168. “La Tradizione Vedica”

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168. “La Tradizione Vedica”
Secondo la tradizione indiana la piena conoscenza e consapevolezza del divino è stata realizzata dagli antichi saggi (definiti in sanscrito rishi).
Inizialmente trasmessa oralmente è stata poi trascritta in quattro volumi principali chiamati Veda (lett. “conoscenza”):
1.
2.
3.
4.
Rig Veda (composto tra il 1300 e il 1000 a.C., è una raccolta di 1028 inni alle divinità)
Yajur Veda (formulario liturgico ufficiale per il sacrificio)
Sama Veda (ulteriore raccolta di inni)
Atharva Veda (redatto intorno al 900 a.C., è un formulario magico)..
L’induismo prevede sei correnti filosofiche maggiori che si rifanno, in modo diverso, alle conoscenze vediche. La più antica è il Samkhya, che
postula una visione dualistica del mondo, in tensione polare tra prakriti (matrice primordiale dell’universo, principio dell’attività e del movimento,
ma non dotato di coscienza) e purusha (principio intelligente, dotato di coscienza ma immobile). La materia o energia primordiale si compone di
tre qualità tamas (“pesante”, “inerte”), rajas (“attivo”, “passionale”) e sattva (“luminoso”, “leggero”): fino a che restarono in equilibrio nessun
accadimento turbò la pace cosmica, ma nell’istante in cui una prevalse sull’altra iniziarono i processi dinamici dell’universo, si sviluppò la
materia, i 5 elementi e l’uovo di Brahma e da questi tre fattori l’universo come noi lo conosciamo. Gli esseri dominati da rajas e tamas (i primi
attivi e passionali, i secondi incostanti e senza forza) sono vittime di maya (illusione), solo gli uomini dominati da sattva riconoscono il mondo
come apparenza e percorrono la via verso la bontà e la verità, che conduce alla cessazione del samsara (il ciclo eterno di morte e rinascita).
Tra le altre correnti filosofiche dell’induismo merita la nostra attenzione il Vedanta (lett. “fine” o “compimento dei Veda”, termine originariamente
usato per definire le Upanishad la parte terminale dei Veda con le spiegazioni date dai rishi) ed in particolare l’Advaita Vedanta ( lett. "nondualità" o “monismo”), il cui tema centrale sono la natura di Brahma (brahman: “potere che tutto pervade”), l'Anima universale, e la sua identità
con l'atman (“sé”) , l'essenza individuale.
Come ogni corrente di pensiero anche il Vedanta è soggetto a interpretazioni diverse (dette darshana, cioè punti di vista) a seconda dell’autore
che lo espone; l'Advaita Vedanta - il Vedanta della Non-Dualità, appunto - è probabilmente il punto più elevato della spiritualità indù, in quanto
non intende contrapporsi alle altre correnti ortodosse ma le abbraccia osservandole da una visuale più alta.
L’Advaita Vedanta ha il suo inizio storico con Gaudapada (700 d.c circa) secondo cui molteplicità e divenire semplicemente non esistono, e
pertanto il mondo empirico è considerato reale solo in virtù di una percezione illusoria “Come una fune che al buio viene scambiata per un
serpente”. La liberazione (moksha) si ottiene quando si raggiunge la piena consapevolezza dell’identità tra l’anima individuale e l’anima assoluta
(“Aham Brahma asmi”: Io sono Brahma - “Tat tvam asi”: Tu sei Quello).
Anche Shankara, forse il filosofo indiano più celebre e per taluni il vero caposcuola del Vedanta, riporta tutta l’attenzione sull’unica realtà del
Brahman, che non possiede alcun attributo o qualità (nirguna). Ciò nonostante Shankara non nega del tutto la realtà empirica del mondo: finché
non si realizza il Brahman, il mondo viene creduto reale dagli ignoranti, ma per l'illuminato che ha realizzato il Brahman, il mondo non esiste.
Come si legge alla pagina www.riflessioni.it/enciclopedia/vedanta.htm:
“Il problema centrale nel sistema interpretativo di Shankara è la natura dell'identità tra il brahman e l'atman, sé individuale, respiro,
anima; secondo Shankara, l'avidya, non-conoscenza, impedisce all'anima individuale di comprendere la natura universale, non-duale
dell'essere unico; essa percepisce dunque solo individui e oggetti separati (cioè l'intero mondo dell'esistenza materiale, temporale) e non
comprende mai che tutte le esistenze separate sono essenzialmente irreali (questa illusione è nota come maya, il cui potere vela il
brahman). Finché il sé individuale rimane privo di vera conoscenza, cercherà ciecamente il proprio vero sé nel mondo fenomenico,
rimanendo irretito in tale mondo e continuando a sperimentare il samsara, la serie di esistenze, morti e rinascite che ogni anima non
illuminata subisce come conseguenza del proprio karma (le azioni buone e cattive compiute nelle esistenze passate che determinano la
forma delle esistenze future). Attraverso la conoscenza del Vedanta, però, l'anima individuale riconosce la realtà illimitata che esiste
dietro il velo cosmico di maya, comprende che la propria natura è identica al brahman, e con questa autocoscienza raggiunge il
moksha, ovvero liberazione da samsara e karma, e infine il nirvana.”
In tempi moderni all’Advaita Vedanta è legato, in particolare, il nome di Sri Ramana Maharshi, il quale ne fece esperienza diretta e solo in
seguito, attraverso i libri che lesse, ebbe conferma che la Non Dualità è la dimensione implicita e unicamente reale dell’universo conosciuto.
Il più elevato maestro occidentale Advaita, invece, è stato certamente Jean Klein, medico e musicologo, il quale ha scritto: “La creatura umana
è ancora un nome e una forma. Anche il fiore lo è. Lasciar andare la presa del nome e della forma significa lasciar andare il corpo e la mente.
Quello che rimane è la consapevolezza senza tempo, e questo è ciò che lei ha in comune con il fiore. La creatura umana appare in lei proprio
come il fiore. Quando lei non pensa a se stesso come uomo, dov'è l'uomo?”.
Per approfondire l’Advaita Vedanta: http://www.advaita.it
Per approfondire la filosofia induista: www.riflessioni.it/enciclopedia/induismo.htm
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