03 Consoli (20-27) - Giornale Italiano di Cardiologia

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Trattamento farmacologico del diabete mellito
di tipo 2 e rischio cardiovascolare:
cosa è possibile capire dai trial?
Agostino Consoli, Fabrizio Febo
Dipartimento di Medicina Interna e Scienze dell’Invecchiamento e Centro Scienze dell’Invecchiamento e Medicina Traslazionale,
Università degli Studi “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara
Diabetes treatment should include drugs with absolutely no adverse effects toward cardiovascular risk.
Indeed, it would be advisable to use drugs with intrinsic protective effect against the risk of cardiovascular
events. Intervention trials aiming at demonstrating a protective cardiovascular effect of very tight glucose
control have produced controversial results. It is commonly perceived, however, that early intervention
with safe treatment strategies is likely to be beneficial. In regard to safety, in the attempt to firmly establish
cardiovascular safety of new drugs for diabetes, Government Authorities have mandated that cardiovascular safety trials need to be performed for all new drugs registered for diabetes treatment. Several of
such trials have already been performed and their results are available. These results support the cardiovascular safety of three dipeptidyl peptidase-4 inhibitors (sitagliptin, saxagliptin and alogliptin) and of a
glucagon-like peptide-1 receptor agonist (GLP-1RA) (lixisenatide). These results, however, also document a
plausible protective effect against cardiovascular risk associated with the use of a SGLT2 inhibitor (empagliflozin) and of two GLP-1RAs (liraglutide and semaglutide). Differences and similarities among the results
of these cardiovascular safety trials as well as their potential implications will be discussed in this article.
Key words. Cardiovascular outcome trials; Cardiovascular risk; Diabetes mellitus; Dipeptidyl peptidase-4
inhibitors; GLP-1 receptor agonists; Liraglutide; SGLT2 inhibitors.
G Ital Cardiol 2016;17(12 Suppl 2):20S-27S
INTRODUZIONE
La causa più importante di morbilità e mortalità nel diabete
mellito di tipo 2 (DM2) è sicuramente rappresentata dalle malattie cardiovascolari (CV)1. Il trattamento ottimale della patologia deve quindi includere strategie che siano in grado di abbattere il rischio CV. Il DM2 è una malattia caratterizzata dalla
presenza di iperglicemia, ed esiste un consolidato consenso
sul fatto che livelli eccessivi di glicemia possano, attraverso
una serie di plausibili meccanismi molecolari, innescare danno
vascolare o accelerarne la progressione2. Se, tuttavia, certamente esiste una relazione tra livelli di iperglicemia e complicanze non solo micro-, ma anche macrovascolari, meno certo
© 2016 Il Pensiero Scientifico Editore
Il prof. Consoli ha ricevuto finanziamenti per progetti di ricerca da Eli
Lilly e Novo Nordisk Farmaceutici. Ha inoltre ricevuto compensi per
consulenza scientifica (Advisory Board nazionali ed internazionali,
progetti educazionali, ecc.) e/o relazioni da AstraZeneca, Boehringer
Ingelheim, Bristol-Myers Squibb, Bruni Farmaceutici, Eli Lilly,
GlaxoSmithKline, Merck Pharma, Merck Sharp & Dohme, Novartis,
Novo Nordisk, Sanofi-Aventis, Sigma-Tau, Takeda. Il dr. Febo dichiara
nessun conflitto di interessi.
La pubblicazione di questo articolo è stata realizzata con la
collaborazione di Airon Communication e supportata da un contributo
non condizionante di Novo Nordisk.
Per la corrispondenza:
Prof. Agostino Consoli Dipartimento di Medicina Interna e
Scienze dell’Invecchiamento e Centro Scienze dell’Invecchiamento e
Medicina Traslazionale, Edificio CeSI, stanza 315, Campus Università
degli Studi “G. d’Annunzio”, Via L. Polacchi 13, 66100 Chieti Scalo
e-mail: [email protected]
20S
G ITAL CARDIOL | VOL 17 | SUPPL 2 AL N 12 2016
è l’assunto che nei soggetti diabetici ridurre la glicemia a livelli simili a quelli osservati nei non diabetici possa tradursi in
una consistente riduzione del rischio CV. Ancora meno noto
è se diverse strategie farmacologiche adoperate per ridurre
la glicemia possano avere un diverso impatto sul rischio CV,
potendo essere alcune di esse potenzialmente associate ad un
aumento del rischio (in grado anche di annullare o sovvertire
l’eventuale effetto protettivo della riduzione della glicemia)
ed altre magari ad un diretto impatto positivo sulla salute della parete vascolare che potrebbe essere in grado di ridurre il
rischio al di là del possibile effetto benefico della riduzione
della glicemia.
Per quello che riguarda il primo quesito (ovvero: “ridurre
la glicemia riduce il rischio CV nel diabete?”) diversi studi
di intervento sono stati intrapresi e pubblicati, che possono essere definiti “cardiovascular outcome trial” (CVOT) di
efficacia e che hanno comunque, fino ad ora, dato risultati
in parte contrastanti e che saranno rapidamente appresso
riassunti. Per quello che riguarda il secondo quesito, invece, (ovvero: “Le diverse strategie farmacologiche usate per
contrastare l’iperglicemia hanno effetti indipendenti dalla
glicemia sul rischio CV?”) la principale attenzione è stata
puntata sulla necessità di escludere che farmaci anti-diabete potessero essere associati ad un aumento del rischio CV,
essendo l’abbattimento del rischio CV uno dei principali, se
non il principale, obiettivo terapeutico del diabete. Di conseguenza è diventato imperativo, grazie anche al forte impegno su questo delle Agenzie Regolatorie, che la sicurezza
CV dei farmaci per la cura del diabete fosse dimostrata in
Farmaci anti-diabete e rischio cardiovascolare
maniera incontrovertibile attraverso trial clinici. Per questo,
sono stati intrapresi, per quasi ogni nuova molecola registrata o in corso di registrazione per la terapia del diabete, CVOT
di sicurezza. Essendo l’obiettivo di questi trial dimostrare la
sicurezza CV di un farmaco e non l’eventuale efficacia nel
prevenire eventi, essi hanno un disegno sperimentale diverso dai trial di efficacia, che ne condiziona, ovviamente, anche l’interpretazione dei risultati. Alcuni di questi CVOT di
sicurezza sono già stati conclusi e pubblicati ed i risultati di
essi saranno discussi in questo articolo.
“CARDIOVASCULAR OUTCOME TRIAL” DI EFFICACIA
Il prototipo dei CVOT di efficacia nel DM2 è ovviamente lo
studio UKPDS3. Come è noto, lo UKPDS è un ampio e prolungato studio clinico (condotto tra il 1977 e il 1997 con un’ulteriore estensione di 10 anni dalla fine dello studio pubblicata
nel 2007) randomizzato, multicentrico e controllato, nel quale
3867 pazienti con neo-diagnosi di DM2 venivano randomizzati ad un trattamento intensivo (target di emoglobina glicata
[HbA1c] del 7%) oppure ad un trattamento convenzionale (secondo gli “standard of care” di allora, in generale molto più
permissivi relativamente al controllo glicemico). Alla fine dei
10 anni di follow-up, nel gruppo assegnato al trattamento
intensivo si registrava un significativa riduzione del 25% del
rischio di sviluppare una complicanza microvascolare, mentre, seppure un trend venisse registrato relativamente ad una
riduzione del rischio di infarto del miocardio, questo, seppur
di poco, non raggiungeva la significatività statistica4. Tuttavia,
dopo un follow-up di ulteriori 10 anni dalla fine dello studio5,
nonostante la glicemia media dei due gruppi (trattamento
convenzionale e trattamento intensivo) fosse diventata sostanzialmente la stessa, il gruppo “intensivo” manteneva una
riduzione del rischio di complicanze microvascolari e mostrava
un’emergente significativa riduzione di circa il 15% del rischio
di infarto del miocardio (p=0.014) e della mortalità per tutte
le cause (p=0.007).
Lo studio UKPDS era condotto su pazienti con durata di
malattia relativamente breve e per la gran parte in prevenzione primaria relativamente al rischio CV. Questo rende ragione
della numerosità relativamente bassa degli eventi verificatisi
nel corso del trial e della necessità, ai fini della dimostrazione di una convincente significatività statistica, di una durata
quasi ventennale del follow-up. I successivi grandi trial di intervento pubblicati verso la fine della prima decade di questo
secolo (ACCORD6, ADVANCE 7 e VADT8) e condotti con l’intento di dimostrare in maniera sistematica l’impatto di uno
stretto controllo glicemico sul rischio CV, per poter analizzare
un sufficiente numero di eventi in un tempo relativamente
breve, prendevano invece come popolazione di studio soggetti diabetici di tipo 2 con altissimo rischio CV (oltre il 40%
dei soggetti arruolati era in prevenzione secondaria, avendo
già avuto un evento CV) con diabete diagnosticato ormai da
diversi anni (la durata media di malattia era intorno ai 10 anni)
e con un importante grado di scompenso metabolico (HbA1c
media intorno ad 8%). Gli studi citati non riuscivano a dimostrare in maniera convincente un effetto positivo del controllo
glicemico intensivo sull’outcome primario degli studi (un endpoint composito costituito da morte CV, infarto del miocardio non fatale ed ictus non fatale, che diventerà l’endpoint
standard di tutti o quasi i trial successivi). Al contrario, lo studio ACCORD, nel quale per protocollo i pazienti dovevano
essere “spinti” a raggiungere una HbA1c ≤6%, veniva interrotto anticipatamente perché il Data Monitoring Committee
registrava un inspiegabile aumento delle morti per tutte le
cause e delle morti per causa CV nel gruppo in trattamento
intensivo6. Occorre tuttavia notare che: (a) nello stesso studio
ACCORD la sottoanalisi relativa all’endpoint primario faceva
osservare una significativa riduzione del rischio associata al
trattamento intensivo nel gruppo di pazienti in prevenzione
primaria, nel gruppo di pazienti con minore durata di malattia e nel gruppo di pazienti con HbA1c al basale <8%9 e (b)
nell’estensione dello studio VADT10, nel gruppo in trattamento intensivo, nel quale non si era dimostrata una significativa
riduzione del rischio CV ad un follow-up di 5.6 anni, dopo un
follow-up di 9.8 anni si osservava una significativa riduzione
del 17% del rischio di incorrere nell’endpoint composito primario costituito da infarto del miocardio, ictus, insorgenza
o peggioramento di insufficienza cardiaca, amputazione per
gangrena ischemica o morte da cause CV.
Occorre inoltre considerare che negli studi citati il trattamento intensivo includeva molto spesso insulina e/o sulfaniluree: gli schemi di trattamento erano talmente numerosi da
rendere impossibile una sottoanalisi per trattamento, ma il
dubbio resta che alcuni degli schemi terapeutici implementati
per ottenere un controllo molto stretto in un tempo relativamente breve possano essere stati di detrimento anziché di
vantaggio in pazienti con così lunga durata di malattia, così
severo scompenso iniziale e così alto rischio CV.
A questo proposito è utile ricordare che due tra i pochissimi studi di efficacia condotti con uno specifico trattamento
anti-diabete (in questo caso il pioglitazone) hanno prodotto
dati fortemente interessanti, ancorché forse non adeguatamente attenzionati dalla comunità scientifica. Lo studio PROactive, pubblicato ormai più di 10 anni fa, dimostrava infatti
una significativa riduzione del 16% di un endpoint composito
costituito da morte per cause CV, infarto del miocardio ed
ictus in soggetti affetti da DM2 ad alto rischio CV trattati con
pioglitazone vs placebo11. È vero che contemporaneamente
si osservava un aumento del rischio di ospedalizzazione per
insufficienza cardiaca, ma è altrettanto vero che nello stesso studio, nei pazienti con pregresso infarto del miocardio,
essere randomizzati al braccio con pioglitazone risultava in
una significativa riduzione del 28% del rischio di infarto del
miocardio e del 37% del rischio di sindrome coronarica acuta
e nei pazienti con pregresso ictus risultava in oltre il 40% di
riduzione del rischio di nuovo ictus11. Proprio a proposito di
ictus e pioglitazone, lo studio IRIS, recentemente pubblicato e condotto su pazienti insulino-resistenti ma non diabetici
che avevano avuto un precedente ictus, ha documentato una
riduzione del 24% del rischio di avere un nuovo ictus nei pazienti randomizzati a pioglitazone vs placebo12.
Gli studi citati condotti con il pioglitazone sottolineano ulteriormente il concetto che probabilmente non è indifferente
la strategia terapeutica con la quale si raggiunge un miglior
controllo glicemico ai fini della riduzione del rischio CV nel
DM2. Ad ogni buon conto, una analisi condotta da un panel di esperti dell’American Diabetes Association sui risultati
dei maggiori studi di efficacia relativi agli effetti del controllo
glicemico intensivo sul rischio CV nel DM2 concludeva che,
sulla scorta di essi, l’abbassamento dell’HbA1c (valori vicini al
7%) riduce sì le complicanze microvascolari e la neuropatia
nei pazienti diabetici, ma non esiste ancora evidenza definitiva che il controllo glicemico intensivo apporti miglioramenti
G ITAL CARDIOL | VOL 17 | SUPPL 2 AL N 12 2016
21S
A Consoli, F Febo
sugli outcome CV in soggetti che presentino già malattia CV.
Il follow-up a lungo termine dello UKPDS suggerisce tuttavia
un target di HbA1c intorno al 7%, o anche al di sotto di questo
limite, in pazienti selezionati, come diabetici da breve tempo,
con lunga aspettativa di vita e senza malattie CV. Un controllo
meno intensivo potrebbe essere più appropriato in coloro che
hanno un diabete di lunga durata, una storia di ipoglicemie
severe, ridotta aspettativa di vita, presenza di complicanze micro- o macrovascolari, oppure importanti comorbilità.
“CARDIOVASCULAR OUTCOME TRIAL” DI SICUREZZA
Come sottolineato in precedenza, è verosimile che la strategia
terapeutica implementata per ottenere un controllo glicemico accettabile non sia “neutrale” rispetto agli outcome CV.
Ma, soprattutto, in particolare dopo le polemiche scatenate
a torto o a ragione dall’“affaire rosiglitazone”13, è imperativo
che i farmaci impiegati per trattare il diabete siano assolutamente “sicuri” da un punto di vista CV. I trial registrativi che
devono essere eseguiti per ogni nuova molecola proposta per
l’impiego clinico nel diabete nella maggior parte dei casi non
possono fornire informazioni adeguate circa la sicurezza CV
del farmaco in questione. Questo deriva fondamentalmente
dal fatto che (a) gli studi registrativi prevedono in genere un
follow-up di 24-26 settimane o al massimo di 1 anno e (b)
essi vengono svolti su una popolazione di diabetici a rischio
non elevatissimo. Il numero di eventi CV che si verificherà nel
corso di questi trial sarà quindi quasi certamente troppo basso
per consentire un’adeguata inferenza statistica relativamente
ai loro effetti CV. Questo è il motivo per cui le Agenzie Regolatorie impongono alle Aziende che hanno intenzione di immettere su mercato nuovi farmaci per il diabete la conduzione
di trial clinici randomizzati con sufficiente potenza statistica
da poter comprovare la sicurezza CV dei farmaci in questione. Questo ha portato ad una proliferazione di CVOT mirati
a testare la sicurezza CV di farmaci per il diabete, con uno
sforzo titanico che vede oggi reclutati oltre 130 000 pazienti
in questo tipo di trial e che vede coinvolte oltre 150 nazioni
distribuite nei 5 continenti. Il disegno di questi studi è sostanzialmente simile ed implica il reclutamento di pazienti affetti
da DM2 con alto o altissimo rischio CV (in genere una percentuale tra il 65% e l’85% ha già avuto un evento CV maggiore
o, come nel caso degli studi ELIXA14 o EXAMINE15 dovevano
aver avuto una sindrome coronarica acuta nei 180 giorni precedenti l’arruolamento) che vengono randomizzati ad essere
esposti a trattamento con il farmaco di interesse o placebo
in aggiunta alla terapia attuale per il diabete. Quest’ultima
deve essere successivamente titolata, così che auspicabilmen-
te venga raggiunto l’equipoise, ovvero un controllo glicemico
sovrapponibile tra i gruppi, ancorché in un gruppo venga aggiunto un farmaco attivo sulla glicemia. L’obiettivo di questi
studi è quello di dimostrare la non inferiorità del farmaco in
oggetto rispetto al placebo relativamente ad un endpoint CV
composito costituito classicamente da morte per cause CV,
infarto del miocardio non fatale ed ictus non fatale. Successivamente, una serie di endpoint secondari vengono presi in
considerazione, che includono generalmente un composito
esteso che comprende in genere anche ospedalizzazione per
angina instabile e/o rivascolarizzazione e/o ospedalizzazione
per insufficienza cardiaca, oltre all’analisi dei singoli endpoint
che compongono l’endpoint primario e/o l’endpoint primario
esteso. Ovviamente, anche se la potenza statistica degli studi è calcolata sulla possibilità di dimostrare la non inferiorità
vs placebo, in alcuni tra gli studi pubblicati è stata condotta
anche una analisi di superiorità vs placebo, prespecificata o
meno, relativamente all’endpoint primario e ai diversi endpoint secondari.
Relativamente ai CVOT di sicurezza, sono stati ad oggi
pubblicati tre studi condotti con inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (DPP4), uno studio con un inibitore del cotrasportatore
renale di sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2) e tre studi con agonisti recettoriali del glucagon-like peptide-1 (GLP-1RA). Questi
saranno discussi in maggior dettaglio.
Gli studi TECOS16, SAVOR-TIMI 5317 ed EXAMINE15 hanno
testato rispettivamente la sicurezza CV di sitaliptin, saxagliptin
ed alogliptin. La popolazione testata aveva negli studi TECOS
e SAVOR-TIMI 53 caratteristiche sovrapponibili e constava di
pazienti con DM2 che nella maggioranza dei casi avevano già
avuto un evento CV. Una minoranza dei soggetti in entrambi gli studi era invece in prevenzione primaria ma presentava
comunque un alto rischio CV. I circa 5000 pazienti arruolati
nello studio EXAMINE, invece, presentavano un rischio CV
ancora maggiore, essendo necessario per protocollo che
avessero avuto, per essere arruolati, un episodio di sindrome
coronarica acuta nei 180 giorni precedenti l’arruolamento. I
risultati di questi studi, con un hazard ratio (HR) relativamente
all’endpoint primario (composito di morte CV, infarto miocardico non fatale ed ictus non fatale) molto vicino per tutti
all’unità e con intervalli di confidenza che comprendono ampiamente l’unità (Tabella 1), confermano la sostanziale non
inferiorità della terapia con questi farmaci relativamente al
placebo nei confronti del rischio CV. Tuttavia, all’analisi degli
endpoint secondari, mentre nello studio TECOS anche l’HR
relativamente all’ospedalizzazione per scompenso cardiaco
era esattamente 1.00 (intervallo di confidenza [IC] 95% 0.831.20), nello studio SAVOR-TIMI 53 si osservava, nel braccio
trattato con il farmaco attivo, un aumento delle ospedalizza-
Tabella 1. Studi con inibitori della dipeptidil peptidasi 4 vs placebo (TECOS, SAVOR-TIMI 53 ed EXAMINE): prevalenza dell’endpoint primario
(MACE a 3 o 4 punti).
Studio
% MACE
TECOS
a
SAVOR-TIMI 53
EXAMINEb
b
HR
IC 95%
p
Sitagliptin: 11.4%, placebo: 11.6%
0.98
0.88-1.00
<0.001
Saxagliptin: 7.3%, placebo: 7.2%
1.00
0.89-1.12
<0.001
Alogliptin: 11.3%, placebo: 11.8%
0.96
1.16c
<0.001
HR, hazard ratio; IC, intervallo di confidenza; MACE, eventi cardiaci avversi maggiori.
a
endpoint primario: MACE-4 (morte cardiovascolare, infarto non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per angina instabile).
b
endpoint primario: MACE-3 (morte cardiovascolare, infarto non fatale, ictus non fatale).
c
limite superiore dell’IC unilaterale ripetuto.
22S
G ITAL CARDIOL | VOL 17 | SUPPL 2 AL N 12 2016
Farmaci anti-diabete e rischio cardiovascolare
zioni per scompenso cardiaco con un trend che raggiungeva
la significatività statistica (HR 1.27; IC 95% 1.07-1.51). Un
segnale nella stessa direzione si osservava anche nello studio
EXAMINE, nel quale però la significatività statistica, sul campione complessivo, non veniva raggiunta (HR 1.19; IC 95%
0.89-1.58). Quale sia il reale significato clinico di questi dati
è ancora intensamente dibattuto e anche l’ipotesi che possa trattarsi di un “play of chance” non può essere ad oggi
dismessa. È opportuno anche sottolineare che in tutti e tre
gli studi in questione, probabilmente in virtù dell’azione ipoglicemizzante del farmaco attivo, la HbA1c risultava inferiore
di circa 0.3 punti percentuali nei bracci in trattamento attivo.
Nei lavori che descrivono gli studi TECOS e SAVOR-TIMI 53
viene espressamente riportato che nei gruppi in trattamento
con placebo la terapia di base per il diabete veniva più spesso
potenziata e in un maggior numero di pazienti veniva iniziata
o intensificata la terapia insulinica.
I risultati degli studi TECOS, SAVOR-TIMI 53 ed EXAMINE rassicuravano sostanzialmente circa la sicurezza CV delle
molecole in esame (assolvevano cioè lo scopo per il quale erano stati disegnati) ma lasciavano una sorta di “delusione” in
quanti avevano ipotizzato, sulla base dei dati incoraggianti
ottenuti in studi pre-clinici, che, nonostante il disegno sperimentale che a questo poco si prestava, detti studi potessero
indicare un vantaggio nell’uso di queste molecole relativamente al rischio CV.
Una prospettiva per certi aspetti diversa viene aperta invece dallo studio EMPA-REG Outcome il primo (e fino ad ora l’unico) CVOT di sicurezza condotto con un inibitore di SGLT218.
In questo studio circa 7020 pazienti con DM2 e malattia CV
già diagnosticata sono stati randomizzati a ricevere, in rapporto 1:1:1, due diverse dosi di empagliflozin o placebo in
aggiunta alla loro terapia per il diabete. In questo caso, alla
fine di un follow-up medio di 3.1 anni, l’HR per l’outcome
primario (di nuovo, un composito di morte per cause CV, infarto non fatale ed ictus non fatale) risultava significativamente inferiore all’unità (HR 0.86, IC 95% 0.74-0.99, p=0.0001
per non inferiorità, p=0.04 per superiorità) e si traduceva in
una significativa riduzione del 16% del rischio, relativamente
all’outcome primario. Almeno due cose può essere interessante notare rispetto ai risultati dello studio EMPA-REG OUT
COME (oltre alla considerazione che, dopo lo studio di efficacia PROactive, EMPA-REG OUTCOME era il primo studio
nel quale si osservava una significativa riduzione del rischio
CV associata ad uno specifico trattamento anti-diabete). La
prima è che la separazione delle curve di Kaplan-Meier relative all’outcome primario a vantaggio del gruppo trattato con
empagliflozin avveniva molto presto nel corso del trattamen-
to, dopo appena 3 mesi di terapia. La seconda è che i risultati
relativi all’outcome primario appaiono largamente trascinati
da un imponente effetto sulle morti per causa CV. All’analisi
dei singoli componenti dell’outcome primario, infatti, l’HR per
morte da causa CV è 0.62 (IC 95% 0.49-0.77, p<0.001), corrispondente quindi ad una significativa e per certi versi stupefacente riduzione del rischio del 38%. A questo, tuttavia, corrisponde una “point estimate” dell’HR per il rischio di infarto
del miocardio che è ancora inferiore all’unità, ma i cui limiti
di confidenza comprendono l’unità, con il dato che quindi
non raggiunge una significatività statistica (HR 0.87; IC 95%
0.70-1.09, p=0.219 per superiorità) ed una “point estimate”
dell’HR per il rischio di ictus di ben 1.24, che suggerirebbe un
trend verso un aumento del rischio, seppure anche in questo
caso non significativo (IC 95% 0.92-1.67, p=0.164). Tuttavia,
un altro dato importante che si evince dallo studio EMPA-REG
OUTCOME è quello relativo alle ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca. Anche in questo caso il trattamento con
empagliflozin risulta associato ad una drastica e significativa
riduzione del rischio del 35% (HR 0.65, IC 95% 0.50-0.85,
p<0.002). Anche in questo caso le curve di Kaplan-Meier relative ai due gruppi si divaricano molto precocemente nel corso
del trial. Questo, insieme alla modalità d’azione del farmaco
che si comporta, per certi versi, come un diuretico osmotico
molto particolare, può indurre a pensare (ma si tratta, ovviamente, di pura speculazione) che modulazioni emodinamiche
indotte dal farmaco possano fare parte dei meccanismi attraverso i quali si realizza l’importante riduzione delle morti da
causa CV e delle ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca
osservate nel trial. È opportuno osservare infine che anche
in questo trial la HbA1c risultava significativamente, anche se
modestamente, più bassa nel gruppo in trattamento attivo,
con una differenza vs placebo che raggiungeva i 0.45 punti
percentuali di HbA1c ad 1 anno di follow-up e si attestava sui
0.30 punti percentuali di HbA1c (media tra i due bracci con 10
e 25 mg di empagliflozin) alla fine di esso.
Oltre ai dati relativi a trial condotti con due classi di farmaci per il diabete di uso orale, sono ad oggi disponibili i
dati di tre CVOT di sicurezza condotti con farmaci iniettabili,
ovvero con GLP-1RA. Questi sono lo studio ELIXA14 (che ha
testato la sicurezza CV di lixisenatide), lo studio LEADER19 (che
ha testato liraglutide) e lo studio SUSTAIN-620 (che ha testato
semaglutide, un nuovo GLP-1RA ad azione prolungata ancora in fase di registrazione). Gli HR osservati nei diversi studi
relativamente all’endpoint composito primario sono riportati
in Tabella 2.
Relativamente allo studio ELIXA, in esso sono stati arruolati 6068 pazienti diabetici che avevano avuto nei 6 mesi
Tabella 2. Studi con agonisti recettoriali del glucagon-like peptide-1 vs placebo (ELIXA, LEADER e SUSTAIN-6): prevalenza dell’endpoint primario
(MACE a 3 o 4 punti).
Studio
% MACE
HR
IC 95%
pc
ELIXAa
LEADERb
Lixisenatide: 13.4%, placebo: 13.2%
1.02
0.89-1.17
<0.001
NS
Liraglutide: 13.0%, placebo: 14.9%
0.87
0.78-0.97
<0.001
0.01
SUSTAIN-6b
Semaglutide: 6.6%, placebo: 8.9%
0.74
0.58-0.95
<0.001
0.02
pd
HR, hazard ratio; IC, intervallo di confidenza; MACE, eventi cardiaci avversi maggiori.
endpoint primario: MACE-4 (morte cardiovascolare, infarto non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per angina instabile).
endpoint primario: MACE-3 (morte cardiovascolare, infarto non fatale, ictus non fatale).
c
significatività statistica per non inferiorità.
d
significatività statistica per superiorità.
a
b
G ITAL CARDIOL | VOL 17 | SUPPL 2 AL N 12 2016
23S
A Consoli, F Febo
precedenti all’arruolamento almeno un episodio di sindrome
coronarica acuta e che sono stati successivamente trattati, per
una mediana di 2.1 anni, con il GLP-1RA lixisenatide o placebo in monosomministrazione giornaliera in aggiunta alla terapia background. Relativamente agli altri CVOT di sicurezza,
lo studio ELIXA differisce non solo per la popolazione studiata
(soggetti con recente episodio di sindrome coronarica acuta) ma anche per l’endpoint composito primario che, invece
di essere il classico MACE-3, era il MACE-4, comprendente,
oltre a morte per causa CV, infarto non fatale ed ictus non
fatale, anche l’ospedalizzazione per angina instabile. Tra gli
endpoint secondari era annoverata anche l’ospedalizzazione
per scompenso cardiaco. Relativamente all’endpoint primario
su 4 punti, l’HR risultava di 1.02 (IC 95% 0.89-1.17), confermando la sostanziale sicurezza CV di lixisenatide. Questa
sicurezza era estesa anche all’ospedalizzazione per scompenso cardiaco, per la quale l’HR è risultato di 0.96 (IC 95%
0.75-1.23). Anche in questo studio il compenso glicemico del
gruppo in trattamento attivo risultava leggermente migliore,
con la HbA1c che raggiungeva una differenza rispetto al placebo di -0.4 punti percentuali a 12 settimane di trattamento
per risalire poi leggermente durante lo studio, così che nel
complesso, nel corso dei 25 mesi di follow-up medio, la HbA1c
risultava inferiore in media nel gruppo in trattamento attivo di
0.27 punti percentuali. Nessuna differenza si registrava invece
tra i due gruppi nella frequenza di ipoglicemia.
Se nello studio ELIXA un numero sostanzialmente comparabile di eventi veniva raggiunto nel braccio in trattamento
attivo e nel braccio di controllo, nello studio LEADER e nello
studio SUSTAIN-6 un numero significativamente inferiore di
eventi si registrava nel braccio in trattamento attivo.
Nello studio LEADER venivano arruolati oltre 9000 soggetti con DM2 a rischio CV molto alto. Alla fine del reclutamento, dei soggetti inclusi nello studio circa l’80% aveva una età
>50 anni ed aveva già avuto o un evento CV maggiore o una
procedura di vascolarizzazione, mentre circa il 20% aveva una
età >60 anni che, pur non avendo ancora avuto un evento
CV maggiore, presentava uno o più fattori maggiori di rischio
CV. In un follow-up medio di 3.8 anni, l’endpoint primario
(sempre un MACE-3 composto di morte CV, infarto non fatale
ed ictus non fatale) si presentava in meno pazienti nel braccio
liraglutide (608/4668 soggetti, 13.0%) rispetto al braccio placebo (694/4672 soggetti, 14.9%) per un HR di 0.87 (IC 95%
0.78-0.97) che raggiungeva la significatività statistica sia per
la non inferiorità (p<0.001) che per la superiorità (p=0.01). La
riduzione del rischio (13%) era sorprendentemente (e probabilmente casualmente) simile a quella osservata nello studio
EMPA-REG OUTCOME ed anche in questo caso, come nello studio EMPA-REG OUTCOME, era la riduzione delle morti
per causa CV a pesare maggiormente in questa riduzione.
Si osservavano infatti significativamente meno morti per
causa vascolare nel gruppo liraglutide (219 soggetti, pari al
4.7%) che nel gruppo placebo (278 soggetti, pari al 6.0%).
Tuttavia, in questo caso, le curve di Kaplan-Meier relative
all’endpoint composito primario tendevano a divaricarsi più
tardivamente (rispetto a quanto osservato nello studio EMPA-REG OUTCOME) nel corso del follow-up e l’HR relativo
ad entrambe le altre due componenti dell’endpoint primario
(infarto miocardico non fatale ed ictus non fatale, HR 0.86,
IC 95% 0.73‑1.00 e HR 0.86, IC 95% 0.71‑1.06, rispettivamente), pur non raggiungendo la fatidica significatività statistica, mostrava un deciso trend verso una riduzione del rischio
24S
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associata al trattamento con liraglutide. Un simile trend, che
non raggiungeva la significatività statistica, si osservava pure
relativamente alle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco.
Nello studio LEADER venivano monitorate anche le complicanze microvascolari, e segnatamente l’occorrenza o il peggioramento di nefropatia e l’occorrenza o il peggioramento di
retinopatia diabetica, mentre riguardo alla nefropatia si osservava una significativa riduzione associata al trattamento con
liraglutide; per quello che riguarda la retinopatia si osservava
un modesto trend (HR 1.15, IC 95% 0.87-1.52, p=NS) verso
un peggioramento di questa complicanza nei soggetti esposti
al trattamento con il GLP-1RA. Anche nello studio LEADER i
due gruppi di trattamento finiscono comunque col presentare
delle differenze relativamente al livello di controllo glicemico,
con il gruppo in trattamento attivo nel quale si osservava in
media un valore di HbA1c inferiore di 0.40 punti percentuali
rispetto al gruppo di controllo. Questo nonostante la terapia
con altri agenti anti-diabete venisse intensificata molto più
nel gruppo di controllo che in quello in trattamento con liraglutide, come testimoniato anche dal fatto che il numero di
episodi di ipoglicemia risultava significativamente maggiore
nel gruppo di controllo.
Nella stessa direzione generale dei risultati dello studio LEADER vanno i risultati dello studio SUSTAIN-6. La particolarità
dello studio SUSTAIN-6 rispetto agli altri CVOT di sicurezza è
che lo studio viene progettato ed iniziato mentre il farmaco
la cui sicurezza CV viene testata (semaglutide, un nuovo GLP1RA di struttura molto simile a liraglutide le cui caratteristiche
di farmacocinetica e farmacodinamica ne permettono la somministrazione settimanale) non ha ancora completato (anzi
ha da poco iniziato) la fase 3 dell’iter di registrazione21. Nello
studio SUSTAIN-6, 3297 soggetti con DM2 vengono randomizzati a ricevere, in aggiunta alla terapia già praticata per il
diabete, una somministrazione settimanale di semaglutide o
di placebo, con il fine di dimostrare la non inferiorità vs placebo del farmaco attivo nei confronti di un endpoint primario
composito costituito da morte da causa CV, infarto non fatale
o ictus non fatale. La popolazione in studio è molto simile a
quella dello studio LEADER e composta per circa l’80% da
soggetti con età >50 anni che avevano già avuto un evento
CV maggiore o una procedura di vascolarizzazione, e per circa
il 20% da soggetti con età >60 anni che, pur non avendo
ancora avuto un evento CV maggiore, presentavano uno o
più fattori maggiori di rischio CV. La durata dello studio non è
“event-driven” ma è stabilita in 104 settimane, dimensionata
su un ipotetico tasso di eventi di 1.98 per 100 pazienti per
anno.
Grazie anche ad un’effettiva frequenza di eventi superiore a quella attesa, lo studio SUSTAIN-6 non solo dimostra la
non inferiorità di semaglutide rispetto al placebo, ma l’HR osservato relativamente all’endpoint composito (0.74; IC 95%
0.58-0.95) testimonia una significativa riduzione del rischio
di oltre il 25%. Anche in questo caso, come nello studio LEADER e al contrario di quello che accade nello studio EMPA-REG OUTCOME, le curve di Kaplan-Meier per i due gruppi
cominciano a separarsi dopo almeno 4-6 mesi dall’inizio del
trattamento. Anche in questo caso, come nello studio LEADER, le “point estimate” per l’HR relativo a tutti e tre i singoli
componenti dell’endpoint primario risultavano tutte inferiori
ad 1.00, ma, in questo caso, ciò che “trascinava” maggiormente il risultato dell’endpoint composito era una riduzione
stimata di circa il 40% del rischio di ictus non fatale (HR 0.61;
Farmaci anti-diabete e rischio cardiovascolare
IC 95% 0.38-0.99), con un deciso trend verso una riduzione
del rischio di infarto del miocardio (HR 0.74; IC 95% 0.511.08), che però non raggiungeva la significatività statistica,
ed una quasi sovrapponibilità rispetto al placebo nel rischio di
morte da causa CV (HR 0.98; IC 95% 0.65-1.48). Tra gli altri
endpoint secondari, anche relativamente al rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco non si osservava una
differenza significativa tra il braccio in trattamento attivo e il
braccio esposto a placebo. Tuttavia, la differenza più notevole
dello studio SUSTAIN-6 rispetto agli altri CVOT di sicurezza
risiede nel fatto che, nonostante gli sforzi del gruppo coordinatore dello studio nell’esortare gli sperimentatori a titolare al
meglio il controllo glicemico sia nel braccio in trattamento attivo che nel braccio di controllo, il controllo glicemico risultava
drammaticamente migliore nel braccio esposto a semaglutide. In questo braccio, infatti, si assisteva ad una caduta della
HbA1c di quasi 2 punti percentuali entro le prime 16 settimane
di trattamento, con una differenza rispetto al basale alla fine
dello studio di -1.4 punti percentuali ed una differenza media rispetto al braccio trattato con placebo di circa 1 punto
percentuale di HbA1c in meno durante tutto il corso dello studio. Questo nonostante il fatto che, nel gruppo placebo, la
terapia con gli altri farmaci anti-diabete fosse notevolmente
incrementata con una proporzione doppia, rispetto al braccio
semaglutide, dei pazienti che introducevano il trattamento insulinico in terapia. Tuttavia, a dispetto del controllo glicemico
molto più stretto, nel gruppo trattato con semaglutide non si
osservava un aumento della frequenza di ipoglicemia. Lo studio SUSTAIN-6 finisce col rappresentare quindi il primo studio
nel quale un’importante riduzione della HbA1c (realizzatasi per
certi versi “contro” le intenzioni degli sperimentatori) ottenuta con un farmaco che consente di realizzarla in “sicurezza”
e con basso rischio di ipoglicemia, ed accompagnata peraltro
ad una perdita di peso (la riduzione ponderale media rispetto
al placebo sfiorava i 3 kg nel braccio con la dose più bassa del
farmaco e superava i 4 kg nel braccio esposto alla dose più
alta), si associa ad una significativa riduzione del rischio CV
in soggetti diabetici di tipo 2 che presentano in gran parte
un albero vascolare già pesantemente compromesso. Nello
studio SUSTAIN-6, il trattamento con semaglutide e il concomitante miglioramento del controllo glicemico si associano
anche ad un significativo beneficio sul rischio di comparsa
o di progressione di nefropatia, mentre un segnale in senso
contrario si manifesta relativamente alla retinopatia diabetica.
Per quest’ultima complicanza microvascolare, infatti (definita
come necessità di trattamento di fotocoagulazione, emorragia vitreale, necessità di trattamento intra-vitreale o perdita
del visus) si osservava un segnale di aumento del rischio (HR
1.76; IC 95% 1.11-2.78). Il peggioramento della retinopatia
si verificava tuttavia in un numero esiguo di soggetti, il segnale si manifestava molto precocemente nel corso dello studio,
era limitato ai pazienti che già presentavano una retinopatia
diabetica background, ed era “trascinato” sostanzialmente
da un aumento del numero degli interventi di fotocoagulazione e degli eventi di emorragia intravitreale. Tutto questo
tende a far considerare possibile che l’osservato aumento
del rischio (se non determinato, anche in questo caso, da un
“play of chance” che non è possibile escludere) possa essere
legato al pronunciato e relativamente veloce miglioramento
del controllo metabolico che si realizza nelle prime settimane
dello studio, come osservato in studi precedenti22,23.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Quanto finora descritto si presta ad alcune considerazioni
conclusive relativamente al significato dei CVOT di sicurezza
e all’interpretazione dei loro limiti, delle loro similarità e delle
loro differenze.
È innanzitutto evidente che, per lo meno relativamente al
rischio CV, tutti i nuovi farmaci per il trattamento del diabete
si sono fino a questo momento dimostrati sicuri e nulla lascia
pensare che i trial in corso per altri agenti delle stesse classi
non arriveranno alla stessa conclusione. È importante ricordare che la dimostrazione della sicurezza è l’obiettivo per il quale
questi trial erano stati disegnati e quindi, in definitiva, fino ad
ora tutti i trial sono stati un successo. È abbastanza intuitivo
che, se è stato possibile dimostrare detta sicurezza in soggetti
a così alto rischio CV, è molto ragionevole pensare che questa sicurezza sia estendibile all’impiego di queste molecole in
soggetti a rischio CV più basso. Per contro, la possibile “protezione” CV che sembrerebbe associata all’impiego di alcune
molecole è stata riscontrata in queste popolazioni ad altissimo rischio, ma, specie nell’incertezza dei meccanismi che
potrebbero determinarla, non è necessariamente estensibile a
popolazioni a rischio più basso.
Proprio in relazione a questa possibile azione protettiva,
fino ad ora in tre di questi trial, superata l’analisi di non inferiorità vs placebo, è stata eseguita una analisi di superiorità
che ha dimostrato, relativamente ad un endpoint composito
costituito da morte per causa CV, infarto del miocardio ed
ictus, una significativa riduzione del rischio nel braccio in trattamento attivo del 14% per lo studio con empagliflozin18, del
13% per lo studio con liraglutide19 e del 26% per lo studio con
semaglutide20. Per prima cosa, per interpretare correttamente
questa supposta “superiorità” bisogna chiedersi: “superiorità
verso cosa?”. Occorre tenere presente, infatti, che, in tutti e
tre gli studi, nel braccio in trattamento attivo si osservava un
miglior controllo metabolico, sia pur con un miglioramento di
diversa entità nei vari studi. Nel braccio di controllo, inoltre, il
trattamento anti-diabete con farmaci tradizionali, inclusa l’insulina, veniva decisamente intensificato (nello studio LEADER
nel braccio di controllo i soggetti andavano anche incontro ad
un maggior numero di ipoglicemie). Quindi, in tutti i CVOT
di sicurezza il confronto è, in definitiva, non semplicemente
tra farmaco in studio vs placebo, ma complessivamente tra
due diversi approcci al miglioramento del controllo glicemico
in pazienti diabetici ad alto rischio. Nel caso di empagliflozin,
liraglutide e semaglutide l’approccio che include il farmaco
nuovo sembra avere dei vantaggi, ma è teoricamente possibile che l’intensificazione della terapia tradizionale nel braccio
di controllo abbia portato degli svantaggi che possano aver
consentito di far emergere la superiorità del farmaco innovativo.
Una seconda questione riguarda il differente trend che,
nell’ambito di farmaci della stessa classe, emerge tra lixisenatide da un lato (nessuna differenza di rischio nello studio ELIXA
tra braccio attivo e placebo) e liraglutide e semaglutide dall’altro (significativa riduzione del rischio nel braccio attivo degli
studi LEADER e SUSTAIN-6). Da un lato la diversa popolazione
studiata, con un rischio altissimo della popolazione dello studio ELIXA (i soggetti reclutati in questo studio avevano avuto
un episodio di sindrome coronarica acuta nei 6 mesi precedenti al reclutamento) e il diverso endpoint primario composito analizzato (nello studio ELIXA l’endpoint primario era un
MACE-4 che includeva anche l’ospedalizzazione per angina
G ITAL CARDIOL | VOL 17 | SUPPL 2 AL N 12 2016
25S
A Consoli, F Febo
instabile) possono aver contribuito a questo risultato. Dall’altro
lato, va ricordata la diversa farmacocinetica e la diversa farmacodinamica delle molecole in studio, con liraglutide e semaglutide che permangono in circolo molto più a lungo rispetto
a lixisenatide. Anche questo può senz’altro aver contribuito
all’outcome sostanzialmente diverso osservato in questi studi.
Ancor più interessante, per certi aspetti, è il confronto tra
i risultati ottenuti con farmaci orali vs farmaci iniettivi. Acclarato che, almeno sulla base degli studi finora pubblicati,
nessun segnale di “protezione” emerge dagli studi con gli
inibitori della DPP4, nell’unico studio fino ad ora pubblicato
con farmaci della classe degli inibitori di SGLT2, l’uso di empagliflozin si associava, relativamente all’endpoint composito
primario, ad una riduzione del rischio ad una direzione del
rischio nella stessa direzione di quella osservata con semaglutide e virtualmente della stessa entità di quella osservata con
liraglutide. La principale differenza tra i dati di empagliflozin
e quelli ottenuti con i due GLP-1RA a lunga emivita è probabilmente nel decorso delle curve di rischio. Come già osservato, infatti, nello studio EMPA-REG OUTCOME la diminuzione degli eventi nel braccio in trattamento attivo è evidente
sin dalle primissime settimane dello studio, mentre sia nello
studio LEADER che nello studio SUSTAIN-6 le curve di rischio
tra i due gruppi divergono più tardivamente. È teoricamente possibile anche fare un distinguo sul trend mostrato dagli
endpoint secondari nei diversi studi, anche se le analisi degli
endpoint secondari sono sempre molto meno robuste, essendo la potenza statistica degli studi calcolata sull’endpoint
primario ed essendo la numerosità, relativamente ai singoli
endpoint secondari, così bassa che 2 o 3 eventi in più in un
gruppo vs l’altro possono far radicalmente cambiare il trend.
Considerati questi “caveat”, è comunque possibile osservare
che la protezione associata ad empagliflozin è legata soprattutto alle morti CV e si associa ad una robusta protezione
nei confronti del rischio da ospedalizzazione per scompenso.
Per contro il rischio di ictus non fatale mostra addirittura un
trend opposto. Negli studi con i due GLP-1RA a lunga emivita,
invece, tutti i componenti dell’endpoint primario vanno nella
stessa direzione. Tutto questo rende possibile speculare (ma è
importante ricordare che solo di speculazione di tratta), anche
alla luce dei diversi meccanismi d’azione di empagliflozin vs
liraglutide e semaglutide24, che, relativamente all’eventuale
effetto protettivo, quello di empagliflozin sia più direttamente legato a modificazioni emodinamiche, con una riduzione
del volume circolante e verosimilmente una rimodulazione
dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, mentre quello di
liraglutide e semaglutide possa essere legato ad un’azione di
“stabilizzazione” delle lesioni aterosclerotiche suggerita dai
risultati di alcuni studi preclinici25–27. Si tratta di speculazioni,
quelle che gli anglosassoni chiamerebbero “educated guess”.
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Ulteriori studi sono necessari per fornire risposte definitive ed
è probabile che, per le limitazioni sopra discusse, CVOT di
sicurezza disegnati come quelli terminati o in corso queste
risposte non possano fornirle. Un dato tuttavia sembra cominciare ad emergere da questi studi: trattare in sicurezza le
alterazioni del metabolismo glicidico nei pazienti con DM2
con alcuni farmaci innovativi di buona efficacia ipoglicemizzante, legati a basso o bassissimo rischio di ipoglicemia ed
associati ad un effetto positivo sul peso, determina vantaggi,
rispetto all’intensificazione del trattamento tradizionale, sul
profilo di rischio CV di soggetti ad alto rischio. Resta da stabilire quali siano gli esatti meccanismi responsabili di questi
vantaggi, se essi siano, come sembra, diversi per farmaci diversi e se questo possa portare ad un ulteriore elemento di
individualizzazione della terapia. Resta da stabilire se questi
potenziali vantaggi sul rischio CV possano essere estesi a pazienti a rischio molto più basso. Tutte queste domande ancora
aperte, insieme allo sforzo titanico e forse eccessivo richiesto
dalla programmazione ed esecuzione dei CVOT di sicurezza
secondo le linee guida imposte attualmente dalle Autorità Regolatorie28, dovrà forse portare, nel futuro prossimo, proprio
ad una revisione di dette linee guida.
RIASSUNTO
Il trattamento farmacologico del diabete mellito di tipo 2 deve
includere strategie che non siano assolutamente associate ad un
potenziale aumento del rischio cardiovascolare e che, anzi, possano avere un intrinseco effetto protettivo verso detto rischio. Gli
studi di intervento intrapresi per stabilire se nei diabetici di tipo 2
ridurre la glicemia in maniera intensiva si traduca in un beneficio
cardiovascolare hanno dato risultati contrastanti. Si ritiene tuttavia
che un intervento precoce e con farmaci sicuri sia in grado di ridurre il rischio di eventi. Proprio per stabilire la sicurezza cardiovascolare dei nuovi farmaci per il diabete, su specifica richiesta delle
Autorità Regolatorie, le industrie produttrici di farmaci innovativi
per il diabete hanno promosso lo svolgimento di una serie di trial
di sicurezza cardiovascolare (Safety CVOT). Quelli tra questi trial
che si sono già conclusi hanno dimostrato la sicurezza cardiovascolare di alcuni inibitori della dipeptidil peptidasi 4 (sitagliptin, saxagliptin e alogliptin) e dell’agonista recettoriale del glucagon-like
peptide-1 (GLP-1) lixisenatide. Hanno però anche prodotto dati
a sostegno di una possibile protezione cardiovascolare associata
all’uso dell’inibitore di SGLT2 empagliflozin e degli agonisti recettoriali del GLP-1 liraglutide e semaglutide. Le similarità, i distinguo
e le possibili implicazioni dei risultati di questi trial saranno discussi
nel presente articolo.
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