Vivere senza memoria

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Vivere senza memoria
Eredi del nostro passato
Angelo Schiavone*
ell’ultimo decennio si
sono intensificati gli sforzi della neurologia nella
ricerca sulla demenza di
Alzheimer e sulle eventuali terapie per il recupero della memoria. Ritengo sia interessante
affrontare il tema anche da una prospettiva diversa, cioè quella dell’oblio di cui sin
ora si sono interessati soprattutto filosofi e
scrittori.
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Notiziario dicembre 2012
Per Borges “L’oblio è solo una forma
della memoria, il suo luogo sotterraneo”, del resto Nietzsche, in “Umano
troppo umano”, ci aveva ammonito:
“molte cose bisogna lasciare nell’Ade
dei sentimenti semicoscienti e non
volerle staccare dalla loro esistenza di
ombre, altrimenti esse diventano, come
pensiero e parola, i nostri demoniaci
padroni e chiedono crudelmente il
nostro sangue”. Il filosofo, convinto del-
l’importanza dell’oblio ci ha lasciato
quest’altra considerazione: “E’ possibile
vivere quasi senza ricordo, anzi vivere
felicemente, come mostra l’animale; ma
è assolutamente impossibile vivere
senza oblio”.
Gli attuali sistemi informatici, che attingono a sconosciute banche dati, ci hanno privato del diritto all’oblio. A questa mostruosa memoria digitale preferisco quella che
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Umberto Eco ha definito “memoria vegetale”, nata con l’invenzione della scrittura e
supportata prima dal papiro e poi dalla
carta. Umberto Eco nel suo racconto, intitolato appunto Memoria vegetale ci ricorda che con la carta si producono i libri e
che l’etimologia di biblos e di liber rinvia
alla scorza dell’albero. Oggi l’elettronica ci
ha progressivamente allontanato dalla
natura.
Quando andavo a scuola, l’insegnamento
era teso a rinforzare la memoria per cui
eravamo costretti ad imparare poesie e
formule matematiche (vivo ancora l’incubo
delle cosiddette “tabelline da portare a
mente”). I nostri insegnanti consideravano
la mente umana come un recipiente da
riempire di informazioni. Nessuno di loro
aveva compreso che il cervello, per immagazzinare nuovi dati, ha bisogno di liberarsi da informazioni in eccesso o inutili.
Io avrei proposto, insieme all’ora di lezione dedicata alla memorizzazione di un
testo, un’altra in cui si insegnasse a liberarsi delle nozioni superflue.
Cicerone nel “De Oratore” citava il caso di
Temistocle che, dotato di memoria straordinaria, avrebbe preferito più dimenticare
che ricordare. Borges nel racconto “Funes
o della Memoria” ci descrive un personaggio dalla memoria tanto straordinaria da
renderlo incapace di dimenticare. La sua
mente, così affollata dai ricordi, non riesce
a distinguere le cose importanti da quelle
banali e a stabilire priorità al punto da
diventare una specie di insufficiente mentale.
Baldasar Gracian nel seicento scriveva
che: “saper dimenticare è una fortuna più
che un arte. Le cose che si vorrebbero
dimenticare sono quelle di cui meglio si ci
ricorda. La memoria non solo ha l’inciviltà
di non sopperire al bisogno, ma anche
l’impertinenza di capitare spesso a sproposito”. Una efficace descrizione di memoria che capita a sproposito ci è stata fornita da Proust nella Recerce.
Nel volume “dalla parte di Swann” il protagonista, dopo aver imbevuto nel the la
madeleine, una piccola focaccia che soleva
mangiare da bambino la domenica mattina,
viene pervaso dai ricordi della sua infanzia
“quando in una giornata d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi
infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po’ di tè.
Rifiutai dapprima e poi, non so perché,
mutai d’avviso. Ella mandò a prendere una
di quelle focacce pienotte e corte chiamate
Petites Madeleines, che paiono aver avuto
come stampo la valva scanalata di una
conchiglia di San Giacomo. Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia
e dalla previsione di un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui
avevo inzuppato un pezzetto di “maddalena”. Ma, nel momento stesso che quel
sorso misto a briciole di focaccia toccò il
mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa… Donde m’era potuta
venire quella gioia violenta? Sentivo ch’era
legata al sapore del tè e della focaccia, ma
lo sorpassava incommensurabilmente, non
doveva essere della stessa natura.
Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? Bevo un secondo sorso in cui non
trovo nulla di più che nel primo, un terzo
dal quale ricevo meno che dal secondo”.
Il protagonista del racconto viene colto da
un ricordo fugace e inafferrabile che però
gli procura una gioia violenta che lo rende
per qualche istante indifferente alle vicissitudini della vita. Del tutto diversa è quel
tipo di memoria priva di connotazioni
affettive esercitata da alcuni soggetti.
Sin dai tempi delle elementari assistevo
con un senso di fastidio alle interrogazioni
di un compagno, il primo della classe, che
sciorinava con perfetta sequenza ciò che
aveva imparato grazie allo studio mnemonico. Mi sembrava un idiota. Più tardi,
durante gli studi universitari, mi è capitato
di leggere degli “idiot savant” cioè di quelle persone (solitamente affette da autismo) che dimostrano straordinarie capacità di memorizzazione in alcuni ambiti circoscritti che contrastano con la gravità dell’handicap. Della rara sindrome del savant
si sa che è più frequente negli uomini che
nelle donne ed è caratterizzata da una particolare attrazione per il ragionamento
matematico, e per le classificazioni. Ma vi
sono anche pittori savant autistici che,
dopo una breve osservazione, riescono a
riprodurre in maniera dettagliata interi
paesaggi con dovizia di particolari.
L’ossimoro “idiot savant” coniato da
Jonson Langdon Haidon Down (1828 –
1896) oggi è stato sostituito dal termine
non più ingiurioso di “savantismo”.
La memoria in alcuni casi può anche svanire temporaneamente come nei traumi
cranici o definitivamente nel caso della
demenza di Alzheimer. Anche a me è capitato
di
provare
quest’esperienza.
Recentemente, a seguito di un’emorragia
cerebrale, ho trascorso un breve periodo
in una sala di rianimazione in stato di
coma. Al risveglio, per circa una settimana, non ricordavo quasi più niente. Mia
moglie, anestesista presso l’ospedale
dov’ero ricoverato, mi racconta che quando venne a farmi visita mio padre lo accolsi con gioia e trascorsi con lui molte ore.
Quando però andò via le chiesi chi fosse
quell’uomo così gentile da aver trascorso
con me tutto quel tempo e le suggerii di
gratificarlo con qualche euro. Avevo cioè
vissuto con mio padre un’intera giornata
con la confidenza che si dà a un familiare
stretto e con la gioia di stare insieme pur
non riconoscendolo.
Un recente studio pubblicato su PNAS ha
dimostrato che l’esperienza di un emozione
persiste anche in assenza del ricordo dell’evento che l’ha suscitata. L’esperimento è
stato condotto su cinque pazienti sofferenti di una rara forma di danno all’ippocampo.
Tale danno provoca lo stesso tipo di disturbo di memoria che si riscontra nei pazienti
affetti dalla malattia di Alzheimer. Questi
pazienti dopo aver visionato filmati a contenuto emotivo, pur dimenticando la trama
nel giro di pochi minuti, conservavano l’emozione indotta dal film. Quindi la scomparsa di un ricordo non elimina le emozioni
ad esso correlate. I pazienti con Alzheimer
pur non riconoscendo i propri familiari possono conservare le emozioni suscitate dalla
loro presenza. Si parla in questi casi di
“memoria emotiva”.
Proprio quel tipo di memoria che ho sperimentato al risveglio dal coma e che mi
è servita a superare in fretta il trauma
subito.
Nel caso dei pazienti con Alzheimer non si
può certo sperare nel recupero delle facoltà mentali ma la vicinanza delle persone
care può indurre in loro se non il ricordo
una “ricordanza” di leopardiana memoria,
“una ripetizione, una ripercussione o
riflesso dell’immagine antica”.
* Neurologo.
Notiziario dicembre 2012
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