1_a_Contesti_Convenzioni e pratiche del teatro a

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1.
a) Convenzioni e pratiche del teatro a Roma
Il dramma romano dovette quel successo che ebbe non all’arte dello
scenografo ma all’abilità del drammaturgo e degli attori. Questa tecnica veniva
messa in opera tenendo presenti le convenzioni del teatro antico, convenzioni
accettate
quasi inconsciamente
dall’uditorio
contemporaneo, e
tuttavia
sconcertanti e sorprendenti per il lettore di un’altra epoca e di un altro paese.
Qualsiasi tipo di dramma si basa su convenzioni di qualche genere. È assurdo
che della gente debba discutere delle proprie questioni più personali davanti a
un pubblico che ascolta; tuttavia, senza questa convenzione il dramma sarebbe
impossibile. La convenzione permette all’immaginazione di compensare delle
deficienze materiali; tuttavia, una certa misura di realismo nell’abbigliamento,
nella scenografia e negli oggetti di scena è riuscita spesso utile. Quando ci
proviamo ad utilizzare le commedie latine come testimonianze del modo in cui
le si metteva in scena, dobbiamo di frequente chiedere a noi stessi se il passo
che stiamo considerando è un esempio di convenzione o di realismo. Il fatto
che un attore menzioni un qualche oggetto come presente può talora
testimoniare che quell’oggetto era effettivamente visibile in scena; in altri casi
noi sappiamo che l’oggetto non c’era e non poteva essere mostrato all’occhio, e
doveva perciò esser suggerito all’immaginazione da parole e gesti. L’ingresso di
un attore con un lume può servire ad indicare che è mattina presto; il lume è
reale, l’oscurità è indicata dalle parole e dall’attenzione dell’attore.
La convenzione moderna, che permette al nostro pubblico teatrale di vedere
l’interno di una casa, avrebbe fatto trasalire i greci e i romani. La loro
convenzione di base era del tutto indifferente. Il palcoscenico rappresentava per
loro una strada o un qualsiasi altro luogo all’aperto. Tutte le scene, perché
potessero essere portate davanti al pubblico, dovevano essere pensate come
svolgentisi all’aperto. Nei paesi mediterranei molto di ciò che alla nostra
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latitudine avverrebbe al chiuso ha luogo all’aperto; ma la ragione vera e
sufficiente per cui un banchetto, una scena di toletta o una conversazione
riservata venivano messe in scena sulla strada è che altrimenti scene del
genere non avrebbero potuto essere rappresentate affatto. […]
Le nostre convenzioni teatrali moderne ci permettono di guardare per un po'
all’interno di una casa, che alla fine della scena ci verrà celata da un siparietto.
Il palcoscenico antico, che rappresentava la strada all’aperto, era, come la
strada, permanentemente in vista. Le commedie plautine sono congegnate in
modo da rendere evidente il fatto che nessun tipo di sipario era adoperato o
conosciuto. Tutte le commedie cominciano a palcoscenico vuoto; i personaggi
entrano dalle loro case o da uno degli ingressi laterali, di norma spiegando, con
le loro prime parole, chi sono, da dove vengono e dove stanno andando. Alla
fine della commedia si escogita qualche pretesto per far uscire di scena i
personaggi, ma prima che escano uno di loro informa il pubblico che la
commedia è finita e chiede l’applauso. Non c’è nulla di simile a un quadro
iniziale o finale coi personaggi in scena; ed alla fine del dramma il palcoscenico
è vuoto e pronto per l’inizio del dramma successivo. Se durante la commedia
bisogna portare in scena un qualche oggetto per una scena particolare, lo si
porta via poco dopo, dopo essersene serviti, davanti ai nostri occhi. Un esempio
notevole di ciò si ha nel Mercator: dopo che il cuoco ha deposto i suoi piatti
davanti alla porta e se n’è andato grandemente infastidito, il disgraziato marito
deve chiedere alla moglie che le pietanze ormai non più gradite siano portate
dentro, osservando goffamente che esse miglioreranno il pasto famigliare (vv.
800-2).
L’assenza di un sipario implica l’assenza di una scenografia speciale per
ciascuna commedia o scena di commedia. Le scene d’apertura della Rudens ci
offrono il quadro di un paesaggio selvatico, ricoperto di rocce, pieno di caverne,
infestato
da
giunchi.
Se
supponiamo
che
tali
caratteristiche
fossero
effettivamente rappresentate in scena, abbiamo davanti a noi il dilemma: o esse
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restavano sul palcoscenico per tutto il resto della commedia (durante il quale
vengono completamente ignorate), oppure venivano fisicamente rimosse sotto
gli occhi del pubblico mentre la commedia andava avanti. È molto più probabile
che i riferimenti all’ambiente naturale fossero rivolti all’immaginazione e che gli
sforzi delle due ragazze di trovarsi reciprocamente (vv. 220-43) vengano tanto a
lungo frustrati semplicemente perché esse stanno ben attente a non guardare
nella direzione giusta. […]
Ridotta all’essenziale, la scenografia fissa era formata dal muro liscio sfondo,
con le sue tre porte, dalle due ali sporgenti con gli ingressi laterali, dal tetto
piatto dell’edificio scenico, e – sul palcoscenico stesso – da un altare. Il tetto è
effettivamente
adoperato
nell’Amphitruo
(v.
1008
e
framm.
IV-VI),
e
sembrerebbe che vi si accenni nel Miles gloriosus, vv. 156 sgg., e nella Rudens,
vv. 85 sgg.; le cinque entrate erano d’uso permanente. Le tre porte sullo sfondo
potevano rappresentare una, due o tre case diverse, forse l’ingresso laterale
alla destra degli spettatori veniva presupposto conducesse ad una distanza
prossima, quello sulla sinistra ad una distanza più remota. Così, se l’azione si
svolgeva in città l’ingresso laterale di destra poteva condurre al centro, quello di
sinistra alla campagna e al porto. […]
Al fine di rendere la trama facilmente comprensibile agli spettatori (e
incidentalmente di aiutare gli attori quando provavano la commedia) è
consuetudine che ogni entrata in scena venga annunciata prima. Questi
annunci , che sono parte del dialogo, servono da istruzioni di scena, ed erano
probabilmente intese a «dare il la» all’attore che aspettava di entrare. La
consuetudine generale che un attore già in scena annunzi al pubblico che
qualcun altro sta per comparire porta ad alcune interessanti conseguenze. Il
fatto che un personaggio che sta nella strada, rappresentata dal palcoscenico,
possa essere in grado di vedere più lontano, su e giù per la via, di quanto non
possano fare gli spettatori, e riesca così a scorgere che qualcuno si sta
avvicinando dal centro della città o dal porto prima che quelli lo vedano, è del
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tutto naturale; ma potrebbe non sembrare altrettanto naturale che egli annunci
che qualcuno sta uscendo da una delle porte delle case, che stanno di fronte
agli spettatori e dietro le sue spalle. Questa difficoltà è superata facendo
scricchiolare la porta che si apre in modo da attrarre l’attenzione dell’attore.
Come di complesso della tecnica recitativa, anche quest’espediente è di origine
greca. Talora il drammaturgo greco descrive la persona che esce di casa
dicendo che «urta» la porta (evidentemente nell’atto di aprirla). Questa
espressione, fraintesa nella tarda antichità, ha dato origine all’idea assurda che
gli antichi greci battessero alla porta non solo quando volevano entrare, ma
anche quando stavano per uscire.
Un principio basilare del palcoscenico era che un personaggio vedeva e udiva
solo quello che il drammaturgo intendeva che egli vedesse e udisse. Ci è
familiare la situazione in cui un personaggio ne spia un altro e ne coglie le
parole restando egli stesso (almeno temporaneamente) inosservato. Entrambi
gli attori sono in scena, in piena vista del pubblico. Non ci sono sul palcoscenico
oggetti fisici dietro i quali chi origlia possa celarsi. Questi di solito si assicura
una invisibilità temporanea semplicemente restando in secondo piano sulla
scena, ed è sempre soggetto ad essere scoperto non appena l’altro attore si
consenta di dare un’occhiata nella direzione giusta. Tutto ciò che è assurdo,
forse, ma non più assurdo di quell’altra convenzione del teatro antico, l’«a
parte», udibile per migliaia di spettatori, e tuttavia inudibile, o solo parzialmente
udibile, per il personaggio che sta a pochi metri da chi parla.
Quando riflettiamo sul fatto che tutti gli attori portavano maschere e che gran
parte dei loro versi non veniva detta, ma declamata con l’accompagnamento del
flautista, ci rendiamo conto che lo stile di recitazione romano deve esser stato
molto diverso da quello, naturalistico e conversevole, d’oggigiorno. I nostri attori
parlano tra di loro; gli attori romani declamavano rivolti al pubblico. Essi
stavano, quando possibile, ben sul proscenio; si mettevano di fronte al pubblico,
rivolgevano lo sguardo agli spettatori, puntavano sopra ogni cosa a far giungere
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le loro parole anche ai posti più lontani. Se un attore entrava da una delle porte
delle case, egli normalmente avanzava fino al frontescena, senza guardare né
a destra né a sinistra. Ciò consentiva agli altri già in scena di fare qualche
passo indietro ed osservarlo. Un personaggio che giungeva da uno degli
ingressi laterali si sarà pure lui indirizzato agli spettatori, volgendosi come
meglio poteva ad essi mentre si avvicinava al centro del palcoscenico. Così,
non sorprende che per un po’ egli non si accorga che sulla scena ci sono altri
personaggi. Mettersi di fronte al pubblico era assolutamente necessario se si
voleva che le proprie parole raggiungessero il fondo dell’ampia platea all’aperto.
L’arte dell’attore non sta nel naturalismo o nella mimesi, ma nella pronuncia
spiccata, comunicante l’emozione appropriata e sostenuta da un’opportuna
mimica. Sembra probabile che l’attore non tentasse di alterare la propria voce a
seconda della parte sostenuta, di libero o di schiavo, di uomo o di donna. Allo
stesso modo di drammaturgo fa parlare tutti i personaggi con lo stesso tipo di
latino. L’arte del gestire, d’altra parte, fu portata anticamente ad un vertice che
noi stentiamo a comprendere. Quando cerchiamo d’immaginarci una scena di
una commedia romana, dobbiamo rappresentarci gli attori mascherati, i loro
gesti, i movimenti sulla scena accuratamente programmati, le voci innalzate
nella declamazione ritmica, mentre il flautista saltava dall’uno all’altro (Cicerone,
Pro Murena, 26), suonando l’accompagnamento di volta in volta per ognuno.
Quando consideriamo quanto dev’esser stata grande la differenza dello stile di
recitazione romano rispetto al nostro e quando spesso gli scrittori latini siano a
questo proposito fuorvianti, ci rendiamo conto di come sia pericoloso servirci
delle nostre proprie nozioni di appropriatezza come guida alla pratica teatrale
romana.
(da I Romani a teatro, trad. it. di M. De Nonno, Bari, Laterza 1986, pp. 206-212)
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