Dipartimento di Economia e Management Cattedra di Storia dell’economia e dell’impresa Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri Relatore Candidato Prof.ssa Vittoria Ferrandino Gianalberto Mele Matr. 174811 Anno Accademico 2014/2015 INDICE Indice……………………………………………………………………………………………………………………1 Introduzione…………………………………………………………………………………………………………2 Cap.1 Pre-unità, post-unità, destra e sinistra storica (1861-1896)…………………………6 1.1 Debiti Stati preunitari, costituzione del debito unico e primi anni del Regno…………………………6 1.2 Pareggio del bilancio e fine destra storica………………………………………………………………………………9 1.3 1876-1896 Gli anni della Sinistra storica……………………………………………………………………………….12 Cap.2 Fine secolo, età giolittiana e prima guerra mondiale (1896-1918)……………….17 2.1 La fine del secolo…………………………………………………………………………………………………………………17 2.2 L’età giolittiana…………….…..………………………………………………………………………………………………18 2.3 Prima guerra mondiale e immediato dopo-guerra……………………………………………………………….21 Cap.3 Il Fascismo e la seconda guerra mondiale (1918-1945)………………………………24 3.1 Avvento del fascismo, politiche economiche e ritorno al gold standard………………………………..24 3.2 Crisi del ’29, guerra di Etiopia e autarchia…………………………………………………………………………….28 3.3 La seconda guerra mondiale………………………………………………………………………………………………..31 Cap.4 Secondo dopoguerra, ripresa e boom economico (1946-1977)………………….33 4.1 Immediato dopoguerra e ricostruzione economica dell’Italia………………………………………………33 4.2 Miracolo economico italiano e anni ’70……………………………………………………………………………36 Cap.5 Esplosione del debito dagli anni ottanta ad oggi (1977-2015)…………………….41 5.1 Anni di piombo e anni ottanta……………………………………………………………………………………………..41 5.2 Fine Prima Repubblica…………………………………….…………………………………………………………………45 5.3 Dall’entrata nell’euro ai giorni nostri………………………………………………………………………………….47 Conclusione………………………………………………………………………………………………………50 Bibliografia…………………………………………………………………………………………………………53 1 Introduzione Il debito pubblico in Italia è un problema antico, dall’unità a oggi solo in 43 anni il rapporto debito/PIL è stato sotto il 60% ovvero quella quota che l’Unione Europea richiede e suggerisce nel patto di stabilità e crescita stipulato nel 1997 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1999 con l’adozione dell’euro. Quindi come riscontrabile dai dati , alcuni un po’ più incerti come quelli dei primi anni dell’Italia unita , il debito pubblico e la sua sostenibilità è, da praticamente il 1861 un problema , che investe periodicamente e intensamente ogni questione economica del nostro Paese con esclusione quasi unica , ovvero con maggiore tranquillità , quasi esclusivamente nel periodo che va dal secondo dopo guerra ai primi anni ottanta; per poi riesplodere più vigorosamente che mai negli anni appena successivi a detto periodo. I motivi del debito in questo lungo asse di tempo sono svariati , partendo dai costi sostenuti per iniziare, sostenere e mantenere quella unità nazionale fortemente voluta dagli stati Sardi, continuando con il cercare di costruire quelle infrastrutture fisiche e sociali tali da costruire quell’unità nella realtà e non solo nelle cartine geografiche, continuando per i tentativi di reazione alle varie crisi nazionali e internazionali che hanno sottoposto le casse del nostro Stato a dura prova , lo sforzo e l’esborso bellico soprattutto nei due conflitti mondiali , e infine l’aumento a volte 2 sicuramente non meditato delle spese nel welfare state a cavallo degli ultimi anni della prima repubblica e i primi della seconda.1 Le soluzioni dateci da i governi prima del Regno d’Italia e dal 1946 da quella che è la Repubblica italiana sono svariate, agendo su tagli della spesa, sostegno all’economia reale, oppure agendo direttamente su pratiche monetariste, svalutando la lira cosa al giorno d’oggi non più possibile perché orfani di quella sovranità monetaria a lungo sfruttata e non più utilizzabile dall’adozione della moneta unica. Questa analisi storica arriva fino ai giorni nostri nei quali a differenza del passato non vi è assoluta certezza sulle cause all’origine dell’innalzamento del debito pubblico e ricondurre queste cause all’aumento delle spese non permette di avere soluzioni chiare. Inoltre il pagamento degli interessi è un meccanismo di sottrazione inter-generazionale delle risorse e questo meccanismo è stato ampiamente sfruttato dalla generazione precedente, senza troppi rimorsi, ricadendo sulle generazioni attuali che sono quelle che più di tutte dovranno caricarsi di questo peso.2 La questione della credibilità internazionale e un’altra questione che si è aggiunta alle già preesistenti e di certo non meno ostici questioni che il debito pubblico comporta per uno Stato. Dal 1992 con l’adesione al Trattato di Maastricht il nostro Paese si è impegnato a rifarsi a quei parametri che stabiliscono il livello ottimale del rapporto debito/PIL a un valore non superiore del 60% e a un disavanzo annuale che non superi il 3% di questo rapporto. Quindi il debito pubblico oggi più che mai, è un elemento di centrale interesse, per il nostro Stato, per i nostri governi, per la credibilità internazionale di questi, ma soprattutto per i cittadini di questo 1 2 C. Carboni, Welfare 2.0? Prevenire, non curare, in “Il Sole 24 ore”, 29 agosto 2012 http://www.economy2050.it/spesa-la-protezione-sociale-italia-assistenza-pensioni/ (www.economy2050.it) 3 Stato in quanto pagare meno interessi ogni anno, vorrebbe dire avere più risorse disponibili e non solamente un “lavorare per pagare debiti”. L’analisi storica potrà quindi chiarire ed analizzare cause, effetti e soluzioni che han caratterizzato questo oramai superato cento cinquantenario di unità nazionale e che in questa era di austerity dilagante pone il debito pubblico e la sua sostenibilità sicuramente come un problema tra i più interessanti e attuali , come una sfida che la nostra Italia dovrà superare per tornare a essere credibili e competitivi in ambito internazionale, per avere la possibilità che ad esempio una parte di quei 1650 miliardi di euro spesi dal ’93, siano spesi sul territorio, siano spesi per creare ricchezza e non solamente per pagare interessi.3 Definire settore pubblico è centrale in questa analisi in quanto, la definizione è variata nelle varie analisi fatte nel corso degli anni; sicuramente è preferibile rifarsi alla definizione odierna di settore pubblico, ovvero comprendente l’amministrazione centrale, gli enti locali e gli enti previdenziali, questi ultimi esistenti solamente dagli anni successivi alla I Guerra Mondiale. Più che lo stock di debito pubblico verrà analizzato il rapporto debito/PIL, in quanto è un dato che può essere più indicativo circa la sostenibilità e l’incidenza del debito. Questo rapporto dipende da tre fattori: il saldo primario, l’onere reale del debito e il tasso di crescita reale del PIL. Il saldo primario altro non è che la differenza fra entrate e spese al netto degli interessi, l’onere reale del debito è quanto si spende rispetto alla consistenza del debito, al netto della perdita di valore reale di quest’ultimo provocata dall’inflazione e il tasso di crescita reale del PIL è invece una variabile che figura al numeratore del rapporto. Inoltre centrale in questa analisi è vedere da cosa sia effettivamente composta la spesa dello Stato, ovvero in che modo le varie voci abbiamo contribuito all’uscita di denaro dalle casse dello stato. 3 F. Tamburini, Gli interessi record del debito. Spesi finora 1.650 miliardi, in “Corriere della Sera”, 4 agosto 2014 4 Spesa in opere pubbliche, istruzione, spesa redistributiva, spesa militare, spesa per interessi. Come hanno influito sul nostro bilancio, in che modo abbiamo influenzato le nostre spese e come siano cambiati i giochi-forza, sono tutte questioni fondamentali per l’analisi storica del debito pubblico. 5 CAPITOLO PRIMO PRE-UNITÀ, POST UNITÀ, DESTRA E SINISTRA STORICA (1861-1896) 1.1 – Debiti Stati preunitari, costituzione del debito unico e primi anni del Regno All’alba dell’unificazione viene preso un primo provvedimento dal nascente Regno con la l. 10.7.1861 n. 86, che risulterà centrale nell’analisi delle finanze di questo nuovo stato, ovvero la costituzione del Gran Libro del Debito pubblico. 4 Questo “Gran Libro” consiste in un insieme di registri dove sono riportati singolarmente i debiti dello Stato, e nel quale successivamente attraverso la Legge di unificazione dei Debiti pubblici d’Italia confluirono tutti i debiti degli Stati annessi nel nascente Regno. I debiti dei vari Stati che furono inglobati nel debito pubblico italiano risultavano aventi pesi ed entità particolarmente variegati. Il più consistente senza ombra di dubbio risulta quello del Regno di Sardegna che costituiva il 57% del totale, mentre quello del Regno di Napoli risultava il 29,40% e a seguire per importanza gli altri risultavano essere quelli di Toscana, Lombardia, ducati di Parma, Modena e Romagna. La consistenza del debito sabaudo è spiegabile attraverso l’indebitamento a cui questo stato ricorse per finanziare tutte quelle guerre e quel processo che porterà nel 1861 all’unità d’Italia. 4 P. Ciocca – G. Toniolo, Storia economica d’Italia. 3: Industrie, mercati istituzioni, 2: I vincoli e le opportunità , a cura di P. Ciocca, G. Toniolo, Roma-Bari, 2003, pp. 269-380 6 L’unificazione del debito pubblico fu tra le principali cause dell’insostenibilità del debito italiano fra il 1862-1873. Ad alimentare questa situazione di insostenibilità accorsero in quegli anni numerose altre cause, quali l’aumento della spesa pubblica dovuta alla creazione di infrastrutture su tutto il territorio nazionale, alle spese militari straordinarie connesse specialmente con la guerra con l’impero Austriaco del 1866, all’emissione della Rendita Italiana al 5% del 1861 e al ritardo nei provvedimenti di riassetto fiscale che incominciarono solamente nella seconda metà degli anni settanta. 5 Dall’unità fino a quando nel 1976 il governo Minghetti fu messo in minoranza, il Regno fu governato dalla cosiddetta “Destra storica”. Sotto questi primi governi unitari e sotto l’impellente necessità di reperimento di risorse negli anni che intercorsero fra il 1861 e il 1870 il debito pubblico italiano ebbe una notevole impennata sia in termini di valore assoluto in quanto il debito passò da 3.107 a 8.148 milioni di lire sia in termini di rapporto debito pubblico / PIL passando dal 35,8% del 1861 al 80,8% del 1870.6 Nel 1861 le entrate coprivano poco più della metà delle spese statali che erano costituite per lo più da spese militari e dal servizio del debito, le soluzioni che si presentarono ai governi italiani furono di emissione di titoli di Stato e il tentativo di aumento delle entrate attraverso la vendita straordinaria di beni demaniali e beni della Cassa ecclesiastica promossa dal neo ministro delle finanze, Quintino Sella. I prestiti emessi dal nuovo regno furono più di uno ed andarono ad aumentare quel debito pubblico che già constava di una certa rilevanza. Nel 1861 il ministro delle finanze Bastogi fece emettere un prestito di 500 milioni al prezzo di 70 lire effettive per un valore nominale di 100 lire, raccogliendo circa 715 milioni. 7 5 G. De Luca-A. Monioli, Debito pubblico e mercati finanziari in Italia: secoli XIII-XX, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp.480-481. 6 V. Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, Il Mulino, 1998, p.226. 7 G. Luzzatto, L’economia italiana dal 1861 al 1894, Torino, Einaudi, 1991, p.177. 7 Successivamente dati anche gli scarsi risultati raggiunti dalla vendita dettata da Sella, Minghetti nel marzo del 1863, effettuò un nuovo prestito di 700 milioni netti al prezzo di 71 lire. 8 Queste emissioni di Rendita Italiana vennero collocate perlopiù nei mercati esteri, Londra e in special modo Parigi, dove si costituì anche una delegazione del Tesoro Italiano. Sella che fu ministro delle finanze in più occasioni e al quale dobbiamo la perseveranza nel cercare il pareggio di bilancio, fu tra i politici, probabilmente il più sensibile al tema di tutta la Destra storica. Quando tornò al ruolo di ministro delle finanze nel 1864, stipulò una convenzione con la Società Anonima per la vendita dei beni demaniali, secondo cui quest’ultima avrebbe dovuto versare anticipatamente 150 milioni al Governo, piazzando sul mercato proprie obbligazioni, in cambio di ciò, la Società Anonima avrebbe ricevuto obbligazioni statali non negoziabili che sarebbero state pagate con i ricavi della vendita demaniale. Questo provvedimento fermò momentaneamente l’esplosione del debito pubblico ma non fu sufficiente in quanto nel 1865 fu necessaria l’emissione di un nuovo prestito per 425 milioni netti e l’alienazione delle ferrovie statali. Queste mosse del 1865 portarono effettivi miglioramenti, resi vani però dalle spese che sosterrà lo Stato italiano nel 1866, spese straordinarie dovute alla crisi finanziaria internazionale e alla guerra con l’Austria. La crisi finanziaria fece crollare le quotazioni della Rendita Italiana all’estero e il ministro delle finanze Scialoja obbligò la Banca Nazionale a concedere un mutuo al Tesoro di 250 milioni di euro con interesse dell’1,5 %, aprendo le porte all’opportunità, successivamente largamente adottata, di monetizzare il prestito. In seguito all’inizio della guerra con l’Austria nel giugno del 1866 fu necessaria l’emissione di un nuovo prestito redimibile forzoso di 350 milioni effettivi al valore nominale di 400 milioni emesso al 8 V. Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, Il Mulino, 1998, p.227 8 tasso d’interesse del 5%, interamente collocato in Italia e che grazie al fervente patriottismo, scaturito in quella guerra, fu facilmente interamente collocato. Nel 1867 di grande importanza fu la liquidazione dell’asse ecclesiastico che fu legata al debito pubblico. L’operazione che constava di un totale di 500 milioni nominali di obbligazioni in due tranches che sarebbero servite all’accettazione per il pagamento dell’acquisto dei beni dell’asse ecclesiastico da privati. Ma questa non si rilevò un’operazione di successo in quanto già l’anno successivo, 150 milioni della prima tranche furono dati a garanzia alla Banca Nazionale per un anticipo di 100 milioni al Tesoro. Sempre nel 1867 venne istituita una Regìa alla quale fu venduto il monopolio sul tabacco per quindici anni, per un canone annuo da versare all’Erario e mediante un anticipo di 180 milioni in oro attraverso l’emissione di obbligazioni. Negli anni a venire il Governo puntò a ridurre la spesa per interessi riducendo il deficit di bilancio facendo ricorso ad operazioni di credito con la Banca Nazionale, emettendo una rendita sulla quale, lo Stato pagava degli interessi che gli venivano però restituiti in cambio di denaro contante al sessanta per cento del costo. Nel 1872 fu stipulata una nuova convenzione da parte della Banca Nazionale che concesse allo Stato italiano un prestito di 300 milioni allo 0,5% di interesse. 1.2 - Pareggio del bilancio e fine destra storica Mentre nel primo decennio dell’unità nazionale, per troppi motivi è sfuggito di mano e si è gonfiato il bilancio, dopo la presa di Roma nel 1870, e quindi finito il processo unitario, il Regno e i suoi governanti si sono potuti finalmente concentrare su quel problema che troppo a lungo si è dovuto 9 rimandare, il bilancio e il raggiungimento di quell’obiettivo tanto agognato, quanto pagato caro della Destra storica, ovvero il pareggio di bilancio. Il 16 marzo 1876, il primo ministro Marco Minghetti, dichiarò al parlamento che finalmente era stato raggiunto l’obiettivo del pareggio di bilancio, due giorni dopo però Minghetti fu battuto in parlamento e si diede vita al periodo che va sotto il nome di Sinistra storica che durerà fino al 1896. Il pareggio di bilancio fu raggiunto soprattutto grazie all’aumento che si riuscì ad avere, tramite le politiche della Destra storica, nell’entrate dello Stato. Le spese da sostenere dallo Stato furono immense, dovute alla costruzione dell’apparato statale, delle infrastrutture, in special modo nel settore delle rotaie e tutti quei costi che il nascente Regno si fece carico per le necessità esplicate dall’allora ministro dei lavori pubblici Stefano Jacini in questa relazione: “Negli anni ora decorsi si dovette con urgenza, e diremmo quasi a precipizio, riparare all’inerzia dei passati governi rispetto ai pubblici lavori: aprire nuove vie, estendere e fortificare le difese contro i fiumi, condurre le acque a raddoppiare la fecondità di vasti terreni, far giungere fino alle più remote parti della penisola quel mirabile strumento di civiltà, di progresso e di potenza che è la vaporiera, far sparire le distanze congiungendo con fili telegrafici le mille città d’Italia, perfezionare, ampliare e rendere più rapido e ad un tempo semplice il servizio delle poste, creare una marina a vapore nazionale… E tutte queste opere, che avrebbero in altri tempi alimentata per lunghi anni l’attività di una grande nazione, l’Italia le ha dovute compiere, si può dire, in pochi mesi, non tanto per favorire l’incremento delle operosità e della ricchezza nazionale, quanto per assicurare la sua indipendenza, 10 … per cancellare rapidamente le tracce delle antiche divisioni, e fondare sopra salde basi la sua unità e la potenza del suo governo”. 9 Per questi motivi e per questa scelta “quasi obbligata” di Stato attivo in vari settori dell’economia e delle infrastrutture non si poterono applicare per risollevare il bilancio politiche di tagli. L’altra soluzione, che fu quella scelta, dagli esponenti della Destra storica, fu quella di agire sul lato del prelievo fiscale. Il nuovo sistema fiscale che fu adottato dall’unità fu molto più simile al sistema fiscale preunitario del Piemonte e della Lombardia, ma vi furono anche grosse novità. Le imposte che furono adottate erano di tre tipi: le imposte sui redditi, ovvero l’imposta sui terreni, l’imposta sui fabbricati e l’imposta di ricchezza mobile. La prima già era preesistente in tutti gli Stati preunitari, e l’unica difficoltà fu l’unificazione del sistema catastale. L’imposta sui fabbricati invece risultava separata da quella sui terreni soltanto in Piemonte e Lombardia, fu applicata a tutto il territorio con aliquota del 16,25%. Mentre l’imposta di ricchezza mobile fu una novità per tutti gli ex stati preunitari e andò a colpire ogni tipo di reddito esclusi quelli da terreni e fabbricati. Altro gruppo di imposte fu quello sugli affari. Terzo e ultimo gruppo furono le imposte sui consumi, tra cui i dazi doganali e anche le imposte di fabbricazione, tra cui la più famosa e discussa tassa del macinato introdotta con la legge 7 luglio 1868 e abrogata nel 1884. 9 S.Jacini, L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867. Relazione del Ministro dei lavori pubblici S. Jacini presentata al Parlamento il 31 gennaio 1867, Firenze, 1867, p.1 11 Questa risistemazione del sistema fiscale dovuta soprattutto agli onorevoli Quintino Sella e Marco Minghetti, permise di raggiungere non senza sacrifici il pareggio di bilancio del 1876.10 1.3 - 1876-1896 Gli anni della sinistra storica Il 25 marzo 1876 per la prima volta nella storia del regno viene incaricato dal Re Vittorio Emanuele II, Agostino Depretis, esponente della sinistra, di formare il governo. Depretis con qualche interruzione dovuta ai governi Cairoli, fu primo ministro fino al 29 luglio 1887 quando gli succedette Francesco Crispi, l’altra figura centrale di questo ventennio italiano. Il debito pubblico italiano almeno fino alla scandalo della Banca Romana che termino con la liquidazione fallimentare di quest’ultima e con l’affermarsi della Banca D’Italia come banca di emissione nel 1893, ebbe un periodo alquanto felice. Le entrate statali coprirono più del 100% delle spese fino al 1889 anno dello scandalo e della grave crisi bancaria italiana. Infatti nel 1876 la copertura era del 107%, nel 1880 del 109% e addirittura nel 1886 del 119%, avendo addirittura in questi due ultimi anni citati a riferimento un avanzo nel bilancio del settore pubblico complessivo sul PIL di 1,1% nel 1880 e dello 0,5% nel 1886. Questa discordanza di risultati fra entrate statali e deficit o avanzo in percentuale sul PIL del settore pubblico complessivo si riscontra nel fatto che il bilancio degli enti locali fu costantemente in rosso, restando sempre la copertura spese al di sotto dell’80% almeno fino al 1900. 11 Agli enti comunali gli unici modi che gli erano concessi per riscuotere e rimpinguare le proprie casse erano i dazi sui consumi e alcuni tributi propri. 10 A. Plebano, Storia della finanza italiana nei primi quarant’anni dall’unificazione, Torino, Roux e Viarengo, 1900 (ristampato dalla Cedam, Padova, 1960, vol. II, p.2) 11 G Brosio, C Marchese, Il potere di spendere, Bologna: Il Mulino, 1986 p.200-203 12 Con la legge 20 marzo 1865 fu data la possibilità ai comuni di introdurre sovraimposte sulle imposte sui redditi; ma questa facoltà fu pesantemente limitata dalla legge 11 marzo 1970, con cui si preferì aiutare la finanza statale rispetto a quella locale. Così facendo fu impedito agli enti locali, almeno fino alla riforma delle finanze locali del 1931, di avere un bilancio sano, essendo anche incaricati di compiti prettamente statali quali le spese per l’istruzione e per le strade provinciali e comunali. 12 Le entrate aumentarono e questo permise anche un notevole innalzamento delle spese che nonostante la grossa percentuale di interessi sulla spesa complessiva dello Stato, in tutto l’ottocento dall’unità quasi sempre superiore al 30% del totale delle spese pubbliche, non bloccò l’innalzamento da parte dei governi della Sinistra storica delle spese per istruzione e infrastrutture. Per quanto riguarda l’istruzione seppure era ritenuta importante dai governi della Destra storica occupò solamente dal 2,3% nel 1866 al 3,5% del 1872 della spesa pubblica anni in cui vigeva la legge Casati del 1859, con soli due anni obbligatori di istruzione elementare. La Sinistra quando salì al potere da parte sua raddoppiò lo sforzo nell’istruzione, raddoppiandone gli anni con la legge Coppino nel 1877 e aumentando costantemente il peso della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica, Infatti si nota il 5% nel 1880 e il 5,6% nel 1890 di percentuali sulla spesa pubblica complessiva. Altra componente importante nell’ingrossamento della spesa pubblica fu il rafforzato impegno della sinistra nelle spese per infrastrutture infatti, in quest’ultimo quarto di secolo furono raddoppiati i chilometri di ferrovia e di rete telegrafica e aumentati i chilometri di rete stradale e il numero di uffici postali. 13 12 13 F. Volpi, Le finanze dei comuni e delle provincie del Regno d’Italia, Torino, ILTE, 1962 Annuario Statistico Italiano. 13 La politica estera con l’abbandono del purismo libero-scambista e le prime imprese coloniali italiani, fu altro elemento che influì sul bilancio statale. Da una parte va registrato che per tentare il catching up verso i first comers lo stato italiano che con la Sinistra divenne particolarmente interventista in economia, si impegnò non senza sforzi di natura economia in difesa e per la promozione dell’economia italiana. Tra il 1875 e il 1880 furono aumentati i dazi medi, sia a scopo fiscale ma anche e soprattutto per proteggere taluni settori ritenuti meritevoli di protezione quali su tutti il tessile. 14 In seguito con legge 14 luglio 1887 furono ancora aumentati lievemente i dazi ma fu attuato anche protezionismo sui prodotti agricoli. Dazi accompagnati da sussidi e spinta imprenditoriale statale come il celebre caso dell’acciaieria di Terni, furono tra gli sforzi che impegnarono maggiormente economicamente e non i governi della Sinistra storica. La spesa militare fu un altro elemento che aumentò sotto la Sinistra storica e questo aumento fu dovuto sostanzialmente alle prime spedizioni e conquiste coloniali che iniziarono sostanzialmente dal 1882 con l’acquisto della Baia di Assab, raggiungendo il massimo del peso sul totale delle spese pubbliche del 15,9% nel 1890. Questa situazione del bilancio alquanto positiva che si ebbe nel primo decennio della sinistra storica, dovuta alla crescita del PIL, alla crescita costante delle entrate e alla ciclo economico favorevole in generale ebbe una brusca sterzata nel periodo che va dal 1889 al 1894 definiti “gli anni più neri dell’economia del Regno”. La crisi di questo lustro in cui anche la copertura delle spese statali scese al di sotto del 100% e il rapporto debito/PIL stabilmente sopra il 100% fu soprattutto una crisi bancaria. 14 E. Corbino, Annuali dell’economia italiana, vol. II, Città di Castello, 1931, pp.206-212. 14 Il processo di crescita dell’economia italiana dopo l’esaurirsi del boom 1870-1874 e dopo che la Sinistra storica riuscì a concedere più protezione alle nostre industrie (1878) fu guidata in maggior modo dalle banche ordinarie, fra tutte dal Credito Mobiliare e dalla Banca Generale, le due più importanti. Queste si lanciarono dapprima nel collocamento di prestiti pubblici, di obbligazioni ferroviarie, di azioni bancarie ed industriali. Successivamente si dedicarono anche alle attività mobiliari soprattutto in Torino, Roma e Napoli. Successe che la congiuntura economica generale europea peggiorò, la bilancia dei pagamenti peggiorò e anche per l’edilizia sorsero le prime difficoltà. Incominciarono le prime difficoltà per diversi banchi che sotto sollecitazione governativa furono salvati dalla Banca Nazionale con la partecipazione di tutti gli istituti di emissione. Il governo concesse un aumento della circolazione alle banche di emissione, ma la Banca Romana aveva già superato illegalmente i limiti di circolazione stampando duplicati dei biglietti già emessi. Questo fu già scoperto nel 1889 ma rimase segreto fino al 1892; il governo si dovette dichiarare garante della circolazione e decretò con legge il 10 agosto 1893, la fusione della Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di credito, affidandogli la liquidazione della Banca Romana. Restavano solo altri due banche di emissione, quelli meridionali, ma la preminenza della appena nata Banca d’Italia si sarebbe affermata coi fatti. Nel 1893 inoltre fallirono Il Credito Mobiliare e la Banca Generale; questa situazione portò il governo italiano a proclamare l’inconvertibilità della moneta italiana il 21 febbraio 1894. 15 15 E. Vitale, La riforma degli istituti di emissione e gli “scandali bancari” in Italia 1892-1896, Roma ,1972. 15 Tutto questo portò dei risentimenti dal punto di vista del bilancio portando ad esempio ad un meno 2,8% di deficit del PIL nel 1890, a una diminuzione delle entrate delle entrate per almeno 20 milioni dal 1886 al 1890 e ad un peggioramento generale del bilancio statale. 16 CAPITOLO SECONDO FINE SECOLO, ETÀ GIOLLITTIANA E PRIMA GUERRA MONDIALE (1896-1918) 2.1 La fine del secolo Superata la grave crisi bancaria e riassestato come già visto il sistema bancario e finanziario italiano, con la caduta del IV Governo di Crispi, dovuta alla sconfitta in campo coloniale conclusasi con la disfatta di Adua il primo marzo 1896, il 10 marzo 1896 finisce il ventennio di governo praticamente ininterrotto della Sinistra Storica. Il debito raggiunse il punto più alto fino ad allora mai raggiunto del 117% del PIL nel 1897, per un totale di oltre 14 miliardi. Questo aumento è in piccola parte attribuibile alle spese di guerra che pur aumentarono, ma fu dovuto soprattutto alle opere pubbliche romane, al risanamento di Napoli, alle costruzioni ferroviarie e alla statalizzazione degli impianti fissi delle reti ferroviarie (che rimasero fino al 1905 a gestione privata)e infine all’abolizione del corso forzoso realizzata dal ministro delle finanze Magliani tramite un prestito internazionale in oro che serviva alla copertura di 600 dei 940 milioni di banconote più altri 44 milioni di prestiti in oro. In seguito, dopo il picco del 1897, il debito italiano di stabilizzò in valori assoluti e diminuì invece il rapporto debito/PIL costantemente fino al 1906. Gli ultimi quattro anni dell’ottocento furono anni di molteplici disordini, di un susseguirsi di governi in un clima di crescente instabilità politica e scontri di piazza che terminarono con la repressione 17 violenta dei moti del 1898 e con il regicidio di Re Umberto I il 29 luglio 1900 in una manifestazione pubblica a Monza da parte dell’anarchico Gaetano Bresci. Il 4 febbraio 1901 Giovanni Giolitti con discorso alla camera si staccò definitivamente dal Governo Saracco, diventando prima ministro dell’interno nel governo Zanardelli e poi successivamente primo ministro nel 1903, dando così via a quella che è ricordata come età giolittiana. 2.2-L’età giolittiana In questo primo quindicennio di secolo, l’Italia, con soli piccoli intervalli fu governata direttamente o indirettamente da questa figura centrale nella storia e nella politica italiana che risponde al nome di Giovanni Giolitti. Economicamente fu un periodo prospero, la congiuntura economica internazionale era altamente positiva, l’industria era in rapida crescita anche in Italia e sembrava che questa periodo abbastanza spensierato e felice per le popolazioni europee non avrebbe potuto conoscere fine; questo periodo viene definito Belle Époque. La spesa statale non diminuì affatto, ma se il debito in valore assoluto rimase quasi sostanzialmente invariato dal 1896 al 1906, mentre il rapporto deficit/PIL scese all’87,9% del 1906 dal 117% del 1897, questo lo si deve quasi esclusivamente alla crescita del PIL. Questi sono gli anni del così detto decollo industriale italiano: tra il 1896-1890 e il 1911-1914 il reddito nazionale pro capite aumentò del 28% e le condizioni sociali ed economiche migliorarono nettamente almeno nel così detto “triangolo industriale”. Nei primi anni del novecento i consistenti avanzi di bilancio non solo resero inutili altre emissioni di titoli di Stato ma permisero l’abbassamento del tasso di rendimento dal 5% al 3,5% al lordo delle tasse del consolidato, alleggerendo il peso del debito sulla spesa pubblica corrente. 18 Questa operazione conosciuta come “conversione della rendita”, venne effettuata il primo luglio 1906. Questa operazione portò al netto abbassamento dell’incidenza della spesa per interessi che passò in percentuale dal 33,5% del 1900 al 25% del 1906. Questo trend estremamente positivo, in cui la finanza pubblica statale con il bilancio in pareggio, i titoli del debito collocati all’estero al minimo storico e l’incidenza degli interessi diminuita sembrava non conoscere scogli; ma invece arrivò la crisi internazionale del 1907 che ruppe questo felice equilibrio a cui l’Italia sembrava in quegli anni destinata. Questa crisi di natura internazionale, la prima vera crisi finanziaria internazionale, non ci colse impreparati. Sebbene rallentò la crescita lanciatissima del nostro Paese in quegli anni e sebbene portò ad un aumento di 5 punti percentuali del rapporto debito / PIL dall’anno 1907 all’anno 1908, l’Italia grazie al riassestamento avvenuto dopo la crisi della Banca Romana, trovò una Banca d’Italia che seppe gestire questa crisi. La Banca d’Italia, allora diretta da Bonaldo Stringher, intervenne per conto del governo italiano costituendo due comitati. La crisi infatti si ripercosse soprattutto sulla Borsa e su una delle più importanti banche dell’epoca, ovvero la Società Bancaria Italiana (SBI), quindi la Banca d’Italia costituì questi due comitati, a cui non partecipò direttamente, ma che sostenne attraverso il risconto, uno per sostenere la SBI, l’altro per la difesa dei valori azionari. I provvedimenti adottati dalla Banca d’Italia sono riscontrabili in una legge approvata il 31 dicembre 1907, di cui fu promotrice, che rese più flessibili i limiti alla circolazione, più vasta la gamma di operazioni consentite agi istituti di emissione e più leggero l’onere di questi. 16 16 V. Zamagni, Dalla periferia al centro, Bologna, Il Mulino, 1990, p.200 19 Grazie a questi interventi, l’Italia riuscì a ripartire e nonostante riuscì a raggiungere i tassi di crescita precedenti a detta crisi, non si può dire che resto ferma in quanto i tassi di crescita industriale dal 1907 al 1914 risultano sempre nell’ordine dell’1,5-2% annui. Il secondo settennio giolittiano sebbene accompagnato da una crescita più lenta del PIL nazionale risulta egualmente virtuoso dal punto di vista del bilancio, infatti si toccò nel 1913 il 71,5% del rapporto debito / PIL che risulta essere il minimo addirittura dal 1874 come riporta la Fig.1. In evidenza in questo periodo vi è la diminuzione ancora dell’incidenza della percentuale degli interessi sulla spesa dello stato che scende al 16,6% nel 1913 (livelli così bassi vi erano solamente nel 1861 con il 15,5%), e la crescente influenza delle spese militari sul bilancio del Regno. La spesa militare infatti costituiva nel 1906 solamente il 14,3% della spesa totale, dato che salì al 21,1% nel 1912 e al 22,1% nel 1913. Questa costante crescita della spesa militare fu dovuta sia alla ripresa dell’avventura coloniale italiana, sia alla corsa alle armi che vi fu in tutta Europa prima di quella che stava diventando sempre più inevitabile guerra, per le troppe tensioni create e che puntualmente scoppierà nel 1914 dopo l’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo Este principe ereditario dell’Impero Austro-Ungarico da parte di un nazionalista serbo. L’avventura coloniale venne ripresa con la guerra Italo-Turca del 1911-1912 che si concluse con la conquista da parte italiana della Tripolitania, della Cirenaica e del Dodecaneso, non senza dispendio economico e di vite. 20 Questa guerra fu per l’Italia solo un piccolo assaggio del dispendio che dovrà affrontare nella ormai imminente prima guerra mondiale. Fig.1 da Vera Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre, p.209 2.3-Prima guerra mondiale e immediato dopo-guerra Una guerra richiede un grosso sforzo economico, questa che fu la più grande e totale guerra che ci fu fino ad allora e richiese uno sforzo ancora maggiore di tutte le altre guerre conosciute fino ad allora, tanto per l’Italia quanto per ogni altra nazione che vi partecipò. Le fonti di finanziamento adottate dal Regno d’Italia furono sostanzialmente tre, per ordine d’importanza: debito pubblico, circolazione monetaria e tributi. Mentre l’Inghilterra aveva quasi quintuplicato il carico fiscale e Francia e Germania l’avevano nello stesso periodo aumentato del 50%, l’Italia a prezzi costanti, lo lasciò praticamente immutato. 21 Questo probabilmente avvenne perché i nostri governi non volevano deprimere ulteriormente la produzione con un prelievo fiscale troppo elevato. I primi veri provvedimenti di carattere fiscale avvennero nel 1919 e nel 1920 quando furono varate un’imposta sul patrimonio e un’imposta di avocazione dei profitti di guerra; che tuttavia inasprirono solo di due punti percentuali la pressione fiscale sui contribuenti. D’altro canto fu largamente sfruttata la circolazione cartacea, infatti essa crebbe di quattro volte durante il conflitto e continuò a crescere nel 1919 e nel 1920. Questo uso così massiccio di questa politica monetario portò inevitabilmente ad un’elevata inflazione e a un deprezzamento del cambio. Dopo questa breve analisi degli altri fattori con cui fu finanziato questo conflitto, in cui le spese militari giunsero a coprire addirittura 1/3 del totale della spesa pubblica nel 1917 e nel 1918, si può analizzare lo strumento più importante che permise di finanziare lo sforzo bellico, il debito pubblico. Il debito pubblico aumentò di più di 100 miliardi, il rapporto deficit/PIL salì dall’81% del 1914 al 125% del 1920 che però se vi include anche il debito estero risulta del 160% nel 1920. Questa infatti è una particolarità del finanziamento di questo guerra, che fu finanziata largamente tramite debito estero. Infatti nonostante l’emissione di cinque Prestiti Nazionali, redimibili i primi tre e consolidati gli ultimi due, questo dovuto al fatto che siccome il risparmio si assottigliava e l’inflazione cresceva era sempre più difficile fare ricorso a prestito a lungo termine, si fece sempre più ricorso al debito fluttuante che raggiunse 1/3 del debito totale nel 1918 ma che ebbe modo di crescere ancora negli anni successivi. La principale fonte di sostegno finanziario fu il debito estero che l’Italia dovette sottoscrivere soprattutto con Gran Bretagna e Stati Uniti con contratti lire-oro che subirono un grosso sbalzo dovuto alla svalutazione della lira. 22 Il debito estero raggiunse i 22 miliardi nel 1919 e quasi 33 miliardi nel 1922, ma questo, dopo una serie di lunghi negoziati che incominciarono nel dopoguerra, fu in gran parte condonato e la parte restante entrò in compensazione con le riparazioni tedesche. Successivamente con la moratoria decretata da Hoover nel 1931 si giunse al completo cancellamento del debito e delle riparazioni. Queste sono le motivazioni che fan scomparire quasi completamente il debito estero dalle serie storiche nel passaggio dal 1925 al 1926, lasciando solamente un piccolo debito con gli Stati Uniti conosciuto come Prestito Morgan che sarà successivamente onorato dal governo fascista.17 17 V.Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre, p.209 23 Capitolo terzo Il Fascismo e la seconda guerra mondiale (1919-1945) 3.1-Avvento del fascismo, politiche economiche e ritorno al gold standard Gli anni appena precedenti la salita al potere di nell’ottobre del 1922 da parte di Mussolini, leader del Partito Nazionale Fascista, sono caratterizzati da gravi problemi economici dovuti soprattutto al dover tornare alla normalità dopo il gran conflitto. La spinta inflazionistica nell’immediato dopoguerra è dovuta come si è già visto al costante ricorso all’emissione di moneta da parte dello Stato per finanziare il proprio debito e non ultimo ai molteplici interventi che fece la Banca d’Italia per salvare aziende in difficoltà come il caso dell’Ansaldo. Questa alta inflazione è andata tutta a discapito dei percettori di reddito fisso: ceto medio e salariati. Tutto ciò fu la causa dei gravi disordini che ci furono in tutto il Paese soprattutto nel biennio 19191920. Al governo nel 1920 era tornato per quella che sarà l’ultima vola Giolitti, ma le sue posizioni furono percepite troppo morbide nei confronti degli scioperanti da parte degli industriali e proprietari agricoli, cosicché i fascisti sembrarono gli unici che potevano tenere questa situazione sotto controllo, cimentandosi non di rado anche in vere e proprie azioni di rappresaglia fatte dagli squadristi. 24 Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da parte Mussolini, che avverrà il 30 ottobre 1922 quando Sua Maestà Vittorio Emanuele III gli diede l’incarico di formare il governo, governo che rimase saldamente nelle mani di Mussolini fino al 1943; era l’alba del ventennio fascista. La politica economica del regime non è sempre coerente e segue da una parte gli orientamenti dei vari ministri delle finanze, da un’altra alcuni suggerimenti che derivano da contingenze nazionali e internazionali e infine da un’altra parte ancora le convinzioni ideologiche fasciste tramutate in economia. Dal 1922 al 1925 fu ministro delle finanze, ministero a cui fu accorpato in quell’anno anche il dicastero del tesoro, Alberto De’ Stefani. De’ Stefani persegui sostanzialmente le politiche dei sui predecessori che stavano lentamente riportando il bilancio statale in ordine con l’eliminazione delle spese straordinarie e l’aumento delle entrate ordinarie. 18 Il governo fascista volle solamente accelerare questo processo di risanamento dei bilanci e più che agire sull’entrate, tagliò drasticamente alcuni campi della spesa pubblica. Circa l’aspetto contributivo, De’ Stefani allargò la base contributiva, inglobando numerose categorie sociali fino ad allora escluse e abbassò delle aliquote specialmente per le categorie che riteneva più inclini all’investimento, portando a una lieve flessione della pressione fiscale. Fu proprio questa sua volontà di riattivazione dell’iniziativa privata che portò al taglio della spesa pubblica “improduttiva” licenziando 65.000 impiegati pubblici non di ruolo e circa 27.000 ferrovieri19, aprendo ai privati le categorie di assicurazione sulla vita, i telefoni e riorganizzando la gestione di alcuni servizi mediante la creazione di alcuni enti autonomi. 18 19 P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta, Napoli, Guerini, 1988, p.372 R. de Felice, Mussolini il fascista, Vol. I, Torino, Einauidi, 1966, p.397 25 Se da un punto di vista del bilancio la gestione di De’ Stefani si può definire felice in quanto riportò il bilancio in pari (quello statale, perché se si considera anche quello degli enti locali, il fascismo non riuscì mai a raggiungere questo obbiettivo), e felice si può giudicare la sua gestione anche per la ripresa della crescita a livello nazionale, lo stesso non si può dire per le implicazioni monetarie che portarono le sue politiche. Dallo scoppio del primo conflitto e dalla costituzione del CSVI (Consorzio per sovvenzioni industriali), la Banca d’Italia attraverso per l’appunto il CSVI e la sua sezione autonoma, si era impegnata fortemente nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla crisi postbellica di riconversione. Questo continuò con il governo fascista con risultati che dal 1922 al 1925 ci fu un grosso aumento di liquidità che portò a grosse tensioni inflazionistiche dovute anche ad un peggioramento della bilancia dei pagamenti. 20 De’ Stefani provò a migliore tale situazione con alcuni provvedimenti soprattutto nell’anno 1925, che però risultarono inadeguati e portarono a un tracollo di borsa e vari fallimenti. Questa situazione e la grande pressione degli industriali di cui Mussolini non voleva perdere il supporto lo persuasero a sostituire De’ Stefani con il veneziano Giuseppe Volpi come ministro delle finanze. Volpi fu ministro dal luglio del 1925 al luglio del 1928, periodo breve, ma decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia. La spinta inflazionista non poteva essere gestita con i soli provvedimenti di De’ Stefano e nel 1925, dopo che nel 1924 con il piano Dawes si era risolta la questione delle riparazioni tedesche, si potette 20 P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta, Napoli, Guerini, 1988, p.176 26 finalmente discutere i termini per il ritorno delle nazioni al gold standard come deciso durante il trattato di Versailles per stabilizzare le monete. La situazione con cui Volpi dovette intavolare trattative con gli americani non erano delle più favorevoli data la forte svalutazione della lira connessa al peggioramento della bilancia commerciale e dei fattori speculativi. Infatti la restrizione creditizia fu resa molto difficile dal fatto che il debito risultava in gran parte fluttuante a breve termine e dal fallimento di rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924 dovuta al volere di banche e privati di ottenere liquidità che inoltre metteva in seria difficoltà i finanziamenti per il governo. Quindi Volpi agì in concomitanza con la Banca d’Italia che sostenne il cambio e riuscì a giungere ad una risoluzione nel 1925 con gli americani che risultò la più favorevole in termini assoluti ma considerando la situazione economica dell’Italia, fu probabilmente la risoluzione meno morbida di tutte quelle che ottennero gli altri alleati europei. 21 Nel dicembre del 1925 venne varato un piccolo prestito intergovernativo per il sostegno della lira, tra il governo USA e il governo italiano che prese il nome di prestito Morgan. Nel gennaio 1926 fu trovato l’accordo sul debito estero con l’Inghilterra e attraverso l’afflusso delle riparazioni tedesche, gestite per mezzo della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926, permisero la compensazione delle entrate ed uscite, andando praticamente a cancellare il debito estero ad eccezione del piccolo prestito Morgan. Il problema che si dovettero affrontare in seguito furono le pressioni svalutative della lira, che anche per colpa delle svalutazione che subirono nel 1926 il franco e francese e belga, non si riuscirono a contrastare. 21 S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini, Milano, Bompiani, 1979, p.139 27 Tra il maggio e l’agosto del 1926 la lira si svalutò ulteriormente del 17-18% seguendo praticamente le oscillazioni dei due franchi, la situazione stava diventando insostenibile. 22 Mussolini temeva questa situazione ed aveva paura di perdere credibilità a livello internazionale, questo portò a decretare la Banca d’Italia come unico ente di emissione, ma la decisione più importante fu quella esternata il 18 agosto 1926 nel celebre discorso di Pesaro, ovvero di intraprendere “la battaglia della lira”, per portarla a quota 90 (lira per sterlina). Questa fu vista come una decisione sorprendente, infatti la lira viaggiava a quota 153 ma anche prima della svalutazione estiva essa era a 120, quota ritenuta soddisfacente da Volpi. Ma Mussolini sia per motivi di prestigio interno che internazionale, sia per difendere la classe media spaventata dall’inflazione e sia per rendere meno cara l’importazione di materie prime optò per questa celebre quota 90. Quello che risultò sorprendente è che la lira realmente si assestò a quota 90 e si apprezzò anche maggiormente, questo però più che risultare da un’effettiva politica restrittiva, può rifarsi alle aspettative che il governo totalitario fascista riuscì a mutare in questa “battaglia”. Fu così che il 21 dicembre 1927 fu introdotto il gold exchange standard, con la lira nuovamente ancorata all’oro a 92,46 lire per sterlina. 23 3.2-Crisi del ’29, guerra di Etiopia e autarchia 22 G. Falvo – M. Storaci, Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia: stabilizzazione sociale e politiche monetarie (19261928), in “Italia contemporanea”, 1977, n. 126, p. 17 23 M. Marconi, La politica monetaria del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 58 28 Dopo aver introdotto il gold exchange standard, furono necessarie delle manovre di aggiustamento dei prezzi e dei salari interni, nonché della bilancia dei pagamenti al nuovo livello di cambio che non risultarono indolori. Keynes disse: “la lira non obbedisce nemmeno ad un dittatore né si può dare per questo l’olio di ricino”. In realtà Mussolini ci dimostrò attraverso i tagli salariali del 1927-1928, i tagli degli affitti e i tagli degli stipendi pubblici, attuati non senza malcontento, che la lira poteva “obbedire all’olio di ricino”.24 Superati gli effetti della crisi di rivalutazione della lira, l’Italia poteva finalmente ripartire, ma sopraggiunse quella che probabilmente fino ad allora fu la più grande crisi economica internazionale, che esplose dapprima negli Stati Uniti e Germania e poi si allargò a tutto il mondo, la grande crisi del ’29. Questa ed alcune implicazioni che questa crisi portò, incisero notevolmente sul debito pubblico italiano, infatti il rapporto debito/PIL passo dal 58% del 1929 al 88% del 1934. Ciò fu dovuto però anche al modo in cui il governo italiano reagì a questa crisi, infatti il sottovalutare questa crisi almeno fino al 1931, e il non staccarsi dal gold exchange standard nemmeno quando lo fece la Gran Bretagna nel 1931 e gli Stati Uniti nel 1933 portò a una decisa rivalutazione della lira che peggiorò ancora le esportazioni e la bilancia dei pagamenti. Questa crisi quando finalmente, e questo avviene soprattutto dal 1931, non fu più sottovalutata e se ne recepirono gli effetti e le dimensioni sull’economia italiana, fu affrontata con l’emissione di nuovo titoli di debito a lungo termine che finanziarono le opere pubbliche. Il regime fascista infatti cerco di rispondere a questa crisi finanziando numerose e colossali opere pubbliche che come voce arrivò a occupare il 12,6% del totale delle spese nel 1932. 24 M. Toniolo, Il gold exchange standard in Italia, 1927-1931, in “Rivista di storia economica”, 1989, n.3 29 Inoltre si impegnò ad un colossale salvataggio industriale e bancario che andò a costituire nel 1933 l’Istituto per la ricostruzione industriale, più conosciuto come IRI, che fu un ente pubblico centrale nell’economia italiana fino alla sua liquidazione nel 1992. Tutte queste manovre però, non riuscirono a far ripartire davvero l’economia italiana a causa, come abbiamo già detto della forte deflazione di quegli anni. La vera ripresa si ebbe quando l’Italia si lanciò nuovamente nell’avventura coloniale, nel 1935-1936, questa volta in Etiopia. Anche la spesa pubblica subì un notevole incremento e la spesa militare arrivò al 20,9% del totale delle spese nel 1936. 25 Tale incremento di speso fu finanziato mediante quello che fu un vero ribaltamento di politica fiscale attuata dal fascismo. Infatti furono elaborate una serie di imposte straordinarie come quelle sui dividendi delle società commerciali, sugli immobili, sul patrimonio e sul capitale delle società per azioni e delle altre aziende industriali e commerciali; in più furono anche aumentante le imposte dirette. Infine anche le imposte sugli affari vennero alzate e si sostituì alla precedente imposta sugli scambi, quella che risulterà un imposta fondamentale nel sistema tributario italiano anche nel dopoguerra ovvero, l’IGE (Imposta Generale sull’Entrate). Tutto ciò non solo portò malcontento nella popolazione e fece venire meno un po’ alla volta il consenso fra la classe media che era la fascia di società, su cui il fascismo aveva creato maggior consenso e dalla quale ebbe il maggior appoggio, ma queste manovre non bastarono a coprire le spese. 25 V. Zamagni, Dalla periferia al centro, La seconda rinascita economica dell'Italia (1861-1990), Il Mulino, Bologna, 1993 p. 316 30 Il regime allora ricorse a manovre straordinarie quali la nazionalizzazione degli investimenti esteri nel 1935 o la giornata della “fede” nel 1936 che fruttò circa 400 milioni di lire; ma nemmeno queste operazioni bastarono in quanto il debito del 1935-1936 venne finanziato per il 30% attraverso stampo di moneta. Questo portò ad un innalzamento dei prezzi che costrinse l’Italia ad abbandonare il gold exchange standard nel 1936, anche se si volle e si riuscì ad allineare la lira al dollaro, cosa che resistette fino a guerra inoltrata. 3.3 La seconda guerra mondiale Dopo l’anschluss dell’Austria da parte della Germania nazista, e dopo la capitolazione della Cecoslovacchia il 21 settembre 1938 sempre da parte dei tedeschi era ormai sempre più chiaro lo scoppio di quella che sarebbe stata la seconda guerra mondiale. Le alleanze già erano chiare e decise: l’asse da una parte con principali nazioni quali Germania, Italia e Giappone; dall’altra gli alleati con Gran Bretagna, Francia e in un momento appena successivo gli Stati Uniti, U.R.S.S. dopo il patto Molotov – Ribbentrop affianco della Germania dal 1941 contro. La guerra inizia ufficialmente con l’invasione della Polonia da parte della Germania il primo settembre 1939; il 10 giugno dell’anno successivo entrerà anche l’Italia in questo conflitto. Questa guerra costò molto in termini di bilancio all’Italia anche se per alcune vicende, questo sforzo di finanziamento non costerà caro all’Italia nel secondo dopoguerra. Le spese di guerra arrivarono a toccare il 40% del PIL in corrispondenza con l’anno 1943; il governo ricominciò ad emettere titolo di debito a breve termine e si fece un larghissimo ricorso all’istituti di emissione.26 26 A. Caracciolo, La Banca d’Italia tra l’autarchia e la guerra, 1936-1945, Bari, 1992, p. 44 31 Tuttavia il rapporto deficit/PIL raggiunse “solamente” il 108% ovvero molto meno rispetto al periodo della prima guerra mondiale; ma va considerato che essendo in questo caso esclusivamente debito interno, si può rilevare che fu molto più gravoso il finanziamento di questa guerra. Nel 1943, il 25 luglio cade il fascismo e l’8 settembre viene firmato l’armistizio, ma i travagli per il popolo italiano non terminarono in questa data. Infatti l’Italia rimarrà divisa in due fino al 1945 in un susseguirsi di lotte intestine e occupazioni militari; la lira non è più sotto controllo ed esplode l’inflazione, l’ordine monetario infatti sarà ristabilito solamente nel 1947 32 a guerra conclusa. Capitolo quarto Secondo dopoguerra, ripresa e boom economico (1946-1977) 4.1-Immediato dopoguerra e ricostruzione economica dell’Italia Il 25 aprile 1945 viene liberata Milano, il 28 aprile viene ammazzato Benito Mussolini, finalmente l’Italia può tornare alla pace. La ricostruzione di una nazione distrutta, da un punto di vista morale, da un punto di vista delle infrastrutture e delle città bombardate, da un punto di vista della quasi totale perdita di una generazione con quasi 500000 morti, non fu facile, ma almeno il debito pubblico non fu di ostacolo. Infatti nonostante le ingenti spese, il gran costo economico della guerra, il debito raggiunse già nel 1946 quello che rispetto al rapporto degli altri anni è veramente poca roba, ovvero il rapporto 33 debito/PIL si assestava nel 1946 al 40%; questo dovuto all’elevatezza del livello inflattivo dopo la caduta del regime. Dal 1946 al 1967 dopo che tramite proprio la forte inflazione, il debito dopo la guerra era stato abbattuto, l’Italia potrà godere di un trentennio in cui per la prima volta e fino ad ora probabilmente unica nella nostra storia nazionale, la questione del debito pubblico come stock ingente per le finanze statali, diverrà secondario. La tabula rasa sul debito pubblico dovuta all’incredibile inflazione che ci fu più nel biennio 19461947 che nel travagliato periodo dalla caduta del regime a fine guerra; fu permessa perché lo Stato, che il 2 giugno del 1946 con un referendum divenne una repubblica, aveva apertamente contrastato il regime fascista ora sovvertito. Va annotato da un’altra parte che la Repubblica italiana non ripudiò il debito che aveva perché si considerò successore, senza soluzione di continuità, del Regno d’Italia. L’imperativo risultava dunque quello di ripartire, far ripartire l’industria, dare un indirizzo allo sviluppo industriale di questo Paese. L’industria non era stata particolarmente danneggiata, infatti i danni di guerra ammontavano all’8% del capitale esistente rispetto al 1938, con alcune differenze settoriali, il settore metallurgico aveva subito danni per il 25% del totale rispetto all’anteguerra. Nell’industria meccanica ad esempio la capacità produttiva al netto delle distruzioni era aumentata del 50%, considerando anche però la produzione inconvertibile. Però se a questa situazione si aggiunge quella del settore metallurgico, con la perdita dell’impianto di Cornigliano e i gravi danneggiamenti subiti a Bagnoli, e la distruzione fra 1/3 e 1/2 di praticamente tutti le comunicazioni e i trasporti, la difficoltà nel reperimento della materie prime, ed infine ancora le difficoltà politiche nel gestire un Paese appena uscito da una guerra civile, l’ espressione del primo 34 presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia liberata, Ferruccio Parri, “ sbarcare il lunario”, caratterizza alla perfezioni il biennio 1945-1946. 27 Quando divenne De Gasperi primo ministro, l’Italia ebbe definitivamente il suo indirizzo neoliberista, caldeggiato anche dal ministro del Tesoro Corbino e dal governo della Banca d’Italia e poi successivamente ministro del bilancio Einaudi. Sotto De Gasperi venne costituito il Consiglio Industriale Alta Italia, vennero prodotti i “piani di primo aiuto” e nel marzo del 1946 si fece una parziale liberalizzazione del cambio per favorire le esportazioni ma questo diede vita ancora di più a fattori speculativi e spinte inflazionistiche. 28 Inflazione dovuta anche dalla libertà di azione al mercato azionario e delle banche, all’emissione delle “AM-lire” concordate con il governo americano per la paga dei soldati USA, ma inflazione che fu spinta anche dal pesante deficit di bilancio, infatti la coperture delle spese risultava solamente del 26% nel biennio 1946-47 e del 41% in quello successivo. Il biennio 1945-46 fu probabilmente il più duro di tutti, calarono le razione medie in 1/3 rispetto ai livelli prebellici e la povertà era un fattore che toccava grande parte della popolazione. 29 Questa situazione spinse De Gasperi a recarsi nel gennaio del 1947 negli Stati Uniti a chiedere un aiuto finanziario che però non portò i risultati sperati, infatti concluse un prestito di soli 100 milioni di dollari da parte dell’Import-Export Bank. Questo viaggio permise di capire però che vi era la volontà di aiuto del governo americano nei confronti degli Stati europei, a patto dell’esclusione delle sinistre dai governi; questo avvenne nel maggio del 1947 quando De Gasperi formò il primo governo senza la presenza della sinistra. 27 M. Salvati, Stato e industria nella ricostruzione. Alle origini del potere democristiano (1944/1949), Milano, Feltrinelli, 1982, p. 70 28 U. Ruffolo, La linea Einaudi, in “Storia contemporanea”, 1974, n.4 29 R. Volpi, Storia della popolazione italiana dall’unità a oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1989, p.135 35 Questo portò il governo degli Stati Uniti il 5 giugno 1947 a concedere quel piano di appoggio alla ricostruzione europea, ben conosciuto come “Piano Marshall”. 30 Questo, era un piano multilaterale di aiuti che durò dal 1948 al 1952, volto al riequilibrio della bilancia dei pagamenti e alla reintegrazione dell’economia tedesca in un clima di inedita cooperazione fra gli stati europei. Consisteva in un piano di trasferimento gratuito di beni da parte degli USA, formulato in base una lista di richieste compilate annualmente dagli Stati europei secondo il loro piano di sviluppo. Si occupò di tale piano per l’Italia il direttore del Centro di studi e piani tecnico economici dell’IRI Pasquale Saraceno. Questo piano fu attaccato perché non coincideva né con politiche keynesiane di sostegno alla domanda e né andò direttamente ad intaccare la piaga della disoccupazione, ma la filosofia di tale piano era quella di forzare gli investimenti produttivi nel campo delle infrastrutture e dei beni capitali in modo da riassestare in un orizzonte duraturo la bilancia dei pagamenti. Questo modo di utilizzo degli aiuti americani collegato alla “Linea Einaudi” che tra il luglio e il novembre del 1947,portò all’aumento delle riserve bancarie, al passaggio del tasso di sconto dal 4% al 5,5% e al passaggio del cambio ufficiale della lira con il dollaro nel novembre del 1947 a 589; tutte manovre che permisero il blocco della spinta inflazionistica; tutti questi elementi collegati alla “linea Saraceno” sulla gestione degli aiuti, risulteranno le basi portanti della rinascita economica che si avrà dagli anni cinquanta in poi. 4.2 Miracolo economico italiano e anni ‘70 Terminato il piano di aiuti americani nel 1952, l’Italia che in questo poteva non occuparsi della questione debito pubblico che dal 1952 al 1971 non superò mai il 42% del rapporto debito/PIL come 30 G. Gualerni, Ricostruzione e industria. Per un’interpretazione della politica industriale nel secondo dopoguerra 19431951, Milano, Vita e Pensiero, 1980, pp.62-69 36 questione principale, ebbe tutte le carte in regola per avere una crescita sostenuta, crescita che grazie alle occasioni colte da parte dei governi e degli industriali effettivamente ci fu. Vi fu in Italia un aumento del reddito che sfiorò il 6% annuo fino al 1963, con addirittura picchi del 6,8% nel 1961. I motivi di tale impressionante crescita sono sia interni che dovuti a contingenze internazionali; ma concatenazione di cause a parte, questa grande crescita permise davvero all’Italia di vivere dal punto di vista del bilancio di anni felici, condizioni e numeri impensabili ai nostri giorni. In tutti gli anni sessanta vi furono solo il 1964 e il 1965 che videro il saldo della finanza pubblica italiana negativo; vi fu sostanzialmente un rientro fiscale, con il saldo corrente che copriva ed eccedeva il saldo in conto capitale fino al 1964 quando il debito pubblico raggiunse il suo punto più basso in tutta la nostra storia in termini di rapporto deficit/PIL, solamente il 27%. Le cause di questa crescita di reddito, dovuta soprattutto alla crescita industriale che ebbe un tasso fino al 1963 di crescita fra il 9% e l’11%, possono essere analizzate da un punto di vista interno, infatti fondamentale è il livello di disoccupazione in questo periodo, l’offerta di manodopera risultava eccessiva rispetto alla domanda che permise all’industrie di pescare facilmente e senza grossi sforzi economici nel mercato del lavoro. Dal punto di vista delle contingenze internazionali esse risultano positive perché sia vi è l’inizio di costanti e crescenti scambi con l’estero, ma rifacendosi a situazioni più specifiche nel 1950-53 vi fu la guerra di Corea, il cui fabbisogno di metallo ed altre materie lavorate fu un ulteriore stimolo alla crescita dell'industria pesante italiana, Italia che nel frattempo aveva costituito la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio), mettendo in comune la produzione di queste due materie prime con gli altri cinque Paesi membri: Francia, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania occidentale. 37 Dal punto di vista monetario, sotto il governatore della Banca d’Italia Menichella, che governò fino al 1960, fu perseguita la già citata “Linea Einaudi”, ovvero sostegno del cambio, fissato nel 1949 dopo una lieve svalutazione a 625 lire per dollaro, e controllo delle spinte inflazionistiche. 31 Come notarono diversi esperti quali Toniolo, assumendo le scelte prese da i nostri governi dal 1947 è difficile ipotizzare che una diversa politica monetaria avrebbe potuto conciliare la stabilità dei prezzi e del cambio e il tasso di accumulazione realmente ottenuto con una crescita significativamente più elevata dei consumi privati. 32 Nel 1960 Menichella fu sostituito da Guido Carli alla guida della Banca d’Italia; ma la politica di lieve accompagnamento monetario non mutò. Nel 1962 però ci fu una tendenza dei salari e dei prezzi a salire rapidamente che non fu tanto rapidamente combattuta con una stretta monetaria. L’anno successivo però questa stretta monetaria fu inevitabile e le conseguenze furono abbastanza drastiche sul sistema economico italiano portando ad una depressione della domanda interna e un crollo degli investimenti accompagnati da fughe all’estero di capitali, tuttavia le esportazioni ripresero copiose sostenendo l’economia per alcuni anni successivi. Sempre sotto la guida di Carli la politica monetaria divenne più permissiva nel 1964, e vi fu in questi anni, il tentativo riuscito da parte della Banca d’Italia di offrire al Tesoro una fonte di finanziamento alternativa, attraverso il sostegno dei corsi dei titoli pubblici. Tentativo che portò a raccogliere nel biennio 1966-67 un flusso doppio di risparmi privati nell’acquisto di questi titoli rispetto al biennio precedente. 31 G.Bertocco, Il ruolo della politica monetaria in Italia nel pensiero dei tre governatori della Banca d’Italia, in “Politica economica”, 1992, n.3 32 G. Toniolo, La politica monetaria degli anni ’50 (1947-1960), in Sviluppo e crisi dell’economia italiana, a cura di G. Franco, Milano, Etas Libri, 1979, p.70 38 Ma ciò non poteva proseguire senza limite di tempo in condizione di una congettura altamente inflazionistica, infatti la Banca d’Italia nel 1969 dovette abbandonare questo sostegno portando come contraccolpo un notevole aumento della base monetaria. Tale politica monetaria venne perseguita anche dopo “l’autunno caldo”, quando le condizioni interne ed esterne mutarono radicalmente, attuando strette creditizie. 33 Al contempo la politica monetaria era indirizzata a ricostruire attraverso l’inflazione i margini di profitto e di autofinanziamento per le imprese che erano stati persi a causa della salita dei costi, e allo stesso tempo doveva finanziare le sempre più ingenti necessità di finanziamento da parte del Tesoro. Il processo inflazionistico dovuto ai motivi appena elencati fu tenuto sotto controllo fin quando l’Italia obbediva ad un regime di fissità del cambio, ma quando questa venne a mancare, l’inflazione e le sue conseguenze scoppiarono inesorabilmente, ripercuotendosi su tutto il decennio a venire con un tasso di inflazione praticamente mai al di sotto del 10%. Il bilancio come detto in questo periodo fu tutt’altro che un problema, ma dalla seconda metà degli anni sessanta, esso riprese a crescere. Questo fu dovuto specialmente al fatto che l’avanzo in conto corrente degli anni precedenti risultava azzerato e non riusciva più a coprire il disavanzo dovuto agli investimenti pubblici. Mentre le entrate risultavano proporzionalmente costanti fino al 1975, dal 1971 comincia a comparire un disavanzo anche in conto corrente che risulta del 2% nel 1971 ma sale in tutti gli anni successivi diventando del 7% nel 1975, a questi disavanzi corrisponde anche un balzo del rapporto deficit/PIL che se in tutti gli anni sessanta si era aggirato intorno al 30%, e non aveva praticamente mai superato il 40% dal secondo dopoguerra, arriva a risultare del 55% nel 1975. 34 33 34 A. Fazio, La politica monetaria in Italia dal 1947 al 1978, in “Moneta e Credito”, 1979, n. 127 Ministero del Tesoro, Il debito pubblico in Italia 1861-1987, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, Vol.1, pp.63 e 90 39 Questo rapido aumento della spesa pubblica, questa fine del periodo virtuoso dell’Italia dal punto di vista fiscale, è riconducibile in special modo all’espansione delle spese sociali che vi furono dopo le riforme concesse in seguito a “l’autunno caldo”, prima fra tutti l’introduzione dello statuto del lavoro, che in parte non permise più di sfruttare la manodopera a basso costo, che permise un grosso sviluppo dell’industria negli anni precedenti. Spese sociali che passarono dall’occupare il 13% del PIL al 16%, ma altro motivo del peggioramento delle finanze statali furono gli interessi sul debito che crebbero dal 2% al 4% del PIL, ed infine incise anche il notevole allargamento del pubblico impiego che però non fu influenzante come gli altri fattori per via della caduta del salario reale. Una riforma fiscale diventava quindi non più rimandabile e fu fatta nel 1973-74 e fu la riforma che introdusse l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), l’imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG), l’imposta locale sui redditi (ILOR), l’imposta sull’incremento del valori degli immobili (INVIM) ed infine l’imposta sul valore aggiunto (IVA). Questa riforma fiscale però non diede gli esiti desiderati almeno fino al 1976, per colpa dell’annata molto negativa che risulta essere il 1975, ma anche dopo riuscì solamente ad evitare una crescita di disavanzo senza sanare i reali problemi di bilancio. 40 Capitolo quinto Esplosione del debito dagli anni ottanta ad oggi (1978-2015) 5.1-Anni di piombo e anni ottanta Terminata oramai la felice stagione delle virtuose gestioni del bilancio statale, ci si avvicina al termine degli anni settanta, e agli anni ottanta, in cui probabilmente per una serie di concause e non per l’ultimo per colpa di una a dir poco disattenta gestione finanziaria da parte della nostra classe politica, ci sarà un vera e propria esplosione del debito pubblico. Questi sono gli anni in cui si viene a formare quello stock di debito che ancora oggi è causa di grosse preoccupazioni da parte di chi ci governa, e che probabilmente ancora a lungo intaccherà i pensieri e la scelte dei nostri governi. L’ultimo lustro degli anni settanta è caratterizzato da un saldo delle spese correnti sempre negativo almeno di cinque punti percentuali che unite al disavanzo degli investimenti pubblici che si assesta in questo periodo sui 4 punti percentuali annui, porta all’alba degli anni ottanta l’Italia ad un rapporto deficit/PIL del 65 % ovvero quasi il 20% in più rispetto al 1975 e quasi il doppio se si guardano gli anni a cavallo con il 1970. 35 Nel 1975 Guido Carli lascia la direzione della Banca d’Italia e viene sostituito da Pietro Baffi che nel 1979 dopo un attacco della magistratura nei suoi confronti fu sostituito da Carlo Azelio Ciampi. 35 Ministero del Tesoro, Il debito pubblico in Italia 1861-1987, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, Vol.1, pp.63 e 90 41 Le politiche che però attuarono Baffi e Ciampi, seguirono un certo filo comune, infatti entrambi attuarono una politica monetaria più morbida volta a limitare l’influenza della Banca d’Italia e responsabilizzare le parti sociali. Due furono le decisioni principali riguardo la politica monetaria e la Banca d’Italia in questo periodo: la prima è quella di entrare nello SME (Sistema monetario Europeo) nel 1979 che era un accordo per il mantenimento di una parità di cambio prefissata che poteva oscillare tra il ± 2,25% che però per Italia, Spagna, Gran Bretagna e Portogallo questo parametro risultava più elastico ovvero del ±6%. L’altra fu la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia nel 1981 grazie alla quale la banca centrale divenne autonoma dalla politica a seguito della cancellazione dell’obbligo di acquisto del debito, ovvero venne meno il finanziamento automatico del debito da parte della banca centrale. 36 Anche queste furono scelte che contribuirono all’aumento del deficit pubblico infatti con la difesa della lira vi è un’impennata dei tassi di interesse che a questo punto superano la pur alta inflazione, e così i tassi reali altamente positivi vanno a contribuire in modo più pesante al deficit pubblico con il servizio del debito. Così il servizio del debito diventa il primo fattore di creazione di debito pubblico in Italia, infatti il disavanzo primario se pur notevole rimane praticamente costante in tutti gli anni ottanta all’incirca sull’8%, lo stesso abbassamento dell’inflazione non aiuta il livello dei tassi reali, anche con la diminuzione di quelli nominali, e il servizio del debito raggiunge a fine decennio il 10% del PIL dal 5% iniziale. Quindi analizzando e confrontando la situazione fiscale italiana degli anni ottanta con quella di altri Paesi europei, si nota come la spesa pubblica italiana e spesa corrente (al netto degli interessi) risulti il 39% del PIL mentre in Francia risulta del 47% e in Germania dl 45%, quindi dato che questi Paesi 36 V. Zamagni, Dalla periferia al centro, La seconda rinascita economica dell'Italia (1861-1990), Il Mulino, Bologna, 1993 p. 438 42 avevano dei rapporti debito/PIL ragionevolmente più bassi, sarebbe illogico accollare la colpa del nostro debito alla spesa pubblica eccessiva. Infatti il dato che appare eclatante è che le entrate fiscali in Italia nello stesso periodo si assestavano sul 34% del PIL ovvero circa dieci punti in meno rispetto a Germania e Francia, e tutto questo nonostante il livello di tassazione non fosse inferiore agli altri due Paesi presi in considerazione. L’eccezione tutta italiana quindi dipende dalla diffusione del fenomeno dell’evasione che si caratterizza in immense somme non recepite dallo Stato. Quindi le cause principali dell’esplosione del debito pubblico italiano negli anni ottanta possono essere ascrivibili soprattutto all’evasione fiscale e gli oneri sugli interessi. Infatti l’Italia dovette offrire tassi d’interesse superiori rispetto agli altri paesi europei. L’offerta di tassi di interesse nominali più elevata rispetto ad esempio Francia e Germania, non può essere considerato casuale, infatti per via dell’importazioni che per motivi strutturali, dovuti soprattutto alle importazioni energetiche, superavano costantemente le esportazioni, l’Italia si trovò costretta a raddrizzare i conti con l’estero convogliando a sé capitali, offrendo tassi più alti che avevano il compito di remunerare i finanziatori esteri, sia per il rischio di svalutazione competitiva a cui spesso l’Italia ricorse, sia del rischio dovuto alla forte instabilità politica. Quindi dal termine della golden age dell’economia italiana, legata anche alla crisi petrolifera del 1973 e successivamente quella del 1979 che rallentarono decisamente la crescita, e che influenzarono notevolmente tutti i processi inflazionistici sviluppati negli anni successivi, il debito pubblico crebbe fino ad arrivare al 121,8% nel 1994. 37 Andando nello specifico, aumentarono negli anni ottanta praticamente tutte le voci che compongono il debito; le spese sociali, dovute alla formazione di quel welfare state di cui l’Italia non era ancora ben fornita, aumentarono di 3 punti percentuali sul PIL nel periodo 1980-85, nello stesso 37 Istat 2015 43 periodo anche le spese per interessi ebbero la stessa crescita in percentuale sul PIL, mentre anche tutte le altre voci salirono marginalmente. Le spese correnti arrivarono al 53% del PIL nel 1985, con un saldo negativo rispetto alle entrate di 7,7 punti percentuali sul PIL, tutto questo in vortice che pareva non finire mai. L’altro aspetto caratterizzante degli anni ottanta è che, questa crescita del debito pubblico, tendeva a provocare un eccesso di offerta di attività finanziarie con gravi rischi di inflazione e di deterioramento della bilancia dei pagamenti. Ma data la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia il controllo del credito risultava indiretto e non era più possibile ricorrere a vincoli amministrativi come strumento di allocazione burocratica delle risorse finanziarie e tantomeno ad un forte finanziamento con base monetaria del fabbisogno del Tesoro. Quindi bisognava utilizzare i mercati, e da ora in avanti il modo di agire della politica monetaria si sposterà inesorabilmente dall’azione sulla quantità di moneta e credito ai tassi di interesse. 38 Altre cause ascrivibili alle grosse uscite dalle casse dello Stato Italiano posso ricondursi a scelte politiche di questo periodo mal calibrate: una gestione politicizzata e fallimentare del sistema previdenziale , in special modo per gli impiegati pubblici, un massiccio sostegno alle imprese, la crescente burocratizzazione della società, il mantenimento di società ed enti ai soli fini clientelari, l’eccesso di occupazione diretta nel settore pubblico e ultimo ma non per importanza la grande corruzione. Nel 1987 il rapporto debito/PIL raggiunge il 92% ma va considerato che dal 1986 viene utilizzato un metodo per la valutazione del PIL differente, infatti con il vecchio metodo questo rapporto risulterebbe del 100%. 38 M. Arcelli, Politica monetaria e debito pubblico negli anni ottanta in Italia, Torino, UTET, 1990, p.9 44 Questa situazione non fu mai affrontata almeno fino al 1992 sul piano politico, ma fu affrontata solamente dal punto di vista tecnico, non andando mai a scovare quei meccanismi che erano fonte integrante di debito, ovvero tutto quel sistema clientelare volto ad acquistare consenso da parte della classe politica dominate. 39 Questo trend di espansione del debito dovuto a tutte le cause appena analizzate continuò senza particolari cambiamenti almeno fino al 1992. 5.2-Fine Prima Repubblica Nel 1989 nonostante questo grande buco di bilancio che si stava allargando, le prospettive per l’Italia sembravano ancora rosee, anzi più rosee che mai. Negli anni ottanta l’Italia crebbe, crebbe il reddito, crebbe l’industria tutti a ritmi elevati, facendo qualcuno parlare addirittura di un “secondo miracolo economico.” 40 Ma nel 1989 quando il debito era pari al 93% del PIL, incominciarono a salire le preoccupazione per come si sarebbe arrivati all’incontro di Maastricht del 1992, dove bisognava presentare conti in ordine per non rischiare di rimanere esclusi dal processo di unificazione della monetaria. 41 Nel 1989 l’unico che pareva comprendere la gravità della situazione del bilancio italiana era l’allora ministro del Tesoro Guido Carli, che raccolse gli inviti al rigore e soprattutto diede il via alla privatizzazione di grosse imprese pubbliche che terminerà nel 1992 con la dissoluzione dell’IRI. 42 Con il passare del tempo, l’allarme sul debito pubblico crebbe ancora, nel 1991 il rapporto debito/PIL superò il 98% e fu calcolato che su ogni singolo italiano pesava un debito di 23 milioni di lire; nel frattempo per via della crescente perdita di fiducia della popolazione nel sistema, ci fu un’ancora più ampia voragine nel fisco, dovuta all’evasione. 43 39 A. Lepre, Storia della Prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 1998, Bologna, Il Mulino, 1993, p.315. S. Colarizi – M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della seconda Repubblica, Bari, Editori Laterza, 2012, p. 17 41 L’Italia e il 1993. Come affrontare la grande sfida, “Corriere della Sera”, 8 giugno 1989 42 G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari,Laterza, , 1996, pp.385-431. 43 S. Colarizi – M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della seconda Repubblica, Bari, Editori Laterza, 2012, p.20. 40 45 Fu proprio grazie a Guido Carli e Mario Draghi, a cui dobbiamo l’articolo 104c del Trattato di Maastricht stipulato nel febbraio del 1992, che permetteva di entrare a far dell’euro anche gli Stati con rapporto debito/PIL superiore al 60% purché intraprendano un percorso di convergenza verso questo vincolo. 44 Il 17 febbraio del 1992 scoppia tangentopoli, ministri, deputati, senatori, imprenditori e persino ex Presidenti del Consiglio furono indagati e molti condannati, per i reati più vari, corruzione, concussione, finanziamento illecito di partiti ecc. L’Italia nel 1992 firma il trattato di Maastricht, è scossa da tangentopoli, sulla scena compaiono nuovi partiti e nel frattempo era già caduto il Muro di Berlino e l’URSS si era appena dissolta, era una fine di un epoca nel mondo intero, e in Italia la “Prima Repubblica” stava volgendo al termine. Nel periodo che va dal 1992 al 1994 si susseguirono governi tecnici e il debito pubblico salì ancora fino a raggiungere il picco del quasi 122% del 1994. In questa situazione di crisi al contempo politica ed economica risultò difficile tagliare le spese sociali, anche se furono chiesti sacrifici a partire dal 1992, ad esempio Amato, Presidente del Consiglio di un governo tecnico a partire dal giugno del 1992, riuscì a convincere i sindacati a rinunciare alla “scala mobile”. 45 I governi per trovare risorse dal 1992 al 2005 procedettero ad una trasformazione di banche ed enti pubblici in società per azione, per poi privatizzarle riuscendo a incassare da queste operazioni in totale 140 miliardi di euro. 46 Altro evento che infierì contro la già precaria situazione italiana, fu la crisi valutaria che nel settembre del 1992 costrinse L’Italia e la Gran Bretagna ad uscire dallo SME. 44 B. Piccone, Tangentopoli, Maastricht, Mafia Capitale e lo Stato assistenziale (che welfare non è), “Sole 24 ore”, 14 agosto 2015 45 S. Colarizi – M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della seconda Repubblica, Bari, Editori Laterza ,2012, p.344 46 E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, quarta edizione, Milano, FrancoAngeli, 2012, p.321 46 Sempre dal governo Amato fu varata la nuova legge finanziaria del 1993, che avrebbe dovuto tagliare soprattutto nei settori dove la spesa appariva più incontrollabile. La situazione del bilancio in termini di debito/PIL rimase praticamente stabile fino al 1995 e subì miglioramenti dagli anni successivi, scendendo costantemente fino al 2004 al 103%. Fondamentale in questi anni per riuscire ad adottare l’euro fu la maxi finanziaria ideata da Prodi e dal suo ministro del Tesoro Ciampi, che varata nel settembre del 1997, incluse al suo interno anche l’eurotassa, e alzò di due punti la pressione fiscale italiana rispetto al PIL. Questa mossa permise il rientro due mesi dopo all’interno dello SME e l’avvicinamento al 3% annuo di debito che sembrava oramai a portata di mano. 47 Il lustro che va dal 1996 al 2001 mostrano, o sembrano mostrare una piccola inversione di tendenza, presentando tassi di sviluppo di nuovo accettabili e la forte riduzione dei tassi d’interesse dovuti sia dalla politica degli Stati Uniti, sia dalla nostra adesione al trattato di Maastricht. Tutto ciò ha portato a una riduzione del rapporto debito/PIL che risulterà del 109% e che scenderà ancora fino al 2004. Diminuì dal 1994 al 2001 anche l’indebitamento delle amministrazioni pubbliche di circa 8 punti percentuali, per via della riduzione delle spese diverse da quelle degli interessi di 2 punti percentuali, di una diminuzione della spesa per interessi di circa il 5 e anche per un lieve aumento delle entrate dello 0,7%. 5.3-Dall’entrata nell’euro ai giorni nostri L’euro entra in vigore per la prima volta il primo gennaio del 1999 per tutte le forme di pagamento non fisiche, successivamente entrerà in circolazione sotto forma di monete e banconote il primo gennaio 2002, in Italia e in altri 11 Paesi europei. 47 P. Fornara, Settembre 1992, La lira sommersa e salvata, “Sole 24 ore”, 6 settembre 2012 47 Attraverso l’adozione dell’Euro e con l’adozione del D.lgs 10 marzo 1998, la Banca d’Italia viene sottratta alla dipendenza del governo italiano entrando a far parte del sistema europeo delle banche centrali e da questo momento la quantità di moneta circolante verrà decisa direttamente dalla Banca Centrale Europea. L’introduzione dell’euro porta sicuramente nel nostro paese una stabilizzazione dei cambi e una riduzione dei tassi di interesse, che mantenendo semplicemente le spese costanti a livelli pre-euro avrebbero permesso un deciso abbattimento del debito, come ha esattamente fatto il Belgio che era in una situazione simile a quella italiana al momento della adozione dell’euro. 48 Ma questo non avvenne perché le spese aumentarono di praticamente di pari passo con il reddito, che aumentò fino al momento in cui scoppiò con tutte le conseguenze la crisi internazionale nel 2008-2009, di 1-1,2 punti percentuali annui. 49 Il rapporto debito/PIL rimase sostanzialmente stabile fino al 2008 aggirandosi intorno al 105%, in seguito allo scoppio della crisi economica internazionale, nata dal crollo dei mutui subprime negli Stati Uniti, esplose nuovamente. Dai 1600 miliardi del 2007 si passò ai 1900 miliardi del 2011, ovvero in termini deficit/PIL dal 103% al 120%50, per poi arrivare al 2014 in cui si è sforato il muro dei 2 miliardi, per l’esattezza 2134 miliardi, con un rapporto deficit/PIL pari al 132%. 51 La situazione del debito pubblico al giorno d’oggi è questa, e nemmeno le politiche di austerità applicate negli ultimi anni sono riuscite a modificare questo trend di espansione del debito; debito che congiunto ad una spesa per interessi sul debito che nel 2014 è stata pari a 69.386 milioni ovvero 48 G. Majnoni, I tre porcellini e il lieto fine, “Il Sole 24 ore”, 2 dicembre 2011 E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, quarta edizione, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 325 50 E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, quarta edizione, Milano, FrancoAngeli, 2012, p 326 51 Ministero dell’Economia e delle Finanze - Notifica del Deficit e del Debito Pubblico inviata alla Commissione Europea ex Reg. CE 3605/93, così come modificato dal Reg. 479/2009 49 48 al 4,2% del PIL52, e alla mancanza anche di una reale crescita economica negli ultimi anni, non lascia prospettare una soluzione rapida ed indolore, ma sicuramente è una situazione che dovrà impegnare i governi e i cittadini italiani ancora a lungo. 52 Pubblicato il 7 luglio 2015, http://www.confartigianato.it/2015/07/studi-nel-i-trimestre-2015-spesa-per-interessisu-debito-pubblico-ai-minimi-dal-1999-ma-linstabilita-nelleurozona-mette-a-rischio-lulteriore-calo/ 49 Conclusioni L’obiettivo di questi cinque capitoli, è stato quello di ripercorrere l’evoluzione del debito pubblico italiano nei 150 anni di storia unitaria, evidenziando come, nonostante siano radicalmente mutate le situazioni, il debito pubblico, il ricorso a questo e il modo di onorarlo e tentare di tenerlo sotto controllo e magari abbatterlo, abbia costantemente segnato la vita economica e non solo del nostro Paese. Si inizia dai primi anni di storia unitaria, in cui il ricorso al debito avveniva soprattutto per sostenere spese “straordinarie” dovute come abbiamo visto all’accollarsi del debito degli stati preunitari, dalle guerre sostenute per raggiungere e terminare il processo unitario e dai grossi investimenti per tentare il “catching-up” con le nazioni più avanzate. Si è visto come con il passare del tempo il debito sia stato sempre più influenzato da fattori di mercato, come per la prima volta delle crisi economiche dovute e nate in altri Paesi abbiamo influenzato la nostra economia e abbiamo costretto l’Italia a fare ricorso al debito. Si è analizzato come la gestione della politica monetaria abbia manovrato in un senso o nell’altro lo stock di debito. Questa analisi storica evidenzia come nonostante siano mutate alcune dinamiche, l’attenzione verso questa tema resta praticamente invariato. Se si escludono gli anni che vanno dal secondo dopoguerra agli anni settanta, che per i motivi già evidenziati in questa analisi risultano più tranquilli sotto questo punto di vista, la questione del debito pubblico risulta sempre un argomento di primaria rilevanza per lo Stato italiano. 50 Il debito pubblico in aprile del 2015 ha raggiunto la cifra record di 2.194,5 miliardi di euro, questa analisi ha cercato di comprendere come si sia arrivati a questa cifra e quali siano le strade percorribili per abbattere questo debito, analizzando le scelte fatte nel passato. Senza dubbio l’Italia risulta avere qualche deficit strutturale che porta ad avere un bilancio in stato peggiore rispetto ad alcuni Stati simili e per dimensione, e per popolazione e per economia. Tutta l’economia non “osservata” ovvero quella sommersa e quella che deriva da attività criminali come riportato da osservazioni dell’ISTAT risulta ad esempio nel quadriennio 2005-2008 il 27,4% del PIL scomponibile nel 16,5% per quella derivante da evasione, e il restante per 10,9% derivante dalle attività illegali.53 Questo ad esempio, costituisce un grande ostacolo per avere un bilancio statale in equilibrio, colpire questo fenomeno, sarebbe una misura che andrebbe a giovare rapidamente sulle casse dello Stato e sull’economia italiana in generale. Ora l’Italia non è più libera di attuare alcune politiche che in passato sono state attuate con successo per via dall’adesione alla moneta unica e per aver delegato alla BCE la propria sovranità monetaria. Quindi anche per non incorrere nelle sanzioni che deriverebbero da gestioni poco virtuose del bilancio in seguito all’inasprimento della procedura sul deficit dei parametri di Maastricht; la gestione del debito sarà di fondamentale importanza, per l’economia e il futuro dell’Italia. Scelte difficili in ambito di bilancio quindi attendo i governi italiani nell’immediato futuro, dato che il nostro Stato non è più nella congiuntura politica ed economica favorevole come qualche decennio addietro. Per concludere si può dire che si, il debito italiano è pesante, e peserà inesorabilmente sui cittadini italiani nei prossimi anni, ma è sicuramente sostenibile da parte di una grande economia come la nostra, certo, come già detto, non si possono più fare scelte sbagliate, non si potranno più sostenere 53 ISTAT, La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali, 2008 51 le spese folli da parte dello Stato che ci sono state negli ultimi anni e né si può permettere ancora questo elevatissimo grado di evasione fiscale. Come si è visto il debito è salito ed è sceso negli anni, sicuramente con le politiche adatte e con una ripresa economica, il debito potrà scendere nei prossimi anni, ma ciò non toglie che resterà un argomento di vitale importanza sia per i nostri governanti che per tutto lo Stato italiano, ma come visto da questa analisi storica i problemi legati al deficit si possono superare e il debito pubblico potrà essere di nuovo abbassato, magari con politiche diverse da quelle esercitate nel passato e in un’analisi futura si potranno analizzare diverse soluzioni da quelle già viste; l’unica cosa certa è che il debito pubblico anche nei prossimi anni resterà un tema cardine per tutta la vita economica e non dell’Italia. 52 Bibliografia M. Arcelli, Politica monetaria e debito pubblico negli anni ottanta in Italia, Utet, Torino, 1990 G Brosio - C Marchese, Il potere di spendere, Bologna, Il Mulino, 1986 G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari,1996 S. Colarizi -M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della seconda Repubblica, Editori Laterza, Bari, 2012 G. De Luca-A. Monioli, Debito pubblico e mercati finanziari in Italia: secoli XIII-XX, Milano, FrancoAngeli, ,2007 E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, quarta edizione, Milano, FrancoAngeli, 2012 P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta, Napoli, Guerini, 1988 A. Lepre, Storia della Prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 1998, Bologna, Il Mulino,1993 G. Luzzatto, L’economia italiana dal 1861 al 1894, Torino, Einaudi, 1991 M. Marconi, La politica monetaria del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1982 A.Plebano, Storia della finanza italiana nei primi quarant’anni dall’unificazione, Torino, Roux e Viarengo, 1900 (ristampato dalla Cedam, Padova, 1960) S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini, Milano, Bompiani, 1979 M. Salvati, Stato e industria nella ricostruzione. Alle origini del potere democristiano (1944/1949), Milano, Feltrinelli, 1982 G. Toniolo, La politica monetaria degli anni ’50 (1947-1960), in Sviluppo e crisi dell’economia italiana, a cura di G. Franco, Milano, Etas Libri, 1979E. Vitale, La riforma degli istituti di emissione e gli “scandali bancari” in Italia 1892-1896, Roma , Archivio Storico, 1972 53 V. Zamagni, Dalla periferia al centro, Bologna, Il Mulino, 1990 54