CAPITOLO 2 TEORIE DELLA PENA Sezione 1 L’IDEA DELLA PENA RETRIBUTIVA Anche quando la società civile si dissolvesse col consenso di tutti i suoi membri, l’ultimo assassino che si trovasse ancora in prigione dovrebbe prima venire giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione. (KANT, Metafisica dei costumi) Vendetta ti chiedo, / lo chiede il tuo cor./ Rammenta la piaga / del misero seno, / rimira di sangue / coperto il terreno, / se l’ira in te langue / d’un giusto furor. (DA PONTE-MOZART, Don Giovanni, atto I, scena 13°) Così s’osserva in me lo contrapasso (DANTE, Inferno, XXVIII, 142) SOMMARIO: 1. La pena retributiva come valore in sé. – 2. Le radici affettive della pena. – 3. Tendenze eticizzanti e implicazioni garantiste dell’idea retributiva. 1. La pena retributiva come valore in sé. Nel contrapporsi alle concezioni preventive o finalistiche del diritto penale, l’idea della pena retributiva intende additare il fondamento del punire in un’esigenza di giustizia ‘assoluta’: absoluta, cioè sciolta da scopi ulteriori. La citatissima frase di Kant, che abbiamo posto in epigrafe, pone in evi- Teorie della pena 15 denza questa pretesa di assolutezza, con l’affermare la doverosità del punire in una situazione in cui la pena sarebbe completamente svincolata da qualsiasi funzione legata al vivere in società, all’organizzazione dell’umana convivenza. Se anche la società si sciogliesse, di fronte al male che taluno abbia commesso, giustizia dovrebbe essere fatta, con l’applicazione di una pena corrispondente 1 al peccato . Nel discorso di Kant, e di molti moderni sostenitori dell’idea retributiva, questa si lega a un principio etico fondamentale: l’uomo non deve mai essere trattato come un puro mezzo al servizio dei fini di un altro. Soltanto la pena retributiva, fondata su una pura idea di giustizia fine a se stessa, rispetterebbe la dignità dell’uomo, considerato come soggetto morale capace di scelte libere e responsabili. Nella dottrina penalistica italiana dei primi decenni della Repubblica, l’idea retributiva è stata sostenuta con particolare impegno da Giuseppe Bettiol. La pena “trae la sua forza etica e la sua giustificazione dal fatto di essere espressione di quella esigenza naturale viva nel cuore di ogni uomo e operante in tutti i settori della vita morale, per la quale al bene deve seguire bene e a male deve seguire male”. L’idea retributiva non esclude che la pena possa avere ed abbia in concreto un’efficacia di guida del comportamento e di prevenzione di comportamenti indesiderati, ma “della prevenzione generale la concezione retribuzionistica della pena non si occupa direttamente. La prevenzione generale potrà risultare una conseguenza del modo di essere della pena; ma non un fine, 2 o il fine principale, della pena retributiva” . 2. Le radici affettive della pena. Alle radici dell’idea di giustizia retributiva, che pensiamo tutta rivolta a un mondo di valori, può essere rintracciato qualcosa di molto più materiale e sanguigno: la vendetta. La pena primitiva, leggiamo in uno dei testi classici del pensiero penale moderno, sarebbe una “reazione istintiva, non reazione determinata dall’idea dello scopo, contro atti diretti a turbare le condizioni di vita del singolo individuo e dei gruppi sociali già 3 esistenti. Come azione istintiva, non avrebbe nulla a che vedere con l’etica” . La reazione vendicativa (tendenzialmente illimitata) è originariamente attuata dall’offeso e dal suo clan, in assenza della possibilità di rivolgersi ad una autorità superiore; un notissimo esempio letterario è la vendetta di Ulisse sui Proci, narrata nell’Odissea. 1 Usiamo un termine che non appartiene al linguaggio tecnico giuridico, per sottolineare come l’idea della pena retributiva si collochi, o pretenda di collocarsi, su un piano di giustizia che trascende quello strettamente giuridico. 2 a G. BETTIOL, Diritto penale, 12 ed., Padova, 1986, pp. 782, 800 (edizione aggiornata da Pettoello Mantovani). 3 V. LISZT, op. cit., pp. 16, 21. 16 Il problema penale A uno stadio sufficientemente evoluto di organizzazione ‘politica’, la reazione acquista i caratteri di una pena regolata da un’autorità superiore capace di porre regole e sanzionarne la violazione, e capace di imporsi sia all’offensore sia all’offeso. Il principio base della reazione punitiva ‘regolata’ è rappresentato dalla idea del taglione: occhio per occhio, dente per dente. In forma rozza, l’idea del taglione esprime comunque un principio regolativo ‘di giustizia’: una esigenza di reazione commisurata all’offesa, quale alternativa alla vendetta illimitata. Nella sua espressione verbale (occhio per occhio) le legge del taglione giustifica una reazione materialisticamente identica alla offesa. Nel concreto sviluppo storico, la corrispondenza fra delitto e reazione non necessariamente concerne il contenuto materiale, ma sta in un rapporto di proporzione o adeguatezza della reazione rispetto al delitto. Non si caverà l’occhio o il dente, ma la pena potrà consistere, poniamo, nel pagamento di una somma ritenuta adeguata. Così ‘spiritualizzata’, la regola del taglione rappresenta il germe della concezione ‘retributiva’ della pena, nella riflessione etico-filosofica e religiosa, prima ancora che giuridica. Di fronte all’offesa, reazione giusta è quella che infligge all’offensore una reazione proporzionata all’offesa che egli ha provocato. L’idea della giusta retribuzione del male attraversa per secoli la civiltà occidentale, ed è storicamente agganciata a concezioni della giustizia che traggono pretesa d’assolutezza dall’aggancio alla religione o a un mondo di valori etici considerati indiscutibili. L’universo morale della giusta retribuzione (del ‘contrapasso’) è rappresentato in modo compiuto nella Divina Commedia, nella sua proiezione metafisica e religiosa. In versione secolarizzata, lo troviamo espresso ancora da grandi maestri della filosofia moderna e da un consistente filone di cultura giuridica. Come espressione di ‘giustizia’, la pena è sottratta alla disponibilità dell’offeso. Nella pena retributiva l’esigenza di vendetta è incanalata, affinata, forse addolcita, ma continua a fare sentire la sua voce, a chiedere soddisfazione. Abbiamo scelto come epigrafe di questo capitolo alcuni versi del Don Giovanni, uno dei grandi capolavori di un’epoca ormai ‘illuminata’, per mostrare la persistenza del “vendetta ti chiedo” della vittima, espressione passionale di “giusto furor”, in un intreccio inestricabile di istanze morali e di pulsioni elementari. Con la punizione dell’offensore, la vendetta sarà alla fine appagata da un esito sentito come ‘di giustizia’ (“questo è il fin di chi fa mal”). L’idea nobile della giustizia retributiva e il sapore sanguigno della vendetta restano in4 trecciati, con tutte le ambiguità che ciò comporta . In via di principio, la pena retributiva aspira ad emanciparsi dal nucleo ‘vendicativo’. Il carattere etico, assunto a elemento di definizione della pena, dovrebbe allontanare 4 Ancora attuali sono le osservazioni sulla psicologia della società che punisce, di ALEXANIl delinquente e i suoi giudici, trad. it., Milano, 1948 (cfr. in particolare p. 107 s.). DER-STAUB, Teorie della pena 17 5 questa dalle forme di reazione primitiva . Ma anche nella presente situazione spirituale, che pure tende sempre più a orientarsi verso l’idea della pena scopo, una “radicata persistenza di una mentalità retribuzionistica” è ravvisabile nelle reazioni della gente comune 6 e nella stessa prassi giudiziaria . Nella dottrina penalistica italiana recente, un’appassionata difesa della concezione retributiva della pena la contrappone alle teorie preventive nella forma più radicale: mentre per le concezioni relative la pena è un malum, che “ha bisogno, per continuare ad esistere, di trovare al di fuori di sé, in qualcosa di concretamente e fattualmente verificabile, il suo ubi consistam”, per i retribuzionisti la pena è “un 7 bonum in sé, che non necessita pertanto, al di fuori di sé, alcuna giustificazione” . 3. Tendenze eticizzanti e implicazioni garantiste dell’idea retributiva. Inteso come pura affermazione del nesso di conseguenzialità fra il reato e la pena, lo schema retributivo è uno schema formale. La pena è, per definizione, retribuzione formale del reato. La giustizia della reazione retributiva abbisogna di essere fondata su criteri ulteriori. Quali sono, allora, i criteri della giustizia retributiva? Quali sono le colpe contro le quali è giusto reagire con la pena? Quale la pena giusta per un dato peccato? Lo schema retributivo, nella sua astrattezza formale, non lo dice. In teoria, esso può venire riempito dalle più varie concezioni ‘materiali’ su che cosa sia delitto, che cosa sia colpa da giustamente punire. È nello spirito e nella storia concreta dell’idea retributiva il riferimento a sistemi di valori i quali abbiano in sé la pretesa di rappresentare un modello di giustizia valido in assoluto, e che proprio perché valido in assoluto pretende di poter fondare e giustificare la pratica penale come attuazione di una idea di giustizia. In questi sviluppi, l’idea retributiva ha funzionato e si presta a funzionare da giustificazione di modelli eticizzanti del diritto: col legare il diritto penale all’etica, anzi a particolari concezioni etiche, fa del diritto uno strumento di tutela – tramite il braccio secolare dello Stato – di particolari concezioni morali che pretendono di imporsi su eventuali altre concezioni concorrenti, anche attraverso lo strumento del diritto penale. La variante rigorista dell’idea retributiva potrebbe venire riassunta, a prezzo di un certo schematismo, in formule del tipo “nessun crimine senza pena”, o “nessuna colpa senza pena”, che esprimono una pretesa di reazione retributiva tendenzialmente obbligatoria. Ciò può essere inteso, da un punto di vista interno all’ordinamento giuridico, co- 5 BETTIOL, op. cit., p. 803: “Anche se è vero che in linea di fatto alle origini della società la vendetta era cosa normale, non è detto tuttavia che in essa debbano ricercarsi le radici della pena … La vendetta è retribuzione non sostenuta da un’idea morale, che si radica in un istinto”. 6 FIANDACA, Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi giudiziaria e dottrina, in Questione giustizia, 1991, p. 46. 7 RONCO, Il problema della pena, Torino, 1996. La frase citata è a p. 115. 18 Il problema penale me inderogabilità della pena, nel senso che questa, in quanto corrispettivo del reato, debba sempre e necessariamente essere inflitta al reo. Ma può anche essere inteso, in versioni “forti”, come obbligo per lo stesso legislatore, di intervenire con il diritto penale di fronte a fatti che offendano gravemente beni o interessi ritenuti importanti. L’idea retributiva ha anche un altro volto, diverso e separabile da quello eticizzante. Come abbiamo visto a proposito della stessa idea del taglione, l’idea di giusta retribuzione esprimere un’esigenza e un criterio di delimitazione della reazione punitiva. Ciò viene in rilievo sotto una pluralità di aspetti. La pena presuppone un fatto illecito da retribuire, e non può essere rivolta se non all’autore dell’illecito: l’idea retributiva implica il principio di personalità della responsabilità. La pena deve consistere in una reazione proporzionata, secondo un criterio di giustizia, non arbitrario. In quanto ancorata a un mondo di valori morali, la pena presuppone la possibilità di muovere un rimprovero eticamente fondato, e pone dunque il problema dell’individuazione dei presupposti di un rimprovero che sia fondato, allo stesso tempo, per il diritto e per l’etica. Nessuna pena senza colpevolezza. La variante garantista dell’idea retributiva può essere riassunta, sempre a prezzo di un certo schematismo, in formule del tipo “nessuna pena senza colpa”, così da porre in evidenza che l’idea di giusta retribuzione segna la misura della reazione punitiva, e non (o non necessariamente) un suo fondamento obbligante. L’idea della giusta retribuzione presenta dunque un duplice volto: eticizzante da un lato, garantista dall’altro. Da un lato vuol essere fondamento autosufficiente del potere di punire, dall’altro un suo limite. I due aspetti, concettualmente separabili, sono spesso storicamente intrecciati; entrambi presenti nella presente situazione spirituale del pensiero penale, e anche affermati contemporaneamente dai più impegnati ‘retribuzionisti’. G. Bettiol ha scritto che “la pena retributiva salva il diritto penale da ogni eccesso e garantisce i diritti fondamentali dell’uomo. Essa ha per eccellenza una funzione garantistica”. Solo l’idea retributiva, col suo aggancio a valori morali e a un criterio di giusta proporzione, sarebbe un argine contro la possibile riduzione della persona umana a strumento di finalità politiche, assunte come scopi di pratiche punitive esclusivamente ispirate a esigenze di difesa della società o dello Stato. Una concezione tutta ‘strumentale’ del diritto penale rischia di alimentare una spirale repressiva, fino a un indiscriminato “terrorismo penale”. D’altra parte, “se uno sfondo politico si vuole assegnare alla teoria della retribuzione (che necessariamente non è legata ad alcuna precisa concezione politica) è ad una concezione auto8 ritaria dello Stato che essa va riferita, piuttosto che ad una concezione liberale” . Il momento ‘autoritario’ dell’idea retributiva ha radice nel collegamento a valori obbliganti, i quali imporrebbero, di fronte a certi comportamenti, la reazione penale. 8 BETTIOL, op. cit., pp. 797, 805. Teorie della pena 19 Sezione 2 LA PREVENZIONE GENERALE Chi cerca di punire secondo ragione, non punisce a motivo del delitto trascorso – infatti non potrebbe certo ottenere che ciò che è stato fatto non sia avvenuto – ma in considerazione del futuro, affinché non commetta ingiustizia né quello stesso che viene punito, né altri che veda costui punito (PLATONE, Protagora, 324) … … neque ego hercule fur, ubi vasa pretereo sapiens argentea. Tolle periclum: iam vaga prosiliet frenis natura remotis. (ORAZIO, Satire, libro II, 7°, v. 72 s.) 9 SOMMARIO: 1. Il modello della deterrenza. – 2. La c.d. prevenzione generale positiva. – 3. La prevenzione generale come problema. 1. Il modello della deterrenza. L’altro grande approccio al problema penale è l’idea della prevenzione generale. La minaccia legale di pena è vista come tecnica finalizzata di prevenzione di fatti e comportamenti indesiderati, ritenuti dannosi o pericolosi per interessi dei singoli o della società, e perciò da vietare. Anche l’approccio preventivo, al pari dell’idea retributiva, ha radici antiche, come mostrano le frasi riportate in epigrafe. Non si tratta semplicemente di rispondere con la pena a reati già commessi, ma di assicurare, nella misura più ampia possibile, l’osservanza dei precetti da parte della generalità dei destinatari. Dando per scontato che reati siano commessi, l’obiettivo è la riduzione dei reati ad un minimo che sia socialmente non intollerabile. In vista di tale 9 “... non sono ladro quando sapientemente lascio stare i vasi d’argento; togliete il pericolo, la vaga natura si slancerà”. 20 Il problema penale obiettivo, uno strumento importante, e in qualche misura necessario, è ravvi10 sato nella minaccia legale di pena per i trasgressori dei precetti . 11 La prevenzione generale spiega il diritto penale politicamente , come strumento razionalmente plasmabile in vista di scopi concernenti la vita della polis e la convivenza nella polis. Organizzare una convivenza pacifica fra uomini significa costruzione di un ordine giuridico, e il diritto implica la forza. 12 Covenants, without sword, are but words . Occorre legare gli uomini by the fear of punishment, mediante la paura di punizioni, all’osservanza dei patti e al rispetto delle leggi. In ambito penalistico, un modello razionalistico della “coazione psicologica” è stato elaborato da Anselm Feuerbach, importante esponente dell’illuminismo giuridico 13 tedesco . La minaccia di pena, che collega alla possibile commissione di un atto antigiuridico la prospettiva di un male sensibile, può funzionare a condizione “che il male minacciato sia così grande, che il timore di esso superi il desiderio di quell’atto, che la rappresentazione del male superi quella del bene da ottenere”. Scopo della minaccia di pena sarebbe dunque l’intimidazione, suo fondamento giuridico la difesa. In questa prospettiva viene offerta anche una coerente spiegazione della pena inflitta all’autore del delitto: la risposta punitiva mira a confermare, dopo che il delitto è stato commesso nonostante la minaccia di pena, la pretesa d’osservanza della legge, e, mostrando che il delitto ‘non paga’, a salvaguardare la credibilità e la sperata efficacia della minaccia di pena. Con le parole di Feuerbach, “una minaccia può essere efficace soltanto se il male in essa contenuto viene rappresentato come un male che si verificherà effettivamente”. Questa giustificazione strumentale del diritto penale, come tecnica di tutela fondata sulla deterrenza, se da un lato può sembrare fin troppo ovvia, dall’altro lato apre una serie di problemi estremamente complessi. Mentre la concezione della pena come giusta retribuzione ravvisa nella pena un valore in sé, giustificato esclusivamente su ragioni ‘di principio’, l’idea del diritto penale come strumento di prevenzione di comportamenti indesiderati solleva un ulteriore livello di problemi, concernenti il concreto funziona10 Cfr., per un quadro d’insieme, i contributi raccolti in Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, a cura di ROMANO e STELLA, Milano, 1980; ZIMRING-HAWKINS, Deterrence. The legal threat in crime control, Chicago, 1973. 11 DONINI, Teoria del reato, Padova, 1996, p. 89. 12 HOBBES, Leviatano, Cap. XVII (traduz. italiana, Bari, 1996). 13 FEUERBACH, Anti-Hobbes ovvero i limiti del potere supremo e il diritto coattivo dei cittadini contro il sovrano, trad. it. a cura di CATTANEO, Milano, 1972 (da quest’opera, p. 108 s., sono tratte le citazioni che seguono). Cfr. DE VERO, Prevenzione generale e condanna dell’innocente, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 990 s. Teorie della pena 21 mento dello strumento. Siamo nel dominio della “idea dello scopo”, della razionalità strumentale. Il funzionamento del diritto penale come tecnica di disciplina di comportamenti futuri è un problema per definizione aperto alla verifica (e alla possibile falsificazione) alla luce dell’esperienza. Che il diritto penale funzioni effettivamente come tecnica preventiva di organizzazione e di disciplina dei comportamenti, non dipende solo dall’esistenza di una norma scritta o pensata in un testo di legge. Nell’ottica preventiva, si pone il problema di assicurare le condizioni di osservanza della legge (della maggiore possibile, o comunque di una sufficiente osservanza). Perché la deterrenza funzioni, occorre innanzi tutto un sistema normativo che ponga i precetti e le sanzioni corrispondenti. Il modello della minaccia legale come ‘coazione psicologica’ trae con sé l’esigenza di costruire il sistema penale sulla base del principio di legalità: nullum crimen, nulla poena sine previa lege poenali. Non basta però scrivere le leggi: occorre che queste riescano a farsi valere come regola di comportamento. Ciò poggia su una serie di condizioni concernenti sia il sistema delle norme, sia i suoi destinatari. I precetti hanno senso in relazione a scelte di comportamento sulle quali la ‘minaccia penale’ possa influire. I contenuti precettivi del diritto penale non possono consistere se non in ‘fatti dell’uomo’. I destinatari non possono essere se non uomini capaci di comprendere i precetti, di essere influenzati dal messaggio insito nella norma penale, e di agire in conformità. Condizione pratica dell’influenza psicologica sulle scelte dei destinatari, è che le norme penali siano conosciute. Quale che sia la rilevanza formale assegnata dall’ordinamento alla conoscenza o all’ignoranza di legge, la conoscenza dei doveri legali (e delle sanzioni corrispondenti), nella misura più ampia possibile, è una condizione fattuale del funzionamento generalpreventivo del sistema legale. Per funzionare come deterrente, la minaccia legale di pena deve essere credibile. Non solo l’applicazione delle sanzioni ai trasgressori della legge, ma già il funzionamento ‘preventivo’ del precetto trae con sé l’esigenza che vi siano apparati preposti al controllo dei comportamenti ed al law enforcement (ad assicurare l’applicazione della legge), così da rendere credibile (e temibile) la minaccia legale di pena. Il diritto penale, per funzionare secondo il modello della deterrenza, abbisogna di apparati istituzionali (di polizia e di giustizia) che riescano ad assicurare un certo livello di applicazione. Nessuno dei presupposti fattuali della deterrenza è assicurato dalla semplice esistenza della legge penale. Il personaggio della satira di Orazio posta in epigrafe di questa sezione si deciderà o non si deciderà a rubare, secondo che ritenga esistente o meno il pericolo di essere colto in fallo. 22 Il problema penale 2. La c.d. prevenzione generale positiva. È possibile ridurre le condizioni di osservanza della legge alla sola deterrenza? Sarebbe un modello inquietante di società, governata dalla sola paura: un modello, fortunatamente, non realistico in condizioni di normale civilizzazione. Il diritto penale è uno, non l’unico dei sistemi di norme e di valori cui si orientano le valutazioni e i comportamenti degli uomini che vivono in società. In condizioni normali l’osservanza della legge (penale) può (tendenzialmente) contare su fattori di osservanza spontanea, determinata cioè non dalla paura, ma da accettazione del vincolo derivante dalla norma. Anche il sistema penale funzionerebbe, prima che come strumento di deterrenza, come elemento di socializzazione, concorrente a formare e stabilizzare standards morali. Su queste considerazioni sono state elaborate, e trovano ampio seguito, le teorie della c.d. prevenzione generale positiva. Il diritto penale viene per così dire inserito in una più comprensiva teoria dell’educazione collettiva o socializzazione, piuttosto che delle cause o motivazioni individuali al delitto. L’autorità e la forza esterna del diritto servono a confermare valori già ac14 quisiti e (più o meno) radicati nei processi di socializzazione degli individui . L’affermazione della generale validità di norme di comportamento, convalidata dall’inflizione della pena nei casi di trasgressione, contribuirebbe alla rimozione radicale degli impulsi ‘proibiti’, alla interiorizzazione dei valori legali in strati profondi della personalità, o quanto meno ad una abitudine all’osservanza delle leggi, che scarta in genere le alternative devianti senza nemmeno 15 bisogno di riflessione cosciente . I diversi aspetti della prevenzione generale convergono nella concezione di Francesco Carrara, il grande penalista italiano del XIX secolo. Il fine primario della pena sta nel ristabilimento dell’ordine esterno della società, il principio fondamentale del giure punitivo nella necessità di difendere i diritti dell’uomo, e nella giustizia il limite del suo esercizio. “Il concetto di riparazione, col quale esprimiamo il male della pena, ha implicite in sé le tre risultanti di correzione del colpevole, incoraggiamento dei buoni, 16 ammonizione dei male inclinati” . 14 PACKER, I limiti della sanzione penale, Milano, 1978; PADOVANI, L’utopia punitiva, Milano, 1981, p. 251 s.; HAFFKE, Tiefenpsychologie und Generalprävention, 1977. 15 La stessa paura della punizione sarebbe espressione, e non causa, della conformità ai valori normativi. Per chi voglia invece trasgredire la norma, “allora le lacune e le debolezze della repressione penale diventano coscienti, e la speranza dell’impunità si rafforza in modo corrispondente, se non sproporzionato”; STRENG, Schuld, Vergeltung, Generalprävention, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft (ZStW), 1980, p. 674. 16 CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Bologna, 1993, parr. 615, 611, 619. Teorie della pena 23 3. La prevenzione generale come problema. Illusione o realtà, la funzionalità ‘preventiva’ del diritto penale? Questa domanda – che pone un’esigenza di verifica empirica – non può essere elusa, se alla pena è assegnata una funzione strumentale. Allo stato attuale delle conoscenze, sembra non potersi negare che l’ordinamento penale, globalmente considerato, contribuisca alla prevenzione dei 17 reati . Certo, l’esistenza delle leggi non basta; tutti ricordiamo le pagine manzoniane sulle ‘grida’ ripetutamente emanate e mai applicate. Occorrono efficienti apparati di law enforcement, ed un loro effettivo funzionamento conforme agli obiettivi ed ai criteri legali. Fuori di queste condizioni, si aprono scenari che vanno dal rischio di esplosioni incontrollate di criminalità (in particolare in situazioni di collasso degli apparati statuali) al rischio d’imposizione di un ‘ordine’ svincolato da criteri legali, puramente arbitrario. Anche di ciò l’esperienza storica dei regimi totalitari del XX secolo ha dato abbondanti esempi. Il fatto che reati siano commessi non vale come confutazione dell’idea generalpreventiva. Rendere completamente sicuri gli uomini dalla commissione di delitti impossibile est, neque ergo cadit in deliberationem18: anche per il teorico dello Stato assoluto è un obiettivo impossibile. L’obiettivo realistico è il contenimento, non l’azzeramento della criminalità. Abbiamo già visto che l’efficacia deterrente della legge penale è prodotto di numerosi, variabili fattori. Tale efficacia può essere diversa in relazione a diversi tipi di reato e a diverse categorie di autori. Vengono in rilievo, in particolare: – le motivazioni che possono indurre diverse categorie di soggetti al compimento di determinante condotte illecite: la minaccia penale, se percepita come seria, può (tendenzialmente) funzionare meglio in relazione a scelte dettate da un calcolo razionale, piuttosto che da spinte emotive; – l’accettazione dell’ordinamento giuridico o di singoli istituti, da parte dei soggetti tenuti a rispettarli; – la misura del funzionamento della legge repressiva verso i trasgressori, cioè la prontezza e certezza della effettiva applicazione delle sanzioni; o meglio, la percezione soggettiva che ne abbiano coloro che ne debbono trarre ragione soggettiva d’orientamento. È dato attendersi un aumento d’efficacia generalpreventiva da variazioni (inasprimenti) di pena? Come problema empirico, quello della deterrenza va incontro a non lievi difficoltà d’impostazione, stante la difficoltà di calcolare l’incidenza dei diversi 17 18 DOELLING, Generalprävention durch Strafrecht: Realität oder Illusion?, in ZStW, 1990, p. 1 s. La citazione è dal De cive di Hobbes. 24 Il problema penale fattori di cui si voglia sottoporre a verifica l’ipotizzata relazione con l’andamento della criminalità. Uno scetticismo di principio appare d’obbligo nei confronti di variazioni modeste rispetto al livello sanzionatorio preesistente; e ciò anche quando si tratti di pene di severità la più elevata in termini assoluti. D’altra parte, non si può escludere che inasprimenti significativi, rispetto a livelli di partenza bassi o insufficienti, possano contribuire a ridurre le trasgressioni, quanto meno nel primo impatto psicologico. Un’ipotesi attendibile è che la severità non sia di per sé priva di qualsiasi efficacia, ma che piuttosto produca un apprezzabile impatto deterrente solo quando il livello di probabilità dell’applicazione della pena minacciata sia sufficientemente elevato. Una correlazione negativa si avrebbe cioè, fra i tassi di criminalità da un lato, e dall’altro il prodotto di severità e probabilità della pena. La linea della severità punitiva ha evidenti implicazioni politiche. “La severità delle pene conviene di più al governo dispotico il cui principio è il terrore”, osserva Montesquieu nel suo libro sullo spirito delle leggi. Quanto all’efficacia, “l’esperienza ha fatto osservare che nei paesi in cui le pene sono miti, lo spi19 rito del cittadino ne è impressionato come altrove lo è delle pene gravi” . La severità può andare incontro a limiti di accettazione. “La severità delle leggi ne impedisce l’esecuzione. Quando la pena è senza misura, si è spesso ob20 21 bligati a preferire l’impunità” . Gli stessi concetti sono ripresi da Beccaria , il quale pone in rilievo una comune matrice dei delitti e della crudeltà punitiva: “i paesi e i tempi dei più atroci supplizi furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario”. È un monito ancor oggi attuale, troppo facilmente dimenticato. Per porre freno ai delitti non serve la crudeltà delle pene, bensì – nelle parole di Beccaria – la loro infallibilità. Più realisticamente, è necessario un apprezzabile grado di probabilità che l’autore di reato sia condannato e punito. Ad uno sguardo d’insieme, nell’ottica moderna dell’idea dello scopo i problemi della legittimazione e dei limiti della potestà punitiva, e della concreta conformazione degli istituti penali, si ripropongono in termini ben più complessi che nello schema tutto ideologico della pena retributiva. Più complessi, da un lato, perché legati alla dimensione fattuale dell’efficacia e delle condizioni di efficacia preventiva e repressiva degli istituti penali. Ma più complessi anche sul piano dei valori: una concezione relativa o finalistica delle istituzioni penali sottende un possibile modello di funzionamento delle istituzioni penali, 19 MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, trad. it. Milano, 1999, pp. 231, 233. MONTESQUIEU, op. cit., p. 237. 21 BECCARIA, Dei delitti e delle pene, edizione a cura di Venturi, Torino, 1994, par. XXVII. 20 Teorie della pena 25 nonché un criterio di legittimazione negativa (non accettazione di istituti che non siano razionali rispetto allo scopo); ma non vale affatto a giustificare qualsivoglia strumento penale, in nome della mera idoneità rispetto a un qualsiasi scopo.