CONGRESSO INTERNAZIONALE “LE TENDENZE DEL MARKETING”
Ariela Mortara, ricercatrice
Università IULM di Milano
[email protected]
Consumo e consumi
1.
Introduzione
Come è noto, nelle società occidentali è prevalsa a lungo l’idea che il consumo, inteso come
scambio, acquisto e uso di beni, sia un fenomeno di natura esclusivamente economica in quanto
implica un trasferimento di denaro. Tale teoria, promulgata dagli economisti classici1, è stata
peraltro ampiamente superata da quando alle logiche strettamente macroeconomiche si sono
aggiunte la microeconomia, molte scienze sociali e, in particolare, il marketing che affianca allo
studio dei comportamenti individuali di consumo la considerazione dei processi decisionali e delle
cosiddette variabili intervenienti2 che contribuiscono a determinare le scelte dei consumatori.
D’altro canto, il ruolo sociale3 del consumo è ampiamente testimoniato anche dal punto di vista
storico: basti solo pensare alle legge suntuarie, in vigore già all’epoca dei romani, e che
successivamente troviamo nel medioevo e sino agli albori della modernità, o ai divieti di acquistare
e possedere determinati beni per determinate categorie di persone. Nella società contemporanea poi,
il consumo è diventato fondamentale per la creazione e il mantenimento dell’identità “… si è aperto
ad un’infinità di valenze simboliche … è diventato un modo di esprimere l’affetto, la nostalgia, la
cultura, l’amore”4, strumento indispensabile per tessere relazioni sociali e quindi una sorta di
linguaggio. La funzione comunicativa del consumo e il suo essere interpretato come un vero e
proprio linguaggio5, in cui i beni non sono selezionati per soddisfare dei bisogni, ma per essere
utilizzati come indicatori di una determinata posizione sociale, così come le parole non sono scelte
solo per il loro significato, ma per il loro posto all’interno di frasi che compongono discorsi, rende
più facile comprendere come possano coesistere tanti stili di consumo diversi corrispondenti a
differenti consumatori.
In questo variegato panorama, il consumatore postmoderno, con il suo essere votato all’eclettismo e
al sincretismo6, può essere considerato un po’ la punta dell’iceberg di questo fenomeno della
frammentazione degli stili di consumo e al tempo stesso la dimostrazione che più stili diversi
possono coesistere in un unico individuo. Non si deve dimenticare però che tali consumatori
rappresentano una sola delle dimensioni della società del consumo contemporanea, anche se,
probabilmente, la dimensione socioculturalmente più evoluta; a fianco di essa è però possibile
individuare altri tipi di consumatori che mantengono stili e motivazioni di consumo di diverso tipo,
vuoi perché eredi di culture più tradizionali, vuoi perché caratterizzati da tratti psicologici
particolari o perché frutto di processi di socializzazione specifici.
La domanda a cui si tenta di dare una risposta è: questi diversi tipi di consumo sono effettivamente
riconducibili tutti alla modalità postmoderna? Se l’ipotesi di partenza è che il consumatore
postmoderno assume comportamenti di consumo variegati, e spesso in apparente contraddizione,
seguendo un logica votata ad un eclettismo, che si potrebbe definire talvolta schizofrenico, questo
implicherebbe, da parte della totalità della popolazione, l’abbandono di tutti quei trend legati in
1
Keynes, J. M.. General Theory of Employment, Interest, and Money, McMillan, London, 1936 [trad. it. Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta e altri scritti, Utet, Torino, 1971].
2
Sul comportamento di consumo si veda Collesei, U., Marketing, Cedam, Padova, 2000, pp. 69-105.
3
Sulle influenze sociali sul consumo di veda Codeluppi, V., Manuale di Sociologia dei consumi, Carocci, Roma, 2005,
p. 117 e ss.
4
Di Nallo, E., “Razionalità, simulazione, consumo”, Sociologia della comunicazione, a. III, n. 6, 1984, p. 35.
5
Si veda su questo tema Di Nallo, E., “Valori e stili di vita”, Sociologia della comunicazione, a. XI, n. 21, 1994.
6
Fabris, G., Il nuovo consumatore verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano, 2003
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qualche modo al passato e alla tradizione - in accordo con la modalità sempre più frenetica della
vita quotidiana, con la percezione della mancanza di tempo, con la mancanza di certezze legate ad
un posto di lavoro fisso e alla sopravvivenza di nucleo famigliare tradizionale. Invece dall’analisi,
seppure superficiale e puramente esplorativa, condotta nelle pagine che seguono, emerge che alcune
delle tendenze del passato riemergono. Si tratta di residui legati alle frange più socioculturalmente
marginali della società (che pure sono numericamente significative) o invece si tratta di trend che
stanno ri-emergendo a fronte di particolari stimoli e condizioni sociale (l’insicurezza politica, la
paura della guerra, il disagio sociale – si pensi alla situazione francese – la crisi economica, ecc.) e
che potrebbero delineare un nuovo consumatore post-moderno?
Nei paragrafi che seguono si cercheranno di individuare alcune delle tendenze presenti nei mercati
contemporanei tentando di declinarle secondo le differenti prassi di consumo.
.
2.
Il ritorno del consumo vistoso
In un’epoca come la nostra, caratterizzata da grande incertezza e complessità, gli scenari cambiano
molto rapidamente e, se da un lato ci sono i consumatori attratti dal low cost, individui alla ricerca
di prezzi bassi e di cose semplici che puntano all’essenziale e che quindi identificano un ritorno al
valore d’uso del bene, nell’accezione marxiana del termine (si veda infra), allo stesso tempo vi sono
consumatori che attribuiscono ancora agli oggetti una funzione dimostrativa7. È sempre più diffuso,
infatti, a dispetto di una situazione economica famigliare spesso percepita come di grave difficoltà8,
il fenomeno che viene chiamato del “trading up”9: ovvero l’acquisto di almeno un oggetto che
rappresenta un passo in avanti nella scala sociale: “se me lo posso permettere me lo compro”, pare
che sia la logica che sottostà a questo tipo di investimento (tipico il diffondersi delle televisioni al
plasma che sembrano essere l’ultimo must delle famiglie italiane10). E in cosa si differenzia questo
dal consumo ostentativo di vebleneniana memoria: ovvero acquistare dei beni che non farebbero
parte della classe sociale di appartenenza, ma che invece sono appannaggio di classi più elevate? I
beni che vengono acquistati nell’ottica ostentativa del “trading up” possono essere di due tipi: o
prodotti normali che però hanno delle caratteristiche che giustificano un prezzo più elevato,
caratteristiche, ad esempio, qualitative (si pensi, nell’ambito dell’alimentare, al biologico che è
rappresentato da prodotti di uso comune con una determinata caratteristica che giustifica il prezzo
più elevato); oppure prodotti messi in commercio da aziende connotate come appartenenti al settore
del lusso che hanno inserito delle linee più “economiche” (si pensi alle seconde e terze linee degli
stilisti di moda, o all’inserimento in segmenti più bassi di alcune case automobilistiche), ma pur
sempre portatrici agli occhi degli acquirenti di valori tipici del bene di lusso (si tratta, infatti, di un
bene “firmato”). Alla logica della soddisfazione personale si affianca quindi per questi consumi il
desiderio di poter dimostrare l’appartenenza a un gradino più elevato della società e ciò nonostante
l’effettiva difficoltà economica che non dovrebbe consentire acquisti vistosi. Non a caso mai come
in questi ultimi tempi la società italiana, da sempre caratterizzata dall’ottica del risparmio, si sta
invece indebitando: la pratica dei prestiti bancari si fa sempre più diffusa, fioriscono gli acquisti a
rate che sono ormai diffusi in tutti i settori di consumo; infatti, dagli ambiti più tradizionali come
l’automotive e l’arredamento, la prassi delle rate si è diffusa alla tecnologia, ai viaggi, ai gioielli e
alla cura della persona11.
7
Dueseberry, J.S., Income, saving and the theory of consumer behaviour, Harvard University Press Cambridge, 1949
[trad. it. Reddito, risparmio e teoria del comportamento del consumatore, Etas Kompass, Milano 1969].
8
Si pensi alla cosiddetta sindrome della quarta settimana, secondo cui gli italiani non riescono ad arrivare, con il loro
stipendio, alla fine del mese per cui l’ultima settimana coincide con una diffusa sensazione di povertà.
9
Vergnano, F., “Il consumatore medio non esiste più”, intervista a Salvio Vicari, Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2004, p.
21.
10
Fabris, G., “Il nuovo sogno degli italiani? Il televisore aultrapiatto”, Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2005. p. 15.
11
Da una recente ricerca, condotta dal Censis nel febbraio 2005, emerge che per molti italiani l’acquisto a rate è una
comodità (58,9%) e per tanti altri è ormai una necessità (41,1%). Sono maggiormente le famiglie del centro (30,3%) e
del sud (29,8% ) ad utilizzare questa forma di credito al consumo, ma anche nelle altre parti d'Italia il ricorso alle rate
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3.
Il ritorno dello status symbol
Uno degli assunti del consumatore postmoderno è il superamento della logica dello show off: il
consumo non sarebbe, infatti, più utilizzato con un significato prevalentemente ostentativo. Si è a
lungo parlato, del passaggio dallo status symbol allo style symbol12, con tutto ciò che questo
comporta in termini di comportamento d’acquisto: acquisto di beni in grado di gratificare la
persona, più che di connotarla socialmente, importanza della sfera privata e della soddisfazione
personale, più che del valore simbolico/ostentativo o ancora dimostrazione di appartenenza ad uno
stile di vita, più che ad una classe sociale. Eppure, recenti ricerche13 hanno dimostrato che nella pur
evoluta società italiana esistono ancora dei comportamenti di consumo legati al valore ostentativo
degli oggetti. Per i consumatori cui fanno capo tali comportamenti l’acquisto di un bene di lusso
serve a farli rientrare nella schiera degli happy few, i pochi che possono permettersi oggetti il cui
valore d’uso passa in secondo piano rispetto alla capacità di comunicare status. Fondamentale in
questo senso è la consapevolezza che non tutti possono accedere a questo tipo di consumi e la
funzione degli opinion leader che sostituiscono la marca come garanti dell’esclusività e indicano
con il loro stile di vita un paradigma di consumo da seguire. Per questo tipo di consumatori la
qualità dei prodotti, legata alle caratteristiche organolettiche o di performance dei beni, è
sicuramente meno importante dei requisiti estetici: il bello diventa quindi per loro il principale
paradigma di scelta indipendentemente dal valore d’uso dell’oggetto e molto dipendente invece
dalla capacità ostentativa dell’oggetto stesso. Esemplare in questo senso è l’oggetto di design la cui
caratteristica principale è quella proprio di essere appannaggio dei pochi che sono in grado di
comprenderne il significato e che al tempo stesso è in grado di comunicare distintività (come già
sosteneva Baudrillard). Oggi esistono, quindi, negozi che raccolgono il meglio di ogni settore
merceologico, le cattedrali degli oggetti di lusso, ed essi sono i luoghi frequentati da questi nuovi
cultori dello status symbol. Si tratta di ambienti che non hanno bisogno di ricorrere a tematizzazioni
particolari, che non devono comunicare valori legati al mondo della marca, ma la cui unica funzione
è quella di esaltare l’esclusività degli oggetti venduti. La diffusione di questo tipo di lusso sembra
quindi contrapporsi a quella tendenza sociale, nota come la democratizzazione del lusso14, che
sembrava essere ormai la caratteristica dominante: ovvero l’accesso al lusso da parte di segmenti di
popolazione tradizionalmente considerati come appartenenti agli strati sociali “inferiori”.
4.
L’affermazione dell’esperienza
Hirschman e Holbrook15, agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso16, sono stati probabilmente i
primi a mettere in luce l’importanza delle emozioni legate al momento dell’acquisto di un bene, o
alla fruizione di un servizio. Secondo i due autori, in alcune circostanze, era possibile ipotizzare un
vero e proprio consumo edonistico (hedonic consumption) legato in maniera particolare a settori
come quelli della cultura, dell’arte e dell’intrattenimento che meglio rispecchiano un tipo di attività
appare marcato: 25% nel Nord-Ovest e 27% nel Nord-Est. Fonte: “In breve dall’economia”, Il sole 24 Ore, 22 marzo
2005, p. 18.
12
Fabris, G., Il nuovo consumatore verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano, 2003
13
Girelli, L., “Il lusso è tale se si può ostentare”, Il Sole 24 Ore, 7gennaio 2002, p. 33.
14
Si veda sul tema, Mortara, A., “I nuovi spazi del lusso”, reperibile al seguente indirizzo: http://www.escpeap.net/conferences/marketing/pdf_2003/it/mortara.pdf
15
Si veda sul tema Hirshman, E.C, Holbrook, M.B., “Hedonic Consumption: emerging concepts, methods and
propositions”, Journal of Marketing, 1982, vol 46, estate, pp. 92-101 e Holbrook, M.B., Hirshman, E.C., “The
experiential aspects of consumption: consumer fantasies, feelings, and fun”, Journal of Consumer Research, 1982, vol.
9, settembre, pp. 132-140.
16
Anche se già negli anni ’60 Debord aveva predetto che, nella società dello spettacolo, la spettacolarizzazione avrebbe
costituito la vera essenza della merce, non più acquistata per il suo valore d’uso, ma per il suo valore simbolico, cfr.
Debord, G., La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano, 2001).
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in cui la spinta emotiva ha spesso la meglio su quella eminentemente razionale. Sulla scia di questi
autori, e nell’ambito delle riflessioni sul postmodernismo, Schmitt17, ha teorizzato, in contrasto con
i modelli tradizionali di marketing, il marketing esperienziale. Le emozioni sono indispensabili per
attirare il consumatore e, ancora di più, per mantenerlo e fidelizzarlo nel tempo (l’autore parla di
una “ruota esperienziale” basata su cinque moduli identificati come Sense, Feel, Think, Relate, Act).
Che alcuni consumatori siano alla ricerca di esperienze sempre più intense nelle loro prassi di
consumo è ampiamente dimostrato18, ma in cosa si concretizza questa esperienza? Il concetto è
multiforme: se per alcuni autori l’economia dell’esperienza19 si applica prevalentemente nelle
occasioni in cui il consumo ha maggiori valenze ludiche (si pensi ai parchi a tema o alle catene
tematizzate come Rainforest Café, Hard Rock Café, che generano una sorta di metamercato in cui si
assiste ad una convergenza tra il settore dell’intrattenimento e altri settori, in genere legati al mondo
dei servizi), per Schmitt invece l’esperienza può essere creata anche da elementi quali il design del
prodotto, il suo packaging, la realizzazione del sito internet e la comunicazione. Come lo stesso
autore sostiene, le applicazioni del marketing esperienziale partono dalle risposte che vengono date
a domande quali “che cosa provano le persone?”, “quali sono le loro reazioni di fronte alle
campagne pubblicitarie o ai prodotti?”, volte a comprendere e a misurare la cosiddetta customer
experience20. Le esperienze dei consumatori sono indubbiamente legate alle sue percezioni e,
pertanto, risentono della soggettività dei singoli; ma si tratta anche di qualcosa che non può
prescindere da un impegno attivo e interattivo con un cliente che non si limita ad osservare,
giudicare e a costruirsi un’opinione, ma diventa parte di una relazione attiva con l’azienda e la
marca.
Secondo Schmitt i concetti chiave del marketing esperienziale sono quattro: «focus sull’esperienza
di consumo, considerazione del consumo come esperienza solistica, riconoscimento dei driver sia
razionali che emozionali del consumo, impiego di metodologie gestionali eclettiche»21 e,
complessivamente permettono di mettere in atto cinque tipi di esperienze diverse: sensoriali,
affettive, creative-cognitive, fisiche e social-identitarie, il tutto grazie all’aiuto di esperti creatori di
esperienze (experience provider) che possono operare nei settori più diversi della comunicazione,
intesa nel senso più ampio.
Le logiche dell’esperienza possono essere applicate tanto al mercato dei beni di largo consumo,
come a quello dei beni durevoli e dei servizi. L’idea comune è quella di creare qualcosa di unico,
irripetibile, veramente in grado di soddisfare l’individuo nella sua interezza, creando quindi
un’esperienza olistica, capace di utilizzare il maggior numero possibile di elementi esperienziali in
grado di rafforzare realmente la relazione con il consumatore. Ma quanti sono i consumatori che
cercano davvero l’esperienza in tutti i momenti di consumo? È difficile, dati alla mano, individuare
colui che si fa affascinare dalla campagna Absolut, tanto da essere diventato nel tempo un
collezionista delle celebri cartoline promozionali, che frequenta solo punti vendita monomarca
spettacolari come i Nike Town o i flagshipstore di Prada a Soho (NY) e a Tokio, che consuma i suoi
pasti solo all’interno di ristoranti tematizzati, che, mentre è in vacanza, cerca di vivere o rivivere
esperienze autentiche (si pensi alla ricostruzione di alcune località storiche come Williamsburg,
cittadina del North Carolina, in cui il tempo sembra essersi fermato all’epoca della guerra di
secessione americana con alcuni anacronismi come l’aria condizionata e i registratori di cassa, o
17
Schmitt, B.H., Experiential marketing: how to get customers to sense, feel, think, act, and relate to your company and
brands, Free Press, New York, 1999.
18
Cova, B., Louyot M. C., Louis-Louisy M., Les innovations marketing en réponse à la montée de l’hédonisme:
Articulations avec le CRM, reperibile al seguente indirizzo:
http://www.escp-eap.net/conferences/marketing/pdf_2003/fr/cova_louyot_louis_louisy.pdf.
19
Pine Joseph B, Gilmore James H., L'economia delle esperienze: oltre il servizio, Etas, Milano, 2000.
20
Schmitt, B., Experiential Marketing, reperibile al seguente indirizzo:
http://pioneer.netserv.chula.ac.th/~ckieatvi/Fathom_Exp_Marketing.htm.
21
Caputo, M., Rescinditi, R., Il fattore intrattenimento nelle strategie di marketing: presupposti e applicazioni, p. 2
reperibile al seguente indirizzo:
http://www.escp-eap.net/conferences/marketing/pdf_2003/it/caputo_resciniti.pdf.
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ancora all’allestimento sempre più frequente di case museo in cui il visitatore può immedesimarsi
nella quotidianità di questo o quel personaggio storico), che va a fare la spesa solo nei centri
commerciali che offrono al loro interno la ricostruzione di una piazza cittadina e diffondono
profumi di fiori, all’interno dei quali è possibile sostare all’ombra di palme più o meno sintetiche
sotto un cielo che ogni ora cambia mostrando l’avvicendarsi del giorno e della notte22, o ancora che,
al momento dell’acquisto della macchina, si fa incantare dalla Citrôen C3 Buddha Bar, una vettura
che promette esperienze olistiche.
5.
Il ritorno della ragione
Se è vero che ci sono dei consumatori che sono sempre più alla ricerca di esperienze globali che li
intrattengano e li coinvolgano e per i quali è indispensabile che la merce sia esibita in contesti
caratterizzati da una forte componente ludica, che incorpora dosi crescenti di spettacolo tanto da
divenire essa stessa una spettacolo23 (come accade nei centri commerciali), è altresì vero che cresce
il numero di consumatori che frequenta luoghi d’acquisto caratterizzati da un minimalismo al limite
dello squallore: ne sono una conferma i dati Istat che indicano, nell’agosto 2005, per le vendite
negli hard discount, un incremento percentuale di 4,7 rispetto al mese d’agosto del 200424 contro un
incremento pari al 2,8 per gli ipermercati. Questo ritorno dell’hard discount, formula distributiva
che ha fatto la sua comparsa in Italia all’inizio degli anni ’90 in concomitanza con la prima di una
lunga serie di crisi economiche (dovuta in particolare alla tristemente nota “Guerra del Golfo”), è
testimoniato anche dal fatto che, dopo alcuni anni di stagnazione, sono aumentati anche i punti
vendita di queste catene distributive (attualmente i negozi sono 2.800 e sono previste altre 300
aperture nel corso del 200525), che hanno fatto la loro comparsa anche nelle regioni del Sud italiano
dove in precedenza non esistevano.
La logica che guida i consumatori che frequentano questi punti vendita è eminentemente razionale:
la possibilità di acquistare prodotti di qualità analoga a quelli delle marche industriali con un
risparmio che va dal 20 al 50%26. Certo l’atmosfera non è delle più appealing, l’assortimento spesso
è limitato, la merce è accatastata e frequentemente esposta direttamente negli scatoloni con cui
viene consegnata, i marchi sono stranieri o di fantasia e non c’è alcuna garanzia in merito ad un
riassortimento costante. Nessuna traccia di tematizzazione, solo cartelli che inneggiano al prezzo
basso, o più basso, e alla convenienza. Chi frequenta il discount, e non si tratta solo di
extracomunitari, ma anche di giovani coppie e single che hanno scoperto la presenza di snack e
superalcolici ad un prezzo molto competitivo, non ci va per “fare un giro”, non ha necessità
ricreative nel fare la spesa e, molto probabilmente, quando va al ristorante è più attento al rapporto
prezzo/qualità che all’atmosfera. Si tratta di consumatori che con ogni probabilità prima di
affrontare un viaggio confrontano le tariffe dei voli grazie ad internet (che, come è noto, è in grado
di ridurre sensibilmente quelle asimmetrie informative responsabili di comportamenti irrazionali)
affidandosi poi, ove possibile, ad una compagnia low cost, e prenotano gli alberghi sempre via
internet evitando la perdita di tempo connaturata all’agenzia di viaggio e anche le spese di
intermediazione.
Cambia anche il rapporto con gli oggetti: il consumatore neo-razionale torna ad apprezzarli per il
loro valore d’uso e diffida di tecnologie troppo complesse, solo apparentemente user frendly; è a lui
che si rivolgono le compagnie telefoniche quando offrono tariffe omnicomprensive che promettono
22
Il riferimento è alla galleria commerciale contenuta all’interno del Caesar Palace di Las Vegas, ma anche il
nazionalissimo Centro Sarca di Milano offre un cielo stellato sopra le scale mobili.
23
Fabris, G., “Non solo acquisti: nel negozi si cercano esperienze globali”, Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2002, p. 9.
24
Istat, Indice del valore delle vendite de commercio fisso al dettaglio, Comunicato stampa del 21 ottobre 2005,
reperibile al seguente indirizzo
http://www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/commdett/20051021_00/testointegrale.pdf , 26/10/05.
25
Chierchia, V., “Hard discount, prezzi caldi”, Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2005, p. 15.
26
Carlucci, D., “La spesa è sempre più cara è boom per gli hard discount”, reperibile al seguente indirizzo:
http://www.repubblica.it/2003/i/sezioni/economia/prezzi2/discount/discount.html
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un utilizzo più semplice del cellulare o le nuove catene di hotel low cost (come i Formula 1 in
Francia) che propongono camere monacalmente spartane, pagamento ad una cassa elettronica
(come quella dei parcheggi) e un servizio che può contemplare le lenzuola di carta.
Non è detto che si tratti solo di consumatori con un reddito sotto alla media, anche se la diffusa crisi
economica e la sua percezione ha dato un forte impulso alle scelte low cost: fra di loro vi sono,
indubbiamente anche individui che, semplicemente, hanno scelto ove possibile un ritorno
all’essenziale (back to basics).
6.
Il consumo responsabile
La teoria classica dell’homo oeconomicus ben difficilmente però è in grado di spiegare l’emergere
di un fenomeno multiforme e sfaccettato che potrebbe essere etichettato come consumo
responsabile. Tale forma di consumo, infatti, mette in secondo piano le caratteristiche fisiche del
prodotto o del servizio rispetto a quelle che sono delle considerazione di carattere etico. La qualità
sociale del bene diventa, per i consumatori che adottano uno stile consapevole, fondamentale al
momento della scelta. I consumatori responsabili si preoccupano che le aziende produttrici siano
responsabili nei confronti dell’ambiente, che non sfruttino il lavoro minorile, che pongano
attenzione a tutta la catena dell’approvvigionamento (fornitori responsabili, ecc), in poche parole
che siano imprese che attuano prassi di corporate social responsibility.
Il fenomeno è noto da anni, come da anni si nota un gap fra le dichiarazioni di assunzione di
modalità di consumo responsabile e le prassi vere e proprie. Una recente ricerca27 condotta
dall’IREF nel corso dell’VIII Rapporto sull’Associazionismo Sociale28 ha analizzato le diverse aree
in cui si possono articolare le scelte di consumo responsabile: il consumo critico vero e proprio che
si concretizza nell’acquisto di beni e servizi solo da imprese che dichiarano (e attuano)
comportamenti responsabili; il commercio equo e solidale che si concretizza nell’acquisto di
prodotti il cui ricavato va ai produttori che operano nei paesi poveri; gli stili di vita basati sulla
sobrietà del consumo che implicano l’attenzione dei consumatori al risparmio energetico, al
riciclaggio, al riutilizzo dei beni di cui si è già in possesso; la partecipazione ai gruppi di acquisto
solidale (gas), l’acquisto di pacchetti di turismo responsabile (sostenibile); la finanza etica
caratterizzata dalla sottoscrizione di fondi di risparmio, conti correnti, ecc. con un fine etico
(finanziamento di progetti a sfondo sociale, sostegno di paesi poveri, sostegno dell’ambiente). Un
primo dato rilevante concerne la dimensione del fenomeno, il 36% del campione dichiara di
adottare tali pratiche di consumo. Fra questi coloro che fruiscono dei prodotti del commercio equo e
solidale sono la maggior parte (55,6%) seguiti dai consumatori che adottano stili di vita sobri
(51%), mentre la pratica del consumo critico vero e proprio, che incorpora anche il boicotaggio e
altre forme di attivismo, viene adottata solamente dal 29,2% del campione. È interessante notare
come circa un terzo degli intervistati dichiari di adottare due o più comportamenti responsabili, si
tratta di consumatori che posso essere definiti come etici, sono individui dall’alta scolarità, il 54,4%
è in possesso di un diploma di scuola media superiore e il 17,8% è laureato. Parallelamente anche la
professione costituisce un indicatore importante: insegnanti ed impiegati rappresentano il 29,9% del
campione seguiti dal 13,8% di imprenditori e liberi professionisti; le categorie meno rappresentate
sono le casalinghe ed i pensionati che pure hanno una notevole incidenza numerica sulla
popolazione italiana. I consumatori etici valutano le loro scelte d’acquisto privilegiando un sistema
di valori che sembra contrapporsi alle regole del mondo della produzione e agli atteggiamenti di
consumismo diffuso tipici della società contemporanea; verificano la sostenibilità ambientale della
catena produttrice del bene o del servizio, si preoccupano del successivo smaltimento, mostrano
27
Lori, M, Volpi, F., Scegliere il bene. Indagine sul consumo responsabile, reperibile al seguente indirizzo:
http://www.acli.it/docdiego/Consumo_responsabile.pdf
28
La ricerca è stata condotta su un campione rappresentativo della popolazione italiana di 1.000 cittadini maggiorenni
stratificato secondo variabili socio-anagrafiche (sesso, età, ripartizione geografica, ampiezza del comune di
appartenenza).
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preoccupazione sulla possibilità di riciclo della confezione e, in fase d’acquisto, compiono
un’attenta raccolta delle informazioni disponibili, prevalentemente attraverso internet ,dato che la
comunicazione pubblicitaria è ritenuta ingannevole da ben il 47,4% del campione. Questi
consumatori frequentano i punti vendita del commercio equo e solidale, acquistano i prodotti a
marchio Altromercato presenti ormai nella maggior parte delle catene distributive italiane, è incline
alla protesta contro le imprese ritenute non socialmente responsabili, proteste che si concretizzano
anche nell’adesione alle pratiche del boicottaggio. Anche per questi consumatori gli oggetti hanno
un alto valore simbolico che non è rappresentato né dall’ostentazione, né dal prestigio, bensì
dall’impegno nei confronti della società.
7.
Conclusioni
La breve rassegna compiuta, anche se forse parziale e certamente basata su fonti diverse, permette
tuttavia di raggiungere una conclusione quanto meno provvisoria. Non vi è dubbio che il consumo
contemporaneo, lungi dall’essere un fenomeno mono-dimensionale e fondato su schemi riassumibili
in una sostanziale uniformità di motivazione e/o logica, appare diversificato e frammentato.
Esistono oggi, nel nostro paese, come altrove (non sembra infatti che, almeno da questo punto di
vista, esista una “anomalia italiana”), tipi di consumo e di consumatori diversi tra di loro, sia per le
motivazioni che per le modalità di acquisto e fruizione che portano a diverse conseguenze sul piano
del marketing e delle strategie di comunicazione. In altre parole non esiste un solo consumo (il
consumo), ma ne esistono di molti tipi e ciascuno va affrontato in modo diverso.
Ma questa conclusione, lungi dal chiudere il discorso, apre una serie di problemi che, a parere di chi
scrive, meritano di essere affrontati, sia sul piano teorico che su quello delle ricerche.
Innanzi tutto, se è vero, come sembra essere vero, che esistono tutti questi tipi di consumo (ed altri
ne potrebbero esistere, non rilevati dalla parziale rassegna compiuta o perché stanno solo ora
sviluppandosi in qualche parte del mondo), ci si deve domandare se essi facciano capo a
consumatori diversi oppure agli stessi consumatori. Non è infatti impossibile, anche se sembra poco
probabile, che il consumatore postmoderno, per definizione “votato all’eclettismo e al sincretismo”
adotti contemporaneamente tutti questi stili di consumo e sia caratterizzato dalla compresenza di
meccanismi motivazionali diversificati al limite della contraddittorietà. Ma anche se così fosse, non
ci si può esimere dal domandarsi quali siano i criteri attraverso i quali viene effettuata la scelta dello
stile da adottare in uno specifico atto di consumo (o acquisto). In quali occasioni il consumatore
postmoderno si comporta in modo razionale? Quando invece presta attenzione ai valori simbolici
(siano essi di stile di vita o di status sociale)? Quando privilegia le esperienze provate nello
scegliere e nel provare e nel frequentare il luogo di acquisto o la comunicazione? Quando decide di
privilegiare gli aspetti etici e di rilevanza sociale del suo consumo e della produzione dei beni e dei
servizi che consuma? Segue forse solo impulsi del momento che si risolvono in una
randomizzazione degli atti di consumo o segue invece una logica? E questa logica ha a che fare con
la natura dei beni e dei servizi (una logica quindi che si potrebbe dire “merceologica”) o dipende
invece dalle risorse economiche o culturali di cui al momento dispone, oppure dalla fase del ciclo di
vita in cui si trova, oppure ancora è di altro tipo?
Se invece si respinge l’ipotesi della postmodernizzazione ad oltranza della società italiana (e questa
potrebbe essere una decisione ragionevole29: come si può considerare postmoderna la mitica
“casalinga di Voghera”? O il coltivatore diretto della Campania? O ancora il ferroviere in
pensione?) restano problemi di non facile soluzione.
I vari tipi di consumatore compresenti nella società contemporanea debbono essere considerati tipi
“puri”, dando per scontato che seguano sempre lo stesso schema motivazionale, oppure si deve
29
Questo ovviamente non vuol dire che non esistano consumatori postmoderni e neppure che essi possano
rappresentare una percentuale rilevante, seppure non cospicua, della popolazione dei paesi “ricchi” dell’Occidente, tra i
quali si può probabilmente annoverare la nostra Italia. Ma solo che, di nuovo ovviamente, grandi sarebbero i rischi dei
produttori che assumessero solo i consumatori postmoderni come target delle loro strategie di marketing.
"Università Ca’ Foscari Venezia, 20-21 Gennaio 2006"
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presumere che anch’essi possano seguire logiche diversificate (anche se entro una gamma
probabilmente più ristretta di quella caratteristica dei postmoderni) a seconda del tipo di acquisto,
delle risorse disponibili, dello stadio del ciclo di vita e così via, talché essi possano/debbano essere
classificati con una strategia di ricerca basata sul criterio di “prevalenza”?
Quali sono i metodi di ricerca migliori per operare questa classificazione al fine di giungere ad una
valutazione della consistenza numerica dei gruppi di consumatori che siano “prevalentemente”
caratterizzati da un particolare “stile di consumo”? Molto probabilmente sarà necessario affiancare
ai metodi tradizionali anche metodi di tipo antropologico che riescano a distinguere quelle che
possono essere delle resistenze del passato dal ri-emergere di vecchi trend che danno origine a
nuovi stili di consumo
Come tradurre i risultati delle ricerche di questo tipo in indicazioni e suggerimenti di marketing,
senza imporre esclusivamente una strategia “relazionale”, di personalizzazione one-to-one, che
implichi la realizzazione del sogno impossibile di trasformare/presentare ogni prodotto/servizio in
modo tale da soddisfare ogni consumatore/cliente?
La lista delle difficoltà potrebbe essere più lunga e le questioni aperte. Al momento può essere
opportuno ripetere che tutto quello che è possibile dire è che il consumo è un fenomeno molto più
variegato e complesso di quanto non lo dipingano molti illustri studiosi e che, difficilmente, sarà
possibile trovare una ricetta miracolosa per “convincere”, “catturare” e “fidelizzare” il consumatore
contemporaneo.
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Tutti i siti citati sono stati consultati nel periodo agosto-ottobre 2005.
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