13. b) Convenzioni e pratiche del teatro a Roma Il dramma romano dovette quel successo che ebbe non all’arte dello scenografo ma all’abilità del drammaturgo e degli attori. Questa tecnica veniva messa in opera tenendo presenti le convenzioni del teatro antico, convenzioni accettate quasi inconsciamente dall’uditorio contemporaneo, e tuttavia sconcertanti e sorprendenti per il lettore di un’altra epoca e di un altro paese. Qualsiasi tipo di dramma si basa su convenzioni di qualche genere. È assurdo che della gente debba discutere delle proprie questioni più personali davanti a un pubblico che ascolta; tuttavia, senza questa convenzione il dramma sarebbe impossibile. La convenzione permette all’immaginazione di compensare delle deficienze materiali; tuttavia, una certa misura di realismo nell’abbigliamento, nella scenografia e negli oggetti di scena è riuscita spesso utile. Quando ci proviamo ad utilizzare le commedie latine come testimonianze del modo in cui le si metteva in scena, dobbiamo di frequente chiedere a noi stessi se il passo che stiamo considerando è un esempio di convenzione o di realismo. Il fatto che un attore menzioni un qualche oggetto come presente può talora testimoniare che quell’oggetto era effettivamente visibile in scena; in altri casi noi sappiamo che l’oggetto non c’era e non poteva essere mostrato all’occhio, e doveva perciò esser suggerito all’immaginazione da parole e gesti. L’ingresso di un attore con un lume può servire ad indicare che è mattina presto; il lume è reale, l’oscurità è indicata dalle parole e dall’attenzione dell’attore. La convenzione moderna, che permette al nostro pubblico teatrale di vedere l’interno di una casa, avrebbe fatto trasalire i greci e i romani. La loro convenzione di base era del tutto indifferente. Il palcoscenico rappresentava per loro una strada o un qualsiasi altro luogo all’aperto. Tutte le scene, perché potessero essere portate davanti al pubblico, dovevano essere pensate come 1 svolgentisi all’aperto. Nei paesi mediterranei molto di ciò che alla nostra latitudine avverrebbe al chiuso ha luogo all’aperto; ma la ragione vera e sufficiente per cui un banchetto, una scena di toletta o una conversazione riservata venivano messe in scena sulla strada è che altrimenti scene del genere non avrebbero potuto essere rappresentate affatto. […] Le nostre convenzioni teatrali moderne ci permettono di guardare per un po’ all’interno di una casa, che alla fine della scena ci verrà celata da un siparietto. Il palcoscenico antico, che rappresentava la strada all’aperto, era, come la strada, permanentemente in vista. Le commedie plautine sono congegnate in modo da rendere evidente il fatto che nessun tipo di sipario era adoperato o conosciuto. Tutte le commedie cominciano a palcoscenico vuoto; i personaggi entrano dalle loro case o da uno degli ingressi laterali, di norma spiegando, con le loro prime parole, chi sono, da dove vengono e dove stanno andando. Alla fine della commedia si escogita qualche pretesto per far uscire di scena i personaggi, ma prima che escano uno di loro informa il pubblico che la commedia è finita e chiede l’applauso. Non c’è nulla di simile a un quadro iniziale o finale coi personaggi in scena; ed alla fine del dramma il palcoscenico è vuoto e pronto per l’inizio del dramma successivo. Se durante la commedia bisogna portare in scena un qualche oggetto per una scena particolare, lo si porta via poco dopo, dopo essersene serviti, davanti ai nostri occhi. Un esempio notevole di ciò si ha nel Mercator: dopo che il cuoco ha deposto i suoi piatti davanti alla porta e se n’è andato grandemente infastidito, il disgraziato marito deve chiedere alla moglie che le pietanze ormai non più gradite siano portate dentro, osservando goffamente che esse miglioreranno il pasto famigliare (vv. 800-2). L’assenza di un sipario implica l’assenza di una scenografia speciale per ciascuna commedia o scena di commedia. Le scene d’apertura della Rudens ci offrono il quadro di un paesaggio selvatico, ricoperto di rocce, pieno di caverne, infestato da giunchi. Se supponiamo che tali caratteristiche fossero 2 effettivamente rappresentate in scena, abbiamo davanti a noi il dilemma: o esse restavano sul palcoscenico per tutto il resto della commedia (durante il quale vengono completamente ignorate), oppure venivano fisicamente rimosse sotto gli occhi del pubblico mentre la commedia andava avanti. È molto più probabile che i riferimenti all’ambiente naturale fossero rivolti all’immaginazione e che gli sforzi delle due ragazze di trovarsi reciprocamente (vv. 220-43) vengano tanto a lungo frustrati semplicemente perché esse stanno ben attente a non guardare nella direzione giusta. […] Ridotta all’essenziale, la scenografia fissa era formata dal muro liscio sfondo, con le sue tre porte, dalle due ali sporgenti con gli ingressi laterali, dal tetto piatto dell’edificio scenico, e – sul palcoscenico stesso – da un altare. Il tetto è effettivamente adoperato nell’Amphitruo (v. 1008 e framm. IV-VI), e sembrerebbe che vi si accenni nel Miles gloriosus, vv. 156 sgg., e nella Rudens, vv. 85 sgg.; le cinque entrate erano d’uso permanente. Le tre porte sullo sfondo potevano rappresentare una, due o tre case diverse, forse l’ingresso laterale alla destra degli spettatori veniva presupposto conducesse ad una distanza prossima, quello sulla sinistra ad una distanza più remota. Così, se l’azione si svolgeva in città l’ingresso laterale di destra poteva condurre al centro, quello di sinistra alla campagna e al porto. […] Al fine di rendere la trama facilmente comprensibile agli spettatori (e incidentalmente di aiutare gli attori quando provavano la commedia) è consuetudine che ogni entrata in scena venga annunciata prima. Questi annunci , che sono parte del dialogo, servono da istruzioni di scena, ed erano probabilmente intese a «dare il la» all’attore che aspettava di entrare. La consuetudine generale che un attore già in scena annunzi al pubblico che qualcun altro sta per comparire porta ad alcune interessanti conseguenze. Il fatto che un personaggio che sta nella strada, rappresentata dal palcoscenico, possa essere in grado di vedere più lontano, su e giù per la via, di quanto non possano fare gli spettatori, e riesca così a scorgere che qualcuno si sta 3 avvicinando dal centro della città o dal porto prima che quelli lo vedano, è del tutto naturale; ma potrebbe non sembrare altrettanto naturale che egli annunci che qualcuno sta uscendo da una delle porte delle case, che stanno di fronte agli spettatori e dietro le sue spalle. Questa difficoltà è superata facendo scricchiolare la porta che si apre in modo da attrarre l’attenzione dell’attore. Come di complesso della tecnica recitativa, anche quest’espediente è di origine greca. Talora il drammaturgo greco descrive la persona che esce di casa dicendo che «urta» la porta (evidentemente nell’atto di aprirla). Questa espressione, fraintesa nella tarda antichità, ha dato origine all’idea assurda che gli antichi greci battessero alla porta non solo quando volevano entrare, ma anche quando stavano per uscire. Un principio basilare del palcoscenico era che un personaggio vedeva e udiva solo quello che il drammaturgo intendeva che egli vedesse e udisse. Ci è familiare la situazione in cui un personaggio ne spia un altro e ne coglie le parole restando egli stesso (almeno temporaneamente) inosservato. Entrambi gli attori sono in scena, in piena vista del pubblico. Non ci sono sul palcoscenico oggetti fisici dietro i quali chi origlia possa celarsi. Questi di solito si assicura una invisibilità temporanea semplicemente restando in secondo piano sulla scena, ed è sempre soggetto ad essere scoperto non appena l’altro attore si consenta di dare un’occhiata nella direzione giusta. Tutto ciò che è assurdo, forse, ma non più assurdo di quell’altra convenzione del teatro antico, l’«a parte», udibile per migliaia di spettatori, e tuttavia inudibile, o solo parzialmente udibile, per il personaggio che sta a pochi metri da chi parla. Quando riflettiamo sul fatto che tutti gli attori portavano maschere e che gran parte dei loro versi non veniva detta, ma declamata con l’accompagnamento del flautista, ci rendiamo conto che lo stile di recitazione romano deve esser stato molto diverso da quello, naturalistico e conversevole, d’oggigiorno. I nostri attori parlano tra di loro; gli attori romani declamavano rivolti al pubblico. Essi stavano, quando possibile, ben sul proscenio; si mettevano di fronte al pubblico, 4 rivolgevano lo sguardo agli spettatori, puntavano sopra ogni cosa a far giungere le loro parole anche ai posti più lontani. Se un attore entrava da una delle porte delle case, egli normalmente avanzava fino al frontescena, senza guardare né a destra né a sinistra. Ciò consentiva agli altri già in scena di fare qualche passo indietro ed osservarlo. Un personaggio che giungeva da uno degli ingressi laterali si sarà pure lui indirizzato agli spettatori, volgendosi come meglio poteva ad essi mentre si avvicinava al centro del palcoscenico. Così, non sorprende che per un pò egli non si accorga che sulla scena ci sono altri personaggi. Mettersi di fronte al pubblico era assolutamente necessario se si voleva che le proprie parole raggiungessero il fondo dell’ampia platea all’aperto. L’arte dell’attore non sta nel naturalismo o nella mimesi, ma nella pronuncia spiccata, comunicante l’emozione appropriata e sostenuta da un’opportuna mimica. Sembra probabile che l’attore non tentasse di alterare la propria voce a seconda della parte sostenuta, di libero o di schiavo, di uomo o di donna. Allo stesso modo di drammaturgo fa parlare tutti i personaggi con lo stesso tipo di latino. L’arte del gestire, d’altra parte, fu portata anticamente ad un vertice che noi stentiamo a comprendere. Quando cerchiamo d’immaginarci una scena di una commedia romana, dobbiamo rappresentarci gli attori mascherati, i loro gesti, i movimenti sulla scena accuratamente programmati, le voci innalzate nella declamazione ritmica, mentre il flautista saltava dall’uno all’altro (Cicerone, Pro Murena, 26), suonando l’accompagnamento di volta in volta per ognuno. Quando consideriamo quanto dev’esser stata grande la differenza dello stile di recitazione romano rispetto al nostro e quando spesso gli scrittori latini siano a questo proposito fuorvianti, ci rendiamo conto di come sia pericoloso servirci delle nostre proprie nozioni di appropriatezza come guida alla pratica teatrale romana. (da I Romani a teatro, trad. it. di M. De Nonno, Bari, Laterza 1986, pp. 206-212) 5