All’insieme degli strati, il CsO [Corpo
senza organi] oppone la disarticolazione (o le n articolazioni) come proprietà
del piano di consistenza, la sperimentazione come operazione su questo piano
(nessun significante, non interpretate mai!), il nomadismo come movimento
(muovetevi anche stando fermi, non cessate di muovervi, viaggio immobile,
desoggettivazione).40
Due memorie: lunga e corta
La filosofia deleuziana liquida
l’immagine classica del pensiero e [del]la striatura dello spazio mentale che
essa opera […] con due “universali”, il Tutto come ultimo fondamento
dell’essere od orizzonte che ingloba, il Soggetto come principio che converte
l’essere in essere per-noi. Imperium e repubblica. Fra l’uno e l’altro, tutti i
generi del reale e del vero trovano il loro posto in uno spazio mentale striato,
dal duplice punto di vista dell’Essere e del Soggetto, sotto la direzione di un
“metodo universale”.41
Confutata la tesi di un’appropriazione da parte del Soggetto umano della
Realtà del passato (la Durata è l’essenza variabile delle cose, come insegna
Bergson nel primo capitolo di Materia e memoria), Deleuze accoglie la
divisione di due memorie: lunga e corta, arborescente e rizomatica. La
memoria corta non comprende soltanto la dimenticanza, l’oblio, nel suo
processo, ma, si potrebbe dire, che fa centro sull’oblio, cioè contrae,
concentrandola al massimo, quella memoria del passato che saltando e
istallandosi in esso, cioè dilatandosi, ha conquistato, secondo una
40Ivi, p. 579.
41Ivi, p. 1306.
40
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
modulazione e un’inclinazione asimmetrica. Le due modalità di memoria
sono molto diverse:
Ora la differenza non è soltanto quantitativa: la memoria corta è del tipo
rizoma, diagramma, mentre la lunga è arborescente e centralizzata (impronta,
engramma, calco o foto). La memoria corta non è per nulla sottomessa a una
legge di continuità o di immediatezza con il suo oggetto, essa può essere a
distanza, venire o rivenire molto tempo dopo, ma sempre in condizioni di
discontinuità, di rottura e di molteplicità. Ancor più, le due memorie non si
distinguono come due modi temporali di percezione della stessa cosa; non è la
stessa cosa, non è lo stesso ricordo, non è neppure la stessa idea che colgono
entrambe.42
La memoria corta rappresenta, paradossalmente, l’oblio, la
dimenticanza, rispetto alla memoria lunga. Essa non ricorda ciò che ricorda la
memoria lunga e non si confonde con l’istante presente, ma con il rizoma
collettivo, temporale e nervoso.43
Liscio e striato, curvatura del tempo
Ciò che si “salva”, nella memoria, sembra dunque salvarsi grazie
all’oblio, attraverso l’oblio. Il momento migliore della memoria è la sua
curvatura, la sua conversione, la sua vocazione “liscia”, l’emissione delle sue
grida.44 Tale lisciatura dello striato appare agli occhi della normalità come una
cancellazione, una demolizione dei ricordi, un passo indietro,
apparentemente, della memoria rispetto alla potenza dell’oblio. La memoria
vi guadagna invece il suo modo di essere più proprio, la sua virtualità
potenziata. Mostra di possedere il potere di svincolarsi dalla ricostruzione del
passato e dal mero riconoscimento nel presente del ricordo. Tale forzatura è il
42Ivi, p. 103. Sulla memoria in rapporto al tempo soggettivo e al tempo vissuto in patologia
si veda E. Borgna, Noi siamo un colloquio, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 62 e passim, testo ricco di
suggestioni filosofiche e letterarie, che conferma, con l’esperienza clinica, la tesi delle molteplicità
di memoria.
43«La memoria lunga (famiglia, razza, società o civiltà) ricalca e traduce, ma ciò che
traduce continua ad agire in essa, a distanza, in contro tempo, “intempestivamente”, non
istantaneamente». G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 103.
44Sono le stesse grida lanciate da Spinoza: «voi non sapete ciò di cui siete capaci, nel bene e
nel male, non sapete in anticipo ciò che può un corpo o un’anima, in un dato incontro, in una data
concatenazione, in una certa combinazione». G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, cit., p. 270.
41
suo potere di oblio, di cancellazione rispetto alla memoria-ricordo.
L’orientamento inverso del Tempo, d’altra parte, in direzione del futuro e non
del passato, è sempre immanente alla sua attività. Il presente, non più una
dimensione del tempo tra due altre dimensioni del tempo, è vòlto in direzione
del futuro come attesa e costruzione e si immerge nel passato. La memoria,
come ricordo puro, sempre virtuale, non si disloca nel presente ma vale, per
così dire, per l’insieme del tempo. È la memoria-mondo, liberata dalla
prigionia della psicologia individuale, in forza 1) della stessa desoggettivazione relativa del “punto di vista”, che la dottrina della “piega” ha
messo a punto e 2) dell’incrinatura che la memoria corta, liscia, produce
nell’edificio apparentemente inattaccabile della memoria lunga, striata.
L’Immagine-tempo di Bergson, che la cinematografia contemporanea ha
attuato nell’arte, si presenta così completamente emancipata dal mito della
Verità e dal Movimento preordinato e auto-celebrativo in cui si costruisce la
catena concettuale delle metafisiche, la processione delle loro
ipostatizzazioni. Nell’immagine-tempo il Tempo diventa la declinazione
molteplice degli eventi, la curvatura-contrazione, il movimento delle
individuazioni all’interno del Piano di Immanenza o dell’Uno-Tutto.
Oblio e memoria
Ricorda il tempo, quando la notte saliva al monte con noi,
ricorda il tempo,
ricorda che io ero ciò che sono:
un maestro delle torri e prigioni,
un alito nei tassi, un bevitore in mare,
una parola su cui bruciando ti accasci
Paul Celan, Acqua e fuoco
La vera memoria non è percezione, né abitudine o memoria del corpo,
ma memoria “pura”, che conserva l’indistinzione e la coesistenza di tutti i
movimenti del tempo. Come Memoria-mondo sembra che la memoria, nelle
sue direzioni imprevedibili, sia debitrice dell’orgiaco (che ricorda l’ aorgico
hölderliniano45) o del Chaos, sino al punto di sorvolo in cui cessa di essere
45Cfr. sul rapporto tra Tempo, Ripetizione, Eterno ritorno G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit.,
pp. 120-121. Il tempo come forma pura e “vuota” diventa il protagonista dell’eterno ritorno come «circolo
decentrato della differenza» in cui la forma del tempo sta per la rivelazione dell’informale (nell’accezione
42
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
prossima ad una individuazione, ad una “ecceità”, per rivendicare la totalità
del Tempo. In sintesi: la Memoria o il Tempo senza dimensioni e senza
misura del movimento è ciò che si attua attraverso la forzatura, la
manipolazione, la resezione di frammenti seriali, che imprigionano gli eventi
in un ordine dicibile, narrabile, in funzione delle istanze dell’azione presente.
Essa opera inevitabilmente l’azzeramento, la “lisciatura” di quello spazio
mentale striato nel quale il tempo e la memoria-mondo si traducevano in
rappresentazione, secondo le pretese del soggetto di coscienza. La stessa
forzatura dell’immagine-ricordo, immessa nella sfera molare e striata, viene
“piegata”, riconducendola al piano liscio, al molecolare, e ricondotta alla
memoria creatrice. Nella Durata, come pensiero dell’Essere, l’intero passato è
mobilitato e l’intero Tempo è convocato, per coincidere, allora, con l’Eterno:
gli eventi si riuniscono (svaniscono) nella Durata.46 Quando una memoria
“gigantesca”, “totale”, prende il posto della memoria “psicologica” e
coincide, come durata pura, non temporale, con il Tutto virtuale e aperto del
tempo, il Tempo stesso diventa la verità, così che ogni presente (e ogni
ricordo del passato ricondotto al presente) viene azzerato, cade nell’oblio.
Nulla si perde. Ogni passato (un passato reversibile e illimitato perché
virtuale, che vibra nell’attesa di futuro 47) si “conserva”, virtualmente, nella
Memoria totale. Il Tempo-Soggetto inaugura, nel dispositivo di potenza che
virtualizza il passato totale, l’irruzione del futuro. Tutti gli oggetti, i
movimenti, i piani che tagliano il caos perdono allora i loro contorni nella
durata pura e si riuniscono nella concentrazione massima della memoria.
Il Tempo non ha cronometri che lo registrino, né bilance che possano
pesarlo né metri e scale matematiche di misurazione. Ci invita a salire sulla
sua altalena e ad oscillare tra prossimità e distanza, congiunzione e
hölderliniana) nell’eterno ritorno (ivi, pp. 122-123). Si veda F. Hölderlin, La morte di Empedocle, Milano,
Garzanti, 1998 e M. Piermarini, Diotima, Introduzione all’Iperione di F. Hölderlin, Massarosa, Del Bucchia,
1998, cap. I.
46Aìon, il tempo indefinito dell’“evento”, è il tempo paradossale, la linea instabile che conosce solo
le velocità. Esso fonda Chronos, il tempo cronologico, secondo la distinzione stoica ripresa da Deleuze, cfr.
F. Zourabichvili, Le vocabulaire de Deleuze, Paris, Ellipses Édition, 2003, alla voce “Aiôn” e G. Deleuze,
Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 134-135 sulla coppia Kronos-Aion. Cfr. anche G. Deleuze, F.
Guattari, Mille piani, cit., p. 898.
47Lo stesso circolo dell’Eterno ritorno «non fa ritornare che l’a-venire» (ivi, p. 122) e nella
terza e ultima sintesi del tempo «il presente e il passato non sono più a loro volta che dimensioni
dell’avvenire: il passato come condizione, il presente come agente», ivi, p. 123.
43
separazione, memoria ed oblio. Cullati dal suo movimento, assumiamo il
ritmo dei nostri piegamenti, cerchiamo di fonderci con il suo slancio. Non
possiamo scendere dall’altalena, ma possiamo partecipare alle intensità del
suo dondolio. Il nostro corpo diventa allora la punta dello slancio della
materia che avanza nel tempo, nel suo movimento puro. Questo slancio
genera serie divergenti. Ci è data allora una chance: incidere nella nostra
carne-corpo il marchio del rifiuto della “biografia”, che in ultima istanza è un
cerimoniale di morte, un legame tra inumazione, memoria, compimento di
una vita singola e rappresentazione artistica (M. Bachtin). Possiamo cioè
attivare le strategia del nascondimento, dell’occultamento, per mezzo della
cancellazione della memoria, l’interruzione delle sue cerimonie. Infine, col
dispositivo della simulazione teatrale barocca – penso soprattutto a El eroe di
Baltasar Gracian e al rapporto tra segreto, eccesso e sovranità della volontà –
ci è data un’altra chance: avviare il complotto dei nostri desideri, dei nostri
processi emergenti e svilupparne la virtualità in potenza. La dimenticanza,
frutto amaro della seduzione dell’oblio, immanente alla stessa
concentrazione-tensione della memoria, è sempre un rifiuto o prepara un
rifiuto, un giudizio in cui si condanna la celebrazione del passato al suo lutto
lamentoso. La volontà di ricordare, di trovare un termine in cui la
ricostruzione-scrittura del passato si compia, è sempre legata all’idea della
morte e della tragica contraddizione «tra l’infinità della vita e la finitezza
della vita umana», manifestazione particolare di quella tra codice genetico e
l’essere individuale dell’organismo (J. Lotman).48 In essa si celebra il trionfo
nefasto di quella tristitia, ragione del passaggio ad una minore perfezione
della mente, che genera la melanconia.49 L’oblio è sempre, come
sconnessione tra i livelli di memoria e tentativo fallito di aggancio tra i suoi
piani molteplici, interruzione dei ricordi, l’azzeramento che consente
l’apertura al nuovo, l’interruzione della “storia” individuale,50 il punto in cui
48Cfr. J.M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità , Milano,
Feltrinelli, 1993, pp. 199-200.
49B. Spinoza, Etica, III, prop. 11, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 181.
50Alain Badiou, in dissenso con Bergson e Deleuze circa il primato della Memoria scrive:
«Ma se il “c’è” (“il y a”) è pura molteplicità, se tutto è attuale, se l’Uno non è, non è più dal lato
della memoria che bisogna cercare la verità. La verità è al contrario carica di oblio, è addirittura, al
contrario di quanto pensa Heidegger, l’oblio dell’oblio, l’interruzione radicale, catturata nella
sequenza dei suoi effetti. E questo oblio non è oblio di questo o quello, ma l’oblio del tempo
stesso, il momento in cui viviamo come se il tempo (questo tempo) non fosse mai esistito. O se
44
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
la vita riprende sempre il suo slancio, si rianima, attiva e attua le sue
virtualità, le modula secondo altre linee di sviluppo e altri flussi. Prende
commiato da quel passato, che, con la sua massiccia presenza sullo sfondo,
sembra imprigionare le nostre energie. È un abbandono. Ma l’abbandono che
significa un lasciare, un consegnare a sé ciò che impetrava un segno, una
rappresentazione accettabile.51 La memoria e l’oblio, insieme, costruiscono e
decostruiscono trame, organizzano complotti, cui si dà il nome di “io”.
Declinano un processo il cui soggetto spesso non è assegnabile o si riduce ad
una fluttuazione. La letteratura ne è testimone: si presenta come un teatro
interno, una rappresentazione che seleziona personaggi e azioni, taglia flussi e
mobilizza istanti vissuti espandendoli, ripetendoli, contaminandoli con serie
eterogenee di “ricordi-stati dell’essere”, attraverso l’ablazione, la consegna
all’oblio. Essa cattura, attua un concatenamento, che lega degli eterogenei e
forma quel teorema di deterritorializzazione in cui ciascuno dei termini o
degli individui biologici, sociali, noetici si riterritorializza sull’altro, senza
imitazione e senza somiglianza, entrando in rapporti variabili che ne operano
la trasformazione. Questa selezione52 della memoria sulla linea dell’oblio53 è
una costruzione, in termini di individuazione, del tempo che si dice ritrovato
vogliamo, in linea con la profonda massima di Aristotele, dato che l’essere comune a ogni tempo è
la morte, come se fossimo immortali»” (A. Badiou, Deleuze, il ‘clamore dell’essere’, cit., p. 159).
Il tempo vuoto o istantaneo (Aion) dell’evento deleuziano sembra rispondere a tale esigenza di
radicale novità senza sdoppiare il reale in eternità (trascendente) e temporalità.
51«Ogni movimento percorre tutto il piano facendo immediatamente ritorno su se stesso,
piegandosi ma anche piegandone altri o lasciandosi piegare, generando delle retroazioni, delle
connessioni, delle proliferazioni, nella frattalizzazione di questa infinità infinitamente ripiegata
(curvatura variabile del piano)». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 48.
52Evidente il riscontro con il carattere selettivo che assume la dottrina nietzscheana
dell’Eterno ritorno dell’identico, la cui forza centrifuga espelle, nella ripetizione, il nichilismo e
ogni negatività e passione triste (cfr. G. Deleuze, Nietzsche, Milano, SE, 1997, pp. 36-37) per
elevare il molteplice e il divenire alla più alta potenza, che genera la gioia del diverso come «il solo
impulso a filosofare» (ivi, pp. 33-34). Ma cfr. Henri Bergson, che considera i ricordi celati nelle
profondità oscure dei “fantasmi” che, nel sonno, nella notte dell’inconscio, eseguono una danza
macabra e vogliono accedere alla “porta” che sta per schiudersi della coscienza, «Ma non possono.
Sono troppi». H. Bergson, Il sogno, in Id., L’energia spirituale, Milano, Raffaello Cortina, 2008,
pp. 195-197, ed. dig.
53Il dimenticare non è il segno di una privazione, ma una risorsa del ricordare, ossia
selezionare. Ma la selezione diviene, dal punto di vista del divenire, possibile soltanto come
Ripetizione, nel rapporto tra volontà di potenza ed eterno ritorno. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la
filosofia, Torino, Einaudi, 2002, pp. 101-107.
45
dalla coscienza. Essa giustifica la molteplicità di memorie possibili e la stessa
divaricazione tra memoria lunga e corta. La memoria in realtà dispiega le sue
linee divergenti, proprio a partire da ciò che cancella. L’omesso, il rimosso,
l’innominato, il non-detto costituiscono il punto di forza, di massima
concentrazione e di discriminazione tra ricordo-oblio. Paradossalmente il
pieno di conoscenza del passato, la sua virtualità, è anche, sempre, il suo
vuoto, la sua attualità. Soltanto allo stato virtuale i ricordi, che esistono in sé,
si “conservano” sul piano ontologico, ma non sempre si attualizzano su quello
psicologico. La coesistenza bergsoniana delle dimensioni del tempo (o dei
tempi) esige anche la coesistenza e l’interazione di memoria e oblio. La
potenza di oblio-memoria trascrive nella “scrittura” gli eventi sacrificandone
migliaia in nome di un singolo, di una singolarità, di una ecceità. Senza
riferirci al sogno, in cui è evidente la condensazione di segni, azioni e
personaggi sulla base della cancellazione di molte identità e contrassegni
originari, troviamo numerosi esempi di questo processo in letteratura.54
La memoria molecolare, minoritaria ed estremamente concentrata dello
scrittore non si occupa più di storie individuali e di ricordi, ma di blocchi
deterritorializzati:
Il divenire è un’anti-memoria. Probabilmente c’è una memoria molecolare, ma
come fattore di integrazione a un sistema molare o maggioritario. Il ricordo ha
sempre una funzione di riterritorializzazione. Un vettore di
deterritorializzazione, invece, non è per nulla indeterminato, ma in presa
diretta sui livelli molecolari e tanto più in presa quanto più è deterritorializzato:
è la deterritorializzazione a far “tenere” insieme le componenti molecolari.55
La memoria “pura”, erroneamente riferita ad un soggetto psicologico,
normale o patologico, esiste soltanto, in sede ontologica, come essere in sé
del Tempo. La memoria liscia, proprio perché “impura”, non subisce ascesi,
non disciplina i suoi slanci, non moltiplica rinunce. Non si consegna alle
54I personaggi, i luoghi e i nomi, evocati nella Recherche da Marcel Proust, costituiscono
una macchina di oblio, un’esplosione di silenzio e di non-detto in cui il loro potere rappresentativo
si riproduce. Lo stesso avviene in Virginia Woolf per i ricordi d’infanzia. Nella sua scrittura «si
oppone un blocco d’infanzia, o un divenire-bambino, al ricordo d’infanzia: “un” bambino
molecolare è prodotto […] “un” bambino coesiste con noi in una zona di vicinanza o in un blocco
di divenire, su una linea di deterritorializzazione che ci trasporta entrambi – contrariamente al
bambino che siamo stati, di cui ci ricordiamo o fantasmiamo, il bambino molare di cui l’adulto è
l’avvenire» G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 997.
55Ivi, p. 997.
46
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
passioni tristi, ma contrae le eccitazioni del desiderio contemplandole, nel
ruolo insieme di Narciso e di Atteone.56 Non si riduce all’immediatezza della
bruta natura, dello strato inorganico, ma si mischia ai corpi e agli affetti, ai
luoghi e ai percetti, agli ambienti e alle fisionomie in cui si individuano i
flussi, li avvolge, li incorpora e si traduce in essi. Il linguaggio, da parte sua,
tradisce il reale-visibile e presenta i suoi enunciati come codificazioni, in
realtà prodotte da una selezione che scaturisce soltanto in rapporto ad una
potenza di oblio. La stessa scrittura, secondo Blanchot, è oblio e morte.
L’individuo umano non è affatto «l’arca intima e pura di tutte le cose, il
rifugio in cui esse si mettono al riparo», ma colui che le immerge «in un
diluvio più profondo, in cui scompaiono in modo prematuro e radicale». 57
Pensiamo alla forza di annichilimento, vero trionfo dell’oblio, della poesia di
Celan. La scrittura è il silenzio. La sua lingua è la lingua straniera di chi dà la
morte. Non cifra il dicibile ma lo cancella. Nessuno e niente è il suo campo.
La storia di nessuno e di niente. Il non-luogo di nessuno e di niente: «noi un
Nulla / fummo, siamo resteremo, fiorendo: / la rosa del Nulla, / la rosa di
Nessuno».58 L’omissione della parola, la dimenticanza – il silenzio
dell’esistenza, l’oblio della memoria – segnano degli scarti dell’essere. Con
essi si replica il rifiuto di nominare l’essere e gli enti e di sacrificare
sull’altare della rappresentazione, del racconto-storia, la velocità “infinita”
del Tempo e i flussi asimmetrici della sua memoria.
56G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 101.
57M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975, p. 119.
58P. Celan, Salmo, in Poesie, Milano, Mondadori, 1999, p. 379.
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DIMENTICARE
itinerari
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Giuseppe D’Acunto
Mnemosine e Lete
Weinrich a proposito di oblio e memoria
Nel 1997, Harald Weinrich (1927) pubblica il volume: Lethe. Kunst und
Kritik des Vergessens (Lete. Arte e critica dell’oblio).1 Nella «Premessa», egli
muove da una definizione dell’uomo come quell’«animale che dimentica
(animal obliviscens)» (L VII). Per cui ritiene necessaria una ricognizione tesa
a valorizzare non solo l’arte dell’oblio, ma anche la critica che, nel corso del
tempo, ad una tale arte è stata mossa.
Riguardo al primo punto, Weinrich parte dall’interrogare la «saggezza
discreta» che è implicita nell’uso linguistico ordinario dei termini che
afferiscono alla costellazione semantica dell’oblio. Si inizia con il latino
oblivisci, un verbo che, per le sue caratteristiche strutturali, ben si addice al
significato che esso veicola. In quanto deponente ha, infatti, una forma
passiva e un contenuto semantico attivo, esattamente come il dimenticare «si
trova in una posizione intermedia tra attività e passività» ( L 7). Ma, nella
nostra lingua, accanto al verbo “obliare”, da tempo sono di uso comune anche
altri due verbi: “dimenticare”, nel senso di perdere dalla mente o dalla
memoria, e “scordare”, nel senso di perdere dal cuore. Per cui, colpisce come,
1 Tr. it. di F. Rigotti, il Mulino, Bologna 1999. D’ora in poi, le citazioni tratte da questa opera saranno
inserite direttamente nel testo, con indicazione della pagina, preceduta dalla sigla L. Iniziamo ricordando
anche che una bibliografia completa della produzione scientifica di Weinrich, dagli inizi (1956) fino al 2006,
dove sono elencati ben 308 titoli, si trova nel volume che comprende la sua Lectio magistralis, tenuta presso
l’Università di Cagliari, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Lingue e Letterature
Moderne Euroamericane: Quante lingue per l’Europa?, a cura di F. Ortu, Cagliari, CUEC, 2006, pp. 37-95.
51
nella lingua italiana, in particolare, «le espressioni […] per oblio siano
illuminate da una luce negativa».2
Una differente prospettiva presentano, invece, le lingue germaniche. In
inglese, ad esempio, (to) forget è composto da get, ricevere, e dal prefisso
for-, con cui si produce una conversione del movimento verbale “da” nel
movimento, opposto, “verso”. Abbiamo così il significato di «“ricever via
(qualcosa)” nel senso di allontanare», il quale è «già quasi una definizione di
oblio» (L 9). Costruzione, questa, la quale, in modo meno evidente, sta alla
base anche del verbo tedesco vergessen [= Weg-(be)kommen].
Il termine “dimenticare” tende, inoltre, ad essere frequentemente associato ad
espressioni modali, per cui si viene a produrre un autentico gioco di incastro
nella lingua, nel senso che la negazione lessicale della memoria, rappresentata
dall’oblio, può essere raddoppiata da una seconda negazione che produce un
significato, questa volta, affermativo.3
Passando a prendere in considerazione la metaforica dell’oblio, Weinrich nota
che essa è strettamente imparentata con quella della memoria. Nel senso che,
laddove la seconda sta per un paesaggio rigoglioso naturale, il primo sta,
invece, per un tratto desertico «in cui le cose da dimenticare vengono soffiate
via dal vento» (L 11). Oppure, laddove la memoria si è data,
tradizionalmente, come referente l’immagine del libro, l’oblio si è
configurato, invece, come una lacuna nel testo, un vuoto che va sì riempito,
2 Weinrich ha delucidato i significati che i termini italiani mente e memoria rivestono in Dante, dove
ricoprono due campi semantici ben distinti l’uno dall’altro, nel suo La memoria di Dante, Firenze,
Accademia della Crusca, 1994, pp. 9-10. Sotto lo stesso titolo, questo testo è stato poi ripreso in H. Weinrich,
Il polso del tempo, a cura di F. Bertoni, tr. it. di F. Bertoni, D. Giglioli, D. Meneghelli, C. S. Nobili, F.
Vittorini, F. Cilia e A. Zagatti, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 23-45.
3 Circa il fatto che la linguistica, fino ad oggi, si è occupata poco delle strategie della negazione,
all’interno del discorso, si veda anche H. Weinrich, Lingua e linguaggio nei testi, tr. it. di E. Bolla, Milano,
Feltrinelli, 1988. Qui leggiamo che bisognerebbe cercare di rimediare ad una tale carenza, «tramite
l’immissione [nella linguistica] di più logica e forse anche tramite una maggiore severità nella
formalizzazione» (p. 81).
52
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
ma che, al tempo stesso, «rende enigmatico e interessante proprio il testo
lacunoso» (L 13).
Con l’evoluzione della funzione dello scrivere, si sono modificate poi anche
le metaforiche della memoria e dell’oblio. Dimenticare qualcosa di scritto
sulla carta è diventato sinonimo di cancellato o, se era scritto su una lavagna,
di spazzato via con un colpo di spugna.
L’«Introduzione» al volume si chiude con una ricognizione genealogica della
figura dell’oblio nella mitologia greca. Lete, divinità femminile che fa coppia
oppositiva con Mnemosine, dea della memoria e madre delle Muse, nasce
dalla stirpe della Notte e ha per madre Eris: la Discordia. Ma Lete è anche il
nome di un fiume degli Inferi, la cui acqua, se bevuta, dispensa dimenticanza
alle anime dei defunti, liberandole dalla loro precedente esistenza, nonché
facendole rinascere in un corpo nuovo. Naturalmente, ciò che qui non va
perduta è la connessione fra l’oblio e l’elemento liquido dell’acqua.
Il volume si articola, da questo punto in poi, in nove capitoli, il primo dei
quali («Oblio mortale e immortale») parte da una ricognizione dell’atto di
nascita della mnemotecnica, fatta risalire da Cicerone ( De Oratore, Libri II,
357 e III, 160) al poeta lirico greco Simonide di Ceo. L’espediente utilizzato
da quest’ultimo sarebbe dato da una spazializzazione topica della memoria,
pensata come una costellazione fissa strutturata in “luoghi” ( topoi, loci) che
ospitano contenuti convertiti in immagini, le quali possono essere
rapidamente percorse nel pensiero, ogni volta che qualcosa deve essere
richiamato a mente. Qui, «tutto ciò che deve essere ricordato ha una sua
precisa allocazione. Solo l’oblio non vi trova posto» (L 21).4
Ma le fonti ci raccontano anche un altro aneddoto che, avendo di nuovo per
protagonista Simonide, finisce per stringere un nesso molto stretto fra oblio e
memoria. Mentre il poeta avrebbe chiesto al politico Temistocle se era
4 Sulla spazializzazione topica della memoria, si veda anche H. Weinrich, Il polso del tempo, cit., pp.
247-256.
53
interessato ad apprendere un’arte della memoria (ars memoriae), il secondo
gli avrebbe risposto che egli non era interessato tanto a quest’ultima, quanto
ad apprendere un’arte dell’oblio (ars oblivionis).
Alla ricerca dello statuto di questa seconda arte, Weinrich ne individua le
prime tracce nell’Odissea di Omero, laddove Ulisse, narrando ai Feaci le sue
peregrinazioni per mare (canti IX-XII), riferisce di tre episodi al cui centro
c’è il tema dell’oblio: l’approdo alla terra dei Lotofagi, nonché le sue
permanenze temporanee presso la maga Circe e presso la ninfa Calipso.
Un altro esempio in cui l’arte della memoria è messa al servizio dell’arte
dell’oblio ci è dato poi da Ovidio, il quale, nel suo poema didattico Remedia
amoris, elargendo consigli per coloro che soffrono di mal d’amore, stabilisce
il precetto secondo cui, per dimenticare l’amata, la prima cosa da fare è
richiamare alla memoria, il più chiaramente possibile, tutti i suoi difetti,
nonché tutte le pene che ci ha procurato.
E arriviamo così alla teoria della reminiscenza di Platone, per il quale nascita
significa ipso facto oblio. Oblio però non totale, in quanto, grazie al metodo
maieutico, è possibile richiamare alla memoria le conoscenze apprese nella
nostra esistenza prenatale. Decisivo, in una tale teoria, è il paragone
dell’anima, quando prende dimora in un corpo, con una tavoletta di cera su
cui non è incisa nessuna impronta. Paragone cui va aggiunta anche la critica
del filosofo nei confronti della scrittura, capace di prestare soccorso alla
memoria solo dall’esterno.
Dopo Platone, chi riflette sullo stretto intreccio fra oblio e memoria è
Agostino. Anzi, è prima di tutto la sua vita a fornire una grande testimonianza
in tal senso: vita divisa fra una prima metà, che precede la conversione,
segnata dalla dimenticanza di Dio, e una seconda, successiva ad essa, segnata
dal ricordo devoto di Lui. Sul modello della mnemotecnica antica, la
memoria è configurata nelle Confessioni (Libro X) come un paesaggio, fatto
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
di interminabili spazi, fra le cui componenti c’è persino l’oblio. È il luogo in
cui Dio stesso ha preso dimora, anche nel peccatore, e dove attende il giorno
in cui quest’ultimo, convertendosi, ritroverà la strada che lo riporta a Lui.
Si è parlato della mnemotecnica. Ebbene, non sono mancate le possibilità di
leggere proprio in questa chiave la Divina Commedia di Dante, nel senso che
le anime dei morti, in cui il poeta si imbatte nel suo viaggio attraverso i tre
regni dell’oltretomba, possono essere viste come immagini mnemoniche che
egli si imprime nella memoria, insieme ai luoghi che le ospitano, così che,
quando, una volta ritornato fra i vivi, scriverà il suo poema, potrà rievocarle
nell’ordine esatto in cui le ha incontrate.5 Dante fa inoltre sua la
corrispondenza agostiniana fra le figure della Trinità e la triade delle facoltà
dell’animo: memoria/intelletto/volontà. Ora, poiché Dio Padre, che
rappresenta la memoria, è anche il creatore del mondo, ecco che quest’ultimo
ha il suo essere proprio nel venire conservato da essa, per cui la Commedia
può anche dirsi come un’indagine poetica, condotta dalla memoria umana,
che ha per oggetto la memoria divina. È così che, nel poema in questione, la
memoria è onnipresente, anche nel senso che essa, in tutte le anime
incontrate, si conserva come un possesso che rimane sempre inalterato.6
Fra i tre regni descritti da Dante, Weinrich ritiene che, dal punto di vista della
memoria, il più interessante sia senz’altro il Purgatorio. Rispetto agli altri due
regni, qui le anime penitenti hanno un destino non ancora completamente
segnato, tant’è che il tempo che vi devono passare non è stabilito una volta
5 Circa il fatto che Dante, nel presentare i dannati, penitenti o salvati, nei tre regni dell’al di là, si
attiene sempre alla «regola della localizzazione» dell’ars memoriae classica, giacché li “colloca” tutti entro
spazi determinati cui essi sono consegnati, così che «ogni anima […] si definisce per il luogo […]
assegnatole nell’oltretomba», cfr. H. Weinrich, La memoria di Dante, cit., p. 15.
6 Scrive Weinrich che, nell’interazione fra le anime dell’altro mondo e Dante, queste «hanno buona
memoria per tutti gli eventi della loro vita, cosicché si manifestano capaci di raccontarli fedelmente al loro
interlocutore». Egli, «da parte sua, si fregia ugualmente di una memoria “finissima”, non solo per gli eventi
della sua propria vita, ma anche per i racconti uditi dalle anime incontrate nell’altro mondo. In questo modo,
la memoria è onnipresente in tutte le interazioni della Divina Commedia». Cfr. ivi, p. 16.
55
per tutte, per cui la grazia divina può sempre intervenire. 7 Per accelerare il
loro accesso al Paradiso, decisive sono le preghiere dei vivi o, in altre parole,
il fatto che questi ultimi devono praticare sempre la commemoratio
mortuorum. Si stabilisce così una vera e propria catena di intercessioni che va
dal penitente, attraverso Dante, cui si chiede di intervenire presso i vivi, a
questi ultimi, ai santi e, finalmente, a Dio stesso: catena di cui nessun
passaggio deve mai cedere il passo all’oblio.8
Proprio per vincere il pericolo dell’oblio, che incombe sempre sulla nostra
mente, nella Commedia si trovano ben due invocazioni alle Muse, all’inizio
della discesa all’Inferno e alla fine, Muse che aiutano la memoria, proprio
promuovendo le arti che sono di loro competenza.
Dopo
Dante
si
passa,
nel
II
capitolo («L’ingegno
smemorato»),
all’Umanesimo e al fondatore della pedagogia moderna: Juan Luis Vives. In
diversi scritti sulle arti liberali, egli si occupa di incrementare lo sviluppo
artificiale della memoria, fornendo consigli pratici atti a promuovere una vera
e propria «dietetica mnemotecnica» (L 61), al fine di sradicare del tutto la
dimenticanza nella vita del discente. In Montaigne, all’opposto, cade
completamente in discredito il precetto di imparare a memoria e comincia a
prendere vita l’idea secondo cui il vero sapere è quello non formato sui libri,
ma derivato dall’esperienza, per cui, più che alla memoria verborum, si invita
a prestare attenzione alla memoria rerum.
7 Nella voce Zeit in der Literatur, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K.
Gründer e G. Gabriel, vol. XII, Basel, Schwabe, 2004, coll. 1254-1258, Weinrich, ribadendo questo motivo,
afferma quanto segue: «A differenza dei luoghi dell’Inferno e del Paradiso, il Purgatorio è, per Dante,
interamente sottomesso ad un computo divino del tempo» (col. 1257). In tal senso, il Purgatorio è il regno
più interessante fra i tre descritti da Dante, proprio perché segnerebbe la conquista del «tempo degli uomini»,
collocato «tra la duplice eternità, dell’Inferno da una parte e del Paradiso celeste dall’altra». Nel Purgatorio,
la pena stessa «va intesa […] anche quantitativamente», ossia «va misurata in termini temporali», per cui la
giustizia divina è qui «soprattutto una giustizia temporale». Cfr. H. Weinrich, Il tempo stringe. Arte ed
economia della vita a termine, tr. it. di F. Rigotti, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 90 e 92.
8 Scrive Weinrich: «tutti gli anelli di questa catena dipendono dal buon funzionamento della
memoria. Se solo un anello si rompe, […] tutta la catena di preghiere si spezza per sempre». Cfr. H.
Weinrich, La memoria di Dante, cit., p. 22.
56
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Una contrapposizione che ricorre frequentemente in età moderna è quella fra
ingegno (ingenium, esprit, agudeza, Witz)9 o intelletto e memoria. La si
ritrova in J. Huarte, in G. de Cordemoy, in C.-A. Helvétius e, infine, anche in
Kant.
Nel III capitolo («Oblio illuminato») si muove dal fatto che oblio e memoria
sono al centro anche del nuovo metodo prospettato da Cartesio. Dopo una
prima fase in cui sono obliati sistematicamente tutti i contenuti che si sono
annidati in noi contro la nostra stessa volontà, c’è una seconda in cui
interviene un «ri-cordare metodologicamente controllato» (L 89). Prende
inizio qui un discredito nei confronti della memoria, che – nell’Illuminismo –
finirà per collegarla, piuttosto che al giudizio, al pregiudizio. Nel
Dictionnaire philosophique (1764) di Voltaire, ad esempio, la voce memoria
(come, del resto, la voce oblio) non compare affatto. E, non diversamente,
Rousseau ritiene che, nella prassi educativa della sua epoca, la memoria
giochi un ruolo decisamente esagerato.
Kant poi non elabora una vera e propria teoria mnemonica, ma, nelle sue
lezioni di pedagogia e di antropologia, tratta della memoria e dell’oblio solo
dal punto di vista pratico. Nelle seconde, distingue la memoria in meccanica,
ingegnosa e giudiziosa: del tutto priva di valore è, la prima, problematica, la
seconda invece è razionale, la terza infine è l’unica in grado di promuovere
l’istanza critica di pensare autonomamente. Sembra così che egli «si trovi più
a suo agio con l’oblio che con la memoria» (L 104), perché solo chi
9 Sull’ingegno, di Weinrich si veda anche la voce Ingenium, in Historisches Wörterbuch der
Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. IV, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1976, coll. 360-3.
Significativamente, il primo vol. pubblicato da Weinrich è dedicato proprio all’ingegno, in connessione con
la figura di Don Chisciotte: cfr. H. Weinrich, Das ingenium Don Quijotes. Ein Beitrag zur literarischen
Charakterkunde, Münster, Aschendorff, 1956. Sulla figura dell’ingenioso hidalgo, Weinrich ritorna anche in
Id., Il polso del tempo, cit., pp. 89-105. Qui leggiamo che Cervantes, descrivendo con ironia Don Chisciotte,
lo fa proprio perché quest’ultimo è «totalmente privo di ironia» (p. 95). Infine, un riferimento a Don
Chisciotte si trova anche in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol.
IV, cit., coll. 577-582, in part. 579.
57
dimentica, non assecondando alcuna opinione errata, può dar prova di essere
davvero illuminato.
Nel IV capitolo («Rischi della memoria, rischi dell’oblio»), si riferisce di un
caso, raccontato dal neuropsichiatra russo A.R. Lurija nel suo volume Un
piccolo libro, una grande memoria (1965), relativo ad uno mnemonista: un
uomo che non poteva dimenticare, che soffriva di ipermnesia, ossia di un
eccesso patologico di memoria. Egli aveva difficoltà a pensare per concetti, in
quanto, per formare questi ultimi, bisogna lasciar cadere tutte le proprietà
particolari dei singoli individui. Sorge così la domanda: in che modo
quest’uomo può riuscire a dimenticare? Lurija conia, al riguardo, il termine
«letotecnica», ossia una strategia per favorire l’oblio, come, ad esempio,
scrivere su carta ciò che si intende dimenticare. In tal modo, dopo Platone, la
scrittura è accusata, ancora una volta, di essere nemica della memoria
naturale.
Un altro esempio di ipermnesia è fornito da Borges con il suo racconto Funes,
o della memoria (1942). Qui il protagonista deve far ricorso anch’egli a
strategie dell’oblio, per riuscire ad addormentarsi, visto che, assecondando
questo bisogno, finirebbe per perdere qualsiasi possibilità di presa sul mondo.
Nel V capitolo («Nuova forza sorta dall’arte dell’oblio»), le figure dell’oblio
studiate sono quelle corrispondenti ai nomi di Goethe, Nietzsche e Freud. Nel
Faust del primo, chi rappresenta l’arte dell’oblio è Mefistotele, il quale, in
diverse situazioni, la mette a punto sperimentandola proprio su Faust.10 In
Nietzsche l’oblio si configura come quel principio che apre la strada al
nuovo. Il riferimento è, ovviamente, alla seconda delle sue Considerazioni
inattuali: Dell’utilità e del danno della storia per la vita (1873), dove il
filosofo fa espressamente appello alla forza e all’arte del poter dimenticare. Si
chiede, a questo punto, Weinrich: «Che cosa vuole dimenticare Nietzsche, e
10Su questo punto, si veda anche H. Weinrich, Faust’s Forgetting, in «Modern Language Quaterly»,
1994, n. 3, pp. 281-295.
58
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
dimenticarlo ad arte? La risposta sommaria è: la storia ( Historie)» (L 175),
ossia ciò che, gravando con il suo peso opprimente sulla coscienza dello
storico, fa sì che quest’ultimo smarrisca quella capacità di agire per la quale è
richiesta, appunto, la dote dell’oblio. Ma la seconda delle Considerazioni
inattuali non è l’ultima parola di Nietzsche sull’arte del dimenticare. Torna
sul tema anche nella Genealogia della morale (1887), dove celebra nella
dimenticanza
attiva
la
forma
più
alta
e
vigorosa
di
salute.11
Significativamente, proprio da queste riflessioni «si svilupperà in seguito un
brano importante del pensiero utopico» (L 178).
Freud «comincia a occuparsi del fenomeno dell’oblio in relazione alla
sintomatologia dei lapsus e degli atti mancati» ( L 181). Quando poi scopre
l’inconscio, lo intende come un deposito in cui giace non un che di
semplicemente non-conosciuto, ma tutto ciò che è stato dimenticato. Con lo
psicoanalista viennese, l’oblio perde così la sua innocenza, in quanto chi
dimentica o vuole dimenticare qualcosa è costretto, d’ora in poi, a
giustificarsi.
Il VI capitolo («Poesia dell’oblio») prende in considerazione due fra i
massimi poeti nell’arco che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima
metà del Novecento: Mallarmé e Valéry, nonché lo scrittore a cui dobbiamo,
forse, il più grande affresco letterario dedicato alla memoria: Proust. Il primo
dei tre si accosta al tema dell’oblio, prima che nella sua produzione poetica,
nella sua riflessione teorica. Nella prefazione, del 1885, al Trattato del verbo
del collega R. Ghil, l’oblio è elevato a principio grazie a cui il linguaggio
poetico consegna al regno dell’assenza, ossia alla purezza astratta della
visione mentale, la cosa presente nominata. È questo un principio che
Mallarmé segue pure nella sua poesia, per cui si può dire essa si caratterizza
11Sull’arte e il potere del dimenticare in Nietzsche, cfr. anche H. Weinrich, Nietzsche’s art and power
of forgetting, in «Social Science Information», 1997, n. 1, pp. 7-14.
59
per il fatto che il poeta, estraendo dall’oblio ciò che manca nelle cose, lo
lascia risplendere limpidamente nelle parole.12
Non diversamente da Mallarmé, in Valéry, il tema dell’oblio appartiene alla
dimensione più profonda della poesia, nonché si trova sviluppato anche nella
sua riflessione teorica. Al riguardo, suo intento – mai però realizzato – era di
elaborare una compiuta teoria della memoria, tracciando con nettezza i
confini che separano il ricordo dall’oblio. Ciò che egli ha fatto è, però, di aver
distinto fra due tipi di memoria: una memoria grezza, che trattiene con fedeltà
assoluta tutto ciò che è accaduto, e una memoria intelligente, selettiva. Ora, lo
strumento di cui noi ci serviamo per operare una tale selezione è proprio
l’oblio, il quale è distinto, a sua volta, in un qualcosa che comporta una pura
perdita, oppure che può aiutare il pensiero a giudicare.
In Proust, si può trovare poi una vera e propria ontologia della memoria, in
quanto egli è convinto che la realtà inizia a prendere forma proprio nella sua
sfera. Famosa è la sua distinzione fra memoria volontaria o dell’intelligenza e
memoria involontaria. La prima, a differenza della seconda, è inutile per la
letteratura, appunto perché non ci fornisce nessuna vera immagine del
passato. Nello scrittore francese, Weinrich rinviene così ciò che egli chiama
una «mnemopoetica», che presenta caratteristiche «molto diverse da quelle
della mnemotecnica» (L 207), la quale, stando ai parametri del primo, sarebbe
da ricondurre, piuttosto, sotto il regime della memoria volontaria.13
Nel VII capitolo («Diritto all’oblio, pace dall’oblio?»), il primo personaggio
letterario oggetto di interesse è il protagonista del romanzo di Pirandello Il fu
12Alcune riflessioni di taglio linguistico sulla lirica moderna, in riferimento anche a Mallarmé, sono
condotte in H. Weinrich, Literatur für Leser. Essays und Aufsätze zur Literaturwissenschaft, München, dtv,
19862, pp. 132-48.
1313 Weinrich chiama la «mnemopoetica» di Proust anche «mnemologia». Quest’ultima sarebbe la
«base teorica» della Recherche e si qualifica per il fatto che i sensi non hanno, in essa, «una portata spaziale
[come nel caso della vista], bensì temporale». Cfr. H. Weinrich, Il senso sensuale della memoria, in Aa. Vv.,
Il senso della memoria, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2003, pp. 135-142, in part. p. 139.
60
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Mattia Pascal (1904): «uomo in stato di oblio», come viene definito. Naturale
si impone il parallelismo fra un tale personaggio e il Peter Schlemihl di
Chamisso: «uomo senz’ombra», il secondo, e «ombra senz’uomo» ( L 218)
invece il primo. Le differenze stanno nel fatto che lo scrittore italiano, che
scrive quasi un secolo dopo lo scrittore tedesco, accentua, rispetto a
quest’ultimo, gli aspetti sociali del tema dell’oblio e della memoria,
presentando il suo personaggio come qualcuno che non può ricevere nessuna
soddisfazione quanto alla sua onorabilità pubblica.
Altri esempi letterari presi in considerazione sono dati dalle storie di amnesia
raccontate da Giraudoux, in una versione prima romanzata (Sigfried et le
Limousin, 1922) e poi drammatica (Siegfried, 1928), da Anouilh (Il
viaggiatore senza bagaglio, 1936),14 nonché dalla poesia di Celan Vigore e
dolore (1967/68), dove si parla di una ferita che, poiché non si cicatrizza, mai
potrà essere dimenticata: la Shoah.15
Proprio a questo tema è dedicato l’VIII capitolo («Auschwitz e l’oblio
impossibile»). Qui si parla di letteratura dell’Olocausto, nelle figure di Elie
Wiesel, che inizia a scrivere, dieci anni dopo la liberazione, per il voto di non
dimenticare, da lui fatto la prima notte passata ad Auschwitz, di Primo Levi,
secondo cui, nella vita del lager, «il prigioniero deve fare un uso
parsimonioso persino della memoria» (L 266) e di Jorge Semprún.
Quest’ultimo fu sì detenuto in un campo di concentramento, ma era un
repubblicano spagnolo, non un ebreo. È autore di un libro di testimonianza
dal titolo La scrittura o la vita (1994), che allude al fatto che egli si decide a
14Agli esempi letterari, appena visti, costituiti dai nomi di Pirandello, Giraudoux e Anouilh, Weinrich
si riferisce anche al termine della sua voce Vergessen, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di
J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel, vol. XI, Basel, Schwabe, 2001, coll. 671-676, dove afferma che essi
risentono chiaramente dell’influsso delle ricerche mediche sull’amnesia, condotte negli anni del primo
dopoguerra.
15Su Celan cfr. anche H. Weinrich, Kontrationen. Paul Celans Lyrik und ihre Atemwende, in Aa. Vv.,
Über Paul Celan, a cura di D. Meinecke, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970, pp. 214-225.
61
scrivere cinquant’anni dopo i fatti che racconta, optando per una vita che
ricorda piuttosto che per un oblio liberatorio. Il capitolo si chiude con
un’analisi del romanzo Estinzione. Uno sfacelo (1986) di Thomas Bernhard,
dove oblio e memoria si intrecciano fra loro, a tal punto che il narratore non
solo può ricordare, con la massima chiarezza, un trauma da lui subito in
passato, ma può «anche “estinguerlo” con tutta la forza dell’oblio. Il che si
verifica scrivendo i ricordi proprio in questo libro dal titolo Estinzione» (L
282).
L’ultimo capitolo, il IX («“Salvare in memoria”, ovvero dimenticare»), dove
si fa riferimento al titolo di una poesia di H.M. Enzensberger, si apre con
l’analisi del racconto Il cestinatore (1957) di Heinrich Böll. Qui il
protagonista eccelle nell’arte del “cestinare”, la quale altro non è che una
variante di quella dell’oblio, attività che egli conduce, in segreto, nelle
cantine dell’archivio presso cui lavora, allusione possibile ai luoghi
sotterranei della memoria.
Archivio fa da pendant con biblioteca. Direttore di biblioteca, nella vita, è
stato Borges, non solo, è anche una metafora che ricorre frequentemente nella
sua opera, si pensi, ad esempio, a La biblioteca di Babele (1941). Nello
scrittore argentino, oblio e memoria sono così strettamente legati che il primo
è configurato come il luogo sotterraneo della seconda, la faccia segreta di
questa. Per non dire poi che quando, da anziano, Borges divenne cieco,
lodando i doni dell’oblio, egli viveva «solo leggendo “ancora nella
memoria”» (L 293).
La fine del capitolo è costituita da un paragrafo che funge da epilogo al
libro. Raccogliendo le fila dell’argomentazione svolta fin qui, si ribadisce
che, se la scienza antica era fondata sull’alleanza fra la scienza stessa e la
memoria, oggi il carico schiacciante di informazioni con cui veniamo a
contatto in qualsiasi disciplina fa sì che nessuna di esse possa «più essere
62
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
praticata senza una precisa componente di oblio» (L 296). Ogni ricercatore
dovrebbe essere in grado così di dominare l’arte corrispondente, «se non
vuole che la sua attività scientifica venga paralizzata da un’iperinformazione
cronica», fenomeno che Weinrich definisce, appunto, come «oblivionismo
della ricerca scientifica» (L 297).16 In questo, dal punto di vista metodologico,
egli vede «una sinossi dell’insegnamento di Kuhn e Popper», ossia che
l’impresa scientifica, conscia delle condizioni della sua memoria,
progredendo «da una spinta all’oblio all’altra», perviene così «verso nuove
conoscenze, che in caso fortunato saranno anche le migliori» ( L 300). Tale
istanza deve farsi valere, naturalmente, non solo nelle scienze esatte, ma
anche in quelle umane e sociali. La difficoltà sta proprio nel farsi artefici di
un nuovo, «moderato politeismo» che, «a dispetto del principio di non
contraddizione», tenga insieme il culto di due opposte divinità: «Mnemosine
e Lete» (L 301).17
16Weinrich ribadisce questo motivo, secondo cui «di fronte alla memoria tecnica ed elettronica
artificiale [è] necessaria un’arte dell’oblio», anche nell’intervista da lui rilasciata a U.M. Olivieri, Arte della
memoria, arte dell’oblio, in «Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura», 2001, n. 1, pp. 23-30.
Oggi, noi dobbiamo non solo «archiviare informazioni di cui non si conosce bene l’uso», ma anche imparare
ad apprendere «l’arte di rifiutare e di scegliere cosa conservare»: «un’operazione necessaria per ritrovare la
tranquillità della nostra anima nell’epoca moderna e postmoderna», ivi, p. 26.
17Al riguardo, ricordiamo che, per Weinrich, la metaforicità essenziale del linguaggio si dà quando,
sospendendo il paradigma binario imposto dal principio di non contraddizione e riabilitando il “terzo
escluso”, noi apriamo così il linguaggio stesso all’orizzonte della multivocità semantica. Cfr. H. Weinrich,
Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, a cura di L. Ritter Santini, tr. it. di P. Barbon, I. Battafarano e L.
Ritter Santini, Bologna, il Mulino, 1976, in part. il cap. V: «Metafora e contraddizione», pp. 99-108. Qui,
leggiamo: «Le metafore sono […] una forma di enunciato contraddittorio al di là dei rigidi confini dei
paradigmi binari. Con la regola del terzo escluso la logica si protegge perciò da problemi indesiderati» (p.
108). Il che è proprio ciò cui intende alludere il sottotitolo stesso del presente fascicolo, quando stabilisce il
principio secondo cui si dovrebbe «far memoria dell’oblio», nonché «ricordarsi di dimenticare». Sulla
metafora si veda, infine, anche la voce H. Weinrich, Metapher, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a
cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. V, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1980, coll. 1179-1186.
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Antonino Infranca
Dimenticare Palermo
Si può dimenticare Palermo? La domanda appare sicuramente assurda a
chi non è palermitano, e anche a un siciliano che non è mai vissuto a Palermo
risulta eccessiva. Una cosa è certa: l’autrice di quell’incredibile libro che è
Dimenticare Palermo (tr. it. L. Magrini, Milano, Bompiani, 1989, II ed., pp.
366), cioè Edmonde Charles-Roux, non può dimenticare Palermo, non perché
la ricordi in forma indelebile, ma perché non l’hai mai conosciuta, eppure ha
scritto forse il libro più evocativo su Palermo, ha trasformato la bellissima e
struggente capitale della Sicilia in un luogo della memoria, in una sorta di
struttura dell’anima dei personaggi del suo romanzo, che vi sono vissuti.
Come abbia fatto a narrare una città come una struttura dell’anima, pur non
essendoci mai stata, è il segreto dell’arte di Edmonde Charles-Roux. Ma
appunto l’ha narrata, perché non poteva descriverla, non avendola mai vista,
l’ha in pratica ricreata, sapendone cogliere quel carattere decadente,
struggente, ma invasivo dell’anima, quel carattere che riempie lo spirito e non
solo gli occhi, perché a Palermo gli occhi, e non solo gli occhi, ma tutti i
sensi, sono riempiti di una spiritualità eccessiva. Ecco il senso eccessivo di
quella domanda: si può dimenticare Palermo? Se vi si è stati, è difficile
dimenticarla; se non vi si è stati è un’arte inventarla. Ma inventarla significa
cercarla, cercarla dentro se stessi.
Come è noto da quel romanzo, nel 1990, Francesco Rosi trasse un film,
a 24 anni dalla pubblicazione del libro. Da quel grande regista che è, ne ha
sconvolto la trama, ha fatto sparire l’io narrante del romanzo, ha dato più
rilevanza a uno dei protagonisti, Carmine Bonavia, ma ha saputo narrare
Palermo con le immagini del film, immagini spesso commoventi, perché
riprendevano monumenti importanti della città dal basso, quindi stagliandone
alcuni dettagli più elevati sul cielo della città, uno dei cieli più belli del
mondo, perché di un azzurro, appunto, celestiale. Una delle riprese, poi,
raggiunge il vertice della perfezione filmica: una lunga ripresa su un
pavimento a scacchi, poi un balcone, una spiaggia punteggiata di sassi, e
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infine il mare, dello stesso colore del cielo, cielo e mare si confondono nello
stesso celeste, sono la stessa cosa, un colore.
Il film riprende praticamente la terza parte del romanzo, vi aggiunge
elementi non presenti nella narrazione, come la legalizzazione della droga
avanzata da Carmine Bonavia nella sua campagna elettorale, e personaggi
come il principe che vive rinchiuso nell’Hotel delle Palme di Palermo,
interpretato superbamente da Vittorio Gassman. In verità questo personaggio
è l’unico personaggio effettivamente esistito. Si tratta del barone Giuseppe Di
Stefano, che per aver compiuto uno sgarro all’Onorata Società, fu condannato
all’esilio nel ricco albergo palermitano e non ne uscì, se non con i piedi
davanti, cioè in una bara. Visse per più di cinquant’anni nell’Hotel più
lussuoso di Palermo e se ne allontanò solo in incognito e molto raramente.
Nel film assume una funzione speciale di memoria corporea dell’esistenza
della mafia che nel romanzo è appena citata, visto che se ne nota la terribile
esistenza soltanto indirettamente al momento dell’uccisione di Carmine
Bonavia, che negli Stati Uniti aveva sempre cercato di evitarla e, appunto, per
questa misura di prudenza sarà ucciso a Palermo.
Nel romanzo, invece, i colori e le immagini non si presentano così
imperiosamente, anzi ad un lettore attento non sfugge il fatto che Palermo
non è mai descritta precisamente come avrebbe fatto chiunque l’avesse
conosciuta effettivamente. Palermo è uno stato d’animo, la dimensione
psicologica della memoria, di una memoria che si vorrebbe dimenticare, ma
che rimane radicata nell’anima come le cozze rimanevano aggrappate agli
scogli, come ricorda una felice immagine di Verga a proposito dei siciliani.
Nel film si guarda a Palermo con meraviglia e stupore per la sua stranezza,
cioè con gli occhi del personaggio della moglie di Carmine Bonavia – Carrie
nel film, Babs nel romanzo. Nel romanzo soltanto i personaggi siciliani o di
origine siciliana sono ovviamente portatori di questa memoria scomoda,
mentre i personaggi statunitensi sono portatori di una cultura dell’effimero e
della superficialità, della banalità contro la verità: «Succede spesso che la
banalità espressa a voce alta finisca col soffocare così la verità che si tiene
segreta» (p. 15). Per essere vera questa situazione richiede che chi esprime la
banalità a voce alta sia un essere umano effimero e superficiale, oppure un
uomo di potere, cioè deve essere agli estremi della scala sociale, chi è in
mezzo è costretto invece a sostenere il potere o a esserne schiacciato, come
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sarà il caso di Carmine Bonavia, o ad aiutare chi è in basso, come farà Gianna
Meri e, soprattutto, suo padre, medico di tutti, ricchi e poveri, che morirà in
guerra e non se ne ritroverà più il corpo, stesso destino del fidanzato di
Gianna, Antonio: di loro sopravvive soltanto il ricordo di Gianna. Logica
conseguenza è che «la verità non è una, muta secondo la bocca che la
esprime» (p. 32). I personaggi statunitensi, non hanno queste ricchezze di
dimensioni, sono monodimensionali, sono interamente tesi al successo e alla
ricchezza – «È il dollaro la vostra cancrena» (p. 101) dirà uno dei personaggi
principali del romanzo rivolto agli statunitensi. Il romanzo ha, quindi, uno
spessore antropologico molto forte, ma è anche altrettanto psicologicamente
forte.
In alcune parti del romanzo c’è un Io narrante, Gianna Meri – che nel
film è interpretata da Carolina Rosi, la figlia del regista, a cui cambiano il
cognome in Magnardi –, combattuta tra la memoria e la dimenticanza:
«Vivevo in agguato delle sorprese che avrebbero saputo rendere infedele la
mia memoria» (p. 14). Questa memoria è ingombrante da un lato, ma
struggente da un altro, è difficile dimenticarla, piacevole conservarla. Sono
gli elementi di una psicologia degli opposti, che spesso si ritrova nell’animo
dei siciliani, non perché siciliani, ma perché esclusi o dominati da un potere
assoluto che è invisibile, ma potentissimo, che vive intorno a loro e dentro di
loro. Carmine Bonavia ne farà mortale esperienza personale, come l’aveva
fatta il barone Di Stefano, che accettò la condanna all’esilio in patria a cui
Cosa Nostra lo aveva sottoposto. In un mondo – perché la Sicilia è un mondo
– così dominato dal potere, l’unica certezza che rimane è quell’immensa
menzogna che è la vita (cfr. p. 153), constata il barone di D., altro
personaggio del romanzo, a cui è sottratta la moglie e la gioia della vita
matrimoniale, nonché la passione per la musica, da Enrico Caruso, il famoso
tenore. La storia di questa conquista sentimentale è inventata, l’unico dato
certo è il fallimento da tenore di Caruso nella natia Napoli, di cui si narra
rapidamente nel romanzo. Altro fallimento da tenore di Caruso, di cui si parla
fugacemente nel romanzo, fu Trapani, e chi scrive si ricorda di quanto abbia
ascoltato questa narrazione, nella propria infanzia trapanese, come una sorta
di mito, un’altra forma di memoria collettiva di una disgrazia, di un incidente
professionale.
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Rispetto ai personaggi statunitensi, però, nei personaggi siciliani c’è
una punta di orgoglio, un riconoscimento di superiorità, atteggiamento tipico
di chi autocostruisce psicologicamente una situazione di superiorità a partire
dalla propria inferiorità, è una forma di autodifesa della propria dignità,
perché non riesce ad uscire da questo stato di minorità, per dirla alla Kant del
Che cos’è l’illuminismo. Questa situazione psicologicamente è palese
soprattutto in Gianna Meri, l’Io narrante siciliano, quando, riflettendo sulla
propria formazione educativa in convento e su quella della sua amica Babs,
osserva: «Eravamo libere, sì, lo confermo, mille volte più libere tra i nostri
muri ruinanti, sotto le nostre coltri di divieti, che tutte le Babs d’America,
ossessionate di riuscire, oppresse da insegnamenti ricevuti non come un
arricchimento, ma come mezzo per far fuori l’asso: l’uomo» (p. 32), il
maschio da sposare per avere successo sociale e scalare la gerarchia della
società statunitense. Gianna sa che non ha fatto parte di una teleologia sociale
preordinata e preesistente, non è stata una portatrice di valori estranianti,
semmai di oppressione, ma nessuno le impediva di vivere liberamente entro
l’oppressione, se veniva accettata. È la libertà che decantava la Alliata a
proposito dell’harem islamico, è la riconoscenza verso il padrone che non è
perfido, che rispetta i limiti del proprio dominio, è la libertà delle vittime
conviventi della mafia.
Nella citazione c’è un accenno allo spazio, “i muri ruinanti”, e proprio
sullo spazio ci sono alcune interessanti osservazioni sulla diversa concezione
dello spazio urbano e architettonico tra Sicilia e Stati Uniti, tra uno spazio
carico di storia e, quindi, di memoria e uno spazio privo di questa dimensione
temporale. A Palermo si puntella, cercando di conservare, tutte le vestigia del
passato, fosse anche quello con minor valore artistico e architettonico, in
modo che il passato sia sempre attuale, e si ricordi sempre che in quello
spazio/tempo vigono leggi eterne e immodificabili; mentre a New York si
distrugge, in modo che non rimanga nulla del passato, perché si possa
ricostruire continuamente il presente, perché il presente sia sempre attuale, e
si sia consapevoli che tutto cambia velocemente, che nessuna legge è eterna e
immodificabile. Anche chi fugge da quel mondo eterno, come Alfio, il padre
di Carmine Bonavia, o il barone di D., o la stessa Gianna Meri, continuano a
vivere con la memoria dentro quello spazio/tempo, perché quella memoria è
una forma di difesa rispetto al presente estraneo dentro al quale si vive:
«Considerare il presente solo il tempo necessario per spogliarsene, evitare il
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passato prossimo, aggirare l’ieri, dimenticarlo, sottrarsi alle sollecitazioni
della pena, affondare sempre più lontano nel passato, incontrare il vuoto, il
buco spalancato, l’oblio, credersi perduta e ritrovare come una dimora
segreta, il paesaggio dell’infanzia» (p. 27). Qui il ricordo è una riserva di
sicurezza, è l’infanzia trasformata in una dimensione temporale mitica in cui
viveva incontrastata la serenità.
In conclusione i personaggi siciliani vivono una vita bidimensionale,
vivono nella vita quotidiana, o negli Stati Uniti, o in Sicilia, in mezzo agli
altri, ma per loro è una vita estraniata; la vita autentica è dentro di loro non in
mezzo agli altri o con gli altri, è la vita che hanno vissuto, la vita passata, che
rivivono continuamente con la memoria. È una condizione psicologica che
permette di vivere in mezzo alle difficoltà e non è una soluzione a una vita
estraniata, è scambiata con la stessa condizione umana, come se non si
potesse vivere altrimenti. C’è un forte senso di abisso interiore, alla
Kierkegaard, perché si vive continuamente in confronto con l’estremo
assoluto dell’essere umano, la morte. Il senso della morte è fortissimo nei
personaggi siciliani del romanzo, anzi sono soltanto loro a morire; possono
anche vivere, ma sono morti dentro, come il barone di D., che, tradito dalla
moglie, si sceglie un esilio interno, si richiude nel suo castello di Solánto, e
ne esce soltanto alla nascita del nipote, Antonio, il quale morirà in guerra,
quindi il barone soffrirà un altro esilio, questa volta a New York. I siciliani
vivono perennemente nella condizione di vittime, in attesa di qualche evento
mortifero e definitivo e hanno adeguato la loro psicologia a questo modo di
vivere. La conseguenza più forte è la totale incomprensione della psicologia
monodimensionale dei personaggi statunitensi, che invece vivono sulla
superficie della vita, scivolano facilmente da una situazione all’altra, non
sentono il peso della vita, perché non hanno passato, né tradizioni, né valori
ponderosi, sono semplici, banali, piatti.
Questa situazione psicologica ha anche un corrispettivo nella lingua
parlata dai siciliani, che usano il passato remoto e non il passato prossimo,
come spesso avviene nell’italiano parlato, che imita in ciò l’inglese degli Stati
Uniti. E poi, per chi non lo sappia, rifletta sul fatto che in siciliano sono
assenti i verbi che si formano dall’infinito, quindi manca il futuro, espresso da
un eterno presente (“tra 30 anni moro”, in italiano: “tra 30 anni morirò”), o
ancor peggio il condizionale, espresso dal congiuntivo infinito (“su sapessi u
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facissi”, in italiano: “se lo sapessi, lo farei”). Quindi ogni siciliano, se pensa
nella propria lingua nativa, non ha futuro e non ha alcuna condizione, è
totalmente libero, niente lo costringe, anche se vive in una condizione di
costrizione.
Chiudo queste note da lettore con un augurio: Dimenticare Palermo è
un romanzo talmente bello che non si vede l’ora di dimenticarlo, per poterlo
rileggere di nuovo.
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Andrea Bonavoglia
Berlino. Topografie della memoria
Veduta dall'alto di Topographie des Terrors
Il Monumento agli ebrei d'Europa assassinati di Peter Eisenman,
inaugurato a Berlino nella primavera del 2005 in occasione del 60°
anniversario dell'Olocausto e della fine della seconda guerra mondiale, venne
ad affiancarsi idealmente all'altra grande iniziativa realizzata nella capitale
tedesca, la costruzione nel 1998 del nuovo Museo Ebraico, progettato da
Daniel Libeskind. In seguito, nel 2010, sulla base di un progetto nato nel
1987 le cui primarie intenzioni erano la catalogazione, la documentazione e la
pubblicazione di ogni atto del regime hitleriano nei suoi dodici anni di vita, il
Senato di Berlino ha aperto una terza struttura fisica legata alla memoria, il
Museo Topographie des Terrors , sulla Niederkirchnerstraße 8, là dove si
trovavano la sede centrale della Gestapo e il comando delle SS. Le storie
progettuali ed esecutive di questi tre monumenti sono complesse, tra concorsi
conclusi e poi riaperti, costi sempre troppo alti, progettisti non confermati o
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divisi tra loro, ma i risultati sono straordinari e sono tuttora premiati da un
numero di visitatori altissimo. La capitale tedesca sembra attirare folle di
turisti soprattutto desiderosi di vedere e ricordare le tracce del Muro, gli
orrori del nazismo, e le nuove grandiose architetture amministrative: uno
strano connubio.
In verità, la Germania ha scelto di ricordare, e ricordare vuol dire
soprattutto non dimenticare. Gli orrori del nazismo sono presenti nella
coscienza del popolo tedesco, che cerca ancora oggi di capire che cosa ha
potuto permettere lo svolgersi di un simile atroce percorso, una topografia,
appunto, del terrore e dell'omicidio di massa. La capitale oggi sfavillante e
riunificata rivela ed espone le cicatrici della sua divisione - sfregi curati ma
sempre in vista - e non nasconde ciò che fu abbattuto e cancellato, dopo i
bombardamenti bellici, nel periodo di dominio sovietico tramite la DDR.
Scomparsi il palazzo imperiale, la cupola del Reichstag, la nuova grandiosa
Cancelleria di Hitler, le sedi dei Ministeri, la sede della Gestapo, oggi i
berlinesi ricostruiscono (come la cupola e in futuro lo Schloss) o rievocano le
immagini o ricostruiscono i frammenti di quel mondo e di quel tempo
maledetti. Come è tipico della cultura tedesca, un enorme sforzo è rivolto alla
documentazione e alla catalogazione, che razionalizza e trasforma il passato
in un terribile archivio della memoria.
Topographie des Terrors sorge nell'area sotto il livello stradale che
fungeva da fondamenta per gli uffici della Gestapo e delle SS. Siamo a due
passi da Potsdamer Platz, affiancati al Martin-Gropius-Bau e sul versante
orientale della città divisa; un frammento autentico del Muro fa da sponda al
museo, sulla strada. L'accesso è libero e ciò che è esposto è semplicemente la
narrazione degli anni del regime nazista; il museo peraltro organizza
seminari, ospita una biblioteca e rende partecipi dell'esistenza di una
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Fondazione che lo gestisce. Perduto nella burocrazia il progetto poderoso di
Peter Zumthor, l'attuale struttura semplice e giustamente anonima è stata
progettata da Ursula Wilms e da Heinz W. Hallmann. La visita informa e
rivela, tramite tabelloni, fotografie, filmati, la storia di un orrore.
I lavori di Libeskind e Eisenman sono legati invece, nel panorama unico
e sensazionale dell'architettura della nuova Berlino, a un'interpretazione
espressionista e drammatica dell'arte in genere. Dopo le informazioni
meticolose di Topographie des Terrors, è quindi il momento delle emozioni e
della meditazione.
Per la pianta del nuovo Museo Ebraico, sua prima grande realizzazione,
Daniel Libeskind ha immaginato una saetta, un fulmine, una gigantesca
scarica elettrica a forma di zigzag, una linea a suo dire derivata dalla stella di
Davide; nel grande volume creato su questo zigzag nulla ha l'aspetto consueto
di una parete, di una finestra, di un cortile. Le simbologie e i numeri usati
come elementi generatori, secondo un metodo caro tanto alla cultura ebraica
quanto a quella musicale, si perdono sicuramente nella normale utilizzazione
dell'architettura, ma contribuiscono al carico di fascinazione e di mistero.
L'allestimento del museo, nei piani superiori piuttosto abbondante e
ricco di oggetti ed immagini legati a una chiara vocazione didattica e
informativa, ha nascosto e mascherato molte scelte spaziali, ma non ha
cancellato l'aura che avvolge e penetra l'edificio. Dal piano sotterraneo, dove
si trovano spazi di informazione e di incontro, si accede a una torre vuota e a
un giardino, che quindi fuoriescono a livello del terreno senza essere
accessibili dall'esterno; la Torre commemora l'Olocausto, un vuoto della
ragione tagliato da ferite luminose, e il Giardino con i suoi 49 pilastri cavi di
cemento, disposti su una griglia inclinata e ricolmi di terra per nutrire gli
alberi d'olivo piangente piantati dentro, ricorda l'Esilio. Questa idea di oggetti
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geometrici disposti regolarmente a formare stretti percorsi che appaiono
labirintici, ma che sono in realtà del tutto aperti, è la stessa di Eisenman nel
suo Monumento.
Al piano terra del Museo si propone il vuoto come esposizione; spazi
obliqui e tagliati da aperture irregolari conducono a uno stretto cortile chiuso
tra pareti di cemento. Percorrendo il vuoto della galleria, un rumore
misterioso e spiacevole può accogliere i visitatori, come di ferraglia lavorata
in una fabbrica. Poco oltre, nel cortile, una singolarissima opera, "Shalechet"
("Foglie cadute" in ebraico) di Menashe Kadishman, svela il mistero di quel
rumore, prodotto da altri eventuali visitatori, invitati dai cartelli a utilizzare
l'opera camminandoci sopra. Sono centinaia di tondeggianti pezzi di ferro,
forati per creare la traccia infantile di un viso sofferente e buttati per terra
come foglie, per ricoprire più volte, su più strati, la superficie del cortile:
un'immagine terribile e inquietante del dolore e un modo inusuale di fruire di
un'opera d'arte.
Shalechet (Foglie cadute in ebraico), di Menashe Kadishman
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Il Museo di Libeskind rappresenta l'ingrandimento di una struttura
culturale già esistente, fondata nel 1962 e ospitata in un edificio ottocentesco
piuttosto anonimo, che oggi funziona da ingresso e da spazio per esposizioni
temporanee; il contrasto tra quella semplice facciata e le lucide pareti
metalliche, incise dalle aperture oblique, del nuovo edificio, è fortissimo e
rientra nella forza espressiva del progetto. Siamo nel quartiere di Kreuzberg,
non lontani dalla piazza dedicata al ponte aereo che nel dopoguerra salvò la
città dall'assedio sovietico.
Veduta esterna della vecchia e della nuova parte del Museo Ebraico
Per trovare il Monumento di Eisenman dobbiamo invece ritornare nel
pieno centro della città, non lontano da Topographie des Terrors. L'area
prescelta e il monumento sono il frutto di un dibattito politico, culturale e
artistico che ebbe inizio nel 1983 e che sicuramente non si è ancora concluso.
Senza entrare nel dettaglio di una storia complessa e intricata tanto per la
scelta del sito, quanto per la scelta del monumento stesso, basti ricordare che
il progetto vincitore dell'ultimo concorso, nel 1997, portava la firma non solo
di Eisenman, ma anche di Richard Serra e che quest'ultimo rinunciò
all'incarico nel 1998. Altri cinque anni di polemiche e di compromessi
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dovevano passare prima che il tenace Eisenman potesse vedere l'inizio dei
lavori nell'area occupata in epoca nazista dai giardini del Ministero degli
Interni, a pochi passi dagli scomparsi centri del potere hitleriano e
praticamente sul retro della ricostruita Pariser Platz, la piazza simbolo di
Berlino, dove si trova la Porta di Brandeburgo e dove gli americani e i
francesi hanno costruito le loro nuove ambasciate (a poche decine di metri si
trovano anche l'ambasciata russa e quella britannica).
Il monumento con lo sfondo del retro di Pariser Platz
Si può entrare nel Monumento quando e dove si vuole, non ci sono
cancelli; potrà dare fastidio, a volte, che qualche visitatore corra o scherzi
dentro questo luogo inquietante che a volte rimanda a un labirinto, senza
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esserlo affatto, più spesso a un cimitero le cui normali strutture si stringano
intorno a noi, ma è nella normalità delle cose che ciò accada. I visitatori
diventano parte dell'opera e reciproco riferimento visivo.
Ma si tratta di una scultura o di un'architettura? Eisenman, architetto di
fama sin dalla sua inclusione nei Five Architects di New York, e saggista
teorico di profonda capacità analitica, ha spesso dichiarato la sua
ammirazione per Adolf Loos; qui forse ha voluto costruire un luogo che
corrispondesse alla perentoria affermazione di Loos nel celebre saggio
Architettura del 1910, "Solo una piccola parte dell'architettura appartiene
all'arte: il cimitero e il monumento".59
59Nur ein ganz kleiner Teil der Architektur gehört der Kunst an: das Grabmal und das
Denkmal.
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Una superficie di due ettari non può essere la base di una scultura e una
scultura non può possedere mille vedute interne e mille vedute esterne;
nonostante le indicazioni di qualche guida turistica o di qualche interprete
superficiale, allora, il Monumento di Eisenman è senza alcun dubbio una
geniale, discutibile, controversa e memorabile opera di architettura, costruita
nel centro della capitale della nuova Germania e costituita da una selva di
parallelepipedi di cemento grigio distribuiti su una griglia ortogonale di vicoli
percorribili solo a piedi. La pianta del monumento presenta infatti uno
schema regolare a scacchiera, come la pianta di certe antiche città greche e
romane o di molte moderne città americane. Non è per nulla regolare invece
l'andamento verticale, perchè le stele, tutte uguali alla base, sono tutte diverse
per l'altezza e per la lieve inclinazione, creando così una forma globale
imprevedibile e tormentata. Anche i vicoli, di eguale larghezza, pavimentati
da grigi cubetti stesi regolarmente, non sono piani, ma si inclinano senza
logica apparente, giungendo a sprofondare nel terreno in corrispondenza delle
stele più alte. In un livello sotterraneo è inoltre ospitata la Fondazione che si
occupa di catalogare e censire i nomi di tutti gli ebrei sterminati dalla follia
nazista.
Alcuni numeri possono fornire una pallida indicazione sulla singolarità
di questa costruzione: la superficie è di 19.000 metri quadrati; il primo
progetto firmato da Eisenman e Serra prevedeva 4200 stele, il progetto
realizato 2711; le stele sono di calcestruzzo, prodotto in modo tale da
garantire una facile pulizia della superficie esterna, larghe alla base 95
centimetri, lunghe 2 metri e 38, alte da zero fino a 4 metri e 70, inclinate tra
0,5 e 2 gradi; il peso medio di una stele è di 8 tonnellate; i vicoli sono 54 in
direzione nord-sud e 87 in direzione est-ovest; l'illuminazione è fornita da
180 lampade fisse. Sul lato della Ebertstrasse sono stati piantati 41 alberi.
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Nel suo discorso all'inaugurazione del Monumento, il 10 maggio del
2005, Eisenman ha detto: "Non mi resta che tacere adesso e consegnare
questo monumento al popolo tedesco, adesso e per il futuro, e lasciare che il
vostro monumento parli a e per il popolo tedesco, e al mondo intero. Nel
cuore io sono un newyorkese, ma da oggi parte della mia anima resterà per
sempre qui a Berlino"60.
60For now it remains for me to become silent, to give this memorial to the German people,
now and in the future, and to let your memorial speak to and for the German people and to the
world. At heart I am a New Yorker, but from today, part of my soul will always remain here in
Berlin.
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DIMENTICARE
discussioni
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Matteo Borri
Storia della malattia di Alzheimer
Bologna, il Mulino, 2012, pp. 181,
ISBN 978-88-15-23365-3, € 16,00
recensione di Giovanna Frongia
«La lettura storica di un fatto scientifico comporta il non dimenticare le
caratteristiche dei vari momenti che lo hanno definito» (p. 164). È questo il
principio sotteso al saggio Storia della malattia di Alzheimer di Matteo Borri
che, nel descrivere in maniera dettagliata e minuziosa il percorso che ha
portato alla sistematizzazione nosografica della Alzheimer’s Disease, ci svela
la storia di un vero e proprio processo scientifico che non procede in forma
lineare: «È possibile affermare che questa storia della malattia di Alzheimer
ha le caratteristiche di un “particolare” intreccio fra motivi scientifici e motivi
comunicativi, un processo di costruzione di un sapere attraverso
l’unificazione di più saperi diversi. La storia della malattia di Alzheimer è
così una storia esemplificativa di un processo scientifico che, come tale,
rimane ancora oggi aperto» (pp. 147-148).
Paolo Rossi, nella sua bella “Presentazione” al testo (pp. 7-23), ci
ricorda come la dimensione della dimenticanza sia caratteristica essenziale
del procedere della scienza che, per costruirsi come sapere sistematico e
organico, avanza dimenticando le vecchie teorie superate e le riflessioni
critiche costruite intorno ad esse, ma anche le stesse relazioni fra le teorie e
l’ambiente scientifico nel quale si sono generate per diventare «qualcosa di
simile ad un organismo, a un corpus coerente e compatto di definizioni,
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teorie, esperimenti» (p. 17). A perdere la memoria non è solo il paziente
diagnosticato Alzheimer, anche la visione organicista della malattia come
correlazione tra sintomo e lesione organica rischia di cancellare lo stesso
individuo malato e le sue sofferenze: «Quando è diagnosticata una malattia
mentale cronica come la malattia di Alzheimer le persone scompaiono dalla
vita sociale. L’individuo e la sua storia attraverso l’etichetta della malattia,
resa realtà ontologica con il nome della diagnosi, entrano in un mondo che
non ne riconosce più l’individualità, riducendo il soggetto a un insieme di
sintomi, di mancanze, di disgregazione. Nella malattia di Alzheimer
scompaiono i neuroni e scompare anche l’individuo» (p. 168). Lo studio
minuzioso di tali fatti dimenticati, intersecati dall’analisi di un secolo di storia
della psichiatria, è il vero oggetto del volume, che ripercorre la storia della
malattia di Alzheimer a partire dal 25 novembre 1901, giorno in cui il medico
tedesco Aloysius – Alois – Alzheimer incontra per la prima volta la paziente
Auguste Deter nell’istituto psichiatrico di Francoforte sul Meno.
Lo studio di una malattia, afferma Borri nell’“Introduzione”, «riguarda
sia i fatti scientifici e la loro descrizione, sia quei particolari rapporti umani
che si instaurano fra il paziente e il suo medico» (p. 25). Il primo capitolo,
intitolato “Trovare” (pp. 31-78), si apre con l’incontro tra la signora Auguste
e il giovane medico Alois Alzheimer. Il quadro clinico della paziente e
soprattutto i severi disturbi del linguaggio manifestati in età non avanzata –
51 anni – colpiscono subito il medico, che continuerà a seguire il suo caso
anche dopo aver abbandonato l’istituto di Francoforte per recarsi a Monaco a
lavorare nella clinica dello psichiatra Emil Kraepelin. Alla morte della
paziente, Alzheimer si fa inviare il cervello per effettuare un’autopsia,
scoprendo nell’indagine istologica un fatto da lui stesso definito come un
“insolito” caso, un quadro anatomopatologico non ancora descritto dalla
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comunità scientifica del tempo. L’esame istologico mostrerà infatti la
degenerazione delle neurofibrille e il nuovo caso clinico sarà comunicato alla
comunità scientifica nel 1906, senza però riscuotere particolare interesse. È
solo a partire dal 1910, anno in cui Kraepelin inserisce la malattia nell’ottava
edizione del suo manuale di psichiatria, che si apre un primo fecondo periodo
di studi sulla nuova forma patologica, nel riferimento a diversi ambiti
disciplinari. Utilizzando per la prima volta il termine Alzheimerische
Krankheit per indicare quello specifico insieme di dati clinici e
anatomopatologici osservati da Alzheimer e confermati da altri casi studiati
dai suoi collaboratori italiani Gaetano Perusini e Francesco Bonfiglio,
Kraepelin propone una nuova categoria nosografica supportata da prove
istopatologiche.
Nel secondo capitolo – “Cercare” (pp. 79-118) – Borri analizza il
contesto scientifico nel quale si inserisce la scoperta del medico tedesco,
nonché le metodologie di indagine da lui utilizzate. Per la psichiatria di inizio
Novecento la malattia mentale aveva come causa principale lesioni cerebrali e
doveva essere quindi compresa correlando i sintomi della demenza con le
caratteristiche del tessuto cerebrale. Alzheimer impostò la sua carriera di
studioso intorno all’anatomopatologia del cervello, ma fu anche un bravo
clinico e proprio attraverso il colloquio clinico e l’attenta osservazione della
sua paziente il medico tedesco fu spinto ad approfondire l’insolito caso,
confermato poi collegando i comportamenti patologici intra vitam con
specifiche alterazioni corticali esaminate post mortem. Analizzando il testo
originale di Alzheimer del 1907, qui presentato per la prima volta in una
traduzione integrale dello stesso autore, Borri afferma: «In realtà pur in
presenza di dati diversi e di diversa natura, il medico ha comunque di fronte a
sé una concreta unicità: l’individuo in situazione di malattia e questo porta il
85
suo sistema conoscitivo a cercare una sintesi concettuale. L’occhio del clinico
assume dunque tutto il complesso dei fatti che si sviluppano e si intersecano
nella storia dell’ammalato, storia che può essere oggetto di un racconto» (pp.
39-40).
Il terzo capitolo – “Comunicare” (pp. 119-161) – ripercorre il processo
di “giustificazione” che ha portato alla visione condivisa del concetto di
malattia
di Alzheimer,
dai
primi
del
Novecento
fino
all’attuale
sistematizzazione nel manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali
(DSM). L’analisi di Borri si concentra sul periodo 1910-1974 e offre una
dettagliata indagine sul contributo degli studiosi italiani, tra i quali spicca
Ugo Cerletti, al tema delle demenze e alla malattia di Alzheimer, per passare
poi all’analisi delle categorizzazioni delle demenze presenti nei DSM, dalla
prima versione del 1952 fino al DSM-IV del 2004. Tale analisi mostra come
nella psichiatria moderna assuma un’importanza primaria, rispetto al passato,
il sintomo connesso alla perdita della memoria e il tema della personalità e
dell’individualità. La malattia di Alzheimer non deve essere compresa solo
attraverso la correlazione tra sintomi della demenza e caratteristiche del
tessuto cerebrale, ma anche come il risultato di una serie di deficit cognitivi
dovuti a diverse cause. Negli studi sulla malattia di Alzheimer riveste
particolare importanza l’analisi dei disturbi del linguaggio di un individuo
affetto da demenza, il che non riguarda solo una precisa e localizzata
disfunzione organica, ma la persona nella sua integrità. Nella presa in carico
di pazienti Alzheimer, suggerisce l’autore, la direzione che oggi si auspica è
quella di porre una sempre maggiore attenzione agli aspetti residui del
linguaggio che presenta il paziente per «andare al di là di un’ottica centrata su
ciò che viene a mancare» (p. 159).
86
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Nel quarto capitolo – “Casi clinici, ricerche in laboratorio e domande ancora
aperte: bastava leggere?” (pp. 163-173) – Borri offre notevoli spunti di
riflessione su questioni tuttora aperte nel dibattito contemporaneo sulla
malattia di Alzheimer. Una lettura attenta mostra come tante delle riflessioni
epistemologiche odierne sulla malattia siano le stesse presenti all’inizio del
Novecento, in particolare il rapporto fra l’etiologia della malattia e la senilità.
Se restiamo all’interno dell’ottica centrata sulla malattia, rischiamo di
dimenticare «come la struttura del problema della Alzheimer’s Disease non
sia “solo” un fatto scientifico, ma anche un tema profondamente umano» (p.
26), che non deve quindi essere letto soltanto da un punto di vista biomedico,
ma anche contemplare un ambito più esteso che prenda in considerazione
persino i fattori psico-sociali dell’individuo malato. Tali aspetti non si
esauriscono nella cura dell’organo o della disfunzione, ma si inseriscono in
un sistema più complesso di relazioni sociali, di sofferenza e di affetti,
dimostrando come la malattia sia in primo luogo un nuovo modo di esistere
per l’individuo. L’attenzione degli studiosi oggi è centrata non solo sulla
malattia, ma sulla sofferenza della persona affetta da Alzheimer e sul
miglioramento della qualità di vita attraverso strategie di arricchimento e
valorizzazione delle sue abilità residue. La storia di una malattia, infatti, è
sempre la storia di quel malato particolare e in un’ultima analisi, conclude
l’autore, «La comprensione della storia naturale della malattia si
concretizzerà nelle storie degli individui che vivranno un invecchiamento
accolto come una vera realtà personale, anche se di tipo Alzheimer. Questa
però è un’altra storia, ancora da costruire e documentare» (p. 173).
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Günther Anders
Dopo Holocaust , 1979
Torino, Bollati Boringhieri, 2014, pp. 97
ISBN 978-88-339-2588-2, € 13,00
recensione di Aldo Meccariello
Può un film provocare lacerazioni nella coscienza di un intero popolo e
allo stesso tempo aprire un dibattito storiografico, culturale e civile? Quando
Holocaust, una miniserie americana diretta da Marvin Chomsky con James
Woods e Meryl Streep apparve nel 1979 sugli schermi televisivi in Europa e
in Germania, pochi avrebbero scommesso sulle reazioni contrastanti e sulle
infinite discussioni che ne seguirono. Holocaust raccontava in modo molto
convenzionale ed hollywoodiano la genesi dello sterminio degli ebrei nel
duro decennio 1935-1945 attraverso la storia di due famiglie tedesche, una
ebrea, i Weiss, e l’altra ariana, i Dorf, il cui padre di famiglia, spinto dalla
disoccupazione, si arruola nelle SS fino a diventare un criminale di guerra al
fianco di Hitler. Il film, che non piacque a Claude Lanzmann, il regista di
Shoah, era un’occasione per rappresentare l’atrocità e la follia dei crimini
nazisti contro gli ebrei, trattando direttamente argomenti come la creazione
dei ghetti e l’uso delle camere a gas. Dopo tribunali e processi, il popolo
tedesco sembrava rimuovere l’interrogazione su ciò che era accaduto e già nel
1946 il grande filosofo tedesco Karl Jaspers, alla fine della guerra, invitava
tutti a guardare nelle stratificazioni della colpa e della responsabilità della
Germania, ma tale monito rimase confinato in ristrette discussioni filosofiche
di natura accademica, se non risultò addirittura un ingombro fastidioso di cui
liberarsi. Come è noto, Jaspers elencava quattro distinti gradi di colpa
(criminale, politica, morale e metafisica) da cui muovere per un generale
scuotimento delle coscienze. Ebbene, trentatré anni dopo, nel 1979, un altro
filosofo ebreo-tedesco, Günther Anders, l’allievo irregolare di Cassirer e
Heidegger, il primo marito di Hannah Arendt, rilancia il monito jaspersiano
approfittando della proiezione sugli schermi televisivi tedeschi nel gennaio
89
del 1979 di Holocaust, che è visto da venti milioni di tedeschi. L’impatto è
forte sul piano mediatico, poco rilevante su quello storiografico, culturale e
civile. In realtà ciò che Anders scrive dopo nei suoi appunti è uno
straordinario compendio di estetica negativa, perché ciò che Holocaust
trasmette «è l’orribile parvenza o meglio la parvenza dell’orrore, che la realtà
che percepiamo non riesce a trasmettere come invece riesce a fare il mezzo
artistico. E ciò che percepiamo non è la “parvenza”, bensì la realtà di allora
che, per essere colta, doveva essere innanzi tutto trasformata in fiction» (p.
59). Proviamo a seguire le annotazioni diaristiche andersiane in Dopo
Holocaust, 1979 (con una Prefazione di David Bidussa e la traduzione e la
Postfazione di Sergio Fabian), che in parte rinviano al suo precedente diario
di viaggio, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966 (Torino, Bollati
Boringhieri, 2008) e lo faremo montando alcune parole essenziali.
Colpa. Holocaust spalanca il vortice oscuro della vita collettiva tedesca.
Perché senza Holocaust, verosimilmente, non sarebbe riaffiorato nulla.
«Quando le potenze vincitrici coniarono l’espressione “colpa collettiva” non
si trattò semplicemente di una formula psicologica astratta o irrazionale, ma
della più che comprensibile reazione dei vincitori al totalitarismo» (p. 55).
Anders ritiene che sia giusto parlare di colpa collettiva perché vi fu una
mancata ribellione collettiva contro lo stato nazista che si era macchiato di
crimini efferati. E nessuno poteva dire di non sapere. Dunque, il silenzio,
l’omissione sono espressioni della colpa.
Ebrei. Hitler ha trasformato in un postulato la tesi darwinistica che per
vivere dobbiamo sopravvivere agli altri. Lo sterminio degli ebrei non fu
mezzo bensì un fine e fu il prodotto di un lavoro industriale, compiuto da
milioni di uomini medi e insignificanti che il nazismo seppe però trasformare
in nobiltà, in élite di massa di milioni di nobili e puri chiamati a realizzare la
purificazione del paese dagli ebrei impuri. Anders ricostruisce con
straordinaria lucidità l’identificazione di ebraismo e capitalismo stigmatizzata
dal dittatore nazista che aveva già sorprendenti progeniture nella Questione
ebraica di Marx fino a Grosz e a Weber. «La condizione dell’essere è
l’assassinio. […] Modello e personificazione della vittima indispensabile per
90
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
la sopravvivenza è dunque […] l’ebreo. Auschwitz […] è piuttosto
l’incarnazione dell’ontologia nazionalsocialista» (p. 79). I tedeschi non
vollero vedere prima né capire dopo ciò che era accaduto.
Etica. «Siamo all’anno zero della nuova etica» (p. 52). Le categorie
etiche tradizionali, le filosofie morali con Auschwitz e Hiroshima sono
diventate obsolete e superflue. Ma ha ancora senso fondare un’etica che sia
all’altezza delle sfide di un mondo senza Dio e prossimo ad essere un mondo
senza uomo? L’analisi andersiana è implacabile nella presa d’atto che «da un
momento all’altro il nostro mondo può rovesciarsi dallo stadio finale in
quello della fine del tempo» (p. 52). Allora occorre muovere dal postulato
dell’elaborazione nato in ambito psicoanalitico che può fornire in sequenza
(trauma – rimozione – presa di coscienza del rimosso – guarigione) gli
strumenti necessari perché il popolo tedesco faccia i conti col proprio passato
non lasciandosi, però, guarire, ma lasciandosi traumatizzare (pp. 41-42).
Holocaust ha messo in moto questo processo e il turbamento che ha
provocato in milioni di tedeschi è la condizione possibile per una «guarigione
morale» (p. 42). Il filosofo morale non può più far finta di nulla, deve
prendere atto che amore e odio, bene e male sono sentimenti antiquati e
perciò posizionarsi dentro le questioni drammatiche che riguardano la
sopravvivenza del genere umano.
Fiction. Scrive Anders che «solo attraverso la finzione, solo attraverso i
casi singoli, l’accaduto e l’innumerabile possono essere resi perspicui e
rammemorabili […]. In realtà, il 1978 è il 1945 dal momento che solo oggi è
sopraggiunto quello schock che avrebbe dovuto prodursi allora» (p. 30).
Essere stati ignoranti o inconsapevoli è la vera colpa dei tedeschi. La finzione
richiama la possibilità che il cinema con le sue peculiari strutture narrative
possa contribuire a focalizzare il discorso storico assai più dei documentari o
degli stessi libri di storia. Prima Marc Ferro, poi Pierre Sorlin hanno spiegato
a lungo interferenze e confluenze tra cinema e storia. ll film Holocaust è
l’occasione che deve costringere i tedeschi a confrontarsi con il tragico della
loro storia. «Ciò che dobbiamo fare, e ciò che il film ha fatto, è ritrasformare
le cifre in esseri umani. E mostrare come i sei milioni di gassati siano stati sei
91
milioni di individui» (p. 34). La finzione che fornisce i fatti diventa
indispensabile proprio «perché la mostruosità e la dismisura di ciò che
accadde, oggi non è più percepibile e conoscibile. […] Questa invisibilità
deve essere revocata […] e per questo abbiamo bisogno di lenti, e
precisamente non di lenti di ingrandimento, ma di lenti di rimpicciolimento»
(pp. 63-64).
Male. Auschwitz e Hiroshima. Auschwitz o Hiroshima? È possibile
quantificare e qualificare il male? Furono più malvagi gli auguzzini di
Auschwitz o i piloti di Hiroshima? Anders si interroga, propone diagnosi,
prospetta epiloghi, lui che aveva dialogato col pilota di Hiroshima Eatherly e
si era spinto a scrivere una lunga lettera al figlio di Eichmann, Klaus. «Non
esiste solo l’innocenza del male (Eatherly) e la banalità del male (Eichmann),
ma anche – anzi non “anche” ma “soprattutto” la malvagità del vero male» (p.
66). Tempi molto diversi erano quelli in cui il male si manifestava nel
maligno e in cui dunque si poteva sperare di «vincere il male combattendo
contro il male», mentre oggi esso si presenta irriconoscibile e sfuggente
perché il male non è più distinguibile dal fondale di un universo quotidiano
moralmente indifferente, essendo divenuto esso stesso il mondo (p. 67).
Sottolinea con grande acume Sergio Fabian nella magistrale postfazione: «Più
il male è abnorme e lontano, più la coscienza fallisce e, proprio dal suo
scacco, dice Günther Anders, deriva il senso d’integrità morale, l’attestato di
buona condotta che sbianca le coscienze» (pp. 91-92).
Rimozione. Holocaust non solo è l’occasione per ripensare ciò che è
accaduto, ma ha il merito di far affiorare il rimosso. È un film magnanimo e
filosofico insieme. Dice il trauma o qualcosa di più, innesca procedimenti
autoriflessi mai provocati prima nella coscienza di ogni tedesco. «Non solo
non ci sono ricordi ma non ci sono nemmeno traumi. Furono indifferenti o si
assuefecero all’indifferenza» (p. 37). Se non c’è ricordo non c’è nemmeno
trauma.
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Questo improvvisato e parziale vocabolario andersiano estrapolato dal
testo riproduce rotazioni e derive del pensiero dell’Autore: il ritmo è
incalzante, i concetti si solidificano, lo scacco dei sentimenti dilaga in
superficie, il male, cambiando segno nella percezione di tanti altri olocausti
che si compiono ogni giorno nel mondo dopo il tragico 1945, si fa sempre più
attivo e produttivo, il tempo della storia sembra ingovernabile e sgretolarsi in
un imminente tempo della fine. Che cosa resta? Quale responsabilità o
compito abbiamo di fronte? Forse l’attitudine a camminare in un universo di
segni come scuciti (per dirla con Claudio Magris), a condizione che si apra un
nuovo capitolo dell’etica che Anders chiama: MAXIMA MORALIA (p. 83).
93
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Marco Fortunato,
L’offesa, la colpa, il fantasma. Muovendo da Caducità di Freud
Prefazione di Elio Matassi
Genova, il melangolo, 2013,
pp. 195, ISBN 9788870189193, € 22,00
recensione di Aldo Meccariello
Marco Fortunato coniuga in questo libro l’offesa, la colpa e il fantasma,
esplorando con grande rigore analitico ed intelligenza ermeneutica i loro
effettivi rapporti e i loro transiti interdisciplinari. Si tratta di tre nozioni
complesse che rientrano tra quelle più dibattute soprattutto in ambito
psicoanalitico e trovano una propria collocazione esplicita in un celebre testo
di Freud, Caducità, del 1915, pubblicato a Stoccarda un anno dopo nel cuore
della catastrofe della Grande guerra che «depredò il mondo delle sue
bellezze».
Nel tardo autunno, o all’inizio dell’inverno del 1915, Freud scrive di una
passeggiata «attraverso una contrada estiva in piena fioritura» avvenuta
nell’estate prima del conflitto mondiale, dunque nel 1913. Freud è in
compagnia di Rainer Maria Rilke, il poeta delle Elegie Duinesi e di Lou
Andreas Salomé, che era stata l’amica prediletta di Friedrich Nietzsche. Tema
della conversazione è la caducità, ossia il valore della caducità, l’evidenza
che il nostro dominio sul mondo è precario e la certezza che ogni cosa perirà.
Freud avverte in questo splendido testo che la percezione della caducità
anticipa lo choc della morte, dell’inabissarsi di tutte le cose, ma allo stesso
tempo si può intravedere una nuova luce che le avvolge e le protegge. «Nel
corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo
e del volto umano, ma questa breve durata le aggiunge un nuovo incanto».
Il volume di Fortunato prende le mosse da Caducità, isolando dal testo
freudiano «i tre più salienti approcci speculativo-esistenziali al problemavulnus della caducità/della mortalità: la prima posizione è la consolazione
95
metafisico-religiosa, la seconda posizione è la consolazione laica e la terza
posizione è la non consolazione. Proviamo ad esplorare ciascun approccio,
evidenziando punti di forza e punti di debolezza, nonché il punto di vista
dell’Autore. Certamente la prima posizione è quella classica di tanta filosofia
e di tanta teologia, perché guarda oltre/dietro/al di sopra della caducità,
aggirandola con un richiamo alla dimensione trascendente della realtà, «ad un
alternativo binario di realtà, un livello della redenzione, della salvezza e della
pienezza che smentisca - neutralizzi - rovesci quel dramma e che sia, esso sì,
la vera ultima parola» (p. 24). Il positivista, l’illuminista, l’ateo Freud,
osserva Fortunato, non è tenero con questa posizione ritenuta non seria e poco
rispettosa sul piano logico. Si tratta di una posizione ingenua che segna in
maniera fin troppo evidente «il trionfo del desiderio e della speranza
sull’esperienza e sulla ragione, del sogno sulla dura effettualità, del principio
di piacere su quello della realtà» (p. 26).
Ma per il grande filosofo russo Šestov, che Fortunato interroga nella
discussione della prima posizione, questo cosmo della ragione è destinato a
rivelare il suo carattere mendace e a crollare di fronte ad alcune esperienze
decisive dell’esistenza che ci toccano personalmente e ci restituiscono alla
nostra realtà di individui concreti, e quindi alla nostra paura. Tale è
l’esperienza del dolore, legata alle disgrazie, alla malattia, alla vecchiaia,
all’esperienza della morte, la cui deformità mostruosa e le cui sofferenze ci
costringono a dimenticare ogni cosa, comprese le nostre verità evidenti, e a
partire alla ricerca di una verità nuova. Queste esperienze, infatti, ci aprono
gli occhi su un universo di dis-armonie, di caos che recidono i legami con la
nostra precedente esistenza e ci inducono a pensare che è il momento di
compiere il salto ad un’altra metafisica, o, in altri termini, ad un’altra
ontologia. Nessuna scienza può venire a capo dell’enigmaticità dell’esistenza,
sostiene Šestov richiamando echi pascaliani e kierkegaardiani. Semmai,
l’uomo deve trarre dalla disperazione estrema l’energia e l’audacia per
resistere al male e provocare il suo ribaltamento in un bene ancora più grande
perché ripristini la sua piena padronanza e la sua piena felicità, «qui nel
mondo reale creato da Dio» (p. 33).
Il ritmo di scrittura di Fortunato è serrato, dialettico, in specie quando,
dopo aver illustrato la tesi, la ribalta, ne coglie i lati più problematici. Al bel
96
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
raccontare di Šestov egli contrappone la linea Spinoza-Nietzsche, cui si
aggiunge anche il Leopardi del Cantico del gallo silvestre, secondo cui lo
scenario del completo annientamento del mondo lascia ben poco sperare nella
felicità o infelicità dell’uomo. La seconda posizione che Fortunato isola nel
testo freudiano è quella laica e sobria rispetto al problema-vulnus della
caducità e mortalità di ogni cosa. Tutt’altro che un’umiliazione, la caducità è
un dato di fatto, una verità inconcussa che semmai ha il valore della rarità. Lo
stesso Freud sembra riconoscerlo quando stabilisce una superiorità in fatto di
valore del caduco/del mortale rispetto a quello che non lo è. Infatti Freud,
durante la passeggiata, si accorge del turbamento del giovane amico e gliene
chiede la ragione. Il giovane poeta gli risponde che è diventato triste al
pensiero che tutta quella bellezza intorno presto perirà con l’inverno. Freud
rovescia l’interpretazione del poeta. Non è la bellezza che perirà, ma è l’uomo
che scomparirà a causa della sua condizione umana. Quanto alla bellezza
della natura, essa ritorna a fiorire ogni anno dopo l’inverno e questo ritorno in
rapporto alla durata della vita è un eterno ritorno. Caducità dunque davanti
all’eterno alternarsi delle stagioni: l’uomo, al contrario delle piante, non
rinasce in primavera dopo la sua morte e un doloroso conflitto gli impedisce,
dunque, di godere pienamente della bellezza della vita.
Ciò che Freud – osserva l’Autore – non può approvare, anzi sembra
giudicare con severità, è che l’individuo-uomo tenga fermo, con
rammemorazione commossa e addolorata, a un oggetto d’amore quando
ormai è finito/perduto/morto in quanto realtà rilevabile e tangibile (p. 86). La
terza posizione è la non consolazione, di gran lunga quella preferita
dall’Autore, al punto che occupa la metà del volume. L’argomentazione è
sorretta da una sorta di «‘gusto’ paranarrativo» di cui parla Elio Matassi nella
breve e agile prefazione al volume. Il lettore è invitato ad inoltrarsi in un
repertorio di testi non solo filosofici, ma anche narrativi e filmici, che meglio
danno conto di quella «pre-visione della rovina, del destino di caducità e di
morte cui è consegnato il grande e il bello» (p. 95).
Il giovane poeta di Caducità che rivela i sicuri tratti di Rainer Maria
Rilke non potrà mai ricavare piacere dall’incontro con tutto ciò che è bello e
la sua «Stimmung melanconica è-non può che essere permanente e assoluta,
inconsolabile, perché qui, chiunque e qualunque cosa si incontri-si veda-si
tocchi (verrebbe fatto di dire: ovunque ci si giri), si incontra-si vede-si tocca
97
sempre e comunque un caduco/caducità, un mortale/mortalità» (p. 95). Del
resto il grande tema delle rilkiane Elegie Duinesi è che dallo spaventoso e, nel
terribile di ciò che rapidamente muta, si possono costruire le ragioni della
nostra esistenza. A questo punto si può dire «che siano state poste le premesse
necessarie all’espressione della nostra posizione circa l’idea del poeta di
Caducità secondo cui le cose-gli individui sarebbero svalorizzati dalla loro
finitezza/dalla condanna a morte che è emessa contro di loro» (p. 136), ossia
esposte all’offesa del tempo.
Il lettore in questo punto del libro è affascinato da un’analisi sottile e
raffinata del film Dimenticare Venezia, di Franco Brusati (1979), che
Fortunato eleva a modello esemplare per questo tipo di considerazioni. Il film
racconta una comunità tutta al femminile che vive in una fattoria veneta; ci
sono due giovani donne, Claudia e Anna, zia Marta e la balia/servitrice della
casa, l’anziana Caterina. Le quattro donne convivono senza grossi problemi.
Anna è in pratica colei che si occupa della fattoria, dei raccolti e della
gestione vera e propria della casa, che è di proprietà di Marta, una ex cantante
lirica a riposo dal bel passato e dal carattere gioviale. Claudia invece è
un’orfana accolta nella casa e che lavora come maestra insegnando ai
bambini del vicinato e gestendo anch’essa la fattoria, alla quale presta la sua
opera. L'efficace titolo rimanda a Venezia, città cristallizzata nella storia e
nella memoria, «terra maliosa ma potenzialmente paralizzante dei ricordi» (p.
137). Lo snodo principale del film è probabilmente questo, il momento
cruciale in cui il peso dei ricordi deve fare i conti con il presente, con l’età
adulta dei protagonisti che oscuramente sentono di dovere un pesante tributo
proprio alla loro adolescenza. Claudia, la più giovane, vorrebbe che tutto
restasse così per sempre, che nulla mutasse più per loro, che non si verificasse
più alcun cambio di scena. Il tempo, però, non lo si ferma, i ricordi devono
restare tali per poter vivere il presente. Ma è un bene che l’uomo esiga
immortalità e unicità o l’immutabilità del tempo? Non si rende forse conto di
commettere un errore di valutazione, di contrarre la colpa, la massima colpa?
L’Autore sviluppa su questo punto un complesso ragionamento che muove
dall’antico detto di Anassimandro fino ad Heidegger passando per Romano
Guardini e Simone Weil. A rimuovere ogni residua traccia di violenta
affermazione dell’uomo è proprio Weil, che si è sottratta a qualsiasi sospetto
di colpevolezza, lasciandosi morire fino all’in-esistenza, assecondando così la
propria estinzione fisica ad appena trentaquattro anni.
98
AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Infine, resta il fantasma, il terzo termine del trittico che dà il titolo al
libro di Fortunato. Qual è la natura del fantasma? L’inconsistenza, la
fuggevolezza, l’inafferrabilità, l’evanescenza, l’invisibilità, tratti che
aboliscono essenzialmente «la pressione percettivo-sensoriale, che è la
componente principale della generale e complessiva pressione e fatica della
realtà» (p. 182). Il fantasma impegna la vista, sia pure solo quella interna, e
scorre nel silenzio di un solitario auto-ascolto, come nel caso in cui si riceve
senza preavviso un telegramma che preannuncia l’imminente visita di un
amico perso di vista da tempo. Quello del fantasma o dei fantasmi è il tema
caro a tanto cinema e a tanta letteratura (da Visconti a Borges, da Marias a
Cardarelli), come Fortunato evidenzia con raffinati ed efficaci commenti ad
Un cuore così bianco, il romanzo di Marias, a Funes o della memoria, il
celebre racconto di Borges, a Passato, la struggente poesia di Vincenzo
Cardarelli, o a La tragedia dell’Infanzia di Savinio. Richiami puntuali e
stringenti per esplicitare quella che l’Autore chiama l’esperienza del
fantasma, che si situa «fra le sole forme e situazioni sublimi di trascendenza
divina – di permanenza nel mondo che però lo eccede, di uscita dal mondo
che però rimane nel mondo – possibili e “frequentabili” dall’uomo, accanto al
dolore, alla dis-interessata e in-utile dépense, al sacrificio di sé e a certe
folgorazioni offerte dall’arte» (p. 186). Si chiude qui l’indagine che Marco
Fortunato ha condotto in maniera eccedente ed estrema rispetto ai canoni
tradizionali dell’argomentazione filosofica, il cui significato resta tutto da
cercare, dentro la trama o l’altrove di una scrittura che mima l’im-possibile
oblio.
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
Tony Judt
L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900
Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 485
ISBN 978-88-420-9632-0, € 20,00
recensione di Aldo Meccariello
Sulle rimozioni del ’900
Il libro di Tony Judt su L’età dell’oblio affronta le «rimozioni del ’900»,
attraverso una raccolta di saggi pubblicati su varie riviste internazionali tra il
1994 e il 2006 e divisi in quattro sezioni (Il cuore di tenebra, La politica del
compromesso intellettuale, «Lost in transition»: luoghi e memorie, Il (mezzo)
secolo americano).
L’Autore, che è professore di Studi europei e direttore del Centro
Remarque presso la New York University, disegna un intrigante affresco
composto di vari blocchi tematici che si integrano coerentemente alla luce di
un filo conduttore: la sua vibrante denuncia della rimozione dell’eredità
intellettuale, economica e istituzionale del Secolo breve. Nel dibattito
pubblico e in certe tendenze storiografiche e politologiche è infatti diffusa
l’errata convinzione che nell’ultimo decennio del secolo scorso si sia entrati
in un mondo nuovo, in un’era progressiva e di gran lunga migliore che non ha
bisogno di apprendere alcunché dal passato.
Lo storico americano afferma ironicamente che «il passato non ha nulla
di interessante da insegnarci», una convinzione largamente influente, a partire
dalla fine del comunismo nel 1989-91, vissuta come il «trionfo
dell’Occidente» e la «fine della Storia». A dire dell’Autore, però, la fretta di
lasciare un secolo alle nostre spalle lascia stupefatti: invece che ricordare, si
tende a dimenticare e si dipinge il ’900 come «un palazzo della memoria
morale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui stazioni
sono “Monaco”, “Pearl Harbor”, “Auschwitz”, “Gulag”, “Armenia”,
“Bosnia”, “Ruanda”» (p. 6). Persino gli snodi cruciali del secondo
dopoguerra (dalla Guerra dei sei giorni alla crisi cubana, dalla caduta dei
paesi comunisti alla politica estera americana negli anni della guerra fredda),
costituiscono invece uno strumento essenziale per una lettura politica della
storia presente. Ma tra le più rilevanti esperienze che abbiamo dimenticato vi
sono, secondo Judt, il significato della guerra, l’ascesa e il conseguente
declino dello Stato come Stato-nazione e come Stato politico, lo sviluppo e la
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dissoluzione definitiva del marxismo, il ruolo pubblico degli intellettuali. «Il
Novecento è stato il secolo degli intellettuali […] per definizione
“impegnati”: di solito a perseguire un ideale, un dogma o un progetto» (pp.
14-15), come è stato sin dai tempi dell’ affaire Dreyfus. E molti sono gli
intellettuali presenti in questo libro: da Arthur Koestler a Manès Sperber, da
Hannah Arendt ad Albert Camus, da Primo Levi a Louis Althusser. Judt non
solo tratteggia biografie esemplari del secolo trascorso, ma ne coglie linee di
continuità e di discontinuità rispetto al ritmo impetuoso ed incalzante degli
avvenimenti. Particolarmente acuto è il ritratto che l’Autore fa di un suo
collega più celebre in: Eric Hobsbawm e il fascino del comunismo (p. 116).
In realtà si tratta della recensione dell’autobiografia di Hobsbawm pubblicata
da Judt nel 2003 sulla «New York Review of Books». Judt non è affatto
tenero con l’autorevole storico inglese che non si accorge della disastrosa
esperienza del comunismo novecentesco, né si sforza di capire le tragedie del
1956 e del 1968, provocate dall’invasione dei carri armati sovietici.
«Hobsbawm, in breve, è un mandarino – un mandarino comunista – con la
sicurezza e i pregiudizi della sua casta» (p. 122). Di tutt’altro tenore è il
ritratto che Judt fa di Edward Said, il cosmopolita senza radici, il celebre
autore di Orientalismo scomparso nel 2003, che è riuscito con la sua opera,
«praticamente da solo, a mantenere aperto in America un dibattito su Israele,
la Palestina e i palestinesi» (p. 173).
Tuttavia il saggio di Judt non diagnostica soltanto macerie e fallimenti
delle ideologie novecentesche, ma dilata i confini storico-geografici
dell’Europa dopo il 1945 indicando cicli e crisi di assetti geopolitici che
stanno rimodellando la politica mondiale. La parte terza del libro esplora
luoghi e memorie (la catastrofe della Francia nel 1940, l’Inghilterra di Tony
Blair, il Belgio nella storia del ’900, la Romania dopo la dittatura di
Ceausescu, Israele e la guerra dei sei giorni del 1967) mentre la parte quarta
si spinge ad analizzare gli snodi della storia americana durante la guerra
fredda, anche nei suoi rapporti con il vecchio continente. L’Autore in più
passaggi della sua esplorazione rammenta che «viviamo con il timore
crescente di dimenticare il passato, pensando che in qualche modo si perderà
tra le cianfrusaglie del presente. Commemoriamo un mondo che abbiamo
perduto, a volte prima ancora di averlo perso» (pp. 192-193).
Non ci si può proiettare verso il futuro ignorando i fatti che vengono dal
passato, rimuovendo con un colpo di spugna tutto ciò che il ’900 ha prodotto
nel bene e nel male. L’ovvietà di questa affermazione è presa invece
tremendamente sul serio da Judt, che stigmatizza un vero mutamento del
senso storico e della sua relazione con la memoria e l’oblio. Il nuovo senso
storico tende a sopraffare la memoria e ad isolare nuovi nuclei fondativi come
nel caso degli Stati Uniti d’America, che guardano all’11 settembre 2001
come data simbolica e materiale di una rinascita della nazione. Si sta
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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014
affermando la pericolosa tendenza di un recupero della memoria che è piegata
sempre più a fini politici e comunque legati alle esigenze attuali, senza
rispetto per la dimensione storica nel vero senso del termine. Questo libro
robusto e ricco di stimoli può essere letto in molti modi come un’infinita
argomentazione intorno alla perdita della memoria storica e collettiva che, per
essere rianimata, deve attraversare deserti senza più stelle polari.
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