Vito Lattanzi SOCIETÀ ITALIANA DEI MUSEI E DEI BENI DEMOETNOANTROPOLOGICI Il contributo di Simbdea alla riflessione sul lessico della museografia demo-etnoantropologica * Il progetto di lessico dei musei italiani, avviato da Icom Italia nel maggio 2004, ci ha visti sinora impegnati soprattutto nella descrizione del nostro settore di interesse. Nella museografia demoetno-antropologica si affollano espressioni che sono state adottate nel corso di vicende sia biografiche che istituzionali, sia nazionali che locali. A volte esse si presentano ai nostri occhi con confini molto incerti e sfumati, ma testimoniano di esperienze che sono fondamentali per la vita stessa di uno specifico universo disciplinare. Di cosa parliamo quando parliamo di musei demo-etno-antropologici? Pietro Clemente prova a spiegarlo così: “Si affiancano nello spazio dell’Italia contemporanea, venendo da tempi diversi e da epoche e intenzioni conoscitive varie, con denominazioni tipologiche differenti, luoghi non omogenei (edifici, istituzioni, recinti, prigioni secondo alcuni critici) che contengono comunque cose , oggetti inutilizzati all’agire pratico, offerti alla visione, talora al contatto, che hanno un’aria di famiglia tra nord e sud, tra 1800 e 2000. Un’aria di famiglia difficile da definire, tanto che per nominarla si è usata l’espressione demo-etnoantropologia (DEA), ma che per certo distingue questi luoghi che chiamiamo ‘musei’ (…) da quelli dell’arte (dotati di un’aura di valore universale, di un alone di mercato e di possibili aste londinesi, di autorevolezza e di immagine assai forti, di un pubblico privilegiato) e da quelli archeologici cui possono somigliare ma che hanno nella data dei reperti e nel lustro intellettuale un confine abbastanza netto. Sono oggetti, o anche modelli e foto, che riguardano la vita quotidiana l’uso comune o specializzato in essa, pratico e tecnico o simbolico e festivo, e che possono venire da popolazioni esotiche o dai contadini che hanno lasciato le campagne vicino a casa nostra e che magari stanno ora nel nostro condominio”. E sono oggetti – prosegue Clemente - che diversi ‘collezionisti’ in diversi tempi hanno scelto per la nostra memoria. Tanto che “non c'è quasi nessuno di questi luoghi che non sia chiamato con nomi di persona: il museo Pitrè, il museo Mantegazza, il museo De Gubernatis (che sta dentro il Museo Mantegazza ovvero dentro il “Museo di Antropologia ed Etnologia” di Firenze), il Museo Pigorini, e quando non lo si chiama per nome, come nel caso del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari, si sbaglia, perché quello è il Museo Lamberto Loria, prodotto di un lavoro infaticabile che ha un suo mito di fondazione e che riguarda l'Italia intera tra il 1906 e il 1911 (Mostra nazionale di etnografia italiana nel quadro dell'esposizione internazionale di Roma)”. Questa “museografia d'autore” – osserva Clemente - è tipica del settore DEA in Italia. Essa prosegue dopo la seconda guerra mondiale con “la generazione nata negli anni ‘20 del '900, che ha vissuto la guerra, la resistenza, la cultura democratica e 'neorealista', e che voleva testimoniare il presente povero e vario del territorio locale in veloce mutazione e oblio nella società del benessere e nella modernizzazione dell'Italia”. Dietro c’è sempre un collezionista o un inventore (per esempio Giuseppe Sebesta a San Michele all’Adige), o un gruppo locale di volontari (è il caso del 'Gruppo della Stadura' a San Marino di Bentivoglio). Si tratta di “capostipiti e antenati” che stanno dietro le case-museo (la Casa Museo costruita da Antonino Uccello a Palazzolo Acreide in provincia di Siracusa) o le più recenti fondazioni (quella del Museo Ettore Guatelli a Ozzano Taro, comune di Collecchio in provincia di Parma). E “che 1 riconosciamo insieme a chi non ha mai 'firmato' un museo ma ne è stato concettualmente 'padre'” come Alberto Mario Cirese con il volumetto Oggetti segni musei. Nell’universo dei beni DEA – spiega Clemente - la D (ora caduta “per una qualche idiosincrasia ministeriale”) caratterizzava questi musei come 'demologici', espressione che ne sottolineava “la componente italianistica, quella che nell'800 fu detta della poesia e della novellistica popolare, e che poi si aprì alla cultura materiale e che a livello internazionale si chiamò folklore (e da noi anche folclore) e nell'Università fu chiamata Letteratura e/o Storia delle Tradizioni Popolari”. Per illustrare la molteplicità di definizioni che circondano questa particolare museografia, basta riferirsi alle schede di censimento dei musei etnografici e dell’agricoltura compilate da Roberto Togni, Gaetano Forni e Francesca Pisani nel 1997. Qui si può notare – osserva Padiglione - che “Civiltà contadina”, “Arti e Tradizioni”, “Arti e mestieri”, “Usi e costumi” ed “Etnografico” restano le denominazioni più diffuse. Stentano a diffondersi terminologie di Oltralpe, quale “Ecomuseo”. Si notano in evidenza anche preferenze locali che segnalano politiche regionali, influenze accademiche, contagi d’autore: es. “Museo Etno- antropologico” in Sicilia, “Museo Etnografico” in Sardegna, “Museo storico etnografico” in Lombardia, “Museo del villaggio” in Trentino, e termini in lingua locale nelle regioni di confine. Ancor più vario e in forte crescita è il panorama dei musei dedicati già nel titolo ad una focalizzazione tematica: frammenti di forme di vita, cicli agricoli (olivo, vino, canapa, pane ), alimenti di base (sale, pane, castagna, pasta), oggetti di lavoro e d’artigianato (carro, chiodo, ombrello, zampogna), habitat (montagna, vale, palude, bosco, mare, miniere), demarcazioni storico-culturali (emigrazione, malaria, bonifica)”. I musei etnologici dalla guida Togni-Forni-Pisani sono esclusi. Per verificare le quotazioni del termine “etnologico”, possiamo rivolgerci al sito www.museionline.it. Tra i musei DEA censiti, esso vi compare in pochissimi casi, che tradiscono implicazioni naturalistiche o confessionali, come vdremo, significative: il Pontificio Museo Missionario Etnologico dei Musei Vaticani, il Museo Etnologico Missionario di Colle Don Bosco in provincia di Asti, il Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze, il Museo Etnologico delle Apuane, la sezione etnologica del Museo dell’Alta Val Serivia. L’attributo più ricorrente, anche qui – come nella guida prima citata -, insieme a quello di “civiltà contadina” è “etnografico”. E del resto – va detto - è quest’ultima l’espressione più diffusa a livello internazionale, adottata anche dalla sezione ICOM dedicata a tale tipologia di musei: l’International Commity for Museums of Ethnography (ICME). Dal nome al come. E’ possibile costruire per la “bizzarra mappa” dei musei DEA una legenda che abbia un minimo di sistematicità? Quanto vale questo sforzo? Al di là delle denominazioni esistenti può essere utile sul piano della fruizione pubblica trovare dei denominatori comuni? Possiamo individuare, al di là delle etichette, una specificità antropologica che contraddistingue l’universo della museografia dea? Come (e perché) musei connotati in modo così eterogeneo possono essere ascritti all’ambito di competenza di una prospettiva (quella demoetnoantropologica) ora riconosciuta nello statuto istituzionale dei beni culturali? Nella riflessione che si dipana a partire dal quadro appena illustrato (e dalle domande che ne derivano) la condizione dell’antropologo museale è ben rappresentata da una recente dichiarazione di Pietro Clemente, che sente di trovarsi “al punto di incontro di due processi mentali, concettuali e disciplinari che vanno in prospettive opposte, una decostruttiva e l’altra ricostruttiva”. A noi antropologi, si sa, i lessici chiusi stanno stretti e provocano disagio, poiché varia e mutevole è la realtà dei processi che ruotano attorno alle parole e alle cose del nostro specifico settore di interesse, che di quella varietà e mutevolezza si alimenta. Per altro, delle varietà interne alla dimensione museale - come afferma Padiglione - “siamo orgogliosi, in quanto le 2 consideriamo un elemento caratterizzante e rappresentativo di un patrimonio che nella mediazione rivela la tracce ad un tempo della cultura osservata e di quella osservante, di contatti e incontri di culture (…) I nostri musei sono concrezioni di storie e contesti diversi. Veicolano approcci ed interprezioni al patrimonio non sempre battezzate dall’accademia. E anche quando si rappresentano con forme anguste e povere, meritano attenzione in quanto testimoni a loro modo di territori, epoche, genti e soggettività particolari”. Ciò nonostante, però (ed è questo il rovescio della medaglia), ci rendiamo perfettamente conto che la multiforme galassia museale DEA, fatta di istituzioni storiche e di collezioni singolari, di musei nazionali e di esperienze spontanee, di raccolte civiche e di “musei che non sono nemmeno musei”, di fronte al pubblico dei visitatori, alle politiche degli standard o alle implicazioni della tutela, una qualche traccia di identificazione più precisa, ancorché debole e aperta, deve provare a trovarla. Se non altro per dare al confine tra noi e gli altri quel senso autenticamente antropologico di costruzione finalizzata alla comunicazione e allo scambio, e poterci così intendere con la gente di museo o che frequenta il museo, alla quale bisogna pur partecipare la particolare sensibilità con cui ci accostiamo alla differenza museale e di cui – come si diceva – ci sentiamo orgogliosi. L’obiettivo, come è evidente, non sarà certo “quello di fare ordine e pulizia”. Piuttosto – come indica Padiglione -, è quello “di valorizzare pienamente la ricchezza delle varianti e delle anomalie create in ambito museale dalla contemporaneità postmoderna”. E in questo importante lavoro di riflessione a tutto campo, estraneo quindi alle censure e svolto sulla frontiera che avvicina e separa le diverse esperienze museali, forse potremo arrivare a riconoscerci in un comune obiettivo: quello “di costruire una slargata comunità di pratiche offrendo argomenti di discussione e di possibile condivisione”. In questo senso, però, bisogna anzitutto adottare insieme una prospettiva relativistica. “I nomi dei musei - avverte infatti Padiglione - sono anche essi artefatti, parlano spesso più della cultura osservante, dei saperi e delle ideologie dei conservatori, che della cultura in mostra”. Nella loro molteplice denominazione, soprattutto in ambito DEA come abbiamo visto, “trova rappresentazione per frammenti la storia della museografia e del collezionismo, l’accademia con le sue scuole e i suoi conflitti, le vocazioni e le velleità, le resistenze e le invenzioni a livello locale. “Usi e costumi”, ad esempio, rinvia alle indagine illuministe; “arti e tradizioni” evoca il periodo romantico dei nostri studi; l’enfasi su “Genti” segnala una connotazione identitaria ed etnica da tempo presente nell’antropologia e di recente rivitalizzata; ecc.”. In questa giungla lessicale, dove ci siamo abituati ad apprezzare più le differenze che le categorie di ordine generale, l’opera “ricostruttiva” non è certo agevole. E però se è vero come osservava tempo fa Alberto Mario Cirese - che il problema sono le cose designate e i nomi vengono dopo, allora conviene anzitutto verificare quanto “etnografico” ed “etnologico”, le due espressioni storicamente più accreditate, rinviino a una possano vantare una loro più marcata “specificità” lessicale rispetto al quadro generale della realtà museale demo-etno-antropologica. Riprendere alcuni nodi della storia degli studi può forse aiutare a semplificare il quadro. Poiché è nelle pieghe di quella storia che le due espressioni guadagnano quell’ambiguità che ancora il pubblico dei musei fa fatica a dirimere. “Etnologico” ed “etnografico” indicano la stessa cosa dal punto di vista della prospettiva museale? Oltre che per lo “specifico” materiale conservato nei musei, c’è qualcosa che ci induce distinguere (o a usare indifferentemente) le due espressioni? Qual è il vantaggio che possiamo ricavare dall’analisi delle eventuali differenze di prospettiva? Una eventuale semplificazione nominalistica potrà orientarci nella comunicazione professionale? E, soprattutto, aiuterà il pubblico dei musei ad orientarsi nella selezione delle offerte culturali? Tra etnografico ed etnologico. Intorno alla metà dell’Ottocento, il filologo piemontese 3 Giovenale Vegezzi Ruscalla tentò una sistematizzazione del campo disciplinare distinguendo l’Etnologia (in quanto “scienza delle nazioni” separata dagli studi anatomici e razziali) dall’Etnografia (cui assegnava un ruolo preliminare e di complemento, di disciplina descrittiva ed idiografica). La distinzione di Vegezzi Ruscalla non si stabilizzò nei decenni successivi poiché si scontrava con la preminente affermazione delle teorie evoluzioniste e positiviste, che in Italia trovavano nel medico e antropologo Paolo Mantegazza uno tra i più eminenti rappresentanti. L’antropologia per Mantegazza era una scienza naturale, la disciplina generale entro la quale si dispiegavano sia l’etnologia, in quanto studio delle razze umane, sia l’etnografia, intesa come studio dei popoli e delle loro culture. Fu esattamente in questa accezione che egli istituì il Museo di Antropologia e di Etnologia di Firenze (1869), diede vita alla Società Italiana di Antropologia ed Etnologia (1870) e promosse la prima inchiesta ufficiale per documentare i caratteri fisici degli italiani (1871). Su questa stessa linea si attestò pure Luigi Pigorini, che nel 1875 costituì il suo Museo Nazionale di Preistoria e – appunto – Etnografia: intendendo con questa espressione sia "quello che producono i selvaggi e i barbari viventi" (cioè gli oggetti provenienti da società primitive ed esotiche) sia – come era nelle intenzioni dichiarate al Ministro della Pubblica Istruzione nel 1881) le costumanze e i reperti di casa nostra cui avrebbe voluto estendere le raccolte. Se dunque ripercorriamo la storia dell’antropologia e delle istituzioni museali ad essa legate scopriamo che l’espressione “etnologico”, pur presente nella qualificazione delle istituzioni museografiche europee dal ’700 in poi (grosso modo a partire dalla distinzione fatta da Alexandre César Chavannes fra un’antropologia somatologica e un’etnologia appartenente al dominio delle scienze filosofiche e morali, viene abbandonata. Anche per le contaminazioni, le implicazioni e le collusioni che questa “nuova scienza” aveva finito per avere con l’ambiente degli antropologi fisici, prevalentemente composto da medici e da studiosi di scienze naturali. In Italia la separazione tra antropologia (scienza naturale) ed etnografia (scienza storicosociale) si consumò definitivamente al Congresso di Etnografia Italiana del 1911 lasciando nell’indeterminatezza – come pure ebbe a lamentare Loria in quell’occasione - i confini dell’etnologia. Ancora per un trentennio gli studi etnologici si sarebbero detti studi etnografici e l’etnologia avrebbe accompagnato solo in modo implicito le esperienze di studiosi appartenenti all’ambito storico-geografico o giuridico (Renato Biasutti, Carlo Conti Rossigni, Enrico Cerulli). Pertanto, quando agli inizi del Novecento (1902-1906) Aldobrandino Mochi e Lamberto Loria danno vita al più importante progetto museografico a livello di patrimonio nazionale, chiamano Museo di Etnografia italiana la loro raccolta di “oggetti, manufatti, di qualsiasi genere e categoria, spontaneamente usati e fabbricati del popolo nostro meno civile” intese definire questa collezione di, in diretta analogia con l’etnografia extraeuropea”. La raccolta Mochi-Loria dopo il 1911 rimane a lungo nei magazzini e diventerà Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari solo negli anni ’50. Nell’intitolazione del museo c’è ormai “un retaggio di carattere estetico che segnerà l’ambiguità di questa istituzione per tutto il corso della sua vita, compresa l’attuale stagione”. Il secondo dopoguerra vede la presa di distanza dall’immagine cartolinesca e da operetta costruita dal fascismo sul folklore – un’immagine di propaganda e di facciata, in verità mascherata dal tributo pagato alla tradizione degli studi dalla legge di tutela del ‘39 (che incluse tra i beni da tutelare anche quelli etnografici, oltre che quelli relativi alle “primitive civiltà”). A partire dagli anni ’50 l’etnografia viene riconsegnata al lavoro di ricerca e di documentazione sulla dura e misera vita delle gramsciane “classi subalterne”. “Della matrice originaria – ricorda Padiglione - è rimasta l’idea che un’indagine etnografica si interessi di tratti culturali a lungo permanenti ovvero che un museo etnografico esponga artefatti ‘tradizionali’ che, sebbene 4 prelevati nella contemporaneità, hanno vissuto una temporalità di lunga durata” e che “un’antropologia devoluta al salvataggio spirituale deve salvare”. Così – prosegue Padiglione -, quando negli anni ‘70 incomincia a farsi pressante e diffusa la domanda di musei locali, la nozione di etnografia, da latente, si rende attiva, vale come marca disciplinare (più formale che reale). Comunque risulta preferita dalla comunità accademica rispetto ad altre espressioni, come per esempio “civiltà contadina”. A partire dall’inedita esperienza di museografia rurale del Gruppo emiliano della Stadura, culminata con la fondazione del Museo della Civiltà contadina di S.Marino di Bentivoglio (1985), “cominciarono a moltiplicarsi in tutta Italia piccoli musei nati sulla base di collezioni di oggetti poveri, senza spese di allestimento e per volontà di gruppi di base o di excontadini che più di altri avevano avvertito gli effetti talora devastanti della modernizzazione. Al successo di questa tipologia contribuì in modo significativo proprio l’invenzione del nome: Museo della Civiltà contadina. Un nome inviso da subito anche a molti storici e antropologi pure simpatetici verso l’iniziativa di S. Marino di Bentivoglio, come lo fu Alberto M. Cirese, che per neutralizzare “la carica mitica” e più in generale la fallacia di assumere il mondo contadino come “totalmente autonomo e chiuso in sé “ gli oppose la denominazione di museo della condizione contadina”. I promotori del Museo di Bentivoglio – ci ricorda Padiglione - mutuarono l’espressione “civiltà contadina” dall’opera di Carlo Levi ma sull’onda del dibattito apertosi attorno a quella stessa nozione, sentirono il bisogno “di connotarla in senso marxista, di formazione economico sociale, sovrapponendo l’immagine di un popolo che lotta per la liberazione alla denuncia leviana di un mondo che era rimasto escluso dal messaggio di emancipazione”. “In pochi decenni i musei della civiltà contadina si sono moltiplicati, sorretti da un collezionismo povero ed una museografia essenziale che si è avvalsa in modo intermittente di fonti etnografiche e di storia agraria. Ne sono emersi musei spesso improbabili come servizio culturale e centro di documentazione e interpretazione del territorio, che però si sono imposti come istituzioni di affezione comunitaria, presidi della memoria rurale nei paesi, costruendo poco a poco un’idea di patrimonio: un patrimonio culturale, frutto di condizioni sociali condivise, di processi culturali elaborati nella distanza, nell’esclusione, nella resistenza”. A questo riguardo – conclude Padiglione – si può in fondo condividere l’opinione di Pietro Clemente, “che in una recente riabilitazione della nozione di Civiltà contadina, ne ha sottolineato il pregio di essere una reinvenzione locale in grado di convocare museograficamente grani di alterità culturale altrimenti negata”. E i musei etnologici? Dopo il Congresso di Etnografia del 1911 la bandiera dell’etnologia tornò ad essere sostenuta con determinazione da Raffaele Pettazzoni e da Ernesto de Martino, i quali contribuirono a rilanciare gli studi etnologici italiani definendo “etnologiche” alcune loro prospettive di ricerca. Raffaele Pettazzoni fu il primo a ricevere un incarico di etnologia nell’Università italiana (a Roma nel 1937) e a fondare, sempre a Roma, l’Istituto per le Civiltà Primitive poi rinominato Istituto di Etnologia Italiana. L’impegno di Pettazzoni in questa direzione molto fu stimolato dall’antagonismo dichiarato per la scuola di Padre Wihlelm Schmidt, il quale negli anni Venti aveva introdotto in Italia un’etnologia storico-culturale di stampo confessionale: nel 1925 aveva aperto una sezione etnologica nel Pontificio Museo Lateranense e nel 1931 aveva istituzionalizzato ufficialmente l’etnologia negli atenei ecclesiastici. Negli anni Trenta, tuttavia, il problema terminologico era stato rilanciato dalla Società Romana di Antropologia di Sergio Sergi con un’inchiesta internazionale i cui risultati furono pubblicati nel 1947 sulla Rivista della Società. Pettazzoni, nella sua risposta al questionario, tornò a distinguere l’antropologia dall’etnologia (scienza naturale, l’una; udisciplina storica, la seconda) 5 e l’etnografia dall’etnologia (definendo questa come lo studio dei popoli, delle culture umane, da un punto di vista comparativo, con un distanziamento tale da consentire confronti e svolgere percorsi riflessivi; intendendo invece per etnografia lo studio di una cultura nei dettagli). Un eventuale auspicabile recupero della qualificazione “etnologica” dei musei dea, dovrà riagganciarsi la tradizione di studi che ha provato a fondare in Italia un’etnologia intesa come scienza storico-comparativa dell’ethnos. Prendendo dunque le distanze dalla tradizione che invece ha fortemente compromesso la disciplina, e l’aggettivo etnologico, con scuole e orientamenti naturalistici, evoluzionisti, missionologici. La specificità della prospettiva etnologica sta infatti nel valore comparativo di quella riflessione “noi-altri” che è del tutto tipica della storia della disciplina a partire dal XVIII secolo. Il museo etnologico, in questo senso, potrebbe essere da noi il museo che conserva ed espone documenti relativi alle culture extraeuropee, e che, proprio in ragione di questa sua specifica ricchezza pluriculturale, è votato a costruire – nelle forme “collaborative” predicate dalla museografia internazionale - rappresentazioni centrate sul confronto “noi-altri” e piegate a un’interpretazione critica e riflessiva di quanto quel confronto produce sul piano delle relazioni interculturali del mondo contemporaneo. Lo scenario, a questo proposito, è tuttavia tutt’altro che definito (e definibile). Come osserva Pietro Clemente, è un flusso in costante movimento: “L’antropologia museale è in questo flusso, ed è anche questo flusso, e per questo non è facile fermarla per descriverla, va descritta in movimento guardando a un interlocutore che si sposti anche lui mentre ascolta la descrizione. Magari entrambi su un cammello”. Nell’epoca del postcolonialismo e della postmodernità, infatti, le tradizioni si vanno rimodulando anche attraverso il museo etnologico, che sta vivendo una nuova stagione ancora in stato nascente. Le forme museali dei paesi non occidentali (di quelli africani in particolare), spesso irretite tra tensioni allo sviluppo locale e politiche del turismo, somigliano alle tante indisciplinate manifestazioni della museografia locale di casa nostra; e anch’esse pongono al centro delle loro ragioni la memoria e l’identità del territorio, intese però come “risorsa” culturale per il futuro e non come immobile eredità del passato. “Nell’antropolgia di oggi – afferma Clemente - il museo è un ‘iperluogo’ che ha potenzialità sia di ‘nicchia’ che di ‘arena’”. Le cose vi trovano un loro senso locale e però immediatamente offrono i propri significati alla negoziazione sociale. In questo processo, che assegna al museo popolarità, ne moltiplica le tipologie e ne fa un’istituzione di successo (ora pure riconosciuta dalla legge) la stessa impronta occidentale – conclude Clemente – “può essere riletta e mutata o rivissuta e moltiplicata”. In fin dei conti, sarà lo sguardo dei musei degli “altri” ad aiutare “i nostri a vedersi, non come meri luoghi della tutela conservativa, ma anche come agenzie, talora urgenti, della formazione e della educazione collettiva, e insieme come luoghi che non sono ‘regge’, ‘tesori nascosti’ per facoltosi e raffinati uomini di gusto, né spettacoli di massa, las vegas con la minuscola, ma cercano di connettersi con progetti di vita del territorio. Non sono la cultura che congela la vita, ma la cultura che sta nella vita, che la arricchisce, anche di prospettive materiali. I musei oggi sono luoghi aperti, comunicativi e dinamici”. * Questo testo riprende, sintetizzandoli, i contenuti dei seguenti contributi, cui si rinvia per la bibliografia: V. Padiglione, Etnografico nome di museo, relazione al seminario di Orta il 21 maggio 2004 al convegno “Presente e futuro dell’ecomuseo”. V. Lattanzi, Per una definizione (e un possibile rilancio) del museo etnologico, relazione al seminario di Orta il 21 maggio 2004 al convegno “Presente e futuro dell’ecomuseo”. P. Clemente, “I dea-musei”, in SISSCO, Il mestiere di storico, Annale V/2004. 6 P. Clemente, “Le mappe bizzarre e promettenti dell’Antropologia Museale”, in E. Castelli, Il museo del tamburo parlante, Catalogo, 2005. 7