digital magazine maggio 2009 N.55 Fonal Records [ ] Sami Sänpäkkilä, Islaja, Kemialliset Ystävät, Paavoharju, Lau Nau Zombi, Golden Silvers, Elysian Fields, Disrupt, Pink Mountaintops, El-Ghor, 33 ore Cryptacize, Wildbirds & Peacedrums C’è del marcio nelle Marche L leroy , J esus F ranco & T he D rogas , B utcher M ind C ollapse , B hava Sentireascoltare n.55 Turn On p. 6 Zombi 7 Golden Silvers 8 Elysian Fields 9 Disrupt 10 Pink Mountaintops 12 El-Ghor 14 33 ore Rubriche Tune In 112 Giant steps 16 Cryptacize 113 Classic album 20 Wildbirds & Peacedrums 114 La sera della prima 116 A night a the opera 118 I cosiddetti contemporanei Drop Out 24 Fonal Records 34 C’è del marcio nelle Marche Recensioni 44 33 ore, Au, Blank Dogs, Dj Vadim, Gala Drop, Golden Silvers, The Horrors.... Rearview Mirror 104 Monks, Fridge, Lenny Kravitz, Funkadelic... Direttore: Edoardo Bridda Ufficio Stampa: Teresa Greco Consulenti alla redazione: Daniele Follero, Stefano Solventi Staff: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Sara Bracco, Marco Braggion, Luca Collepiccolo, Alessandro Grassi, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, Andrea Provinciali, Antonio Puglia, Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida spirituale: Grafica In e Adriano Trauber (1966-2004) Impaginazione: Nicolas Campagnari copertina: Sami Sänpäkkilä (Fonal Records) SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare News a cura di Teresa Greco I produttori Diplo e Switch insieme sotto il nome di Major Lazer per il debutto su Downtown Records / Cooperative Music il 26 giugno prossimo. L’album sarà Guns Don’t Kill People’s Lazers Do. La coppia ha prodotto MIA, Santogold e Bonde Do Role oltre ad una sterminata serie di singoli e remix (Gwen Stefani, Dj Shadow e molti altri)… A Steve Reich è andato il Premio Pulitzer per la musica per la piece Double Sextet, completata nell’ottobre 2007 e che ha avuto la sua premiere nel marzo del 2008… Robin Rimbaud aka Scanner con Rockets, Unto the Edges of Edges mescola tradizione e field recordings. Con la partecipazione alla chitarra di Michael Gira (Swans, Angels of Light) nel brano di apertura, Sans Soleil… A dieci anni dal loro ultimo disco in studio, tornano i Madness con un album celebrativo dei trent’anni di carriera, The Liberty of Norton Folgate, che è pubblicato il 22 maggio su Naive… Esce in DVD il film documentario degli Arcade Fire, Miroir Noir diretto da Vincent Morisset, che documenta il making del loro album del 2007 Neon Bible, … Su Youtube si può vedere il video di Shot in the Back of the Head di Moby, anteprima dell’album Wait For Me, in uscita il 30 giugno prossimo. A dirigerlo David Lynch che ha influenzato l’intero disco. Il singolo si può anche scaricare dal sito ufficiale (http://moby.com/download/1)... John Foxx e Robin Guthrie insieme per un album in uscita a maggio, Mirrorball, la cui idea è nata quando i due si sono esibiti al concerto di Harold Budd nel 2005 Il 19 giugno sarà pubblicato in Italia Animal, l’album di debutto del duo (dj/produttori) AutoKratz su Kitsunè, dopo il mini dell’anno scorso, Down & Out In Paris &London. Il disco sarà supportato dal singolo Always More, che conterrà remix di Yuksek e Shadow Dancer ed una cover di Swastika Eyes (Primal Scream)… A distanza di un anno,torna il songwriting dell’australiano Scott Matthew, rivelatosi l’anno scorso con l’album omonimo; sarà pubblicato in Italia su Sleeping Star il nuovo disco dall’infinito titolo: There Is An Ocean That Divides And With My Longing I Can Charge It With A Voltage Thats So Violent To Cross It Could Mean Death… Verrà pubblicato su City Slang il 12 giugno prossimo il nuovo disco di Cortney Tidwell, dal titolo Boys. Originaria di Nashville e figlia di una cantante country, ha collaborato anche con Kurt Wagner dei Lambchop… I Trail Of Dead tornano con il nuovo disco The Century of Self… Arrivano in Italia per una data live Jeremy Greenspan e Matthew Didemus, alias Junior Boys, per presentare il nuovo album Begone Dull Care, uscito l’11 maggio su Domino / Self e preceduto dal singolo Hazel. L’1 giugno saranno quindi allo Spazio 211 di Torino… A fine maggio, esce il nuovo lavoro di The New Christs di Rob Younger (ex Radio Birdman), dal titolo Gloria… Novità in casa Chemikal Underground, con il debutto di Lord Cut-Glass, nuovo pro- getto di Alun Woodward (ex-Delgados). Ritorna Nathan Fake con il nuovo album Hard Islands, in uscita sempre su Border Community (James Holden). Si tratta di un nuovo formato, con sei pezzi, che si colloca tra ep e mini-album… L’ex Blur Graham Coxon esce a metà giugno con The Spinning Top. Ospiti: Robyn Hitchcock e Danny Thompson… In attesa del settimo album della band previsto per novembre 2009 (dal titolo Tohu-Bohu) tornano gli Ulan Bator; il 13 aprile è uscito infatti un EP, SOLeils con cinque brani inediti sulla nuova etichetta del leader Amaury Cambuzat, Acid Cobra Records, distribuzione Venus. Ospiti James Johnston (Gallon Drunk, Nick Cave & Bad Seeds, Lydia Lunch) e Rosie Westbrook (Mick Harvey)… Arrivano in Italia i Boss Hog, band di Cristina Martinez e di Jon Spencer (Blues Explosion e Heavy Trash), special guest Micragirls (Finlandia). Saranno il 17 maggio a Torino- Spazio 211, il 18 maggio a Milano - Circolo Magnolia, il 21 maggio a Bologna - Locomotiv - Express Festival (date a cura di Electricpriest)… Dopo 4 anni di lavoro è ufficialmente fissata per il 2 maggio l’uscita di Balera Metropolitana dei Maisie, un doppio cd di ben148 minuti! Ospiti speciali: Amy Denio, Flavio Giurato, Mario Castelnuovo, Deadburger, Aidoru, Gomma Workshop e tanti altri… Sarà pubblicato solo in formato digitatale il prossimo singolo dei volcano! dal titolo So Many Lemons, il cui video girato a Chicago è già disponibile su Youtube… Death Cab for Cutie fanno seguire a Narrow Stairs non un album ma un EP, The Open Door, che è uscito digitalmente il 31 marzo e fisicamente il 14 aprile; include quattro pezzi inediti e un demo di Talking Bird, già apparsa sul precedente album… Sarà pubblicato il prossimo 28 settembre da Rai Trade Sunlit Silence il nuovo album degli italiani Kiddycar, preceduto a giugno dal singolo C’est Drole... News / 5 zombi decorative art 70s Golden Silvers Candido Feticismo per giovani blasé Dalla Pennsylvania attraverso un buco nero che conduce agli anni Settanta in un immaginario asse Londra-Berlino, tra tentazioni kraute e soluzioni prog. S teve Moore (chitarra, basso, synth) e A.E. Paterra (batteria, synth) sono personaggi da tempo noti in casa Relapse. Il loro debutto, Cosmos (Release Entertainment, 2004), ristampato su Aesthetics nel 2007, uscì in tempi non sospettabili di seventies trend, segnando sulla mappa quelle che di lì a poco sarebbero diventate le mete preferite dal duo di Pittsburgh: il prog nostalgico e visionario, risolto nella classica triade di tempi spezzettati, rapidi loop melodici e uso di sintetizzatori vintage e un mantice spruzza-ambient come solo nel sogno tangerino di Phaedra. L’immaginario di riferimento non era rintracciabile che nell’estetica di un decennio che celebrava il design d’interni, il cinema horror italostatunitense e la nascita dei videogiochi. Con Surface To Air (Relapse, 2006) la componente prog avanzava su quella ambient (i cambi di tonalità in Challenger Deep, con tanto di batteria sofferente di protagonismo), e si palesavano le evidenti influenze di Alan Parsons, non ultima l’ idea del concept album, perseguita da Cosmos (incentrato, appunto, sulla cosmologia) fino al recente Spirit Animal (costellato di riferimenti alla fauna terrestre). Dopo l’uscita di vari lp in edizione limitata, arri- 6 / Turn On viamo ai giorni nostri. A gennaio del 2009 è la volta di uno split con i Maserati e dell’opera terza, Spirit Animal, che percorre ormai in tutta fluidità la doppia corsia Tangerine Dream/Alan Parsons. Eventuali deviazioni pinkfloydiane sembrano trovare un precedente recente negli Air di Virgin Suicides, nonostante l’evidente diversità d’ intenti ed esiti. Là dove i francesi sfoggiavano un ego ingombrante, pur flirtando col revival, gli Zombi si perdono tra le trame della storia, inghiottiti in un’ odissea spaziale degna dei migliori incubi di Stan Brakhage. Ed è il feticismo passatista, sommato a un indiscusso gusto per accordi e melodie malinconiche e delicate, a costituire la cifra essenziale degli Zombi, che limano ogni barocchismo prog, coniugandolo col kraut in maniera quasi perfetta. E se è da qualche tempo che questi generi sono riaffiorati anche in ambienti poco sospettabili (pensiamo ai Guapo e alla nuova generazione cosmica), Moore e Paterra sono quelli che suggestionano di più, rievocando un tempo in cui Dario Argento e George Romero affidavano le loro colonne sonore ai Goblin e c’era sempre qualche alieno pronto a banchettare sotto un tavolo ovoidale. Francesca Marongiu Un trio di giovani belle speranze folgorato sull’iperstrada dell’informazione. O, se preferite, pervaso d’insano, godurioso feticismo po-mo. I l Macbeth è un pub piuttosto in voga in zona East London (70 Hoxton Street) che il terzo venerdì di ogni mese diventa la location del Bronze Club, serata a base di funk eighties e boogie electro con ospiti live, tra i quali negli ultimi tempi spicca un trio di giovani belle speranze. Si chiamano Golden Silvers, sono londinesi, di età compresa tra i 23 e i 25 anni - quindi non proprio di primo pelo per gli standard anglosassoni - e sciorinano una formula sonica sfaccettata e schizofrenica pur se britannicamente composta, affrontata col piglio blasé degli intrattenitori consumati. Ben supportato dal batterista Alexis Nunez e dal bassista Ben Moorhouse, il leader - il cantante e tastierista Gwilym Gold - si disimpegna tra fantasie pop-dance ed electro-soul, brume wave e carezze doo-wop con estro visionario e timbro flemmatico, senza farsi mancare increspature stradaiole ed inflessioni sciroccate. Nella prima metà del 2008 il loro repertorio presentava già questo alternarsi di situazioni a pronta presa e in strano e strutturato derapage, un campionario di riferimenti sonici da tirare fuori al momento opportuno quasi fosse il kit edonistico del feticista rampante, per la gioia degli astanti toccati nel vivo da questo impasto di candida verginità e morboso citazionismo. Tutto ciò rappresentava un boccone ambitissimo per le fameliche label inglesi, che iniziarono addirittura a sgomitare quando il solito NME e l’occhiuta Radio 1 accesero i loro occhiuti riflettori sul trio. Ad aggiudicarsi la volata fu la XL, per i cui tipi esce quindi l’esordio True Romances. “Non credo sia giusto dire che siamo una indie band”, ha dichiarato Gold. Non potrei essere più d’accordo. Indie è ormai un termine fuori corso, buono semmai ad indicare un mood - un contropelo sbrigliato, in romantica e finanche parallela divergenza rispetto al mainstream - che di certo i Golden Silvers non praticano, sublimandolo con quelle pose da parvenu che la sanno lunga e larga, senza preclusioni da snob alternativi. Oppure, se preferite, sembrano gli ennesimi rappresentanti di una generazione di bombardati/miracolati sull’iperstrada dell’informazione, dove l’accessibilità e simultaneità di ogni fenomeno culturale catalogato rende possibili anzi necessarie playlist in cui allegramente (?) convivono Ultravox e Beach Boys, Style Council e Kajagoogoo, Joe Jackson e Blur, Elvis Costello e Donald Fagen, Hendrix e Smiths... Il problema e quindi l’abilità dell’artista diventa togliere ciò che ingombra il percorso, sfrondare le ramificazioni nocive. Un processo assieme facile e rischioso, che seguiremo con attenzione. Magari godendone, nel frattempo. Stefano Solventi Turn On / 7 Elysian Fields disrupt Dancehall a 8 bit © Keith Sirchio Artigiani moderni Apice di una carriera tormentata,The Afterlife prova a dar il lustro che compete ai newyorchesi Elysian Fields. L a storia della musica è costellata di gente incompresa che, magari, ha faticato una vita raccogliendo solo briciole. Non andatelo a raccontare a Jennifer Charles e Oren Bloedow, da quindici anni al centro degli Elysian Fields. Band di valore marchiata da sostanziale indifferenza, della quale non ti capaciti considerando il physique du role di Jennifer e le relative corde vocali da Hope Sandoval rotonda e matura, da P.J. tutta sussurri e intarsio. Soprattutto allorché presti orecchio al loro equilibrato incrocio di folk, rock e jazz cui dona aggiuntivo fascino l’aura intellettuale giammai pretenziosa. Canzoni calde e appassionate le loro e il problema sta lì: nel non ostentare muscoli o supponenza, preferire mistero e lavoro di bulino scansando il possibile campare di rendita sul look e le formule annacquate. Meglio appagarsi trafficando con la crema sonora di New York e approdare in scioltezza a un quinto lp maturo e splendido. Dietro il quale c’è una storia tortuosa che parte da un contratto con Radioactive/Universal che nei Novanta cagiona l’ottimo esordio Bleed Your Cedar con Steve Albini al timone. La critica li esalta e un tour ne fa delle stelline oltralpe; pongono così le basi per un secondo disco sempre con l’ex Big Black, tuttavia l’etichetta lamenta un suono troppo oscuro e aspro; si rompe 8 / Turn On definitivamente nel 2000 e da allora il disco giace a prendere polvere. Ce n’era abbastanza da schiantare chiunque e dove sarebbe la novità, ma i Nostri fanno quadrato ed escono su Jetset con Queen Of The Meadow. Ancora l’Europa si mostra più ricettiva e lo stesso varrà tanto per Dreams That Breathe Your Name - edito per i tipi PIAS sei anni or sono - che per Bum Raps & Love Taps del 2005. Da lì avevamo perso di vista i Campi Elisi, pensandoli tranquilli in casa a scrivere e cacciare il naso fuori per andare a teatro oppure in sala prove. Lo scorso mese è invece saltato fuori dal nulla, grazie ai buoni uffici della transalpina Vicious Circe, The Afterlife (cfr. spazio Recensioni): incantevole sin dalla copertina, avvolge tra strutture articolate e arrangiamenti ricchi; senza leziosità, si fa strada e seduce poco a poco. Occorre prestare un po’ d’attenzione in più dell’usuale all’incontro tra Tindersticks e Rachel’s Ashes In Winter Light, all’esotica Only For Tonight e alla romanticissima The Moment: presto s’imprimeranno nel cuore e il resto verrà da solo, abbiate fede. Fossimo in Jennifer e Oren, però, un bel colpo di nocche sul legno lo daremmo comunque… Giancarlo Turra Il ritorno di Jan Gleichmar scompagina le carte del dubstep e ci riporta in Giamaica. Parola d’ordine: Dancehall D isrupt e la sua etichetta Jahtari sono il miscuglio nerd perfetto per questo 09 post-dubstep. Dopo un decennio di esistenza, il ‘genere-non-genere’ tutto UK bas(s)ed si insabbia nel barocco e si candida a far la fine del drum’n’bass: l’entusiasmo ‘old school’, le serate dubstep-based con i soliti DJ, l’oblio e forse, tra qualche lustro, il ripescaggio. La solita tiritera underground che siamo abituati a seguire travolgerà (o ha già travolto) il figlio ‘intelligent’ del grime. Jan Gleichmar fa il botto nella scena dubstep nel 2007 con un disco su Werk che sposta l’ago della bilancia sul dub: Foundation Bit è appunto -come dice il titolo- una dichiarazione d’intenti classica, quella lunga linea rossoverdegialla che dalla Giamaica arriva in Europa e si trasforma con i synth. In due anni ne cambiano di cose, e quindi il nostro si stacca dal mainstream (se così si può dire) e fonda un’etichetta indipendente che insiste sull’immaginario a 8 bit: Commodore 64, Atari, Spectrum e le altre consolle che ci proponevano un mondo pixellato rigorosamente in quadricromia che viaggiava su nastro e che in sè aveva un retaggio downtempo. Non c’erano i giga, una volta si viaggiava con le cassettine e per i più fortunati con quei floppy discs che oggi se li guardi ti scende la lacrimuccia. Quella lentezza strutturale porta il ragazzo a interrogarsi sull’uso della tecnologia. E allora visto che non ha tempo di ‘stare al passo con i tempi’, si mette a rifare tutto da capo con un laptop. Lo stile lo-fi che contraddistingueva le prove dei vari Mad Profes- sor o di altri visionari fumati di erba, si innesta nel continuum breakbeat resuscitato da Pritchard con il suo progetto Harmonic 313. Se fai 2+2 arrivi quindi all’altro spettro che si aggira da ormai 3 decadi: Kraftwerk. L’immaginario del gruppo di Düsseldorf con i suoi robot che poi si faranno di E, si mixa con il dancehall. Il risultato si chiama The Bass Has Left The Building. Se scorri fra i titoli, ti accorgi che la citazione è palese: It’s More Fun To Dubpute, Hail The Robots e altri titoli sono la connessione con quei suoni proto-hi-fi con la patina krauta di Ralf & Florian. Ma non solo. Nel disco (uscito lo scorso febbraio) c’è anche il ripescaggio della post-coin-op generation: Sega Beats, Bruce Lee, Impossible Mission III sono giochi o consolle che hanno segnato i polpastrelli di milioni di nerd. E in più, per finire c’è pure il dancehall, quel levare che non sconfina mai nell’acido ma che ti fa muovere il culo con la patina da club. A differenza del reggae puro, il dancehall è una cultura da nerd. Un’avventura club-based che nei 70 in Inghilterra avrebbe (s)fondato interi sottogeneri, sempre a contatto con lo sballo. Ma se là ci andavi di blue pills, qui oggi sembra ritornare l’individualismo da cameretta, ovviamente ereditato dal dubstep (obbligatorio citare qui Benga che dice di aver prodotto molte tracce solo con la Playstation...). Uno scarto dalla decadenza che si interroga sulle radici e che ci piace. Sua maestà The Bass ha definitivamente lasciato il palazzo dei bottoni. Marco Braggion Turn On / 9 Pink Mountaintops © Jody Todac DEVOTIONAL MUSIC: l’enigma Stephen McBean Dopo il passo falso del secondo Black Mountain, Mr. Stephen McBean è tornato tra noi in ottima forma con i Pink Mountaintops. Abbiamo provato a rilfetterci su... D ietro l’aspetto rilassato e il (non) look a mezza via tra l’hippie di campagna e un membro pentito della “family” di Manson, il canadese Stephen McBean - eminenza grigia di Pink Mountaintops e Black Mountain - nasconde una sorta di schizofrenia artistica che lo rende una figura assai interessante. Sebbene un lavoro celebrato ovunque come In The Future abbia fallito nell’impressionarci positivamente, quanto sin lì fatto mantiene una ragguardevole caratura, comprovata di recente dal terzo lp 10 / Turn On delle Cime Rosee, quell’Outside Love che prosegue l’opera di (ri)mescolamento enciclopedico dello scibile “rock”. Pregevole e riuscito, si diverte con le tue aspettative come un gatto col topo, come ogni artista di un certo livello sa o talvolta addirittura deve fare. Perché da questa combinazione tra guardarsi le scarpe e levarsele per correre nella prateria, da questa mescolanza di country, souledelia e molto altro ancora emerge infine un’identità. Un seducente mostro di Frankestein composto da pezzetti e citazioni di decine d’altre band e generi sovente distanti uno dall’altro, nel quale le cuciture non si notano affatto. Dagli Stooges e Velvet corretti da un approccio qui new wave e là acid-rock dei primi due lavori ci si è ora avvicinati di più ad albioniche lande e tuttavia mai completamente, al punto che i “prestiti” sonori si confondono coi relativi “pretesti”. In altre parole, il quasi quarantenne McBean non nasconde i modelli cui s’ispira, paga ogni dovuto debito e fabbrica una musica colma di devozione verso chi lo ispirò: il felice paradosso è che, contando su decenni di sviluppo stilistico e del distaccato sarcasmo tipico della propria generazione, compie oltrepassa il mero tributo e l’archivismo. Per quanto possibile oggidì, possiede creatività. Fossimo negli anni Ottanta, i Pink Mountaintops finirebbero a far compagnia per attitudine (e ogni tanto anche per le sonorità…) ai Flaming Lips e non ai Chesterfield Kings. Ricordate? Poiché l’industria delle ristampe era attiva ma mai come da dopo l’imporsi del cd, occorrevano formazioni che rifacessero tali e quali gli idoli del passato per mantenerne la memoria storica a uso dei posteri. Da ammirare, anche se le basi delle commistioni a 360° del decennio successivo si ponevano giustappunto altrove e finiranno per sostenere un far musica privo di pregiudizi, che cita e sovrappone le pagine della Storia e, non di rado, rappresenta quanto di meglio offre l’attualità. Dunque sorprende ma solo fino a un certo punto che, nelle tre fatiche di studio sin qui pubblicate a nome Pink Mountaintops, il richiamo alle fonti non scada in scopiazzatura; che non si ascoltino passaggi e idee che annoiano perché chi le esegue ragiona già ragiona da vecchio, affidandosi a opzioni comode e non caricandosi in spalla un po’ di rischio. È l’osare che ha fatto Grande tanta musica e, nei limiti di un oggi che procede per piccoli gesti, la ricerca di incognite resta possibile. L’epoca delle rivoluzioni è ormai dietro le spalle, insomma, e ciò da lungi: ora ci basta chi abita luoghi confortevoli e li arreda con un tocco personale da reggere più di qualche educato passaggio di prammatica sullo stereo e lasciarsi ricordare oltre il momento fugace. Cosa che accade anche in Outside Love, in occasione del quale McBean ha scomodato una dozzina di musicisti ed è il loro “pedigree” a raccontarsi rivelatorio: oltre ai sodali che figurano pure nei Black Mountain, spicca la presenza della sottovalutata e mistica musa “Americana” Jesse Sykes e del suo chitarrista Phil Wandscher (che nei Whiskeytown masticò parecchio country: il conto torna), di una Sophie Trudeau che, dritta dagli A Silver Mt. Zion lavora con somma raffinatezza e un John Congleton che - incredibile ma vero! - produce con misura per lui inedita. L’aria da disco maturo e importante è, in ragione di ciò restituita appieno, sottolineata dalla scrittura e dalle atmosfere, intrise del sonic-gospel alla Jason Pierce se depurato dal frastuono, dell’oceanico e sognante indie-rock che presagì lo shoegaze e di quella consapevolezza “roots” che oltre l’Atlantico non manca mai. I medesimi panorami di Axis Of Evol, direte voi: sì “ma anche” no, giacché gli ultimi due ingredienti posseggono sapori più robusti e penetranti. In gemme come Axis: Thrones Of Love ed Execution percepisci l’Inghilterra noise-pop e il respiro spectoriano dei primi ’60. A quel punto è chiaro che McBean non divulga in quest’epoca dove sappiamo già tutto; di come preferisca puntare il riflettore sui dettagli: ad esempio mostrare quanto Jesus & Mary Chain adorassero Phil Spector o, in Vampire, cavare di tasca l’anello che congiunge Dylan e Neil Young. Persuadere che i Mazzy Star più bucolici convivano in magica armonia a fianco di Bill Callahan e del battito urbano appartenuto a Suicide e Modern Lovers. Accolgono così un senso del tutto nuovo e diverso quelle dichiarazioni del Nostro che ricordano gli ascolti a vent’anni di Dinosaur Jr., Meat Puppets e Black Flag: non ci sono in questo album e nemmeno nella coppia che lo ha preceduto. In loro vece rinvieni la medesima mentalità che animava costoro, la volontà di riscrivere le regole dei dischi con cui erano cresciuti e che amavano. Lo stesso discorso valga per la strada verso gli “anta”, popolata di Royal Trux e Karen Dalton: a tutti tocca diventare grandi e non si scappa. Rimane un rebus in ogni caso da decifrare, quest’uomo del British Columbia che traffica con le rock band da che frequentava le medie: senza impensierire granché circa il prossimo Black Mountain (un altro pasticcio o la lezione sarà stata assimilata?), offre la scintillante noncuranza tramite la quale i rimandi al passato si intersecano tra loro in un quadro di non indifferente bellezza. Semplice e decorosa come quella dell’artigiano che si trasforma in maestro e cesella le perle più fulgide quando non si fa prendere da una serietà e non rincorre un’innocenza non più possibili. Che, in fondo, stia davvero e soltanto facendo ciò che più gli piace e siamo noi - pennivendoli con molto tempo da riempire pensando… - gli unici a non averlo capito? Giancarlo Turra Turn On / 11 primis, vi siete promossi produttori artistici, anche se Paolo Messere continua a darvi una mano... Si, sono cambiate moltissime cose dalla realizzazione del primo album, eravamo più giovani ed inesperti. Sicuramente l’esperienza in studio con Paolo Messere, per Dada Danzè, è stata indispensabile e molto formativa per la nostra crescita artistica. Negli anni seguenti la prima esperienza, abbiamo raggiunto un forte equilibrio artistico e non solo, tanto è vero che le due labels che hanno prodotto il disco hanno ritenuto opportuno affidarci anche la produzione artistica di Merci Cucù. C’è poi il pressoché totale abbandono dell’idioma italico in favore del francese, già presente nell’esordio però solo in tre tracce. Cos’è accaduto? Dopo aver realizzato in francese solo alcuni brani del primo disco, ci siamo accorti che quella soluzione rappresentava e rappresenta la nostra dimensione ideale, e si sposa bene con la scelta estetica che ha sempre accompagnato il gruppo. In questo momento, reputiamo l’armoniosità di questa lingua il sigillo della nostra sperimentazione musicale, ma questo non esclude eventuali cambiamenti futuri… Aspettatevi il prossimo disco in inglese o magari in russo! El-ghor © Vincenzo Giamundo sigillo french-touch A due anni dal debutto Dada Danzé, album che sembrò spurgare da una ferita per fare punto e accapo sulle macerie del cantautorato rock italiano, l’opera seconda dei campani El-Ghor segna una sterzata decisa, forse decisiva. Ne abbiamo parlato con Luigi Cozzolino, voce e chitarra della band. Iniziamo... dall’inizio: cosa è accaduto in quel fatidico dicembre del 2003 che ha visto nascere la band? Io e Francesco, che avevamo già avuto esperienze musicali in una stessa formazione precedentemente, ci siamo ritrovati dopo un breve periodo di stasi a 12 / Turn On voler mettere su una band: nell’arco di poche settimane si è aggiunta Ilaria ed in seguito Luca. Tutto ha avuto inizio da qui. Il percorso tra Dada Danzé a Merci Cucù ha segnato sostanziali cambiamenti. In L’italianità è per così dire rinnegata anche dal punto di vista musicale. C’è più spinta direi punk-wave versante anglo-francese, svanisce quasi del tutto la discendenza rock-cantautoriale alla Marlene e Marco Parente... Vogliamo intenderla come una presa di distanza? Ci teniamo a dire che siamo cresciuti con la musica italiana e ci sentiamo italianissimi, non cerchiamo in nessun modo di allontanarci da questa scena, anche perché la reputiamo, almeno negli ultimi anni, estremamente interessante e prolifica. Quello che realizziamo musicalmente, e che riteniamo assolutamente spontaneo, è il risultato del diverso modo di vivere la musica di ogni elemento della band. La tromba di Luca Fadda si sposa magnificamente col vostro sound. Tornerete a collaborare? Visto il grande rapporto di amicizia che ci lega e che ci ha portato a questa collaborazione, sicuramente ci sono grosse possibilità che ciò riaccada. Luca ha avuto da parte nostra piena fiducia ed ha dato un grandissimo contributo in alcuni brani; ha dimostrato, ciò che già sapevamo, di essere un artista originale e con grande senso musicale. Oltre a quelli di Luca, sono stati importanti anche gli interventi di Davide Arneodo dei Marlene Kuntz, di Francesco Di Bella dei 24 Grana e di tutti gli altri musicisti. Spendete molta energia nei videoclip, infatti Danzé e Sans Lumière guadagnarono molti consensi all’epoca. Con Monsieur Paul mi sembra che la tradizione prosegua... Ci sono altri clip in programma? Progetti video-cinematografici di più ampio respiro? Siamo molto felici che i due video del primo album abbiano suscitato grosso interesse. Tra poche settimane sarà visibile il nuovo video Monsieur Paul, primo singolo estratto da Merci Cucù, realizzato dalla Mastofabbro Production e diretto da Pier Paolo Patti (videoartista già al lavoro con Retina.it, Baba Sissoko e Remo Remotti tra gli altri, ndi). Ci auguriamo che la nostra musica possa essere utilizzata anche in campo cinematografico, ma per il momento non c’è nulla in programma. Si accettano proposte! Non si inizia un’avventura come la vostra senza ambizione. Mettete da parte ogni discrezionalità e ditemi: in che misura vorreste lasciare il segno nel librone del rock’n’roll? Beh, c’è ancora tanta e tanta strada da fare e speriamo di poter arrivare molto lontano. Artisticamente siamo più che contenti di quello che stiamo vivendo, vorremmo solo portare la nostra musica in giro il più possibile. Indicatemi quattro nomi - uno ciascuno, se volete - che idealmente vorreste nominare quali vostri numi tutelari. Assieme al mio in bocca al lupo, per quel che vale. Per quanto mi riguarda, mi affascina ancora il mondo costruito da Ian Curtis e i Joy Division durante la loro breve carriera; per Ilaria è da sempre Jim Morrison; per Luca è Ludovico Einaudi, mentre Francesco è molto legato ad un altro grande musicista... Picasso. Crepi il lupo! Stefano Solventi Turn On / 13 33 ore Solitudini e similitudini Musicista d’esperienza e artista creativo, Marcello Petruzzi esordisce come cantautore dopo un passato nei Caboto e nei Franklin Delano. Una svolta che ha un nome (Quando Vieni) e un presente in divenire. - Edoardo Bridda e Fabrizio Zampighi U n vinile di De Gregori, Rimmel, ereditato dai genitori, e qualcosa di non ben precisato di Lucio Dalla: questo il bagaglio minimo dichiarato da Marcello Petruzzi come influenza per le proprie canzoni. E qualcuno già insiste: Piero Ciampi. E lui, di Livorno come il tragico cantautore, ovviamente nega. “È una sorta di buon fantasma cittadino”, dichiara. Noi ci accontentiamo. Sappiamo quanto sia difficile fare un’analisi dei propri riferimenti, specie quando a questi sono arrivati altri prima di te e in tempi non troppo lontani. Non voglio che Clara, Baustelle, i Cosi. È da un po’ di anni che c’è una Sanremo 14 / Turn On “buona” riscoperta e riamata. Una nuova sensibilità che ha operato anche una piccola, grande rivoluzione: riavvicinare le nuove generazioni alla tradizione musicale più genuina del nostro dopoguerra. Così, arriva Marcello e, come direbbe Emidio Clementi, c’è forza nelle sue parole. Il suo non è quel pane urlato e nemmeno la posa alt-qualcosa nascosta dietro a una presunta tradizione. Si sa, quando i cassetti li apri con troppa forza rischi di interpretare poi Il personaggio. Non Marcello, una vita silenziosa la sua: prima Livorno e poi Bologna, madre (quasi) naturale la prima, genitore in prestito la seconda. Con la città felsinea arriva anche l’amore per certo prog molto jazzato (i compianti ma non troppo, viste le carriere dei ragazzi, Caboto) e poi il folk (ex post) rock americano dei Franklin Delano periodo di mezzo, ovvero “maccaroni” e Califone. Ancora, quelli che vanno in America a suonare proprio grazie alla band di Rutili. E dunque, se con i Caboto il Marcello musicista si fa le ossa nei centri sociali improvvisando senza cinture di sicurezza e mescolando rock, India e contemporanea (ai bei tempi dell’Ex Mercato 24 facevano non poco effetto!), è con la band di Paolo Iocca che il nostro impara, anche a proprie spese, la durezza della vita on the road. Chilometri da macinare, junk food e tensioni dovute alla stanchezza. Al ritorno dalla tournée l’abbandono della band e la voglia di appartarsi un po’. Del resto Petruzzi è un equilibrio di mitezza e riflessione, in tutto e per tutto speculare a Iocca, uno invece di nerbo e idee come squarci di luce dal cielo. Lo caratterizza quel pallore lunare che dalla faccia passa direttamente alle strofe. E di cui pause e apprendimento sono la base. “Ho fatto sforzi tremendi per separarmi dal mio vissuto, temendolo ancora e scongiurando l’imbarazzo di offrire, a risultato ottenuto, solo un pugno di visuali trascinate e disilluse”, ci ha confessato in una bella chiacchierata. Ci viene ancora da rubare frasi a Clementi, perché Quando Vieni lavora sui bordi della quotidianità, è un canzoniere che indaga rapporti umani e analizza i conflitti messi forzatamente a tacere. Specie quelli che tornano a sconvolgere il nostro quotidiano, incrinando certezze e trasformando sorrisi in ghigni ambigui. Questo il nucleo fondante dell’opera, e attorno non c’è semplicemente una chitarra. Ci sono gli amici. C’è un prezzemolo Bologna Violenta (Nicola Manzan, all’attivo anche sortite nel folk sublime di Alessandro Grazian), Francesco Brini, Pietro Canali, Elia dalla Casa e soprattutto Matteo Romagnoli ovvero 4fioriperzoe. Una di quelle figure senza le quali la storia non sarebbe stata la stessa. “Al contrario di me, è esperto in canzone d’autore italiana e in tanti episodi mi ha proposto scelte e adattamenti che oggi reputo molto importanti”. Sacrosanto, ma è Marcello ad aver operato il processo più difficile, “staccare i fatti e i loro racconti dalla carne”. I luoghi e le immagini che poi tornano a galla, mescolandosi al presente bolognese. A proposito del capoluogo emiliano, riesce difficile paragonare 33 Ore ad altre realtà musicali della città. Città che del resto è, ora più che mai, orfana di quell’humus condiviso che la rendeva unica. Dicevamo dei Massimo Volume, le cui velleità letterarie ed esistenzialiste posseggono intensità simile, ma raggio d’azione decisamente diverso. Bologna è dentro Marcello ma dentro Marcello c’è anche un misto di consapevolezza e ricerca. “Tendenzialmente puoi considerarla una scelta “radicale”: quando il luogo fisico acquerellato serve a descrivere un paesaggio emotivo oppure si fa specchio di uno sguardo. Il focus lo vedo nell’ambiente ridotto, dove va in scena il rapporto tra un personaggio e un qualsivoglia riverbero del suo spazio, sia esso una valigia, il bordo di una finestra, le mattonelle di una camera oppure un abitacolo. Ammetto una certa vaghezza descrittiva sul generale, ma tutto si fa più nitido sul particolare per poi emergere sulla pelle e oltre. Un blow-up sui piccoli gesti, rivelatori e affettivi, che hanno residenza ovunque.”. Come accennavamo, quello del Petruzzi è un percorso parallelo alla nuova ondata di cantautori: il surrealismo melodico di un Dente, il cut-up e la catarsi de Le luci della centrale elettrica, la vaghezza del ricordo filtrata dalla dimensione onirica di un Adriano Modica: “Il tempo in cui tornano le cose dopo che sono accadute. Cito Abilio Estevez: Un vaso si rompe e arrivano i ricordi. Quando vieni è sostanzialmente questo.” Lui deve maturare, dice, per vedere che cosa è diventato. E insiste sulla leggerezza. Non tanto nei testi, ma nella vita stessa.Tradotto significa: zero immagine da maledetto o pose da cantautore che se la tira. Come sottolineato anche dalla storia dietro alla sigla 33 Ore: “È un soprannome rimasto da una vecchia gara di resistenza giocata sulla volontà. Il fatto è banale, mi è capitato molti anni fa e lo racconterò attraverso le tappe: Livorno-Firenze-Genova-Milano-Trieste-la dogana slovena ancora extracomunitaria-Trieste-Milano-Bologna-Firenze-Livorno-rinnovo di carta di identità in comune-Firenze-Bologna-Ancona-Croazia. Più o meno in 33 ore. Ometto i particolari e occulto le immagini.” Quale miglior modo per concludere un ritratto? Turn On / 15 Hanno appena pubblicato il loro secondo lavoro, Mythomania, e ci hanno decisamente lasciato a bocca aperta e mente vagante. Li abbiamo intervistati cercando di andare a fondo delle loro storie – nonostante i loro nomi siano già noti e dei loro giochi con il pop del passato. Coordinate e sfumature dei Cryptacize. Cryptacize C oordinate C - Gaspare Caliri 16 / Tune In © Dennis Renshaw Coordinate e sfumature i sono le coordinate per definire una cosa. Ci sono però anche bolle che seppure soggette alla definizione in qualche modo la rifuggono, con piccole pause di riflessione. È facile dire chi sono Cryptacize, da dove vengono e come sono arrivati a noi. Ma è la loro musica che poi, in definitiva, ci fa guardare altrove. La città dove Nedelle Torrisi (voce, chitarra, synth), Chris Cohen (voce, chitarra), Michael Carreira (batteria) e Aaron Olson (basso) formano la band di cui vi parliamo è Oakland, anche se presumibilmente presto diventerà Los Angeles. Nedelle – di origini siciliane, verso le quali sente una grande affinità - è nata e cresciuta nella Bay Area, più precisamente nella Inner East Bay; ora, ci dice, ha bisogno di cambiare scenario. Chris è una vecchia conoscenza di chi segue e ha seguito le vicende musicali di Frisco e dintorni. È stato membro dei Deerhoof, nonché una presenza fondamentale nel gruppo, che ha orientato durante la sua permanenza verso un suono più pop; probabilmente andava cercando un’entità sonora che solo oggi, crediamo, sia riuscito a corteggiare e possedere pienamente. Di mezzo c’è stata The Curtains, sua emanazione diretta, un’arena dove spiegare la sua passione per la melodia e fare tentativi di ri-percorso pop. È lì che Chris incontra Nedelle; il sodalizio musicale tra le loro due voci sembra da subito azzeccato, qualcosa da valorizzare; ma solo nel 2007 diventa materia per una nuova band. “Il passaggio è stato dolce; Nedelle e io abbiamo formato Cryptacize quando abbiamo iniziato a scrivere insieme”, ci dice Chris. In effetti la penna che confluisce in Dig That Treasure (Asthmatic Kitty), loro disco d’esordio, segna cambiamenti non indifferenti. Nedelle ci spiega come anche il metodo di scrittura sia cambiato: “Chris e io ci bilanciamo scrivendo insieme; è questione di chi è ispirato a scrivere in un dato momento. Scrivere canzoni insieme può diventare difficile quando si lavora a parti diverse di un pezzo contemporaneamente. Stiamo ancora lavorando per perfezionare il processo. Riguardo alle melodie vocali, ci ritrovo i diversi generi musicali in cui siamo immersi. Tutto è pensato per seguire le evoluzioni melodiche di Chris e Nedelle. Aaron Olson e Michael Carriera si sentono pochissimo; l’effetto d’insieme è pastorale, gli strumenti quasi timidi. La complessità vocale fa il paio solo con quella costruita dalla chitarra, che a tratti (The Shape Above) ricorda i Meat Puppets di In A Car, in una versione ultrararefatta, che pecca di un po’ di dispersione. Tutto sommato Dig The Treasure non è altro che l’adattamento in studio delle prove live dei Cryptacize; ora, racconta Chris, pensano prima a farsi il “palato” che a suonare dal vivo. S fumature In Dig That Treasure fanno comunque la loro comparsa quegli elementi che oggi, con Mythomania, possiamo affermare come tratti distintivi della band. Voci a parte, inizia a sprigionare dalle tracce anche quel tocco di chitarra peculiare a Chris, quasi desertico, memore comunque del post-punk più docile (No Coins). E poi compaiono dei momenti in cui il suono sembra spegnersi per ripartire successivamente; quelle pause, che daranno uno straordinario senso della stratificazione della struttura in Mythomania. “Le pause; un’osservazione divertente. Certo, usiamo le pause, ma come tutti gli altri elementi musicali. Sembra che la maggior parte della musica popolare abbia paura del silenzio. Noi no, se è funzionale alla riuscita di una canzone.” Ma sono anche i nomi d’altri che iniziano a pioverci addosso. Aldilà delle biografie, e definitivamente con lo splendido Mythomania (Asthmatic Kitty, 2009) l’ascolto dei Cryptacize che dischiude dei mondi. Viene da pensare addirittura a scene intere, più che a singole band. La loro musica si interfaccia con la tradizione pop – possiamo dire soprattutto inglese – con la disinvoltura e la scafataggine di Tune In / 17 57001²/101.+6*5&+/'05+105³ .2:%& 5176*'40.14& 5#8#6*5#8#.#5 24'(75'².#..#/#³ %& 5610'56*419 DIECI ANNI DI GLORIOSA ESISTENZA ED ORA UN ALBUM CHE DEFINISCE UNA VOLTA PER TUTTE LE REGOLE DEL DRONE-DOOM, CALPESTANDO ANCHE L’EREDITÀ DEL BLACK METAL. AL DISCO COLLABORANO JULIAN PRIESTER (TROMBONISTA GIÀ CON SUN RA ED HERBIE HANCOCK), EYVIND KANG (JOHN ZORN, MIKE PATTON), DYLAN CARLSON (EARTH), OREN AMBARCHI ED ATTILA CSIHAR. ANCORA SCOTT HERREN (AKA PREFUSE 73), CON UN’ALTRA AVVENTURA SONICA DEI SUOI SAVATH & SAVALAS. MELODIE DI STAMPO CATALANO E RITMI CHE SANNO DI SUD AMERICA. I DUE NUOVI COLLABORATORI SONO PUYULEO MUNS E ROBERTO CARLOS LANGE, ENTRAMBI MOSSI DALL’AMORE PER SONORITÀ LISERGICHE. &+54726 ²6*'$#55*#5.'(66*'$7+.&+0)³ 2+0-/1706#+06125²1765+&'.18'³.2%& ,#),#)79#4 STEPHEN MCBEAN OLTRE AD ESSERE IL LEADER DEI BLACK MOUNTAIN, È ANCHE IL MAGGIOR COMPOSITORE DI QUEST’ALTRA FORMAZIONE CANADESE, CHE USA TONI SICURAMENTE PIÙ RAFFINATI. PARTECIPANO MEMBRI DI A SILVER MT. ZION, DESTROYER E JACKIE-O MOTHERFUCKER. +06174/#))+141/#+0+6/#))+14#8'00#*#0#$+ (+4'10(+4'²6*'14%*#4&³ %& ;170))1&4'%14&5 #46*744755'.. ²6*'5.''2+0)$#)5'55+105³ .2:%& 5.''2+0)$#) $4#+0&1014²9#56'&(7<<':%'55+8'³ %& $4#+0&10144'%14&5 *64-²/#44;/'610+)*6³%& $.#56 (+4562'6+6' +5+5²9#8'4+0)4#&+#06³ .2:%& %1052+4#%; 5.''2;570²'/$4#%'³.2%& #624'%14&+0)5 © Roger Collins .2%& ,#*6#4+ 911&'05*,+25²&15³ .2%& *1.;/1706#+0 oggi. In questo – ma anche nei suoni – ci fa pensare all’ambiente (più che a uscite precise) della prima Creation, con quella capacità di restaurazione pop con il filtro del dopo post-punk. Soprattutto però abbiamo un doppio (e raddoppiato) input di cui parlare; non lo si focalizza subito ma i suoi sentori crescono con l’ascolto. È il tepore freddo della Rough Trade degli inizi che si sovrappone alla ricarica di quelle atmosfere che ci hanno concesso i Beach House l’anno scorso. Non solo; il suono Cryptacize non è simile in sé alla Messthetics di allora; è come se quei principi di dolce disordine – che mettevano sotto un’etichetta Young Marble Giants e Raincoats - fossero oggi riadattati per coprire non un elemento alla volta ma il modo stesso di comporre una canzone. Da quello che ci dicono non era però questa la loro intenzione, “ma suona interessante” – ammette Chris. E ciò ci direziona subito verso un bacino enorme (e colmo) a cui fare riferimento nel caso in cui si voglia sapere cosa ascoltano i Cryptacize. C’è il loro blog - cryptacize.blogspot.com – dove è possibile 18 / Tune In ascoltare i mix che periodicamente il quartetto/ duetto pubblica. Un altro rione affollato. Una specie di podcast personale – o muxtape, per essere più aggiornati coi tempi - che mescola soul (anima) e ritmi (corpo), anche scorporati; un esempio è il passaggio tra il calore di Pair Back Up Mass With di The Bowling Hex e la psichedelia di Pixillation di Gershon-Kingsley. La chiave di lavoro sul revival ‘60 è insomma a tutto tondo, e comprende le origini come i discendenti che già hanno fatto operazioni simili. Lo spettro di ascolti del combo è davvero ampio; ora suoneranno con un altro loro ascolto ricorrente, e stravagante più degli altri, cioè Ariel Pink; e al tempo stesso dall’EP che ci anticipano essere in uscita da qua a uno o due mesi non ci aspettiamo altro che quelle melodie quasi già sentite e però mai scontate; comunque isolate in una bolla di isolamento disperso in una rete. %.7'5²56³.2%& %1056'..#6+104'%14&5 %4;56#.56+.65²#.+)*61(0+)*6³ .2%& #0)7.#44'%14&5 ARRIVA LA VERSIONE EUROPEA DELL’ALBUM DI DEBUTTO DEI CRYSTAL STILTS, UNA DELLE PIÙ FULGIDE REALTÀ DELL’INDIE D’OLTREOCEANO. E’ L’INGLESE ANGULAR – LA STESSA CHE TENNE A BATTESIMO KLAXONS, E BLOC PARTY - A LICENZIARE IL LAVORO. JESUS & MARY CHAIN INCONTRANO I VELVET UNDERGROUND CON LA BENEDIZIONE DI IAN CURTIS? +06174/#))+141/#%+4%1.1&').+#46+56+ /#))+14#8'00#*#0#$+/#))+1/+.#01 6$%/#))+1614+0152#<+1 41&4+)7'<²%1/+0)(41/4'#.+6;³ .2%& .+)*6+06*'#66+% LIGHT IN THE ATTIC PUBBLICA IL SECONDO ALBUM DEL DYLAN ISPANICO RODRIGUEZ. COMING FROM REALITY È STATA LA SUA ULTIMA CHANCE NELL’INDUSTRIA DISCOGRAFICA, UN PERFETTO ALBUM POP, ARRANGIATO IN MANIERA MAGISTRALE E AD OGGI ANCORA CAPACE DI SCALDARE I CUORI. 70+%#&#6#+6#.+#0#)+7)0141/#%+4%1.1&').+ #46+56+ 0'10²4+67#.5³%& 52+66.'4'%14&5 RISTAMPA RIMASTERIZZATA SU CD DEL PRIMO ED UNICO ALBUM, ORIGINARIAMENTE USCITO NEL 1985, DEL GRUPPO FIORENTINO, CAPOSCUOLA DELLA SCENA GOTHIC ITALIANA. COPERTINA TIPO “LP MINIATURIZZATO APRIBILE”, GRAFICA ORIGINALE E LIBRETTO DI 12 PAGINE CON LA RIPRODUZIONE DI ARTICOLI DELL’EPOCA. CONTIENE TRE BONUS TRACKS: LE VERSIONI 12’’ DI DARK AGE, LAST CHANCE E MY BLUES IS YOU. *,#.6#.+0²5.''2&470-5'#510³ %& -+/+4'%14&5 8#²)#6*'4'&³.2 52+66.'4'%14&5 8#²$1&;5'%6+10³.2 52+66.'4'%14&5 FINALMENTE RISTAMPATE ANCHE SU LP, CON GRAFICA ORIGINALE E IN EDIZIONE LIMITATA DI 300 COPIE, QUESTE DUE PIETRE MILIARI DEL “NUOVO ROCK” ITALIANO DEGLI ANNI 80. ORIGINARIAMENTE USCITE NEL 1982 E 1983, CONTENGONO, TRA GLI ALTRI, BRANI DI PANKOW, DIAFRAMMA, LITFIBA . . . NOSTRI ARTISTI IN TOUR A MAGGIO: Á6*'2#+051($'+0)274'#6*'#468+8+#0)+4.531 MAGGIO: RAVENNA/HANA-BI - 01 GIUGNO: MILANO/CASA 139 Á25;%*+%68/#))+1$1.1)0#.1-1/16+8/#))+1614+0152#<+1 Á&#;51(56#6+%/#))+1/+.#01/#)01.+#/#))+1614+0152#<+1/#))+141/#+0+6 &+564+$7<+10'241/1<+10''&+<+10+ XKC(QTVGDTCEEKQ#4QOC 2KIPGVQ6GN(CZGOCKNKPHQ"IQQFHGNNCUKVYYYIQQFHGNNCUKV YYYO[URCEGEQOIQQFHGNNCUFKUVTKDWVKQPPGYUUGORTGCIIKQTPCVGUWIQQFHGNNCUDNQIURQVEQO 8'0&+6#2'4%144+5210&'0<#1TFKPKVGNGHQPKEK1TFKPKXKCGOCKNOCKN"IQQFHGNNCUKV 4#&+#6+104'%14&5 %KTEPG%CUKNKPC 2KIPGVQ41/# Tune In / 19 S Wildbirds & Peacedrums la regola degli opposti Il jazz eurobianco ribelle ed iconoclasta: tra adhan profani e spezzettamenti prog - Francesca Marongiu 20 / Tune In ul duo di Goteborg che vi andremo a raccontare già saprete tutto: vincitori di un premio svedese come miglior progetto jazz del 2007, beniamini della stampa, coppia d’arte e di vita, Mariam Wallentin e Andreas Werliin hanno tutte le carte in regola per meritare almeno un trafiletto nelle pagine di storia riservate ai grandi. Percussionista androgino e vulcanico lui, algida, ma dall’ugola che fonde il ghiaccio lei, si incontrano nell’Accademia di Teatro e Musica della loro città e dopo un po’, stanchi di eseguire musica fortemente codificata, si mettono in proprio servendosi degli strumenti che hanno studiato per anni: voce e batteria. Ne vien fuori una piccola pietra miliare dal nome significativo, Heartcore, dove uno spirito primigenio si va ad incanalare nei solchi del blues del delta, dei roots, del jazz più scomposto e tribale e di una vocalità scura e sofisticata, ma mai leziosa. Pezzi come Doubt/ Hope o The Battle In The Water ben ricalcano la doppia personalità incendiario-intimista del duo, ma c’è dell’altro: quel primo capitolo sembra tracciare un simbolico punto della situazione su una serie di esperienze “di coppia” venute alla ribalta negli ultimi anni (dall’ avant-rock sensuale di Young People alla proposta lirico-agogica dei Directing Hand, fino ad arrivare ai nostri Camusi). La distanza da quei progetti viene però marcata immediatamente grazie ad una spiccata originalità, che non sacrifica mai l’arte sull’altare della facile fruibilità, né tanto meno su quello di ricerche matematiche fini a se stesse. E, in tal senso, il paragone più appropriato sarebbe forse quello col fenomeno Fiery Furnaces, anche solo per assecondare il piacere che provocano gli opposti che si legano: là massimalismo e divertissement, qua minimalismo e filologia. I due ad oggi di strada ne hanno fatta e, dopo aver firmato con la Leaf, sempre attenta alle ricerche ad ampio raggio tra eleganza e sperimentazione, hanno dato alle stampe la loro opera seconda, The Snake, uscita lo scorso anno in Svezia per la Caprice Records. Ed è soprattutto per parlare del nuovo disco, in uscita il 13 aprile, che li abbiamo intervistati, scoprendo che i due, oltre ad essere musicisti di talento, sono anche ben consapevoli del proprio percorso artistico. “La nascita del progetto, circa quattro anni fa’, è stata fortemente liberatoria per noi: Mariam studiava improvvisazione vocale ma era stanca di sottostare a delle regole imposte dall’alto, così mi portò alcuni testi che aveva scritto e, a partire da quelli, iniziammo a improvvisare. Lavoravamo su questi frammenti finché non nascevano delle melodie o delle ritmiche che li sorreggessero. In questo processo solitamente tendiamo a togliere anziché aggiungere elementi. Siamo profondamente convinti che la grande musica sia quella che non dice tutto, che lascia spazio all’immaginazione di chi ascolta. Una sorta di addizione nella sottrazione, che è data anche da quello che l’ascoltatore può aggiungervi mentalmente (una linea di basso, di piano e, perché no, una chitarra stoner!)”. è così che Andreas ci introduce nell’alveo creativo dei Wildbirds & Peacedrums, in cui ogni takes rappresenta un passo in avanti nell’espressione di ciò che la loro musica evoca. Anche The Snake ha avuto una simile gestazione, che quando una formula funziona tanto vale premere l’acceleratore e scrivere subito il seguito, tanto più che, grazie ai proventi del premio svedese, i due hanno avuto la possibilità di lavorare in uno studio ben attrezzato per tutto il tempo necessario a comporre e registrare. “Questa volta abbiamo avuto la possibilità di usare strumenti tradizionali del Sud America come la kalimba o lo steelpan, ad esempio. In generale ci interessa molto il modo in cui i vari timbri di cordofoni o idiofoni riescono a interagire con quello della voce e delle percussioni (pensiamo ad un pezzo come So Soft So Pink). Ma non siamo degli studiosi di etnomusicologia, né abbiamo la passione per l’organologia, semplicemente cerchiamo di rievocare istintivamente le radici da cui proviene la musica che ci appartiene. La denudiamo, spogliando noi stessi di tutti quegli orpelli che non permettono ad un artista di realizzare musica ‘coraggiosa’ e autentica”. La voce di Mariam è stata oggetto di numerosi dibattiti su carta e on line, accostata soprattutto alla vocalità nera e viscerale di Abbey Lincoln e al jazz sperimentale di Patty Waters. “Tra le due è Abbey Lincoln ad avermi ispirato di più, la sua Freedom Suite con Max Roach è un grandissimo disco. Per il resto sono cresciuta ascoltando gente come Chet Baker, Nina Simone, Aretha Franklin, Sarah Vaughan, Elvis Costello, Mark Kozelek e molti altri. Ciò che mi influenza è un mix di tutto ciò. Io amo le voci ‘libere’ come quelle di Lindha Kallerdahl, Sidsel Endresen, Diamanda Galas, Maja Ratkje, voci che mi spingono a gridare o a cantare con un filo di voce, ad andare in alto o molto in basso”. E, per quanto riguarda gli inserti melismatici presenti nel nuovo disco (penso a pezzi come Island o So Soft So Pink ), Mariam ammette l’ influenza delle sue origini mediorientali in certe coloriture vocali, ma al di là dello studio di tecniche particolari: “Mio padre Tune In / 21 è persiano e in qualche modo tutto ciò ha influenzato la mia musica. D’altro canto io non ho mai studiato le tecniche vocali nordafricane, semplicemente inserisco degli abbellimenti ‘falsificando’ un certo tipo di vocalità! Quello che faccio è sempre al servizio dell’efficacia evocativa del pezzo.” Anche per la formazione di Andreas sono stati fondamentali i grandi dischi che ascoltava il padre, principalmente musica svedese degli anni Settanta, dai National Teatern a Bo Hansson. E, a proposito degli artisti che lo hanno influenzato maggiormente, dichiara: “Io traggo ispirazione da molta musica diversa e da altre forme d’arte. Ultimamente ho capito che c’è un minimo comun denominatore nella musica che mi piace: riesce ad essere senza tempo e ad accogliere idee nuove, senza sacrificare l’onestà. Penso agli Earth, a Miles Davis, ai Talk Talk, ai The Thing, ai My 22 / Tune In Bloody Valentine e a Micachu, ad esempio.” Tornando al disco, se i testi di Heartcore descrivevano la tristezza, la speranza e l’illusione, in The Snake si parla della famiglia, delle relazioni, di frustrazioni, dubbi e ricerca. E se il vecchio disco esprimeva un’urgenza forte ed erano le radici nere a prevalere, nel nuovo la scrittura risulta più variegata. Ascoltandolo, non si può non notare come la pietra minimale rifletta le varie anime dei Wildbirds & Peacedrums in maniera più netta che in passato: a partire dalle terre desertiche di Island che tremano al grido di fragilità di My Heart, tra un intermezzo heartcoriano come There Is No Light e il vezzo pop vagamente studentesco di Chain Of Steel. E loro non si impongono a tutti i costi di essere attuali, nè si confrontano troppo con ciò che li circonda. “Ci piace la scena svedese, ormai florida da molti anni, e ci sentiamo vicini a tutti coloro che non si accontentano di percorrere strade già battute. Il rischio è un elemento essenziale nella nostra musica”. E se i Nostri non stanno lì a guardare se somigliano un po’ troppo a questi o a quelli, noi ritroviamo nelle maglie della loro musica l’irriverenza e la permeabilità di gruppi come Xiu Xiu, Fiery Furnaces o Indian Jewelry, coniugata ad una rilettura iconoclasta del colto, molto ricorrente nei migliori artisti degli ultimi anni (Joanna Newsom, Hjaltalin, gli ultimi Parenthetical Girls). C’è poi la minimal wave, rievocata so- prattutto dalle melodie di Mariam, di quando in quando posseduta dallo spettro di Siouxsie, che è un elemento fondamentale per comprendere una certa attitudine punk del duo. Un andirivieni spaziotemporale in cui i Wildbirds non corrono mai il rischio di spersonalizzarsi. E quando gli chiediamo se è oggi necessario possedere un apprezzabile bagaglio tecnico per poter realizzare musica “coraggiosa”, Mariam incalza: “Non necessariamente! Ci sono molti modi per diventare bravi ;). Penso però che per entrambi sia importante avere il controllo sugli strumenti, così da poterci muovere più agevolmente in territori inesplorati. Noi amiamo i nostri strumenti e io amo usare la voce in molti modi diversi che riflettono i miei vari stati d’animo. Ma qualche volta mi piace anche fumare e suonare strumenti che non conosco bene, come lo zither o lo steel drum (tamburo d’acciaio, n.d.r.)”. In chiusura, chiediamo ai due se sono soddisfatti dei risultati ottenuti fin’ora, sia a livello artistico che di popolarità. “Siamo molto contenti, suonando in tante città diverse abbiamo capito che abbiamo molto da dare. La nostra musica è molto coinvolgente dal vivo e ogni sera proponiamo qualcosa di diverso, in quanto non rispettiamo in tutto e per tutto una scaletta prestabilita. L’energia che riusciamo a comunicare e a ricevere dal pubblico è un elemento fondamentale.” E, a proposito del terzo album.“Ci stiamo pensando, sta iniziando a crescere lentamente. L’unica cosa che posso dirti è che sarà meraviglioso! Sia Heartcore che The Snake erano più un documento di ciò che noi eravamo nel momento in cui li abbiamo scritti, impulsivi, passionali, onesti. Ma il terzo album scaverà più a fondo, o volerà più in alto!” E a noi, a questo punto, non resta che rimanere in attesa, che di gruppi così, negli ultimi anni, se ne sono visti davvero pochi. Tune In / 23 Fonal Records Fonal Records, marchio che in maniera sintomatica rappresenta i nuovi assetti del rock nordico. Sami Sänpäkkilä è il depositario della sigla, ragazzo minuto con barba curatissima che vive ai margini della foresta di Tampere, lontano dal trambusto del mondo occidentale. - Luca Collepiccolo e Antonello Comunale 24 / Drop Out R icordi sbiaditi di un vecchio calcio ancora non assoggettato e piegato alle multinazionali, quando tutti gli stati del vecchio continente avevano almeno un rappresentante nelle rispettive categorie UEFA, si fosse trattato di Coppa Dei Campioni, Coppa Delle Coppe o Coppa Uefa. E spesso l’effetto esotico era proprio stimolato dalla presenza di squadre improponibili, non solo belligeranti 11 dall’estremo oriente europeo, ma anche formazioni con passaporto nordico. Ricordo proprio come in un fermo immagine secolare la presenza dell’Ilves Tampere, una delle realtà più gettonate del campionato finlandese, spesso vittima sacrificale al cospetto di ben più blasonati team del centro Europa o dell’ italietta pre-calciopoli. Ferma restando la nota di colore, quel clima di docile e trasparente scoperta pervade l’incontro mediatico con Fonal Records, marchio che in maniera sintomatica rappresenta i nuovi assetti del rock nordico. Sami Sänpäkkilä è il depositario della sigla, ragazzo minuto con barba curatissima che vive ai margini della foresta di Tampere, lontano dal trambusto del mondo occidentale. La sua una visione antica, fortemente legata al territorio, solo parzialmente intaccata dalle urgenze del più sperimenale e visionario rock anglofono. È importante collocare la label in un territorio franco e nel corso della breve intervista con Sami, la finalità è proprio quella di far emergere un sentimento altro, distante dall’urgenza commerciale della musica indipendente contemporanea. Tampere è la terza città della Repubblica di Finlandia (o anche Suomen tasavalta) e conta una popolazione che supera a malapena le 200.000 unità. In Suomi tradizone classica e rock sono sempre andate a braccetto, generando ibridi anche fortunati dal punto di vista commerciale, capaci di proiettare l’intero paese sotto i riflettori dei media internazionali. Del gothic metal locale e di gruppi poster tipo Nightwish od Him non abbiamo un’alta considerazione, del resto anche alla Fonal le chitarre distorte non sono esattamente il piatto della casa, con l’eccezione dei prolifici Circle - che per l’etichetta hanno licenziato un singolo - l’estetica hard-rock non è per nulla contemplata da queste parti. Vanno semmai recuperati altrove i punti cardine di una musicalità così eclettica, con oltre 60 numeri di catalogo ed una vitalità per nulla circoscitta nei 14 anni di fiera attività underground (l’etichetta nasce ufficialmente nel 1995, come estensione ‘casalinga’ dello stesso Sami). La musica classica di un gigante come Jean Sibelius si scorge solo all’orizzonte, come del resto le accattivanti geografie del jazz libero di due pesi massimi locali quali Juhani Aaltonen (fiatista classe ‘35, per sentirlo in azione consiglio all’occorenza le due belle ristampe su Porter del pianista elettrico Heikki Sarmanto) ed Edward Vesala (leggendario batterrista noto ai più per gli album su ECM e le collaborazioni con mostri sacri quali il polacco Thomasz Stanko ed il norvegese Jan Garbarek). Ma i veri antesignani del ‘collasso emotivo e strutturale’ sono da rintracciarsi altrove, in casa Love Records sicuramente. Label nata nel 1966 per volere del giornalista Atte Blom, del batterista Christian Schwindt e del compositore Henrik Otto Donner ed anticipatrice oltre che dei correnti trend freakadelici anche di un diverso sentire etnico e di un approccio ‘verticale’ al jazz d’avanguardia. Scorazzando attraverso raccolte del calibro di Eri Esittaja (Psychedelic Phinland – Finnish Hippie & Underground Music 1969-1974) o Arktinen Hysteria (Suomi-Avantgarden Esipuutarhureita) si scorgono in nuce i germi della nuova proliferazione etnopsichedelica posta in essere da Fonal. Un eredità conseguenziale. Anche del compositore elettronico Erkki Kurenniemi - che per Love ha licenziato l’antologico Aanityksia – non solo i Pan Sonic sembrano aver seguito la rotta, lo stesso Sami con l’alter ego solista Es, sembra alludere parzialmente alle trovate analogiche dell’insuperato maestro. Detto questo è importante stabilire la posizione quasi privilegiata di Fonal, distante da qualsiasi sudditanza intellettuale, fuori dalle contingenze mercantili e fiera nell’inseguire una propria poetica. Quanto proposto negli anni da gruppi quali Kiila, Kemialliset Istavat, Islaja, Lau Nau o Paavoharju è di dominio pubblico. Le stesse eminenze grigie del rock americano ed europeo (Ecstatic! Peace, Locust e Fat Cat) hanno fatto carte false per aggiudicarsi le performance part-time di questi ispirati cantori bucolici e lisergici, segno di un’evidente fascinazione per il profilo inedito di questi artisti. Del resto nell’ora della globalizzazione un ritorno in flagrante sui luoghi della world music può assumere connotati davvero stravaganti, perchè a voler essere pignoli l’opera confezionata da Fonal è in forte odore etno-rock. Ciò non vuol dire impacchettare bellamente un disco dopo aver distrattamente assorbito le istanze di un Graceland o di un Remain In Light. Qui il discorso è più ampio, ogni artista in catalogo risponde ad un preciso DNA, quasi a voler seguire un tradizione orale (vedremo come l’idioma inglese è contemplato in rarissimi casi), che dice di Drop Out / 25 un’immersione totale nella wilderness e di una pop music che diventa oggetto non identificabile. Un respiro ancestrale potrebbe essere quello dei Paavoharju di Laulu Laakson Kukista, disco che insegue un’idea di musica periferica, tra interferenze elettroniche, beats da dancefloor evanescente, canzone folk strappalacrime e turkish delight (paradosso dei paradossi queste musiche potrebbero mandare fuori di testa l’Hendrix turco Erkin Koray). Addirittura una manifestazione à la page come il Sonar ha dedicato uno showcase all’etichetta di Sami, segnali di una distensione politica o politica dell’investimento estroso? Non è questo il punto, sono i riconoscimenti puntuali di tutti i media internazionali a sancire l’interesse nel progetto, che ancora una volta - preme sottolinearlo – non è il resoconto su una scena che scimmiotta i più appariscenti cugini inglesi od americani alla deriva dell’isola di Wight, bensì un manifesto coerente di come produrre rock lontano anni luce dagli stereotipi. Partendo magari anche dalla cura maniacale con cui vengono impacchettati i singoli prodotti, che rispondono ad una chiara esigenza estetica, puntuale come forse solo quella della canadese Constellation. Eliminato il jewel case i dischi Fonal sono sempre racchiusi in stilose confezioni cartonate, che anche distrattamente vanno a sollevare un universo di riferimenti ancestrali. Dischi che appunto non hanno l’outlook ‘rock indipendentista’, semmai piccole scatole cinesi pronte a narrare di antichi rituali, ogetti che colgono la nostra fugace immaginazione, di soppiatto.Anche di questo abbiamo in breve ragionato con lo stesso Sami. Quali erano gli obiettivi che ti eri posto con l’etichetta agli esordi? Non c’era altro obiettivi se non quello di pubblicare la mia personale musica. L’orientamento era molto casalingo agli inizi (un sintomatico grassroots operations viene utilizzato come termine di paragone, ndi) e l’idea alla base di puro divertimento. Abbiamo registrato della musica ed ho voluto fare tutto da me, in completa autonomia. Non ho mai pensato ad ottenere un contratto discografico, l’idea non mi hai mai sfiorato. Sono stato sempre cosciente del fatto che la musica da noi prodotta avrebbe comunque avuto un importanza davvero marginale. Era intenzionale l’idea di pubblicare unicamente formazioni finlandesi? Ti apriresti mai ad artisti di altra nazionalità? Non è stata intenzionale la scelta. Ma mi sento mol- 26 / Drop Out to vicino agli artisti finnici quindi è questo il mio ruolo al momento. Hai una sorta si contratto in esclusiva con i tuoi artisti o permetti loro di pubblicare anche per altre etichette (mi sembra lapalissiano il caso di Islaja che ha anche inciso per la Ecstatic Peace!di Thurston Moore)? Sì, questo non è affatto un problema. Solitamente abbiamo l’esclusiva per la pubblicazione di un album completo su Fonal, quindi se gli artisti hanno la possibilità di pubblicare in altri formati più piccoli per altre etichette non c’è alcun tipo di problema. Lo stesso dicasi per i dischi dal vivo. Non ho un atteggiamento protezionista nei confronti degli artisti. Se decido di pubblicare un album, mi auguro che porti esclusivamente il marchio Fonal, anche se abbiamo licenziato alcuni dischi per altre labels. Ma ora che sono concentrato sul formato ‘esteso’ non c’è più bisogno di questi espedienti. Anche se può suonare obsoleto, sono portato a catalogare la Fonal come un’etichetta di world music, piuttosto che come l’ennesima compagnia indie-rock. Se avessi un negozio di dischi non farei alcuna fatica ad inserire i vostri dischi nel settore ritmi globali... Per me va bene, non credo sia errato. Ogni disco potrebbe essere segnalato in una categoria diversa. Penso a questa musica generalmente come ad un pop dal taglio sperimentale. Il progetto Es è ancora la tua principale attività o stai lavorando ad altro al momento? Sì, gli Es sono la mia principale attività musicale. Mentre Fonal è il mio lavoro a tempo pieno. Aldilà di questo cerco di produrre dei video musicali – è accaduto per Paavoharju – e dei piccoli cortometraggi nei ritagli di tempo. Questo è il modo in cui occupo il mio tempo al momento. Qual’è la tua idea di musica popolare e quali sono state le etichette e gli artisti che hanno avuto un grande impatto su di te? Ho ammirato etichette che sono parse coerenti negli anni con le loro pubblicazioni. Una sorta di visione in cui poter credere. Ascolto una montagna Sami Sänpäkkilä Drop Out / 27 di indie pop ed al contempo musica sperimentale e minimalista Pensi che un audience più ampia si stia approcciando alla Fonal Records? Almeno ora che importanti media come The Wire, Dusted magazine o Pitchfork hanno riservato numerose attenzioni ai tuoi dischi... È quello che è accaduto 2 anni fa. Ora lo della Fonal è piuttosto stabile. Se qualcosa riceve un’attenzione minore, ciò è dovuto al fatto di non essere più trendy. Mi auguro ci siano altrettante buone pubblicazioni che possano consentire all’etichetta di crescere ulteriormente, vorrei essere capace di creare maggiori opportunità per gli artisti di cui pubblico materiale. è stata sempre una grossa difficoltà poter parlare di questioni di ‘successo’, dato che non ho proprio i minimi termini di paragone. Ho sempre dovuto cercare la soluzione più difficile per portare a termine il lavoro. Esiste una carta d’identità dell’ascoltatore medio di Fonal? È un pò difficle immaginarlo, ma direi che non c’è una grossa distinzione tar i sessi e l’età è idealmente compresa tra i 20 ed i 35 anni Ogni aspetto delle tue pubblicazioni è così preciso, le copertine ed i packaging così curati nel dettaglio. Rispetto a questo sforzo non comune mi chiedevo anche quale fosse la tua posizione rispetto al downloading ed ai conflitti quotidiani rispetto alla musica disponibile gratuitamente. Cerco di non pensarci troppo onestamente. Mi piacciono i vinili e le confezioni in cd cartonate, il mio desiderio è che questi formati non scompaiano. Dove vedi la tua etichetta da qui a 5 anni? Sei certo di aver raggiunto tutti i tuoi obiettivi ad oggi? Non sono mai stato abituato ad avere dei grossi obiettivi. Mi auguro di essere ancora qui, su queste posizioni da qui ai prossimi anni. Hai mai avuto qualche sogno proibito? Voglio dire nessun artista o progetto che avresti voluto sponsorizzare con la tua etichetta? No, davvero. Sono felice con le mie pubblicazioni ad oggi, completamente soddisfatto di come siano state lavorate le cose. Questo l’ho detto dagli inizi, mi fermerò nel momento esatto in cui sarò costretto a pubblicare cose che non mi piacciono. Occhio al catalogo... Islaja “Merja è un nome troppo personale per me… È difficile aggiungere glamour a qualcuno che conosci così bene. Islaja è più misteriosa e non ha nemmeno niente di artificiale”. La prima donna di casa Fonal, al secolo Merja Kokkonen, in arte Islaja, esordisce nel 2004 con Meritie che altro non è se non un distillato delle primissime registrazioni fate avere a Sami Sämpäkkilä un suo ex compagno di studi in quel di Helsinki. Sembra che la cosa non sia stata immediata, Sami stava lentamente mettendo in piedi il catalogo della Fonal: “Inizialmente non ho mandato le mie prime registrazioni a nessuno. Un mio amico mi disse però della Fonal e dal momento che io e Sami Sämpäkkilä avevamo studiato nella stessa scuola, un giorno gli chiesi di prenderci un caffè insieme e ne approfittai per fargli sentire il mio nastro. A lui piacque ma non mi promise nulla. Quando Meritie fu finito mi promise di farne un mastertape e allora finalmente realizzò che avrebbe voluto distribuirlo con la sua etichetta. Credo che fossimo entrambi realmente contenti della cosa”. La musica di Islaja inizialmente non si discosta di un millimetro dalle coordinate della scena: strumenti desueti, costruzioni folk sempre a due passi dall’astrattismo avantgarde, canto umorale in lingua autoctona. Nel 2005 Palaa Aurinkoon è un degno capitolo secondo, ma il salto di qualità lo compie nel 2006 con Ulual Yyy che segna un parziale allontanamento dal forest folk finlandese avvicinandosi verso una forma di canzone d’autore molto colta e femminile, con venature persino jazz (Nico, Bridget Fontaine, Nina Simone). Quali saranno le tue prossime uscite? Il nuovo disco degli Es: Kesämaan lapset è un mix tra i miei ultimi album Sateenkaarisuudelma e Kaikkeuden kauneus ja käsittämättömyys. Ci sono alcuni brani pop con tanto di cantato ed altri con lunghi archi di muro del suono. Non è ambizioso come il mio ultimo doppio album, mi auguro anzi che quest’ultima pubblicazione possa adattarsi ad un caldo party casalingo, anche a due (risate tra le righe, ndi) © Susanna Majuri Sami Sänpäkkilä isl aja 28 / Drop Out Drop Out / 29 Kemialliset Ystävät Paavoharju 30 / Drop Out © Jyri Pitkänen Kemialliset Ystävät Sono i più liturgici e mistici della scena e vengono da un piccolo centro nel nord della Finlandia, chiamato Savonlinna. I Paavoharju ruotano intorno a due fratelli, Lauri e Olli Ainala. che sono cristiani luterani devotissimi, da qui tutta un’estetica religiosa, con tanto di ricerche bibliografiche / fonologiche su canti sacri degli anni ’20 / ’30, con frammenti presi e inseriti nelle composizioni della band nel disco di debutto Yhä hämärää. I Paavoharju suonano davvero come poche altre cose in giro, con un sound che è finissima e articolata filigrana di piccoli dettagli e un taglio etereo e incantato che ha presto mandato in visibilio la maggioranza silenziosa di ascoltatori freak di questo primo scorcio di secolo. Citando la press di Fonal: “The sound is something between Bollywood music, church hymns, beautiful pop tunes and ambient esoteric noises. The music is unlike anything heard on this planet yet still oddly comforting”. Complice anche il trend che nel frattempo si è addensato intorno all’etichetta di Sami, la band dei fratelli Ainala gode di uno dei maggiori battage pubblicitari mai avuti da una gruppo finnico, finendo con recensioni entusiaste in testa a tutte le playlist del 2004. Ci riprovano quindi nel 2008 con il successivo Laulu laakson kukista mancando parzialmente il bersaglio. © Irwin Badman Dietro la sigla Kemialliset Ystävät, che in finnico significa “Fratelli chimici”, si nasconde lo strambo genio di Jan Anderzén, attivo anche in proprio con la sigla Tomutonttu, che per intenderci significa “gnomo di polvere”… è quindi abbastanza chiaro quale siano le premesse della musica prodotta, ovvero uno stiracchiato e ultraterreno tappeto psichedelico con assonanze che vanno dai primi Pink Floyd al prog bello e buono. Gli Ystavat sono quasi subito diventati i best seller del catalogo e sono quelli dal profilo più internazionale potendo vantare pubblicazioni non solo su Fonal, ma anche su etichette estere dalla denominazione controllata come Fusetron, Beta-Lactam Ring, Jewelled Antler, Celebrate Psi Phenomenom. Nel 2004 il loro secondo album Alkuhärkä diventa un piccolo caso underground facendoli diventare i primi portabandiera della scena finnica. La palette di soluzioni sonore messe in essere dalla band può essere incredibilmente varia: da composizioni dal taglio più etereo si passa, senza soluzione di continuita a groove ritmici dal sapore di giungla. Un umore pan-etnico costantemente in primo piano e un quadro d’insieme che sa di droga e oblio dalle miserie ultraterrene. Quanto a Tomutonttu il discorso non cambia poi molto, Anderzén è una sorta di novello pifferaio magico. Di recente ha anche suonato per bambini e scolaresche nel planetario della sua città natale, Tampere, oltre ad aver collaborato con gente del calibro di Mike Bernstein (Double Leopards, Religious Knives), Joshua Burkett, Tara Burke (Fursaxa), The Skaters, Glenn Donaldson (Jewelled Antler). Paavoharju Drop Out / 31 Lau Nau The Others… i minori dell’etichetta 32 / Drop Out © Sami Sänpäkkilä l au nau © Susanna Majuri Se Islaja è la femme fatale della Fonal, Lau Nau è la piccola fiammiferaia bisognosa di un po’ di calore. La differenza tra le due regine del nord non è di poco conto e si riflette anche nella musica. Laura Naukkarinen, vero nome di Lau Nau, nonostante la giovane età è una delle figure centrali della scena forest folk finlandese. Collabora ad un gran numero di progetti musicali tra cui Kiila, Päivänsäde, Anaksimandros, Avarus, Maailma, Chamellows e il trio tutto al femminile Hertta Lussu Ässä, in compagnia di Islaja e Kuupuu, di contro la maggior visibilità la ottiene proprio da sola esordendo nel 2005 con Kuutarha un concentrato arcano e lirico di folk nordico, fragile e complesso come un origami giapponese e pieno di stravaganze sonore, compiute con strumenti tra i più desueti e originali: “bicchieri per marmellate colorate”, “megafoni per streghe urlanti”, “lattine di birra”. Complice anche l’esser diventata mamma, Laura si trasferisce successivamente dalla metropolitana Helsinki in un piccolo centro nella provincia del nord della Finlandia. Il risultato di questo cambiamento e il secondo album Nuukuu(che in finnico significa “sonno”), in pratica una raccolta di ninna nanne intime per baite e focolari, che aumenta di molto la potenza immaginifica della sua musica acquistando tantissimo sul piano mitico ed evocativo. Non di sola psichedelia folk vive il catalogo della Fonal. Sami è abbastanza intelligente da cercare ogni tanto di diversificare il portafoglio della sua proposta, evitando contemporaneamente di allargare troppo lo spettro perdendo il vantaggio competitivo dato da una nicchia che da Fonal sembra volere sempre gli stessi suoni. Sotto quest’ottica oltre i quattro nomi di cui sopra, che un po’ danno una fisionomia di insieme del “Fonal sound” si inseriscono altre voci, che cercano di allargare il discorso e di attrarre un po’ di visibilità. Tra questi si segnala il caso di Fricara Pacchu, il quale addirittura inizia a fare musica come rapper nei Backdoor Funkers, scioltisi prima di produrre alcunché di rilevante. Lasciato da solo a trafficare con strumentali in odore di motorick kraut e stramberie assortite, Fricara Pacchu riesce nell’impresa di far sparare a Sami la boutade promozionale d’ordinanza quando sentenzia che è la miglior cosa che egli abbia sentito dai tempi dei Faust Tapes… Ancora più Eleanoora Rosenholm eclatante il caso di Eleanoora Rosenholm, che traffica con cose del tutto desuete da queste parti, come elettro disco e pop wave, in un modo del tutto assimilabile a gente come ABBA, Madonna e Kylie Minogue. Una roba da non crederci se non quando si ascoltano le note di Vainajan Muotokuva disco di debutto, datato 2007, che vanta anche Maailmanloppu una piccola hit in patria con tanto di video controverso (diretto dallo stesso Sami). Altri suoni sintetici arrivano dal quartetto dei Shogun Kunitoki, che si possono tranquillamente allineare ad una deriva precisa del recente trend neo kraut, che rigetta laptop e strumentazioni tecnologiche, per riprendere i vecchi sintetizzatori valvolari e inscenare vignette acide come i vecchi maestri teutonici degli anni ’70. Parziali compagni di vedute in questo senso sono i TV-Resistori, che suonano un po’ come la risposta finnica agli Stereolab. Il richiamo ai sintetizzatori kraut e alla tastierine vintage procede di pari passo con il disegno di ariette pop, un po’ naive un po’ kitch. Il catalogo della Fonal è quindi abbastanza ricco da proporre anche rock anni ’60 con tanto di influenze beatles e trovate a due passi dai Blur di Risto... shogun kunitoki Drop Out / 33 I luoghi e le passioni C C’è del marcio nelle Marche C’è del marcio nelle Marche? Troppi indizi per non costituire una prova.Troppi suoni e troppo rumore per non essere ascoltati. Troppa attività per passare inosservata. C’è del marcio nelle Marche e non potevamo esimerci dal rubare le parole al bardo inglese per tentare di sondare, parzialmente e senza pretesa di completezza, quello che sta succedendo in quello spicchio d’Italia troppo banalmente definibile come provincia… Jesus Franco & The Drogas 34 / Drop Out - Stefano Pifferi oordinate socio-geografiche spicciole. A nord l’assordante brusio del divertimentificio più noto d’Europa (o almeno, quel che ne resta dopo i fasti dei ’90). A sud l’Abruzzo, terra silenziosa smossa anch’essa da impeti rock non banali (AfricanTape e (C)lapDance, giusto per far due nomi a noi cari), oltre che da devastanti e tristi rocchenroll del sottosuolo. Dietro alle spalle la corona gentile degli Appennini che degradano dolcemente verso quel mare che apre ad oriente e che tanta ispirazione contò nella poetica leopardiana. A differenza, però, dell’isolazionismo del tanto vituperato – almeno dagli studenti delle superiori – gobbo di Porto Recanati, nei giovani del luogo c’è una notevole tendenza all’aggregazione, spesso e volentieri in nome di un suono tutto fuorché regionalistico. Una volontà aggregativa ferma e decisa che fa nascere collaborazioni musicali e travasi stilistici e di personale, amicizie nel nome del rock e festival improvvisati dai nomi attraenti e al tempo stesso ludici. Prima che arrivi la polizia dell’estate 2008 targato Valvolare, ad esempio: 4 serate nei centrali giardinetti delle ex-carceri di Jesi che hanno visto per ogni serata due gruppi locali – Lleroy/Bhava, Butcher Mind Collapse/Gerda, Jesus Franco & The Drogas/Oginoknaus, Lebowski/Guinea Pig, queste le coppie – assistere e confrontarsi coi forestieri Oshinoko Bunker Orchestra, Putiferio, Microwaves With Marge e Jealousy Party in incendiari e chitarristici live. Oppure il Gaiomeriggio, l’happening di outmusic pomeridiano a scadenza mensile (in attuazione mentre scriviamo) gestito da un’altra congrega di folli di stanza a Senigallia, il Marinaio Gaio. Meno chitarre in senso stretto e più attenzione alla ricerca a cavallo tra elettroacustica e world music afasica, come dimostra la presenza di interessanti progetti autoctoni e forestieri: Above The Tree (Marco Bernacchia dei M.A.Z.C.A. in solitaria, anche artista con mostre personali alle spalle), Il Mototrabasso, Joseba Irazoki. Non esistono confini, né di genere, né tanto meno geografici, sembrano comunicarci da quelle parti. O ancora sempre all’insegna del faccia a faccia tra indigeno e non – caratteristica fondamentale e irrinunciabile per l’ambiente marchigiano, a quanto sembra – il festival invernale, giunto alla fase #2, Non torno più normale il cui sottotitolo (Rassegna itinerante di musica straniante) rende perfettamente l’idea di continuo movimento tra Jesi (Circolo Anarchico), Ancona (Thermos Club), Senigallia (Macondo) e di effetto sull’ascoltatore. Nella fase #1 (gli ultimi mesi del 2008) spiccavano i release-party di Jesus Franco & The Drogas (insieme a Satantango) e Lebowski (coi R.U.N.I.), oltre che le accoppiate in nome del post-punk furioso di Bhava e Trans VZ e del noise sull’orlo del baratro di Butcher Mind Collapse e Plasma Expander. Non da meno la fase #2, in cui a rispondere al fuoco incrociato degli ospiti Fuh e Dead Elephant (da Cuneo, altra scena furiosa e rumorosissima da indagare), Zippo (da Pescara) e Lucertulas (da Padova) sono 4 giovani formazioni jesine in fissa col post (rock, punk, core, grunge): Paperoga, Mondrian Oak, .cora e 4Misura. Infine, l’ultimo arrivato. Emersioni, collaborazione tra Bloody Sound e Hot Viruz, col supporto di altre realtà tra cui la già citata Valvolare, occuperà l’intera primavera al Thermos di Ancona allargando proprio in questi giorni i confini regionali a glorie nazionali (Uochi Toki e Zen Circus, tra gli altri) e internazionali: gente come Mi Ami, USA Is A Monster, Experimental Dental School, gli oriundi Ulan Bator, calcherà i palchi del locale anconetano per devastare orecchie e far bruciare ampli proprio come nella miglior tradizione locale. Si sarà capito, da questa lunga carrellata di nomi e incroci. Si parla in definitiva di una serie incredibile di appuntamenti che non offre solo serate di ottima musica di matrice genericamente “rock”, ma evidenzia anche il brulicare irrefrenabile di un sottobosco che è un vero e proprio formicaio di suoni guitar-oriented. Per i forestieri nomi di punta italiani e/o stranieri, c’è sempre almeno una coppia di progetti indigeni pronti a dare man forte e – importantissimo – mai sfigurare. Che sia a colpi di furente noise-rock devastato, post-punk poetico e rurale, grezzo rock dei primordi o in progetti di elettroacustica rarefatta, poco importa. C’è energia, c’è passione, c’è tensione (pro)positiva; ed esce da ogni poro di un sottosuolo marchigiano mai così vivo e pulsante. Tutto nasce in un perimetro tutto sommato ristretto. Di provincia che tale non si sente e dimostra ad ogni live, incisione e/o iniziativa di avere pienamente ragione. Un quadrilatero a ben vedere, racchiuso in una manciata di km quadrati in cui si coagula un concentrato di sporco rock rumoroso, sguaiato e slabbrato che ci fa tornare in mente per violenza quello targato Nyc inizi dei ’90 e per origine “periferica” quelli della Minneapolis di Tom Drop Out / 35 Hazelmyer e della sua AmRep o della Austin, sede della Trance Syndicate di King Coffrey dei Butthole Surfers. In mezzo la Ancona di Bloody Sound Fucktory. A nord e sud, Senigallia – base di Marinaio Gaio e About A Boy – e Macerata del dolce orsacchiotto Sweet Teddy a fare da supporto. A guardare le spalle, appena nell’entroterra c’è Jesi, quartier generale degli svalvolati di Valvolare, al tempo stesso etichetta, booking e sala prove. Come ci conferma Nicola Amici (o Nik Droga che dir si voglia) – chitarrista proprio per Jesus Franco & The Drogas oltre che per Butcher Mind Collapse – Valvolare prende il via per volontà sua e di Riccardo Franconi (sempre BMC e Lebowski) sull’onda lunga dell’esperienza Bloody Sound, l’etichetta anconetana fondata da Jonathan Iencinella (voce dei Butcher Mind Collapse e gestore del Thermos ad Ancona) e Andrea Refi (grandissimo grafico r’n’r e voce dei Jesus Franco & The Drogas, nonché dj r’n’r attualmente coi Detroit Mafia Sound System): L’associazione VALVOLARE nasce nel maggio 2005 con, allora, l’unico scopo di creare e gestire una sala prove pubblica per i gruppi della zona dove si potesse far musica a basso costo. Ironia della sorte è che tutti i membri fondatori di Valvolare avessero già delle sala prove con i propri gruppi di appartenenza […]. Non è infatti solo la necessità di avere una sala prove comune, a dir la verità, a smuovere gli svalvolati. C’è anche il discorso legato ad un percorso di crescita del territorio… vuoi perché siamo parecchio legati alla nostra cittadina, vuoi perché era già da un paio di anni che avevamo intrapreso un percorso di sensibilizzazione nei confronti 36 / Drop Out dell’Amministrazione Comunale (anche tramite petizione e raccolta firme) alla fine siamo riusciti a realizzare il nostro intento. Da lì all’avviare un’etichetta indipendente sono trascorsi un paio di anni. Verso la fine del 2007, infatti, si sono verificate delle situazioni propizie che ci hanno spinto a fare “di necessità virtù”: i gruppi di cui fanno parte i membri del direttivo dell’associazione, infatti, avevano tutti registrato un disco o erano in procinto di farlo ed avevano comunque l’esigenza di trovare una label. Detto, fatto! visto il catalogo niente male messo su, spesso se non sempre in coproduzione, da Valvolare: BMC, Jesus Franco & The Drogas, Bhava sono passati di qui e presto si aggiungeranno altri nomi, come i quotati Guinea Pig. Bloody Sound Fucktory invece è una etichetta “piccola ma tignosa” partita dall’universo delle fanzine e dei dj-set roccherroll per approdare ad una sorta di laboratorio creativo capace di muoversi agilmente tra cd, organizzazione eventi e grafica da sballo. Proprio “Records, Graphics, Events & Communication” riporta a mo’ di sottotitolo il loro myspace, giusto per rivendicare il potenziale dinamico della sigla. Alessandro Gentili – uno della trimurti Bloody Sound insieme ai fondatori Iencinella e Refi – ci racconta qualcosa in merito alle origini del collettivo: L’esperienza Bloody Sound nasce nell’estate del 2004 in una provincia anconetana in gran fermento: è il momento in cui tutto un sottobosco musicale, culturale e di costume, sembra stia spingendo per emergere alla luce del sole... È così che più o meno casualmente si incontrano un manipolo di djs che suonano rock’n’roll, new wave, indie rock in locali come il Thermos e l’Ilè Aiyè ad Ancona, il Gratis a Senigallia, il c.s.o.a. Kontatto di Falconara, il Circoletto di Osimo. A quel tempo molte realtà cominciavano a farsi notare non solo entro i confini regionali, ma anche fuori da essi. È il caso di musicisti, ma non solo. Anche di entità di raccordo che molto incideranno nelle dinamiche della (ancora non) scena marchigiana: Ci sono poi diverse band i cui nomi iniziano ad oltrepassare i confini regionali grazie a etichette indipendenti quali Wallace e Psychotica che ne pubblicano i dischi; questo stimola gli altri complessi ed inizia ad attirare l’attenzione della gente, grazie anche a Kathodik, sito dedicato al rock e alla cultura indipendente con base a Macerata, sulle cui pagine le band e gli eventi locali vengono spinti e valorizzati. Non solo promozione, dunque, ma anche interazione. Sarà proprio Kathodik a tenere a battesimo nel proprio grembo virtuale, un evento fondamentale per lo sdoganamento oltreconfine del movimento musicale di quelle parti, la compilation MarcheIngegno Sonoro sulla quale torneremo più avanti. Nonostante le varie realtà in fermento – …ci furono i primi tentativi di produzione indipendente, come la Anomolo di Osimo; o di organizzazione di concerti come la Hot Viruz, o ancora pubblicazioni come MusicClub e L’Urlo – dove tutto ciò cominciava ad avere un minimo di visibilità, la realtà doveva ancora compattarsi. Coordinarsi e fondersi in una specie di unicum dalle mille anime e dai mille volti. Ecco allora intervenire BS, che si interpone in queste dinamiche ancora ferme alla fase embrionale: …qui nasce Bloody Sound, che si pone come obiettivo a lungo termine quello di sollecitare il verificarsi di condizioni che possano far emergere quel flusso e quel dialogo di musiche, eventi, idee e soprattutto persone. Ovvero creare “La Scena”. E il superamento della stessa, verrebbe da dire, visto che …se nella prima fase l’attenzione era rivolta soprattutto alla dimensione locale, ben presto l’esperienza ha acquisito un respiro più ampio, stabilendo contatti con realtà distanti ed eterogenee, pur rimanendo fermamente legata al territorio. Insomma, azione locale, pensiero globale, il tutto rigorosamente in stile do it yourself. Segno di questa crescita organica sono sia i numerosi titoli targati Bloody Sound (date uno sguardo al catalogo sul myspace per togliervi ogni dubbio, considerando per pronte le new releases di Gerda e Guinea Pig), sia le numerose attività cui abbiamo accennato nella prima parte di questo approfondimento, cui ultimamente si è aggiunto il poster art studio Soul Food sempre di Refo. Due realtà, si sarà capito, forti e centrali nel movimento marchigiano; due realtà che fanno della collaborazione e della condivisione un punto di forza che tende ad agglomerare piuttosto che a separare, senza per questo accartocciarsi in una molle riproduzione di se stesso ma tentando vie nuove e stimolanti. Prova ne sono le altre varie realtà discografiche (ma non solo, come ci insegnano da quelle parti) della regione, di cui non possiamo che accennare sbrigativamente ma che, fidatevi, non sono da meno. Come quelle sorte a Senigallia, che come ogni porto di mare che si rispetti ha i suoi marinai. Anzi, di più; Senigallia ha un Marinaio Gaio che è innanzitutto una sfilza di non è (rintracciabili sul myspace) che definisce molto più di qualsiasi altra parola. Passione ludica e dissacratoria al servizio di un suono tra i più innocenti e genuini: Oginoknaus, Dadamatto, Chewingum, M.A.Z.C.A. hanno il proprio domicilio da quelle parti. Ma Senigallia ha anche un bambino sotto forma di piccola etichetta, anzi un’etichetta piccola come un Drop Out / 37 bambino: About A Boy, il nome che evidenzia la freschezza e l’irriverenza di un progetto solitario e sentito che non disdegna collaborazioni con realtà come Tafuzzy e Records! S’il Vous Plait. O ancora la Macerata dell’orsacchiotto Sweet Teddy di Andrea Bontempo (anche dj di vintage r’n’r e corresponsabile dell’esordio di Dadamatto) o la Osimo di Anomolo e del Loop, per non parlare dei tantissimi spazi, più o meno piccoli, più o meno ufficiali, che sbucano in ogni dove, pronti a diffondere il verbo sonoro delle Marche marce. I suoni e i rumori Padrini spirituali di questo “suono” ce ne sono. Molti consumati su supporto digitale, mp3 o, si spera, solchi di vinili. Ma due almeno fatti e cresciuti in casa. Di zona. Due trii per certi versi accomunabili se non per suoni, per lo meno per attenzione alla ricerca e sviluppi di carriera, oltre che da nomi tal- 38 / Drop Out mente normali e quotidiani da sfiorare il banale. Nomi però secchi e diretti proprio come le musiche prodotte: Altro e Sedia. Post-punk teso e poetico per i primi; noise-rock corposo e sui generis per i secondi, tanto per essere banali e descrivere in due parole le musiche ruvide da loro prodotte. Entrambi i progetti sono però accomunati anche da quel senso di (neanche tanto) latente commistione che ha avuto sviluppi piuttosto evidenti da un lato nella carriera di artista visivo di Baronciani (che di Altro è voce e chitarra), apprezzatissimo e quotato “fumettaro”; e dall’altro nelle evoluzioni sempre musicali di Mattia Coletti, riconosciuto chitarrista/produttore della scena avant-rock nazionale e non, e del duo Calbucci e Compagnucci, sempre pronti alla sperimentazione (visti ultimamente al fianco di Damo Suzuki nel suo Network o in solo, come nel progetto basso/batteria a nome Beasts). Restando fermi ad Altro e Sedia, senza deragliare in territori di ricerca, le due suddette linee – insieme all’insana passione per il rock-garage più sudato, tirato, urlato e grezzo – sembrano tornare e riemergere in molti dei nomi che trattiamo in questa indagine. Indagine che non può non partire da un evento virtuale di qualche tempo addietro cui accennavamo in precedenza e che per primo gettò un po’ di luce sul marasma in movimento da quelle parti. Parliamo di MarcheIngegno Sonoro, compilation in doppio cd in due volumi e free dwld (produci, diffondi, consuma… il nuovo motto del 2.0) in cui a sfilare erano/ sono tutte le realtà indipendenti della regione e in pratica tutti gli stili e generi masticati da questi brutti ceffi. Nel Vol. 1-2 facevano bella mostra di sé i Lush Rimbaud da Falconara, col loro post-wave-funk bianco e nervoso testimoniato dall’ottimo album su FromScratch Action From The Basement, ben supportati, tra gli altri, dal post-punk ruvido degli Edible Woman, dallo screamo di Gerda, dal garage marcio e dilatato di Guinea Pig. Nel Vol. 3-4, era invece l’onda più giovane formata da praticamente tutti i nomi che ricorrono in questa inda- gine – Oginoknaus, BMC, Lebowski, Lleroy, ecc. – a fare bella (o brutta, dipende dai punti vista) mostra di sé, insieme a qualche nome storico e/o di altro contesto stilistico (gli Affluente, i già citati Altro, IOIOI, Scarabocchio, ecc.). Le linee genealogiche, si diceva. Accomunabili a quella larvatamente targata Altro, prevalentemente giocata cioè su un uso ricercato dell’italiano misto ad un bruciare da dopo-punk teso e vibrante, sono un paio di nomi già trattati da SA in tempi non sospetti: i Dadamatto e i Lebowski. Dei primi colpì più il secondo album Il Derubato Che Sorride che l’esordio del 2007 Ti Tolgo La Vita, per il suo concentrato di pura poesia della provincia, come scrivemmo mesi addietro, spalmata su ritmi e sonorità da dopo-punk; dei secondi l’ironia tagliente dei testi, come sottolineava il buon Zampighi, che non è mezzo ma fine di un approccio ludico e lucido alla materia rock nel terzo millennio. Non resta perciò che occuparci dell’altra linea genealogica, quella più marcatamente rock-rumorosa declinata di volta in volta a seconda delle peculiarità di gruppi che – giova ricordarlo – sono spesso se non sempre frutto di un unico humus comune. Ci occupiamo perciò, in ordine di apparizione, di Butcher Mind Collapse, Lleroy, Bhava e Jesus Franco & The Drogas. In poche parole del marcio che c’è nelle Marche. B utcher M ind C ollapse Mesi addietro arrivò a far bella mostra di sé un dischetto con una copertina talmente oscena da far tornare in mente, solo al guardarla, i peggiori incubi a stelle&strisce: da Butthole Surfers e/o Dwarves in giù, tanto per rendere l’idea. Vomito, sangue, sessi femminili. Roba materica, fastidiosa, invadente sin dall’iconografia scelta ma che rispecchia esattamente quello che si trova concentrato in pochi pezzi (sette ad esser precisi) e ancor meno minuti (non si arriva alla ventina) in Sick Sex And Meat Disasters In A Wasted Psychic Land. Titolo chilometrico – ci vuole più a leggerlo che ad ascoltare tutto il mini – che mescola spavaldamente spazz-core e puzza di feci, equilibrismi ritmici da forsennati in calore e devastazioni circensi indiavolate messe in scena da un quartetto di veterani: Jonathan Iencinella (voce), Riccardo Franconi (chitarre e synth, anche Lebowski), Nicola Amici (chitarra e sax, anche Jesus Franco…) e Giampaolo Pieroni (pelli). Butcher Mind Coll apse Come quartier generale hanno il classico garage in periferia (di Jesi, ad esser precisi) e come influenze citano nomi impegnativi (Captain Beefheart, Pere Ubu, Jesus Lizard…), ma non è roba da poseurs o fighetti dell’ultim’ora. Nei fatti, i Butchers non sono da meno dei maestri, anzi. Hanno dalla loro l’attitudine dissacratoria propria del grande gruppo; l’immediatezza punk che si fa sintesi estremizzata ed essenziale (less is more?); l’autoironia sublime di chi sa stare al gioco che, sia chiaro, non vuol dire non prendersi sul serio, ma avere bene in mente quale posto occupare nella scala del rock. Inoltre, giusto per non farsi mancare nulla, spolverano il tutto con una coltre di nebuloso noir ellroyiano che non guasta affatto, sposandosi assai bene con le sonorità urbane (e newyorchesi, nello specifico) evocate dai pezzi. La voce di Iencinella rievoca un David Yow più ubriaco e claudicante o al limite uno Stu Spasm ancor più al vetriolo. L’interplay strumentale sciorina un bignami completo della wave più fratturata, del noise più forsennato e senza freni, del rock più sudato e abrasivo. La sensazione generale è quella di una messinscena della depravazione più becera e squilibrata, esasperata e sboccata (Cunt Face vale più di mille saggi di sociologia) nella sua tendenza all’autodistruzione. Due pezzi su tutti rendono l’idea della metabolizzazione di anni e anni di ottimi ascolti: Goddess Dustman, improbabile jam tra i Pere Ubu e i Primus, costretti in uno scantinato del Lower East Side nel ’93; e Monkeys Don’t Suck, furibonda e sfrenata discesa agli inferi, che prende a bordo i Cows più spastici e free e trascina con sé la schizofrenia dei suoni più disturbanti dell’ultimo trentennio. BMC è il suono del circo delle atrocità. Drop Out / 39 lleroy L leroy Se uno che di rumore se ne intende, diciamo un Giulio “Ragno” Favero a caso (One Dimensional Man, Teatro Degli Orrori, Putiferio, Zu…come dire un bel pezzo di storia rumorosa italiana), in un post concerto incensa un trio di pischelli sconosciuti considerandoli un gruppo-bomba, un motivo ci deve pur essere. 40 / Drop Out Fre’, Gia’, Cecca’, al secolo i fratelli Zocca (Giacomo al basso e Francesco alla chitarra/voce) + Riccardo Ceccacci, sono i Lleroy da Jesi, per autodefinizione un power-trio mud-core dedito allo psychovandalismo. Ingannevole è la giovane età, più di ogni cosa, verrebbe da dire parafrasando il titolo del libro che ha portato la fama al quasi omonimo fake letterario J.T. Leroy. Perché l’esordio lungo racchiude in sé la esagitata furia iconoclasta – cifra stilistica fondamentale dalle parti del Conero – e vi aggiunge maturità di applicazione e lucidità di intenti da lasciare attoniti. I tre Lleroy recuperano infatti il marasma interiore, tutto sconquassi e bruciori, del grunge primigenio, quello virato al nero che rese Juice Of BimboBleach il monolite che è e quello che King Buzzo riuscì, grazie all’ottusa insensibilità delle major, a vendere alla Atlantic. Quella però è solo la base di partenza, il canovaccio iniziale, la tela nero pece sulla quale spennellare schizzi di post-hc materico (i Breach di It’s Me God, qualcuno se li ricorda?), fratture e passaggi arzigogolati degni dei migliori Dazzling Killmen, squadrature metalliche completamente addicted al verbo degli Helmet. In Juice Of Bimbo c’è trance agonistica, sottomissione al verbo del rumore privo di cacofonia, catarsi istintuale e cruda in ogni passaggio urlato e/o martirizzato di chitarra, basso o batteria. Paradigma del suono Lleroy è Naked Violet, concentrato di puro dolore su pentagramma: ugole bruciate da post-hardcore schizzato, chitarra pesante come un macigno, basso caterpillar incazzato e batteria in modalità doppiacassa. Tutto irrimediabilmente distorto ed amplificato a livelli insostenibili. Come un urlo munchiano in un mondo di sordi, che lega per affinità il trio a progetti già indagati da SA, come Dead Elephant e Lucertulas. A fare la parte del leone è la chitarra di Fre’ – in ballo anche in Guinea Pig e Gallina, trio di postpunk agricolo (?!) con Michele Grossi di Dadamatto e Marco Bernacchia – ma basso e batteria non sono da meno, pronti a fondersi e sostenersi nel creare un magma incandescente mobilissimo e plasmabile. Sarà chiaro. I Lleroy flirtano di brutto con le musiche estreme senza apparire tali. E sono forse i più “pesanti” tra i nomi citati in questo spazio.Tre facce da bravi ragazzi che saliti su un palco qualsiasi o attaccato un jack ad un ampli si trasformano in potenziali killer e/o stupratori di pentagrammi. Non è un caso che stiano per partecipare al vol. 3 di Leviatani & Zanzare, festival-manifesto bhava di sonorità estreme organizzato da un altro ricettacolo di educande, la bolognese CynicLab. B hava Pane e furia, ricordano sempre questi Bhava, e l’ascolto di Double Jump Carpiato (anche in uscita americana, per la Radio Is Down di Olympia) non li smentisce: 8 pezzi per 15 minuti di brutale noise-core spastico e spigoloso come da manuale. Urlato nella lingua di Dante dall’ugola sgraziata e straziata di Raffaele Cascia; devastato nei suoni dall’urticante interplay di Alessandro Guerri (batteria, anche Paperoga), Manuel Volpe (basso, il soloproject Vertebrae) e Lorenzo Marinangeli (chitarra, in solo come Hey! Team). Progetto più giovane tra quelli di cui stiamo parlando – per questioni sia anagrafiche (una età media di soli 21 anni!) che musicali – Bhava prende il via nel 2007, quando Ale, Lorenzo e Raffaele militavano nei Virginia. Questo giusto per tenere a distanza l’idea di emulazione che in un contesto stimolante e pieno di travasi come quello marchigiano potrebbe essere dietro l’angolo: I Bhava nascono con i Bhava e la spontaneità con cui è iniziato tutto è la nostra bandiera per continuare a fare ciò che ci piace. E quello che piace a loro, piace anche a noi, visto che si tratta di un puro panzer rock già maturo nel suo mescolare sulla solida base (quasi) post-hc tensioni da noise-rock dei 90s, destrutturazioni nowwave e chitarre a grana grossa garage; dettagli, scatti e screziature varie però proiettano verso lidi japanoise (altezza Melt Banana) e anche – complice il sax dell’ospite Davide Uncini in L’impero Delle Vac- Drop Out / 41 Menzione speciale alla scelta di cantare in un italiano mai banale, nei testi come nelle metriche; liriche in cui Raffaele dimostra molto più dei suoi venti anni. Crediamo di fare cosa gradita concludendo con uno stralcio dal distico iniziale di Il Mio Compleanno, che dice più di qualsiasi descrizione: e allora adesso vieni qua che ti insegno io come vivere al margine / anche le situazioni di cui sei l’indiscusso protagonista. J esus F ranco & T he D rogas bhava che Di Bhava – verso aperture jazz-core. Ovviamente, anche per il quartetto jesino è valido il discorso della interazione tra forze diverse portato avanti sin qui, non solo per l’aspetto produttivo del disco (coproduzione tra Valvolare, Bloody Sound et alii). La forte carica aggregativa – in questo caso rappresentata proprio da Bloody Sound – è al centro dell’universo Bhava come ci confermano Manuel e Raffaele: Poi c’è la Bloody Sound e il fermento che ha creato negli ultimi anni nella nostra provincia (Ancona) dove tantissimi ottimi gruppi dal sottosuolo hanno trovato una via d’uscita grazie anche al loro aiuto e noi, essendo il gruppo più giovane di tutti abbiamo visto crescere tutto ciò consumandone dischi e amando le loro band che hanno fatto da apripista […] le occasioni che la nostra città (Jesi) ci offriva per mantenere una vita sociale accettabile erano e sono pari a zero, la routine del circolo reduci e dei bar a poco prezzo non faceva altro che annientare tutte le aspettative e quindi suonare per noi ha sempre rappresentato un evento extra-ordinario con il quale puoi ancora esprimere te stesso e ciò che ami di più. Scoramento tutto sommato comprensibile in provincia, ma Bhava è un torello giovane e supera le dinamiche provinciali partendo di corna, stando a quanto dice di sé: un toro che ti disarciona con movimenti bruschi e convulsi solo apparentemente casuali. 42 / Drop Out La panoramica sulle Marche rumorose non può che concludersi col supergruppo dei supergruppi, ovvero la dimostrazione vivente della trasversalità e degli inarrestabili travasi della scena marchigiana. Lebowski, BMC, Lush Rimbaud, Bloody Sound; grafica, attitudine, organizzazione e devasto più totale, tutto questo confluisce in JF&TD, gruppo di furioso rock’n’roll che non sfigurerebbe affatto nel catalogo In The Red. Jesus Franco – aka Michele Prosperi (già Ego e prossimamente NewLaserMen) alla batteria – e i 4 Drogas – alle chitarre Nicola Amici (BMC) e Andrea Carbonari (Guinea Pig), al basso Marco Giaccani (Lush Rimbaud), alla voce il già citato grafico rocchenroll Andrea “Refo” Refi – snocciolano un esordio che non puzza di America, ma è America! tanto grasso e grezzo è il rosario in 11 tracce esposto in Get Free Or Die Tryin’. L’attacco (Honolulu Baby) è già da brividi su per la schiena: cassa dritta, fischi di ampli, rullatona e via, una corsa scavezzacollo che sembra un r’n’r trasfigurato in rito voodoo, tanta è la carica primitiva che i cinque ci buttano dentro. Proprio carica ed energia sono il miglior pregio di JF. Impossibile tirare il fiato negli 11 pezzi dell’album, vera e propria discesa negli inferi del rocchenroll più sudato e ignorante, incurante di modelli di riferimento che non siano da stuprare, sporcare, deformare. Una irruenza che tramortisce tanto è delirante e scomposto l’assalto all’arma bianca di Zombi Polka, Mompracem, Yeti. Pezzi che rimandano indistintamente a Clinic e Cramps, Sonics e blues deforme e stravolto à la Crypt. Il rock in ogni sua forma masticato & risputato dai Drogas – dai tardi sixties alle ultime cose targate ITR – è però rivestito di dissonanza noise che non può non essere debitrice della fase più calda del NY sound dei 90s. Tutta quella genia di giovani white trash drogati capaci di rivitalizzare il blues a forza di violente iniezioni di rumore bianco, iconoclastia e incapacità tecnica. Di capacità, i cinque Jesus ne hanno da vendere, ma come per i Boss Hog – da poco riformati e definiti mille anni fa come combo di riciclo per fidanzate stanche di musicisti noise di Ny – sono anch’essi un supergruppo in grado di fornire una versione insieme 2.0 e sanguigna del r’n’r. Non caustici ed abrasivi come i Pussy Galore, veri e propri geni inetti della musica, ma più “lineari” e consoni come gli Honeymoon Killers o i Crunt di Stu Spasm e Kat Bjelland. Prendendo il nome in prestito dal cineasta spagnolo autore di una caterva di b-movies, titoli ed iconografia tutta rimandano all’immaginario filmico più depravato, come un Tarantino meets Rodriguez sparato a folle velocità giù per i vicoli di una Ancona underground mai così vicina al Lower East Side. East Coast chiama e costa est risponde, verrebbe da chiosare. Senza sfigurare affatto. C onclusioni Di solito, in ambito rock, ad essere ricercato e con- diviso tra più band era sempre e solo il batterista, per le ovvie questioni legate alla difficile reperibilità di un drum-kit. Questa indagine parziale e limitata sull’agitazione delle Marche spera di aver dimostrato che scambi, travasi, prestiti in nome di passioni comuni e tendenze stilistiche più o meno rumorose sono, in quello spicchio d’Italia a torto considerabile periferico, non sono solo una sorta di way of life per uscire dall’isolamento, ma anche in grado di far scattare dinamiche incredibilmente stimolanti. Lo dimostrano i gruppi tirati in ballo – frutto di una scelta personale e arbitraria, non qualitativa, sia chiaro – e i moltissimi (gruppi, etichette, locali, festival) che per questione di spazio e tempi non vi sono stati inclusi. O quanti – pensiamo a Gerda, Guinea Pig, NewLaserMen, Above The Tree, tanto per fare dei nomi – escono proprio in questi giorni o nei prossimi mesi, continuando a portare alto il vessillo delle Marche marce. Quelle rumorose e cooperative. Quelle trasversali e aggregative. Quelle che preferiamo. Jesus Franco & The Drogas Drop Out / 43 Recensioni::::maggio:::: ►►►► A Hawk And A Hacksaw Délivrance (Leaf, Mag 2009) G enere : O ld E st F olk Tanto ci ha messo Jeremy Barnes ad appropriarsi dell’Est nel senso più universale del termine che ora la tentazione di tacciarlo d’eccessiva ortodossia è forte come è stato irresistibile criticarlo per gli espedienti avant con i quali era partito sotto l’attuale pseudonimo. Del resto consigliare oggi A Hack And A Hacksaw, passata tanta acqua sotto il ponte del trans-folk, significa per forza di cose guardare oltre e puntare dritto allo scaffale delle più rinomate compagini del settore. A livello di preparazione e sofisticazione, il duo del New Mexico non ha niente da invidiare alle Instanbul oriental ensemble, Fanfare Ciocarlia e Kocani Orkestar del caso, anzi, per buon un 90%, è in tutto e per tutto assimilabile ad esse. Ma attenzione c’è una differenza, sarebbe un grosso torto tralasciare la componente di ricerca in Délivrance. Barnes e Trost si spacceranno anche per autoctoni suonando ai ristoranti rumeni o nelle piazze di Gerusalemme ma non lo sono. Si definiscono outsider e musicisti Americani. Sul loro my space, come location, c’è una località del New Mexico e sulla carta d’identità della The Hun Hangár Ensemble, con la quale hanno firmato il precedente e questo lavoro, ci sono pur sempre studi Occidentali. Sotto il vestito minimalismo e free, arte povera e il suo contrario, il massimalismo. È uno stra-folk che non si spoglia d’Occidente quello di AHAAH perché è pur sempre con l’intelligenza e le tecniche di quest’ultimo che si guarda a Est. Se ascoltando Deliverance questi mondi vi sembreranno più vivi e lucidi che nella Kocani o nelle varie bande total folk, ecco lo spettro della post modernità incombere su di voi. Tradotto vuol dire Foni Tu Argile, una canzone tradizionale greca per bouzouki e canto che il duo, con l’aiuto del collaboratore Chris Hladowski, si trasforma in un virtuoso stomp per Scatter e Nalle. Niente voci solo la melodia e percussioni a mo di spezie. Oppure, se Kertész vi fa tanto Est sappiate che è su quelle note che Romania e Ungheria s’incontrano in una girandola 44 / recensioni di fisarmonica, violino e cymbalum, uno strumento simile al dulcimer suonato con le bacchette. Barnes stesso, nella press, spiega che il brano omaggia la café music di Bucarest degli anni Sessanta influenzata a sua volta dalla musica turca del 18° e 19° secolo. Chiaro? Non abbiamo a che fare con musicisti che hanno bisogno di ideologie pro o contro qualcosa, nemmeno gente che sacralizza la musica della quale si sono impadroniti. C’è una forte fascinazione, ma siamo ben oltre, è lo spirito di ricerca e di confronto la base. Di più, una ricerca non spasmodica, non tesa a esaltare questa cultura su quella. Uniti allo studio in loco delle tradizioni, sono i migliori presupposti per una musica scoperta, assimilata e vissuta. E si sente. Niente cartoline. Niente field recording. Qui si suona con la S maiuscola. (7.1/10) Edoardo Bridda AA. VV. - Private Domain. Iko Invites (Naïve Maison D’Artistes, Apr 2009) G enere : E lectro P op / C l as sica I tentativi di attingere al patrimonio classico (quello che qualche musicologo definisce Canone Occidentale, come se si trattasse di sacre scritture), di superare la barriera culturale immaginaria che separa (o almeno ci prova) la musica “colta” da quella popular, non si contano più. Ovviamente ci riferiamo solo ai tentativi espliciti di intervenire su un repertorio pre-esistente, ché i casi di semplici influenze sarebbero tanto numerosi, da risultare inutile e poco pertinente qualsiasi elencazione. In ogni caso, nell’incontro tra il pop e la musica cosiddetta classica, quasi mai il primo è riuscito ad avvolgere nel suo leggero e rassicurante mantello, l’austerità che spesso accompagna il riferimento al classico. A questo proposito, il progetto di Iko, musicista e produttore inglese di formazione classica ma avvezzo all’indie pop , va esattamente nella direzione opposta e questo, di per sé, rappresenta già un elemento di interesse. A supporto della sua idea, Iko (personaggio semi anonimo, che in questo caso highlight 33 Ore - Quando Vieni (Garrincha Dischi, Mag 2009) G enere : canzone d ’ autore Il contenuto e la forma piacevolmente avvinghiati. Canzone d’autore, certo, ma alla maniera di Marcello Petruzzi, di professione musicista. Uno che nei Caboto frequentava tecnica e preziosismi e nei Franklin Delano affinava stile e melodia, in previsione di un progetto solista quasi inevitabile. 33 Ore: saliscendi melodici appiccicati a un jazz in pillole, ad arrangiamenti minimali ma raffinati (ottoni, archi, wurlitzer, batteria, chitarre, tastiere, la strumentazione), ma soprattutto a un presente autobiografico ancorato profondamente al passato. Quello dello stesso Petruzzi. Sembra evidente in brani come Diventi nuvola, con le atmosfere rarefatte e la disillusione à la Piero Ciampi che traspare da ogni dove. Tanto che viene da pensare che il Nostro abbia perfettamente appreso le dinamiche alla base del lavoro dei cosiddetti “cantautori”, sintetizzate a dovere in quell’irrefrenabile desiderio di liberare sullo spartito i vuoti dell’esistenza e le sue contraddizioni. Il tutto senza filtri che garantiscano l’anonimato e con il rispetto per la materia che ogni buon neofita dovrebbe sempre dimostrare. Un’innocenza nascosta dietro alle andature a singhiozzo e nei ricordi malinconici della title track, confusa nel battere morbido di Un nome, mascherata dalle inquietudini di Per quando mi mancherai, cullata dagli archi di Gennaio, sottolineata dal blues di Gioca. Dovessimo contestualizzare la musica di 33 ore, ci affacceremmo probabilmente sugli anni sessanta, epoca di crooner in bianco e nero dalla spiccata eleganza e i significati profondi, da cui il Nostro riprende il mood e il coraggio per una scrittura ricca di particolari. Soppesati, magari, da un Nick Drake periodo Bryter Layter capace di collezionare rime di spessore su tablatures originali e di farsi rapire dalle strutture ariose della musica. Insomma, segni distintivi di una proposta già matura in cui le potenzialità di una parte musicale plastica e multiforme si sommano al carattere introverso della poetica. Per dar vita all’ennesimo disco di valore in un inizio 2009 a dir poco sorprendente. (7.5/10) Fabrizio Zampighi veste i panni del direttore artistico) ha invitato un ensemble (Private Domain) e alcuni artisti, noti e meno noti negli ambienti dell’elettronica, a rivisitare alcuni brani del repertorio che va da Purcell a Verdi, con la licenza di poter semplicemente utilizzare i brani, senza doverne rispettare necessariamente tutti i parametri. Il risultato sono nove perle di leggerezza e intensità che hanno la soavità del più raffinato electro pop, ma anche il sapore di sistemi musicali non più in uso anche se ancora efficaci ed attuali. Come nel caso della splendida aria di Didone “When I Was Laid” recensioni / 45 tratta da Dido And Aeneas di Henry Purcell (Remember Me) o dell’andamento dolorosamente discendente del Lamento De La Ninfa di Monteverdi (Amor), nei quali, grazie a Emile Simon e Murcof, il pop elettronico scopre di avere una particolare affinità con le melodie pre-tonali del Seicento. Così come le timide cadenze del teorico della tonalità Rameau, riescono a risultare ancora attuali per costruire un divertente quanto interessante motivetto (Here Is The Place), intonato da Paul Et Louise. Ma come dimenticare il melodramma? Finalmente, dopo tanti abusi, un’opera tanto popolare quanto straordinariamente commovente come La Traviata, si alleggerisce di tutto il peso della storia per diventare una languida ballad (Addio, dall’aria “Addio Del Passato”). Completa un quadro alquanto variopinto, il cut up dal Requiem di Mozart (che richiama da vicino gli arrangiamenti di Walter Carlos in Arancia Meccanica) di Para One, il quale si destreggia benissimo anche nelle rivisitazioni di Beethoven (Sèptieme, dalla Settima Sinfonia) e Bach (Passion, dalla celebre Johannes Passion). Un approccio privo di timore reverenziale, che, con un geniale doppio colpo infonde nuova linfa al pop e fa rivivere grandi classici, troppo spesso considerati inutili reperti archeologici. (8/10) Daniele Follero Ah, Wildness! - Don’t Mess With The Apocalypse (Riot Maker, Apr 2009) G enere : L o - fi rock Stanchi delle band patinate che usano lo studio come strumento? Voglia di buon vecchio rock che puzzi sudore e che faccia muovere il culo? La Riotmaker si discosta dalle proposte dancefloor based e spara una cartuccia che suona come la blues explosion dello Spencer più frizzante che mai. Tutto ovviamente italico. In particolare qui si va di lasagne al ragù in salsa emiliana. Come il primo piatto più basico ma esagerato che ben conosciamo, anche l’esordio del sestetto mette a posto lo stomaco e ci rassicura senza stupirci. La carica c’è e anche se la formula è ormai cliché, la proposta sta in piedi grazie all’attitude grezza e senza compromessi del punketti- no The Tomorrows, del blues marcio di Unsold, del post-p-funk di Puff Off (anche se i componenti del gruppo non si sentono vicini a quest’estetica) e di altre bordatine che fanno muovere il culo. Dopo questi quaranta minuti vien voglia di andare a vederli live. Sicuramente per pogare e fare stage diving. Magari con un paio di pantaloni a zampa e con una camicia con le punte lunghissime. Into the (Ah!) wild(ness). (6.3/10) Marco Braggion Akron/Family - Set Em Wild, Set Em Free (Dead Oceans, Mag 2009) G enere : A lt F olk Passi il richiamo a Fela Kuti e Sly Stone ma che la Akron Family si facesse contagiare da Paul Simon quello no, non ce l’aspettavamo. Come avranno fatto dall’afro a risalire il fiume fino ai Vampire Weekend? Semplificandoci la vita possiamo dirvi che passando dalla serietà Young God alla Dead Oceans la band s’è presa una vacanza. E vacanza significa trip dalle loro parti. Viaggi che la band non s’è mai fatta mancare e sempre nel più hippy dei modi. Il recinto era quello non è vero? L’amore sviscerato per il periodo aureo del rock li aveva uniti e chiusi. È vero, avevano risposto free su questo punto ma senza uscirne completamente spogli. Così, la mossa etno via rockista è perfetta (Evereyone is Guilty), specie se condita di qualche scappatella wave (Cratures) o meglio caraibica (River). Sperimentano i nostri. Come al solito eppure il titolo del disco non deve confondere. Mettere in libertà non significa espettorare ancora una volta il primo e inarrivabile amore come dei Black Mountain al ventesimo disco. Uscire da tutto ciò vuol dire gioco. Sole. Reinvenzione e Casa che ritrovi puntualmente in They Will Appear e, chiaro, il contrario di essa lo spazio aperto (i King Crimson indisciplinatamente vostri di MBF). Sempre uno e cento dischi dentro a un disco dei loro. Impossibile non elogiarli ancora una volta. Bestemmia chi cataloga (Per chi fa il pre-order sul sito della label, c’è la copia digitale in download). (7.1/10) Edoardo Bridda Andromeda Mega Express Orchestra - Take Off! (Alien Transistor, Mag 2009) G enere : bigband colonna sonora ‘50 Bolle qualcosa nella pentola che cucina ricette anni Cinquanta. Un crepitio che manca poco che si trasformi in fenomeno. C’è qualcosa che bolle e che ci ha fatto comunque piacevolmente ricordare quel milieu ascoltando l’ultima Kevin Blechdom, filologica fino alla mimesi completa. E sull’onda di quella vi parliamo anche dell’Andromeda Mega Express Orchestra, creatura di Daniel Glatzel come di una schiera di altri musicisti impegnati in fiati, archi e persino un vibrafono. E qui ci sono quelle big band che facevano colonne sonore e ambientavano situazioni – lounge di albergo, film dal sapore raffinato, attesa e suspance (Cotton Candy Nebula) o giochi classici (Gamma Pluto Delta). Frac e palchi da ristorante presentati con un’estetica - nel packaging del dischetto come nei titoli delle tracce – in qualche modo spacey. L’unico collegamento alla cosmicità – a parte il finale spettrale di Postludium- è musicalmente parlando una curiosa abitudine, che scorrendo le tracce diventa da caso a caratteristica; parliamo dell’accompagnamento di fiati e di lento jazz sornione con una batteria da motorik. In sordina, come di fatto questo disco, che non può essere troppo preso sul serio, ma segna uno sguardo. Un’inquadratura. Aspettiamo la sceneggiatura. (6/10) Gaspare Caliri Au Revoir Simone - Still Night, Still Light (Our Secret Record, Mag 2009) G enere : indie ( pop ) tronica Non c’è dubbio che questo terzo album sia il più riuscito della carriera discografica delle tre eteree ninfette, a conferma di una maturità stilistica finalmente raggiunta: idee chiare e semplici messe in atto senza troppi fronzoli né chissà quali pretese. Still Night, Still Light si muove su un sinth pop che rimanda direttamente a quel Moon Safari airostatico con tanto di incursioni indietroniche in territori Morr Music (Lali Puna, su tutti). Ma ciò che lo differenzia positivamente dai suoi predecessori è l’atmosfera molto più sommessa e crepuscolare, scevra di inutili kitcherie, che circonda le dodici canzoni - malinconia e nostalgia da cielo grigio primaverile -, emanata appunto da una semplicità di intenti che lascia dedurre la presa di coscienza delle Nostre circa il loro potenziale artistico. Speriamo solo, però – sì, c’è un però -, che proprio questa autoconoscenza non finisca per rappresentare il limite artistico delle Au Revoir Simone, ovve- ro l’incapacità di rinnovarsi e cambiar pelle che in quest’epoca ultrafrenetica e senza memoria sembra prerogativa fondamentale (Radiohead docent). Il futuro dirà. Sicuramente ad oggi la loro pelle ci sembra splendente e liscia, e questo è ciò che conta. Il lifting, al momento, è affare di qualcun altro. (6.7/10) Andrea Provinciali Baby Blue - Come! (Autoprodotto, Apr 2009) G enere : rock - blues Dei Baby Blue ci è sempre piaciuta la schiettezza. Quel lasciare in primo piano l’impeto della batteria e l’essenzialità della chitarra elettrica, l’istinto per una melodia smozzicata e il fragore di crescendo improvvisi. Insomma, per capirci, il rock & roll. Nel 2006 ne apprezzammo le gesta in un Baby Blue EP che recuperava le lezione di White Stripes e Kills mediandola con gli spigoli di una P.J. Harvey periodo Uh Huh Her, ora ne rimastichiamo le cesure e il rumorismo scosceso nel primo disco “lungo” della carriera del gruppo. Che a dire il vero non si discosta molto dagli esordi, tanto da riprendere la River già in scaletta nell’Ep di cui si diceva - pezzo da novanta della produzione della band - per sommarla ad altre dodici schegge sullo stesso stile. Stile che viaggia con sicurezza tra freakerie funk traviate da artifici free/noise (Took Me Long e Miss) e blues impasticcato (Far From Home), rimembranze Birthday Party (Silently) e dissoluzioni à la Blues Explosion (Mess). Per una tracklist il cui minimo comune denominatore sembra essere la dissonanza, uno scarso rispetto per la forma canzone, l’attrazione fatale per ruvidezze quasi primordiali e una voluta involuzione estetica che diventa segno distintivo e possanza. Sono a buon punto di maturazione, i Baby Blue. Stanno per abbandonare i retaggi-bruco che ne hanno fatto una band seminale ma profondamente dipendente dagli ascolti giovanili per diventare, finalmente, farfalla. (7.1/10) Fabrizio Zampighi recensioni / 47 Ben Harper - White Lies For Dark Times (Virgin, Mag 2009) G enere : rock Disperavo, ma non sono del tutto stupito. Il Ben Harper che mi mise con le spalle al muro coi primi due album possedeva davvero quella cosa che non si spiega e impasta la musica estorcendoti emozione. Quello venuto poi si è demolito con una via crucis al contrario, ha edificato l’idolo di flanella e vitamine di se stesso, con una pulitissima efficacia che di nuovo mi ha convinto quanto non fosse più il caso. Ed ecco, oggi, il colpo di scena: l’Harper medaglietta d’autenticità mainstream per il colosso Virgin viene scosso da un sussulto d’orgoglio, d’immediatezza, di musica in primis come schiaffo generoso. Licenziati gli ormai bolsi Innocent Criminals, scordate - graziaddio - le escursioni gospel coi Blind Boys Of Alabama, ha lasciato che i Restless 7 gli coagulassero intorno - il bassista e tastierista Jesse Ingalls, il batterista Jordan Richardson e il secondo chitarrista solista Jason Mozersky -, la barra puntata verso un rock impetuoso, graffiante, dalla calda asprezza seventies. Si è talmente invaghito del piglio grintoso di questa quadratura che avrebbe persino voluto sparire nella nuova ragione sociale (la Virgin lo ha ridotto a più miti consigli). C’è da capirlo, perché ha davvero azzecato la mossa. Ha evitato con saggezza di rifugiarsi nella verginità soul degli esordi scoprendo con bella disinvoltura l’acqua calda del southern (una Why Must You Always Dress In in odor ZZ Top, una Number With No Name e una Boots Like These di stampo Black Crowes...) e persino le sgarberie del grunge (quella Shimmer And Shine che la mente torna ai Pearl Jam, vecchio amore harperiano, rievocati del resto anche in Fly One Time), concedendosi il lusso di escursioni Stones altezza Black And Blue (Lay There And Hate Me, Keep It Together). Quanto al Ben del misticismo trepido, ci sarebbe una The World Suicide pervasa d’estro e visioni Neil Young, una placida Faithfully Remain (con gradevole intreccio d’hammond e weissenborn) e una Skin Thin dalla frugale intensità, tipico ballatone dei suoi insomma, un po’ scontato ma ci sta di volergli bene. Non è un grande album, ma è il massimo che po- 48 / recensioni tevo aspettarmi da uno con la sua storia e le sue frequentazioni. Me lo faccio bastare. (6.4/10) Stefano Solventi BJ Nilsen/Stilluppsteypa - Man From Deep River (Editions Mego, Feb 2009) G enere : ambient / drone / elettronica Li avevamo lasciati con Second Childhood (Quecksilber/Wide 2007), alle prese con derive elettroacustiche d’inizio novanta prive di direzione. Li ritroviamo oggi nelle profondità di Man From Deep River. Compito certo a tratti difficoltoso - doveroso è un attento ascolto in cuffia -, quello intrapreso da BJ Nilsen e il duo Stillupsteypa, che lavorano su una registrazione su cassetta risalente al 1975, sottoponendola a un’abile maquillage ambient - il più oscuro e criptico che si possa immaginare. Coesistono naturale e artificiale, nelle indagini sonore del trittico di Man From Deep River, completato tra Berlino e Reykjavik nel corso del 2008, articolato in fields recordings - di una certa scuola cara al Francisco Lopez -, isolate derive analogiche e synthetiche: il tutto trainato da un medesimo ipnotico stato di passaggio che a lunga disanza si scopre tema di fondo, nel suo lento divenire di lacerate, puntuali o visionarie identità sonore. Si fanno notare le modularità ben lontane dalla ciclicità, come smosse da un naturale evolversi degli elementi a metà strada tra fluttuanti granularià, microsuoni dall’animo concreto e risonanti spazialità. Lungometraggi in matrice futuristica e di raffinata levità da cui lasciarsi affascinare. (7.2/10) Sara Bracco Bob Log III - My Shit Is Perfect (Voodoo Rhythm, Apr 2009) G enere : trash blues Un disco di Bob Log III riconcilia con la vita e con il rock’n roll, quello diretto, sporco, rozzo, analfabeta. Non stiamo parlando di un presenzialista, con una pubblicazione ogni due / tre mesi, ma di uno di quelli (sempre più rari) che si fanno desiderare. Ma viva Dio ecco il quarto album della sua serie solita nel dopo Doo Rag, My Shit Is Perfect, un disco che ti prende per il culo già dal titolo, sfrontato e ironico come è. Bob Log è il compagno di scuola che ti insulta e disegna cazzi sulle pareti dei cessi, quello che se inciampi e cadi a terra fa la corsa a sfotterti, quello che fa gli scherzi e si diverte, “the one who fucks”, quello che ha un rapporto con il gentil sesso da machista da bar e in tal senso sono ormai celebri le sue hit Clap your tits (ritmo onomatopeico a colpi di vere tette che sbattono) e Boob Scotch (con tanto di performance dal vivo in cui il Nostro ordina uno scotch e lo fa miscelare dal seno di una fan). Come fai a non volere bene ad uno così? Uno che sta sempre nascosto dal suo elmetto da motociclista e non gliene fotte proprio niente di niente, figuriamoci di me che recensisco il disco nuovo poi... Bob Log III sembra un po’ il fratello blues e disgraziato dei Daft Punk, quello sfortunato che la mamma ha buttato via appena uscito dall’utero. La musica poi è come lui: un blues isterico e stirato, spigoloso e claudicante, ma di grande maestria nella sua elementare elaborazione ritmica e con un gusto per la slide guitar (Mississipi Fred McDowell per sua stessa deferente ammissione) che rimane sempre in ombra quando si parla di lui. Una canzone di Bob Log III non può essere difficile o eccessivamente meditata. Lui ha bisogno di vomitare le parole e le corde con piglio primitivista e una battuta ritmica poco più che elementare. Qualcosa che dopo un po’ di ascolti ti entra nel cervello per direttissima, anche se cercare tracce di melodia nelle sue composizioni è come trovare un senso a testi come Bump Pow! Bump Bump. Di contro il rischio è di avere un disco eccessivamente uniforme e monocorde, anche se incredibilmente pieno di energia. Non che i precedenti eccellessero nell’arte di depistare l’ascoltatore e mantenere desta l’attenzione, ma Trike rimane a tutt’oggi il suo parto più studiato in questo senso. My Shit Is Perfect è comunque un bell’affare per party selvaggi e fa pure ridere l’idea che un simile personaggio possa mai evolversi come musicista. (7/10) Antonello Comunale Boxcutter - Arecibo Message (Planet Mu Records, Mar 2009) G enere : dubstep Ritorna dopo due anni Barry Linn con il suo dubstep di qualità. Che però non fa più rima con novità. Perché oggi è sempre più difficile surfare sull’onda giusta. La domanda del mercato protounderground ha girato sul wonky e il tagliascatole ha perso il tram chiamato desiderio. Questo non vuol dire che si sia dimenticata la tecnica o la capacità di produrre canzoni con l’anima. Vedi ad esempio le vocal di Sidetrack che rimandano al magnaccia Burial, il funk acido di squarepusheriana memoria di BSpacebass, il d’n’ardkore di Mya Rave, le atmosfere dark à la Vex’d di Arecibo Message e in generale un sentimento che si discosta dall’ipertecnicismo delle prime due prove per assestarsi su un uso più organico e analogico dei suoni. Una pausa di riflessione per una delle promesse dell’electrostep. (6.4/10) Marco Braggion Brakes (The) - Touchdown (Fat Cat Records, Apr 2009) G enere : I ndie rock Tra i tanti gruppi britannici che si distinguono per lo humour (la biografia del gruppo presente sul sito, dice che è stata la loro canzone -di nove secondi“Cheney, stop being such a Dick” a far vincere le elezioni ad Obama) i Brakes, composti da ex membri di British Sea Power ed Electric Soft Parade, suonano meno “inglesi” di tutti: non che manchino i richiami alla tradizione nobile dell’isola, ma passa tutto attraverso uno stile caratterizzato dalla voce sottile e ruvida di Eamon Hamilton che evoca spossatezze Grandaddy, dalla corposità della chitarra acustica e a una certa pesantezza Black Keys dell’elettrica. La quale sa spostarsi sulle corde alte quando deve spingere la leggerezza Housemartins di Worry About It Later o quella country di Eternal Return, altrimenti spinge dal basso i B&S di Ancient Mysteries, la notevole apertura di Two Shocks che parte glam per decollare in un finale psichedelico nerboruto, gli stacchi Who di Don’t Take Me To Space (Man); satura nei J&MC di Oh! Forever e tiene su anche la filastrocca -vagamente lagnosa e quindi possibile hit- di Crush On You. L’aria è più anni ‘90 che odierna, ma funziona grazie a una solidità sonora venata di lieve malattia che è il pregio maggiore del disco, soprattutto perché dà corpo alle canzoni senza appesantirle né incatenarne la varietà. (7/10) Giulio Pasquali recensioni / 49 Bronnt Industries Kapital - Hard for Justice (Get Phisical, Apr 2009) G enere : A mbient , IDM, C inematica Escludendo la soundtrack vera e propria, è il secondo capitolo per Guy Bartell ovvero Bronnt Industries Kapital, multi strumentista, turnista per Gravenhurst e soprattutto scenografo sonico per missione. Anche in questo capitolo, entrando nello streaming della memoria, la colonna sonora assume i tratti dell’autonomia artistica e del prodotto d’ascolto tout court. Ed ecco così un bel esempio di lavoro strumentale senza distinzioni di sorta tra elettronico e/o suonato: l’esperienza soundtrack tastieristica e quella acustica (Bartell è famoso per reperire strumenti stravaganti e di difficile reperimento), il kraut rock e il post rock che ci ha fatto i conti, i grandi sceneggiatori sonici dei Settanta (Vangelis, Jarre) e i Kratwerk quando erano un misto di Ralf, Florian e Neu! Persino del Canterbury prog (lato jazz lovers) e qualche espediente elettro del post punk storico, il tutto confezionato con l’abilità del progger sanno di mente. Più vestiti assieme servono di volta in volta a una coreografia precisa. Condite con gusto, serietà d’incisione e già una notevole abilità di “aprire” partendo da un motorik e avrete un progetto di gran classe che si distingue senza seguire nessuna moda. (7/10) Edoardo Bridda Bushman’s Revenge - You Lost Me at Hello (Rune Grammofon, Mag 2009) G enere : jazz metal Melvins meets Ornette Coleman. Questo in una secca frase il profilo dei Bushman’s Revenge, power trio composto da Even Helte Hermansen, già negli Shining, alla chitarra, Rune Nergaard al basso e Gard Nilssen alla batteria. Simili per profilo ed intenti agli Scorch Trio e ai Moha! i Bushman’s Revenge sono gli ultimi sperimentatori del jazz rock o per meglio dire, nel loro caso, del jazz metal, visto che la chitarra di Hermansen si prodiga per tutto il disco in una plumbea coloritura doom con accenti quasi black. La caratteristica del trio è appunto quella di movimentare con la ritmica free un panorama che non potrebbe essere più classicamente metal. Count The Notes In Your Head apre il disco in modo lento e teatrale quasi alla maniera degli Harvey Milk e fa un po’ da introduzione perché il reperto- 50 / recensioni rio successivo si concentra sul dialogo impossibile tra chitarra e sui ritmi diagonali e tarantolati della sezione ritmica. Non mancano episodi diversi, come la dark ambient di Hell Is For Hello o la ballatta jazzata di Ghostwriters In The Sky, ma suonano un po’ come episodi di corredo, un po’ fini a se stessi, così come tutto il disco. (5.8/10) Antonello Comunale Charles Spearin - The Happiness Project (Arts & Crafts, Feb 2009) G enere : musica prosodica “All of the melodies on this album are the melodies of every day life”. Che vuol dire? Che Charles Spearin ha preso le voci dei suoi vicini, quelli che quando viene estate si mettono tutti in veranda a conversare mentre i bambini giocano, ne ha tratto delle frasi conversazionali e le ha usate come materiale per comporre. The Happening Project è cioè un album fatto di tracce che traggono spunto musicale (cioè melodico e armonico) dalle intonazioni, dagli accenti, dall’euforia o meno delle frasi, colte nel loro concreto vivere. È quindi un progetto di musica costruita su quella che in linguistica si chiama prosodia, e che a volte ci fa dire, quando sentiamo una persona con inflessioni particolarmente musicali, “potrebbe essere uno spunto per un tema melodico”. Quello che ha fatto Charles è esattamente questo, cioè trattare la prosodia delle voci attorno a lui come strumento, materia per la composizione; e il risultato, secondo chi scrive, è esaltante. Almeno per una manciata di motivi. Innanzitutto perché l’esperimento potrebbe sembrare intellettualistico, eppure ne scaturisce un’autentica avanguardia ludica, con toni che nulla hanno della meninge spremuta ma molto della leggerezza di calviniana memoria; e ciò fra l’altro giustifica, anche se solo parzialmente, il titolo un po’ naif del disco. Charles usa – ovviamente, per prossimità evidente - anche tecniche di musica concreta, ma sentite cosa ne fa dei cinguettii di Anna; in un picco melenso direi che sembra dargli da mangiare direttamente dal palmo della mano. Poi c’è la storia di Spearin, che non ci avrebbe fatto pensare a un’uscita così; d’accordo che a volte lo si cita come eminenza colorata dietro alla nascita del progetto Broken Social Scene, ma è altrettanto vero che va associato anche al post-rock di Do May Say Think. Cose meno divertite insomma. E questo disco ci fa divertire. Ci ricorda i momenti highlight Au - Verbs (Aagoo Records, Mag 2009) G enere : happening folk Gli Au vengono da Portland e sono portlandini nell’animo – almeno se si pensa a Portland come quella sacca più a Nord dove si riproduce quel senso di comunità associato normalmente a Berkeley. Hanno un cast che pesca da altre band cittadine: Parenthetical Girls, A Weather, Saw Whet, Yellow Swans, Evolutionary Jass Band. Non è una novità allora che in Verbs si senta qualcosa di collettivo, di più mani incrociate e dedite al folk americano con uno sguardo non individuale. E questo nonostante il fatto che sia stato scritto e prodotto da una persona sola, cioè Luke Wyland. Non c’è quasi mai un elemento musicale isolato in questo album; né la strumentazione si raccoglie nella classicità piana del rock; nella convincente Rr Vs. D spunta persino una banda di strada, scanzonata, a infiocchettare la proposta, insieme a un happening sonoro tra piano, triangoli, handclap poliritmici e voci quasi all’unisono. Ma ci si ravvede immediatamente della natura degli Au, già dall’ampio respiro e dai ritmi plurali dell’iniziale All My Friends – titolo che sembra fatto apposta per questo discorso, e brano che raccoglie al suo interno ben 25 strumentisti. Non è comunque solo da un punto di vista della sua genesi e registrazione ontologica che in Verbs appare l’idea di un’opera collettiva. Nei cori, nel pullulare giunglesco si trova un’intersezione tra due formazioni che di questa essenza hanno fatto il cuore dei loro interventi, cioè – e naturalmente – Akron/Family e Animal Collective, a proposito di flusso organico (e la seconda traccia si chiama All Animals…). Si sente certo anche un po’ di Canada, specie in quel modo di essere struggenti ma dopo tutto non patetici, catartici ma contenuti. Quella soglia che i Silver Mt. Zion minano sempre. Ogni tanto ci sono anche i difetti di una condivisione, come nei passi lenti, che sembrano attendere un crescendo, della finale Sleep, in definitiva poco credibile nel suo sviluppo. C’è comunque e sempre il contrasto tra riflessione e risoluzione; Prelude ha per esempio una lunga introduzione che sembra un mèlange dei fiati del Terry Riley più riflessivo e un sostrato free-jazz. E poi si scatena la catarsi. Che sia generazionale? Qui sta il punto. Perché si alludeva sopra agli aspetti generativi e non genetici di questo disco. Il fatto cè che Verbs mette a frutto e fa il punto di quel punto di vista corale, comunitario, che ha contraddistinto i Duemila.Ve lo segnaliamo come uno di quegli album che sanzionano un periodo, un modo di suonare, un’idea estetica e un approccio alla musica. È anche in questo che gli Au ci parlano di famiglie di Akron e degli animali. Non a caso arrivano nel 2009 – o per esser più precisi nel 2008, dato che la prima e più limitata distribuzione di Verbs è dell’anno scorso. E lo suggeriamo per chiederci per quanto tempo sarà ancora sul pezzo suonare così. Forse poco. Ma per oggi – il disco lo dimostra – ancora sì. (7.2/10) Gaspare Caliri migliori di Music From The Body di Waters e Geesin, ma spesso lo supera, per esempio quando fa sprizzare un violino capriccioso dall’esclamazione improvvisa di una voce fanciullesca, dando un senso di assoluta capacità di maneggiare le proprie intenzioni (Ondine). Qui sta il terzo motivo. La naturalezza con cui fiati chitarre pianoforti mimano le voci e ne traggono spunti su cui costruite intere mini- recensioni / 51 suite. Come in Vanessa, quando l’ultima frase di una conversazione (quella di Vanessa, evidentemente) diventa il tema su cui sviluppare la traccia musicale. Padronanza e misura. Gioco e felicità. Se non altro, ci ha fatto respirare un sereno ambiente quotidiano, Charles. (7.5/10) Gaspare Caliri Cheval Sombre - Self Titled (Double Feature, Apr 2009) G enere : slow - core shoegaze Cheval Sombre è una one-man band e viene da NY. All’anagrafe è Christopher Porpora, lontane origini italiane ormai sepolte nelle nebbie dei tempi. Suona tutto lui, anche se il tutto si circoscrive a chitarra acustica e voci, più qualche effetto sparso qua e là. Una musica semplice, sognante ed evocativa che si pone esattamente al guado tra slowcore di matrice folk-blues e shoegaze dreaming and floating. Tutto qui? Manco per niente. Perché tanto per cominciare attorno a sé per questo esordio – che raccoglie molti dei suoi ormai introvabili singoli usciti per Trensmat e Static Caravan – CS ha avuto gente mica da ridere: Peter Kember, meglio noto come Sonic Boom, ad esempio, che produce il tutto e accompagna con organo ed effetti. Poi Britta Philipps (a basso e tastiere) e Dean Wareham (chitarra in alcuni pezzi), che messi insieme sono proprio i Luna, oltre che i titolari del marchio che produce il tutto, la Double Feature. Già il fatto che nomi del genere mettano la faccia nell’esordio di un emerito sconosciuto dovrebbe far riflettere sulla bontà dell’offerta. E così è, infatti. Cheval Sombre è un disco non originale, ma classico. Non un capolavoro, ma di quelli che non toglieresti mai. Non innovativo, ma semplicemente sublime, tanta è la delicatezza con la quale Christopher disegna, in punta di plettro, melodie malinconicamente perfette. Che si appoggi ora ad un immaginario Slowdive senza elettricità o a quello in totale slow-motion dei Low, che accartocci su se stesso un pezzo minore dei Doors (Hyacint House), tratteggi un dream-pop lunare su una texture filamentosa ed evanescente (I Sleep) o rielabori in chiave estatica qualche traditional (Troubled Mind è letteralmente da brividi sulla schiena), 52 / recensioni Clues - Clues (Constellation Records, Mag 2009) G enere : indie rock Gli Unicorns hanno fatto in tempo a pubblicare solo un album, Who Will Cut Our Hair When We’re Gone? nel 2003, ottenendo comunque un discreto ritorno. Quanto agli Arcade Fire, sono a tutt’oggi la gallina canadese dalle uova d’oro per quanto riguarda il mondo indie. È naturale quindi che si sia subito creato un certo interesse intorno ai Clues, che mettendo insieme Alden Penner e Brendan Reed, più un gruppo nutrito di strumentisti e amici del giro di Montreal, si riaggancia dichiaratamente alle esperienze dei due gruppi succitati suonando al tempo stesso come una naturale e diretta conseguenza, tanto quanto un’ipotesi ulteriore di indie rock anni 2000. La musica dei Clues è tutta spigoli post-punk a carezze pop-folk, spesso anche all’interno di uno stesso brano. Haarp fa capire subito l’andazzo: melodia in gran spolvero, chitarrine che più indie non si può, salvo poi cambiare improvvisamente registro e lanciarsi in attacco rock sostenuto. Attacco che poi prosegue nella successiva Remember Severed Head che è un piccolo gioiello di missaggio con ritmica e chitarre angolari da far invidia proprio agli ultimi Arcade Fire. La filosofia dei Clues è questa. Originale quasi per nulla, ma parecchio efficace nell’andare a cercare le soluzioni migliori nelle pieghe di discorsi usati e abusati. Vanno letti in questo modo le arie quasi morriconiane delle radioheadiane In The Dream e Perfect Fit o i coretti Ok Computer della super ballad notturna Elope, per non parlare del post punk fugaziano di Cave Mouth o della marcetta in odore di cuore nero di Crows. La maestria e l’astuzia della band sta tutta nel saper miscelare gli ingredienti con il giusto piglio post modernista. Facendo così riesce a metter giù classici istantanei da arena come Ledmonton. I Clues sono una band che cavalca l’hype come i surfisti di Malibu Beach fanno con le onde più alte e pericolose. Coathangers (The) - Scramble (Suicide Squeeze Records, Apr 2009) G enere : indiepostpunk The Coathangersè un quartetto femminile di Atlanta, che si fregia di un’oscillazione stilistica tra più anime che è sicuramente difficile tenere insieme. Scrambleci fa annuire con gradimento e sospendere il giudizio, dubitare e tirare avanti le tracce, a volte tirarle indietro per riascoltarle. Difficile insomma dare un’identità a queste ragazze, data la variabilità manifestata dalle canzoni. Si parte (dopo l’intro) con Toomerhead, che colpisce per la vocalità strozzata che contrasta con il brano che di fatto è un motorik molto semplice. Non può poi non piacerci Time Passing, che contiene i Mars. Ecco chi ci ricorda quella gola trattenuta: una sorta di Sumner Crane al femminile. Stop Stomp Stompin’ci ricorda invece qualcosa di vicino al post-punk, che si insinua di fianco al garage caricaturale dei Pere Ubu ma soprattutto risulta molto prossimo ai Devo; ecco forse cosa sono le Coathangers: delle devolute. C’è poi anche San Francisco, i Deerhoof, dei garage più tirati (Bury Me); persino il funk-punk; principalmente però c’è un gruppo che in un disco ci fa cogliere tutta una parabola, dalle origini arrembanti alle distensioni più pop e mature, come una coesistenza compressa di White Light/White Heat e Load, ovviamente con le dovute distanze e proporzioni. Parliamo quindi di normalizzazione dei toni accesi; da un certo punto di vista è normalizzato anche un punk bell’e buono come quello di Gettin’ Mad And Pumpin’ Iron; quasi da manuale. A ulteriore elemento di confusione, alla voce simil-Craniana ce n’è un’altra, che sembra provenire dal Sol Levante – che ci ricorda episodi come Limited Express… Has Gone. Doppia voce e doppia identità, verrebbe da dire. Ci accorgiamo di questo proprio quando le due ugole cantano insieme, in Cheap Cheap, in una specie di duetto. Un lavoro di contrapposizione multipla, Scramble. Rasenta la dispersione, ma azzecca alcuni numeri, sbagliando ma solo di poco degli altri. Cosa che ci fa sperare che non scelgano un’unica strada sicura. (7.3/10) (6.5/10) poco importa. Resta la certezza di un disco al tempo stesso magico, bucolico, pulviscolare, astratto, intimo, notturno, sospirato. Che non è poco di questi tempi. (7.2/10) Stefano Pifferi Antonello Comunale Gaspare Caliri Color Of Violence (The) - Youthanize (Epitaph, Apr 2009) G enere : D eath (E mo ) C ore Nato da personaggi per metà legati ad origini grindnoise, via via spostatisi verso i territori maggiormente redditizi dell’emo core, seppure di qualità, The Color Of Violence (side-project dei From First To Last, Derek Bloom e Travis Richter) incarna alla perfezione gli stili sopraccitati. Ne consegue un impatto disorientante sia per l’ascoltatore avvezzo ai generi estremi del metal, sia a quello più rivolto al punk. La voce di Richter, urlata e distorta, potrebbe camuffarsi benissimo in un qualsiasi disco black metal, ma il sound complessivo va ben oltre le gelide lande del nord Europa. L’hardcore di band come i Black Flag è un punto di riferimento, facilmente riconoscibile. nei riff essenziali di Rock Music, mentre c’è sapore di emo nelle eufoniche armonizzazioni di God Gave Me Deeze Nutz e Me And My Enormous Spiritual Erection. Una tendenza, quella dell’uso/abuso di giri armonici semplici e orecchiabili, che attutisce la carica potente e ipnotica che la band sa infondere a brani più “tirati” come Christina, Christina, una sorta di grind dallo stranissimo appeal garage o al death-prog di Crapandemic. Punk e Black Metal, Garage e Hardcore e un’ironia di fondo che ricorda gli Impaled Nazarene. Passaggi improvvisi da un picco all’altro, fino a culminare nello strano abstract hip hop (con tanto di scratch parodiato dalla chitarra) di Look I Made It! I’m Dating An Actress. L’album, del resto, è caratterizzato complessivamente da una varietà stilistica che, lungi dal rappresentare un problema di identità, crea una continua incertezza nelle aspettative. Un meccanismo di spiazzamento, di tradimento delle attese che è poi il sale della musica stessa. (7/10) Daniele Follero Conor Oberst - Outer South (Wichita Recordings, Mag 2009) G enere : rock , country rock Accantonato momentaneamente lo pseudonimo più famoso Bright Eyes, Conor figlio fiero d’America ritorna “artisticamente” in proprio (e accompagnato dalla fida Mystic Valley Band) con un secondo lavoro che lo conferma definitivamente nei panni del rocker da pub del middle-south con nel taschino l’abilità di condurre l’immaginario comunicativo dylaniano ai bicipiti di uno Springsteen. La bellezza dell’esordio era tutta lì e proprio per recensioni / 53 questo ci delude Outer South, un lavoro che porterà a compimento il percorso rock venato country iniziato con Cassadaga che di contro non regala la scrittura sicura e brillante del precedente album (e figuriamoci una Cape Canaveral). Rimangono assodati gli arrangiamenti impeccabili e gli smalti adult country rock ed è chiaro che il ragazzo per primo ha giocato in consapevolezza di questi limiti: ben 7 brani sono stati scritti e cantati dalla Mystic Valley, un aspetto non trascurabile per un innegabile egocentrico. A riprova le restanti canzoni, più figlie dell’interpretazione che della scrittura, come dire, parando sul sicuro si rischia un bell’anonimato, pur con qualche centro (Ten Women su tutte). Vi accontentate? Dragon’s pare essere se ascoltate in fila il lungo intro del brano successivo, Teeth Of All Types. E in Nicaragua c’è un crescendo che non è poi troppo dissimile dai Cul De Sac. In Wrong Way la pseudo-MArshall sembra venire da uno pseudo-Moon Pix. Ma c’è contenuta nella stessa traccia anche la chiave dell’ironia, dietro i gridolini in coda alla canzone. Ma ciò che riesce meglio al combo è la riproduzione della scena post-fok, al punto che Strong Swimmers come altri brani contengono al loro interno piccoli decostruzionismi country-folk. Il tutto senza troppe nostalgie, solo con un senso del sostrato culturale. Ps: Ovviamente la cantante non è Chan Marshall; si chiama Shana Cleveland. (5.5/10) (7/10) Alessandro Grassi Gaspare Caliri Curious Mistery (The) - Rotting Slowly (K Records, Mag 2009) G enere : post - folk / songwriting A primo ascolto non è affatto un mistero; non si pensa solo “questa somiglia a Cat Power”, ma “questa è Cat Power”. Di volta in volta sembra accompagnata dai Dirty Three, dai Low, da tutte le più famose formazioni del folk desertico dello slo-core. E infatti Rotting Slowly è un disco americano fino al midollo, che viene in qualche modo dal giro Red Red Meat e Calexico, come da mille altre Americhe del rock. Tornando alla cantante, rimaniamo colpiti dalla prossimità a Chan per il modo inconfondibile di trattare la debolezza melodica, la debolezza della linea melodica della voce, tramite quella che comunemente si chiama “stecca”, ma che se usata in modo saggio dà un tocco distintivo e quasi struggente, una dimostrazione di coinvolgimento e sensibilità in prima persona a quella debolezza, a quelle ferite. Insomma, abbiamo deciso, come si faceva nel Medioevo per le opere dei padri della chiesa della cui paternità non si era proprio sicuri, di chiamare la voce femminile dei Curious Mistery la pseudo-Marshall, tipo lo pseudo-Kilwardby. C’è anche una voce maschile, comunque, e ci sono anche brani senza voci; in effetti i brani strumentali (Dragon’s Crotch, che sembra suonata dai Meat Puppets) sono avvincenti; sembrano essere il preludio a qualcosa – cosicché Depedro - Self Titled (Pias, Apr 2009) G enere : desert pop - rock Chi nell’autunno scorso presenziò ai concerti italiani dei Calexico ricorda forse - nel ruolo di spalla e “sideman” - la figura discreta di Jairo Zavala in arte Depedro, cantautore madrileno del quale solo ora si rende disponibile questo disco fuori dalla madrepatria. E poiché la regola popolare del “dimmi con chi vai“ di rado sbaglia, non faticherete a capire quali atmosfere si respirano nella dozzina scarsa di brani qui contenuti: Messico e nuvole, polvere del deserto e passi cinematici, arrangiamenti stratificati e cura del dettaglio. Presupposti ottimi e altrettanto valga per la presenza del duo Burns/Convertino, accompagnati dagli scudieri Jacob Valenzuela e Craig Schumacher. Il guaio è l‘ugola di Jairo, clone dello Sting maturo ripiegato su un irritante birignao che affossa la scrittura, di per sé appena discreta qualora non vacua e banale (esemplare il pessimo rock “un po’ latino” Comanche.) Si fosse limitato a inseguire le timbriche alla nicotina dell’amico Joey - come nelle passabili Tomorrow e Two Parts In One - avremmo scritto di un gradevole artigiano con conoscenze importanti. Invece no, lodiamo la regia strumentale e il resto mancia; c’è soltanto colorata buccia e niente polpa. Consola il fatto che ci è risparmiato un possibile effetto Jarabe De Palo. Quello no, non l’avremmo proprio tollerato. 54 / recensioni (5/10) Giancarlo Turra highlight Blank Dogs - Under And Under (In The Red Records, Mag 2009) G enere : synth - pop lo - fi Eccolo di nuovo, mr. Blank Dogs, ormai ufficialmente affetto da elefantiasi compositiva. I suoi (molti) detrattori diranno che è semplice di questi tempi, con tutto l’hype che circonda la sigla, trovare etichette disposte alla pubblicazione di ogni suo vagito nella speranza di poter sfruttare le potenzialità (ehm) commerciali del suddetto; o addirittura, qualcun’altro dirà che è ancora più facile produrre vagonate di canzoni che alla fin fine hanno ben poco di originale e si somigliano pure quasi tutte tra di loro. Però, c’è sempre un però. Stavolta a mettere il proprio marchio su Under And Under è la In The Red, etichetta che non ha certo bisogno di farsi pubblicità, visto il catalogo alle spalle. In secondo luogo perché, ognuno la pensi come vuole, sotto la coltre di rumore in lo-fi (anzi, sarebbe meglio dire no-fi) architettata da Sniper non c’è solo fumo, bensì molto arrosto. L’effetto sorpresa di queste piccole e semplici canzoni di matrice synth-wave sepolte sotto cumuli di rumore è bello che scaduto, e dunque a restare è la qualità delle canzoni che, pur giocando con una tavolozza di colori piuttosto esigua (diciamo tra il nero JD e il grigio synth-wave), valgono eccome. L’opener No Compass, la finto-Cure Falling Back, la già edita Setting Fire To Your House sono al solito gemme liofilizzate di mille ascolti passati, ma riescono a mantenere intatto il fascino della prima volta. Qualche spigolatura prima di chiudere. Della partita sono anche Vivian Girls e JB dei Crystal Stilts, mentre l’edizione in doppio vinile promette ben 5 pezzi in più. (7.2/10) Stefano Pifferi Dirty Projectors - Bitte Orca (Domino, Giu 2009) G enere : P rog pop / A vant - garde Possiamo dire di “averlo visto crescere”, come fanno gli amici di famiglia con i figli che diventano grandi. È da anni che ci interessiamo e stimiamo il lavoro di Dave Longstreth, seguendo passo passo le sue rocambolesche sperimentazioni musicali, che hanno saputo accostare nel tempo, sorrette da un poco comune spirito avanguardista e un’ apertura alle influenze senza limiti, la musica da camera, il rythm’n’blues,il folk e il progressive. Nessun passo falso finora, per il compositore/cantante/chitarrista residente a Brooklyn, neanche dopo la decisione di cristallizzare (almeno per ora) il progetto in un quartetto fisso, completato da Brian McComber, AngelDeradoorian e la vocalist Amber Coffman. E possiamo affermare, dopo l’ascolto di Bitte Orca, quinto album firmato da Longstreth, che Dave non ha perso la bussola, neanche nel momento delle dif- ficili conferme, quello in cui gli artisti, forgiato ormai uno stile definito e autonomo, tendono a fissare le loro idee a scapito della sperimentazione. Dirty Projectors ormai, richiama uno stile ben preciso, costruito su saltellanti ritmiche irregolari e sincopate, cori dissonanti, su quel particolare modo di suonare la chitarra di Dave che tanto ricorda la mbira africana e su melodie poco lineari, che procedono per salti ampissimi, intonate con la particolarissima impostazione vocale del Nostro. Tutto questo è Dave Longstreth e tutto questo è Bitte Orca. Niente di più e niente di meno che un’occasione per fermarsi, per lasciar decantare le idee messe in campo finora. Certo è che, a partire dal singolo scelto come apripista per l’uscita dell’album, Stillness Is The Move (il cui titolo potrebbe, per una simpatica coincidenza, sottoscrivere il discorso fatto finora), si nota una disposizione alla semplificazione che è un po’ la base di tutto l’album, ben lontano dalle arzigogolate strutture di The Getty recensioni / 55 Address e più equilibrato nei timbri vocali, con la voce della Coffman a fare da dolce contraltare femminile ai gorgheggi di Dave. Quello di Longstreth non è, però, un riparo verso le forme più tranquillizzanti (per il pubblico) della canzone ma un tentativo di contenere la creatività in spazi più piccoli, senza esitare a decostruirli a piacimento, come avviene negli zig-zag ritmici di Temecula Sunrise, nell’incerto dondolare di The Bride, che sfocia in un improvviso riff alla Led Zeppelin, o nel minimalismo di No Intention. Ma sappiamo che, anche nella semplicità, a Dave piace, di tanto in tanto, complicare le cose. Ed ecco allora, il prog di Useful Chambers, che mescola elettronica, hard rock e passaggi corali che ricordano i primi Queen. È così marcato Longstreth questo album, da far passare quasi inosservata la partecipazione di gente come Sufjan Stevens, Decemberists e Grizzly Bears. È lui il più “sporco progettatore”. Nel bene e nel male. Ma soprattutto nel bene. (7.1/10) Daniele Follero Discharge - Disensitise (Vile Art, Mar 2009) G enere : hard - core Autoprodotto e venduto ai concerti già da agosto 2008, ora stampato da Vile Art, il nuovo album, 14 pezzi, 37 minuti, dei Discharge non si distanzia troppo dal disco dell’homecoming D-beat, l’omonimo datato 2002. Troviamo la stessa miscela di hardcore punk (la ritmica, la voce) e metal tra hard e thrash (la chitarra, soprattutto nei soli). E si capisce quanto la batteria possa fare la differenza: con un doppio pedale di mezzo, la nostra percezione sarebbe sbilanciata sulla seconda componente, mentre così puntiamo più sulla prima. Prevale allora il tu-pa tu-pa marchio di fabbrica della band (non mancano piccole variazioni, come Becomes Again and Again), i pezzi sono le solite aggressioni fisiche, i riff portanti il solito esercizio di compressione ossessiva su un ristretto repertorio di accordi e dinamiche. La formazione è quella stabile dal 2006: il nuovo batterista Dave Caution, “Proper”, due membri storici, Roy Wainwright, “Rainy”, e Tony Roberts, “Bones”, e a sostituire il cantante-simbolo Melvin Morris, “Cal” (la voce dell’epico ed epocale Hear Nothing... dell’82), Anthony Martines, “Rat”, dai discepli Varuckers. La sua è una voce più “attuale”, meno declamatoria, diciamo tra l’HC classico e certe sporcature crossover, forse per questo meno 56 / recensioni personale. I Discharge sono mitologia, c’è poco da dire, tra i primissimi a prendere e mischiare da punk e metal, aprendo la strada alle loro ali più estreme, crust e grind, influenzando dai Napalm Death (e quindi anche gente come lo Zorn Naked City) ai Metallica ai Sepultura (e quindi molte frange Nu) ai Boredoms. Ma oggi il loro peccato più grande pare quello di rincorrere proprio quegli stessi fenomeni che hanno contribuito a fondare. (5.7/10) Gabriele Marino Disrupt - The Bass Has Left The Building (Jahtari, Feb 2009) G enere : nerdy microdub Se non hai giocato almeno 8 ore al giorno per plurime estati invece di andare al mare, o se andavi al mare (perché eri costretto) e non avevi i calli per le partite alle Olimpiadi in sala giochi non puoi capire questo disco. Questa è la rivincita dei (breakbeat) Nerd che si stacca del basso (vedi il titolo programmatico) ed estremizza la lezione di Harmonic 313 (Hail The Robots) sputtanandosi come solo gli innamorati sanno fare. Una palese dichiarazione d’amore per i Kraftwerk, per la scena electro d’antan à la Mantronix e per il dub puro. Nostalgia fine a se stessa? No, in questo 2009 la tendenza è questa, solo che nessuno l’aveva applicata così pedissequamente al dub. Con l’esperienza di un disco del calibro di Foundation Bit (guardacaso su Werk, 2007), il nostro Jan Gleichmar se lo può permettere. Anche se esagera un po’, noi nerd siamo consapevoli che qui l’eccesso porta innovazione. E quindi ben venga l’ortodossia in slow motion (It’s More Fun To Dubpute), la dimensione glitch-chill (Impossible Mission III), le voci nelle intro e la sirena di Echobombing che fanno tanto ‘ardkore continuum, la dimensione spacey vicina alle visioni di Luke Vibert e i cut sporchi old school. Praticamente un dancefloor stoned popolato di robot drogati di slo-mo-breakdance. Una visione che ha tonnellate di prodromi glitch-dub (il lungo intervallo che va da Mad Professor a Pole), che oggi per farla così fresca si rischia veramente il culo. Only the strong will survive, e stavolta il nostro per salvarsi è diventato un transformer. Esce dal dub classico e prende una strada a 8 bit con lo sguincio alle roots. Senza alcun tipo di ‘-step’. Disrupt is the coolest robot. (7/10) Marco Braggion Dj Hell - Teufelswerk (International Dee Jay Gigolo Records, Mar 2009) G enere : VIP tronica Europa + Elettronica + Eredità = Berlino. Quando dici classe e storia dici Hell. Lui alla 250ma uscita per la sua monumentale Gigolo esce con un doppio che ha nelle vene tutti questi ultimi anni di vagabondaggio electro. Che sia minimal, che sia techno, che sia progressivo o che sia un oltraggio, la mecca attorno a cui ruota tutto il pianeta ritmo si riconferma di importanza cruciale per la costruzione di uno stile solido, un’ortodossia post-Kraftwerk. E allora per fare la cattedrale di solito si chiamano i migliori progettisti. I nomi sono Peter Kruder, Roberto Di Gioia, Christian Prommer, Anthony Rother, la G-Stone di Vienna, i cameo di Bryan Ferry (U Can Dance) e P. Diddy (The DJ). Il lavoro è organizzato in due parti. Day e Night. La notte parte con la bordata di Ferry che è uberminimal con dei bassi da panico, senza compromessi, puro stile Gigolo. Si va poi direttamente in Autobahn con Electronic Germany e allora risenti tutto quello che ti hanno detto i robot di Düsseldorf direttamente in acido vocoderato, vai poi di brutto nel soul più cupo con lo spoken di Diddy e ti gasi, perché anche se non sono mixate queste tracce hanno un tiro che spaventa. Un tunnel che Canzian ha stravolto e che qui ha un’aura di perfezione barocca da brivido: vedi il 10 minuti di The Disaster che sono già là nell’olimpo della trance più progressiva che mai, i glitch sexyminimal da urlo di Bodyfarm2 e quella cosa post-Jack che è Hellracer. Si passa poi al giorno e qui la mano di Kruder e Prommer si sente di brutto, con quello stile Vienna che fa suoni ovattati e che è G-Stone. La hybris scende un po’ e visto che la sommità del monte Olimpo è già stata conquistata ci si adagia su una lounge room infinita, il recupero dell’eredità Tangerine Dream (Germania) e dei suoni puliti postsballo. L’importante è non citare troppo nè il passato nè il futuro. Qui si è. Per una volta la consapevolezza di rappresentare uno stile che solo pochi eletti incarnano, senza nascondersi dietro mode effimere. Hell is the king of the VIP area. (7.4/10) Marco Braggion DJ Olive - Triage (Room40, Dic 2008) G enere : S oundscapes Disco appositamente concepito per conciliare il sonno, Triage del DJ Olive, chiude un percorso, quello delle Sleeping Pillows, iniziato con la label Room40 nel 2004 con l’uscita di Buoy e proseguito, esattamente due anni dopo, con la pubblicazione di Sleep. Il discorso, per Triage, progetto sonoro nato come installazione per la Biennale di Whitney del 2008, potrebbe limitarsi alle tecniche di scrittura, tra timbriche che si vanno sfaldando progressivamente e ricercato rallentamento ritmico. Ma la poetica dell’artista, esemplificata anche dalle sue passate collaborazioni (Christian Fennesz, David Watson, Vija Brazus, Karl Francke e DJ Reaganomics) va ben oltre questi rilievi, facendosi mezzo di un delicato linguaggio elettroacustico sulla texture. La base di partenza è una materia grezza ottenuta con una strumentazione più o meno acustica (percussioni, chitarra, cornamuse e synth), ma successivamente trasformate con innegabile grazia, filtrata e consegnata in frequenze, loop, ondularità in sincronismo, similitudini o contrasti che inducono nell’ascoltatore un effetto quasi anestetizzante, un continuo alternarsi di stati della mente e di percezioni. Un ristoro indispensabile per chi sentisse la necessità, una buona volta, di abbassare, per poco più di mezz’ora, il livello di vigilanza e consapevolezza. (6.8/10) Sara Bracco El Perro Del Mar - Love Is Not Pop EP (Licking Fingers, Apr 2009) G enere : electro pop Mini album o ep lungo che dir si voglia, questo Love Is Not Pop suona come un passaggio importante nella carriera di Sarah Assbring, conosciuta ai più col curioso moniker El Perro Del Mar. Prodotto da Rasmus Hägg, ovvero una metà del duo electro scan- recensioni / 57 highlight DJ Vadim - U Can’t Lurn Imaginashun (BBE, Mag 2009) G enere : electro reggae - dub Dalla Ninja alla Berlino della BBE. Vadim cambia rotta scostandosi dalla sampledelia strumentale guardando all’organicità del dub. Ovviamente le radici sono là, nei magici 90 in cui l’etichetta londinese spopolava con Funky Porcini e Amon Tobin. Ma oggi l’imperativo è aggiornarsi al melt-hop. E anche se l’obiettivo non è dei più facili, il giovanotto occhialuto ci riesce senza troppi problemi. La ricetta la senti dall’intro: ‘Paris to London, France to England’ dice la voce del doppio featuring di Big Red e 5nizza. La matrice comune delle due metropoli è il reggae. Non sorprende, almeno a noi, che già con Missill avevamo sentito questa connessione. Solo che dopo la virata dub di un re dello step del calibro di Disrupt, qualche antenna verso Kingston si è ulteriormente allungata. E allora oggi a sentire questa Selecta nel migliore stile roots ti vengono le molle ai piedi ed è inevitabile ballare. A guardare bene poi questa traccia Londra Parigi poi finisce a Berlino. Come a dire che l’eco Rhythm And Sound non è per niente distante. Ma se là c’erano le equazioni di scuola Hard Wax e quindi ci si andava di spigoli e di filtraggio visionario, qui, visto che il nostro ha la tecnica Ninja nei polpastrelli, ci si va di gusto per il cut-up. Suoni di vocoder robotici (R3 Imaginashun, Saturday), soul da strada arricchito con archi uberjazz (That Life), dubsteady senza compromessi (Under Your Hat), french-hop di classe (Maximum) e le inevitabili tracce strumentali che inframmezzano con ricordi pieni di stile a 8-bit. Vadim è tornato al posto giusto e al momento giusto. Senza l’intellettualismo nerdy che lo avrebbe fatto cadere nella ripetitività, con la leggerezza che solo i grandi sanno di avere in tasca. Poker d’assi per lui. (7.3/10) Marco Braggion dinavo Studio, trasla il già noto talento per le trepidazioni oniriche della ragazza in una dimensione ancor più evanescente e ipnotica, costeggiando soul algidi vagamente Eurythmics con giocosa grazia Royksopp e garbo malizioso Isobel Campbell (Heavenly Arms), surgelando morbose apprensioni Notwist (L Is For Love) e solenni gelatine Mùm (Is It something) nella ghiacciaia lirica Goldfrapp, rischiando talora una trasfigurazione Enya che graziaddio non arriva (A Better Love). La veste sintetica non stravolge la calligrafia di Sarah, anzi le dona un erotismo differito (la deliziosa Change Of Heart), conferendole una levigatezza liquida dove puoi scorgere inquietudini fantasma tipo una Kate Bush stregata Cocteau Twins (Let Me In), dove la wave pop trova modo di narcotizzarsi Bacharach (I Gotta Get Smart). In tutto ciò lei si muove agile come in una pelle appena mutata. 58 / recensioni Confezionando un piccolo, soffice gioiello pop. E se non è amore, pazienza. (7/10) Stefano Solventi EL-B - The Roots Of El-B (Tempa, Apr 2009) G enere : drum & bas s , dubstep Evidenza è che da qualche tempo sia in corso una riscoperta del drum and bass: mai davvero scomparso da che finì sotto i riflettori tre lustri or sono, a questo fenomeno è andata dunque assai meglio che al downtempo. Rientrato nella nicchia d’origine, si è in tal maniera sottratto allo sgradevole ruolo di tappezzeria sonora; nel frattempo lasciava che i suoi metodi produttivi “casalinghi” penetrassero dapprima nello UK garage e poi in dubstep e grime. Quello stile metropolitano al sapor di ketamina che restituisse lo stordimento di una vita in progressiva accelerazione e l’agio di fare musica approfittando dell’innovazione tecnologia prendeva infatti le mosse nella prima metà dei Novanta. Quanto tale sentire sia ancora attuale è fatto noto ai capoccia dela Tempa e a Lewis Beadle a.k.a. El-B (da Streatham, Londra sud), qui oggetto di compendio in quindici rari “white labels” e remix risalenti all’inizio del corrente decennio. Sorta di cerniera tra le due epoche, El-B raccolse in quell’epoca un’interessante combriccola attorno alla propria etichetta Ghost, adattando ritmi drum ‘n’ bass e spazialità jungle al nascente UK garage, ostentando spesso e volentieri uno stile piuttosto personale. Sarà un caso, ma è proprio lì che il corposo programma offre quanto di più memorabile e cioè una Among The Stars indecisa tra jazz reinventato e Arabia e le tastiere cosmiche in orrorifico divenire di Serious, l’incontro tra soul e ragamuffin Neighborhood e l’algida Celebrate Life. Tutto questo e il classicismo che muta pelle in Show A Little Love e Time Out - inducono a raccontare una figura acuta e affatto schiava dei luoghi comuni. Un nome da riscoprire nel frastagliato panorama “post-dance” d’oltremanica: indagate e non ve ne pentirete. (6.8/10) Giancarlo Turra Eric Woolfson - The Alan Parsons project That Never Was (Limelight Records, Apr 2009) G enere : P op Eric Woolfson canta l’Alan Parsons Project che non è mai stato. Ovvero, il co-fondatore di uno dei più celebri progetti che si ricordino nella vita relativamente breve della musica pop, tenta di uscire dall’anonimato dopo tanti anni vissuti, di nome e di fatto, all’ombra del famoso produttore inglese, rispolverando alcuni brani scartati in passato dai due. Scartati, soprattutto, a detta dello stesso Woolfson, per volontà di Parsons, con il quale, evidentemente, la complementarietà delle esperienze non compensava del tutto le discordanze nelle scelte estetiche. Operazione pretestuosa, a dir la verità, e utile soltanto a chiarire i motivi dell’esclusione dei brani in questione dal repertorio dell’APP. Canzoncine innocue come Golden Key e Rumor Goin’ Round, (appartenenti, peraltro al periodo più buio del duo, quello degli assai bruttini Ammonia Avenue e Stereotomy) sarebbero state meglio negli scaffali dei ricordi dell’autore, per non parlare dei nuovi lavori. I brani tratti dai recenti musical dell’autore, Dan- cing Shadows e Poe, si dimostrano perfettamente all’altezza (ma sarebbe meglio dire bassezza) dei ripescaggi, con l’eccezione di I Can See Round Corner, una mosca bianca che sta lì a ricordare che l’APP non è stato (soltanto) un giochino da hit single da parte di gente che conosceva il mercato musicale come la propria casa. Inevitabili le scopiazzature (l’arpeggio di Immortal richiama quello di Eagle Will Rise Again, anche se poi, per il resto, c’è un abisso), da dimenticare gli arrangiamenti (è qui che la mancanza di Parsons crea un vuoto imbarazzante). La voce è sempre quella. Aiutato dalle nuove tecnologie, il timbro di Woolfson è ancora quello che ha marchiato in maniera indelebile brani come Eye In The Sky, Don’t Answer Me e Time, diamanti del pop che ancora risuonano nelle orecchie e nella memoria di più di una generazione. (4/10) Daniele Follero Farmer Sea - Low Fidelity In Relationships (I dischi de l’amico immaginario, Apr 2009) G enere : emo indie pop Dopo un lustro di gestazione che ha fruttato due interessanti ep - puntualmente intercettati in We Are Demo - i Farmer Sea concretizzano la fregola indie-pop emozionale esordendo in lungo con Low Fidelity In Relationships, undici tracce come altrettanti sommovimenti dell’anima, l’epicentro localizzabile dalle parti degli Smashing Pumpkins più quieti e accattivanti (quelli di 1979 per intendersi), con propensioni sintetiche, movenze lo-fi, retaggi post e giusto una spolverata jazzy a stemperarne i margini. Un linguaggio che rifiuta clamori, giusto qualche ammiccamento che però stempera ruggini e guizzi in una costante emulsione di spleen giovanilista, canzoni da linea d’ombra come le già note Teenage Love e Neil Young Is Watching Me (recuperate dai suddetti ep), oppure le nuove Everywhere You Are e Dream? Science!, coi singulti Teenage Fanclub immalinconiti tra palpiti Go-Betweens e indolenza Malkmus. Si registrano gustose oscillazioni stilistiche mimetizzate dalla sostanziale monotonia atmosferica, tipo la trama soul robotica a fare sostrato in The Place Where I Sleep At Day, la forza gravitazionale Franz Ferdinand tra fragranze electro Yuppie Flu in Blurry Nation o la caligine onirica da Yo La Tengo fanciulli nella conclusiva She Dreams Of Airports And Planes. Se mancano intuizioni originali e d’impatto, i ragazzi sono altresì recensioni / 59 abitati da una convinzione inscalfibile, dalla capacità di calibrare gli arrangiamenti sul mood con bella disinvoltura. Un disco appagante. (6.8/10) Stefano Solventi Freaky Mermaids - Freaky Circus (‘Ave It, Mar 2009) G enere : theatrical folk L’autodefinizione di theatrical folk calza a pennello alle bresciane Freaky Mermaids, nate dall’incontro fra due musiciste e un’attrice, rispettivamente Ombretta Ghidini dei Le Man Avec Les Lunettes, Angela Scalvini (già conosciuta come Angela Kinczly con l’elettrofolk de The Legendary Indian Aquarium and Other Stories, 2006) e Laura Mantovi, attrice di teatro di movimento. La formazione classica delle musiciste si fonde con la canzone d’autore, in una sarabanda ricca di strumenti consueti e non, tra banjo, fisarmoniche, clarinetti e fiati. L’EP d’esordio si snoda tra nostalgie evocative, songwriting jazzy con omaggi a Tom Waits (nel valzer con clarinetto di The Less I See The More I Love), carillon nella leggera White, vaudeville con Killer Loop, country con Love Is Here, ethno rock nella theatrical versione di The Less I See The More I Love. Un po’ Cocorosie, un po’ Hanne Hukkelberg, Jolie Holland e Cat Power, le sirene strambe confezionano un bell’esordio. Le aspettiamo sulla lunga distanza. (7/10) Teresa Greco Frogwomen/Alexander De Large - 66.6 (Lepers Produtcions, Apr 2009) G enere : avant psych Sessantasei minuti e sei secondi di flusso di coscienza o free jam tra due mammasantissima di casa Lepers, uno starsi e darsi addosso a base di vaudeville e strali jazz, blues e svalvolate hard-noise, countrydark e psych fricchettona, reminiscenze Beatles (Oh, Darling) masticate a crudo col pane frugale lo-fi, galleggiando in un liquido amniotico di romanticherie intossicate e sognanti come un Bowie avariato Smog, blaterando Gino Paoli per poi abbando- 60 / recensioni nandosi a un lentivo soul-rock con la minaccia dietro l’angolo, cavalcando l’estro selvaggio del garage e pizzicandosi il culo di taranta a vicenda, fino a deragliare Blue Cheer e prostrarsi in un delirio acido da Crazy Horse all’ultimo stadio. Eccetera. Una traccia che traccia un solco terapeutico, demoniaco, liberatorio, beffardo, stranamente gradevole. Come un gas esilarante a basso voltaggio cui finisci per assuefarti. Come una lunga, amichevole frustata. In download gratuito. (6.9/10) Stefano Solventi Fuzz Orchestra - Comunicato N.2 (Wallace Records, Apr 2009) G enere : noise - rock Assume sempre più toni da chiamata alle armi, la musica di Fuzz Orchestra, sin dalle prime note di questo secondo album. E non solo per la sirena antiaerea, il messaggio del testo campionato o lo strumentale assalto all’arma bianca che Luca Ciffo, Fabio Ferrario e Marco Mazzoldi (con l’ospite Edoardo Ricci al sax e clarinetto) inscenano nell’opener Il Terrorista. È tutto l’immaginario – sonoro, filosofico, grafico – evocato dai tre + 1 a scuotere, ancor più che in passato, le coscienze di chi ascolta, ricordare ancora una volta, ancora di più che la musica è (comunic) azione, non solo barzelletta da lustrini e paillettes. Sin dall’iconografia della copertina, graficamente ineccepibile nel suo b/n sparato in faccia; sin dal suo avant-noise corposo e monolitico; sin dal messaggio delegato, come sempre, a stralci di dichiarazioni politiche, brani cinematografici, interferenze radio e quant’altro campionato sapientemente dal trio, Fuzz Orchestra rivendica un messaggio, uno scuotimento dall’apatia. Musicalmente Comunicato N.2 è ancor più virato al nero e cupo rispetto al debutto, forse per essere al passo coi tempi. Questo non significa che le 8 tracce siano omogenee o statiche, anzi risultano ancora più screziate e variegate nella commistione di pesantezze doom, svisate free, compatti attacchi noise-core in cui prende ancora più senso anche una acidissima cover di Volo Magico N.1 – ribattezzata Volo Fuzz N.1 – di Claudio Rocchi. Fuzz Orchestra sconquassa ampli e coscienze e proprio per questo merita rispetto ed attenzione. Anzi lo esige. (7/10) Stefano Pifferi Gentleman Reg - Jet Black (Arts & Crafts, Feb 2009) G enere : I ndie pop Già al centro della scena indie del suo paese attraverso collaborazioni e militanze (Hidden Cameras e Broken Social Scene tra gli altri), il canadese Signor Reginaldo anche stilisticamente si pone all’incrocio di varie correnti dell’indie pop, con una personalità che si afferma più nella scrittura e nella varietà di influenze e richiami che non nella creazione di un marchio sonoro immediatamente riconoscibile (la vocina ruvida ed esile ne ricorda altre, e anche le chitarre si adattano -bene- ai pezzi più che dare un’impronta loro). Un po’ come i suoi ex-sodali ma meno folle, più misurato sia nell’ironia che nei momenti più seri. Nel primo disco “vero” per la Arts & Crafts (il precedente compendiava i primi tre, cui la piccola Three Gut Records non aveva potuto garantire grande diffusione), il nostro vaga tra pennate glam (Coastline) che a volte fanno un passo indietro verso gli Stones, morbidezze veloci alla Belle & Sebastian (To Some It Comes Easy, ma anche altrove) e morbide ballads (splendida Oh My God su un tappeto percussivo tra il Robbie Robertson pellerossa e certo Peter Gabriel); e quando in Rewind rischia di eccedere in morbidezza vira subito dopo sulla cassa in 4 e i vocalizzi quasi night-soul di We’re In A Thunderstorm (offerta anche “a pezzi” sul sito per farla remixare ai fans). Fans che potrebbero crescere, visto il buon livello del canzoniere, basta non crearsi false aspettative facendosi ingannare dal titolo: Jet Black non c’entra nulla col batterista degli Stranglers, significa “nero come il carbone”. E tra l’altro il disco non è neanche tanto nero, diremmo piuttosto che, magari senza accecare, ma in più di un punto splende. (7/10) Giulio Pasquali Giorgio Tuma - My Vocalese Fun Fair (Elefant Records, Mar 2009) G enere : pop jazz lounge Una cosa è azzeccare un plotoncino di belle melodie. Un’altra è allestire una calligrafia, un ambiente, un mood ben definiti. Altro ancora è riuscire a fare entrambe le cose. Eh sì: con My Vocalese Fun Fair il salentino Giorgio Tuma mette a segno uno di quei dischi capaci di segnare una carriera. Già l’album di debutto Uncolored (Amico Immaginario, 2005) lasciava intuire la qui presente straordinaria capa- cità di impastare languori bossa, morbidezze folk, suffumigi cosmic-pop e stregonerie jazz-soul come se, abitandogli tutti assieme in qualche stanzetta del cuore, fosse la cosa più naturale del mondo. Canzoni sbocciate senza sforzo apparente, che siano dei beat pastello avvampati Beach Boys (Saltamontes), dolciastri northern soul screziati di clavinet e flauto (Coney Island Memories), digressioni bucoliche come Clientele ipnotizzati Polyphonic Spree (Musical Express) oppure palpitazioni spacey tra fatamorgane beat (Astroland By Bus), sempre col tremolio bossa sullo sfondo, come vecchie istantanee vacanziere dai colori dileguati, con le allegrie dolciastre e gli incantesimi obliqui (Let’s Make The Stevens Cake!!!), coi pensosi miraggi da salotto (Dedicated To Timmy The Whale), gli spersi malanimi (ML DB) o la circense apprensione (Faye’s Flying Shoes). È un gioco accurato che prevede sapienti impasti vocali (tra cui quella seducente di Matilde De Rubertis, già Studiodavoli), pianoforti trepidi, organi e fisarmoniche all’occorrenza, più un costante disincanto che alleggerisce il senso di ossessione, così che mollezze e malanimi somiglino ad una spuma, tanto più effimera e burlona quanto più struggente e maliosa. Del resto, cosa attendersi da chi ha battezzato la propria backing band Os Tumantes? Invischiato com’è in un soffice immaginario vintage, viene spontaneo dire: un disco che crea un’atmosfera. (7.4/10) Stefano Solventi Gomez - A New Tide (ATO, Apr 2009) G enere : folk rock Quei bravi ex-ragazzi dei Gomez. Senza rinnegare ciò che sono stati e che - giustamente - non potranno essere più, decidono di scremare la verve giocherellona, sedare le derive psych e stemperare certi azzardi electro. Ragion per cui questo A New Tide - sesto album d’inediti e secondo per la ATO di Dave Matthews, prodotto da un’autorità in materia come Brian Deck (già Red Red Meat dal cui repertorio arriva il singolo Airstream Driver - e Califone e al lavoro per Iron & Wine, Josh Ritter e Counting Crows tra gli altri) - non ti sembra più quella gincana d’idee ed espedienti, generi e atmosfere, umori e azzardi che così pesan- recensioni / 61 temente - e talora gradevolmente - li caratterizzava nei primi lavori. Quello era appunto ciò che non potevano - non dovevano - essere più. Per continuare ad esserci era necessaria una resa dei conti con la capacità di scrivere canzoni in grado di stare in piedi da sole. Poi è chiaro che non si smette di essere i Gomez così da un giorno all’altro. Ecco infatti che nella verve suadente di Natural Selection, tra i guizzi quasi Eels di If I Ask You Nicely o nel fervore cyber-folk di Win Park Slope (tipo i Califone - inevitabile influsso Deck - soggiogati Radiohead) finiscono col sembrarti i soliti nerd da laboratorio col pallino degli alambicchi sonori. Ma la vera novità è che forse per la prima volta un disco dei Gomez si arricchisce col passare degli ascolti, rivelando una raffinatezza di scrittura che spesso e volentieri sopravanza l’acume strutturale e delle orchestrazioni (le trepide Other Plans e Bone Tired, la quasi pearljammiana Very Strange...). Insomma, una specie di rivoluzione copernicana. E alla fine, pur in questa dimensione da band oramai normalizzata, fanno la loro più che discreta figura. (6.7/10) Stefano Solventi Great Lake Swimmers - Lost Channels (Nettwerk Music Group, Mar 2009) G enere : I ndie Quarto album per i “nuotatori del grande lago” della malinconia, medesimo specchio d’acqua nel quale in molti si sono specchiati dopo che i Red House Painters mossero le prime lentissime onde circolari. Questi cinque canadesi, capitanati da Tony Dekker, nel 2003 decisero addirittura di tuffarsi nello slow core e nuotare in puro stile folk, forgiando così album fuori dal tempo per dilatazione sonora ed evocazioni ancestrali. Lost Channels non fa che continuare il tragitto trascorso agitando però le acque in superficie. Infatti, le dodici canzoni che compongono l’album sono come mosse da una fresca brezza primaverile che le rende movimentate quel tanto da farsi piacevolmente apprezzare. Ovviamente, basta solo osservare l’abisso per rendersi conto di quale nostalgica lentezza sta alla base della loro cifra stilistica, espressa fedelmente in Concrete Heart e Stealing Tomorrow. Ma c’è da felicemente constatare che l’aumentare e il rullare della risacca, alla stregua dell’ultimo Iron & Wine, di molti episodi rappresentano il vero valore aggiunto di Lost Channels. Che in futuro sia anche possibile 62 / recensioni fare surf nel “grande lago”? Questo è improbabile, ma sicuramente oggi i Great Lake Swimmers sono riusciti a rianimare un vento antico e salvifico in grado di allietare durante le ore della Canicola. (7/10) Andrea Provinciali Grizzly Bear - Veckatimest (Warp Records, Mag 2009) G enere : surf balearic folk rock Il brivido Stone Roses, i lenti di Neil Young quando ancora li scriveva (All We Ask), i Modest Mouse mescolati ai Supertramp (Two Weeks): praticamente dici rock acustico e visione in eco Mercury Rev. Ma non solo Rev, anche Freddie. Periodo A Night At The Opera, con quel barocchismo che arrivava al limite e quasi scoppiava. La regina c’è perché questo è un disco 70. Anche se sull’etichetta c’è scritto Warp, non confondetevi. Ogni tanto anche in UK sparigliano le carte. Qui l’elettronica è scomparsa. Solo voci, cori a cappella à la Beach Boys e tanto tanto camp che inevitabilmente si rifà ad una cento mille icone. Last but not least: David Bowie. E questo salto che ci riporta alle settimane astrali di Van Morrison e ai King Crimson di Islands è il segno che il sole di Brian Wilson splende ancora ed ha voglia di farci sorridere con quelle strumentazioni prettamente baleariche (vedi le percussioncine di Cheerleader o le chitarre woodstockiane di While You Wait For The Others) e con quelle voci distillate di bianco ma comunque piene di anima (Foreground, Fine For Now). Per finire, la connessione con gli Akron Family l’avevamo sentita nel Friend EP di qualche tempo fa, ma qui il sentire estatico si incarna ancor di più nelle atmosfere pastello con l’aura fumè che fanno retrostyle e coolness. Il nuovo corso del rock guarda ancora una volta agli anni d’oro, a quella Mecca settanta di sperimentazione convogliata poi nella wave 80. La rivisitazione ha del magico e ci ricorda per un momento che in questi anni 00 si può sognare senza glitch. L’orso grizzly ha lanciato l’incantesimo dall’isoletta sperduta Veckatimest. Lasciamoci ammaliare. highlight Gala Drop - Self Titled (Gala Drop Records, Feb 2009) G enere : giungl a dub cosmica / fourth world Se fossimo portoghesi e volessimo un contributo al missaggio di qualche figura rilevante, a chi ci rivolgeremmo? A Rafael Toral, probabilmente. Così hanno fatto i Gala Drop, cioè Afonso Simões, Nelson Gomes e Tiago Miranda. Nota di cronaca; punto e a capo. Segnaliamo la cosa solo per contestualizzare in quella Lisbona questa autoproduzione; se infatti anche per Gala Drop si può – parzialmente - parlare di spazio, bisogna precisare che l’attenzione non va focalizzata sulla rarefazione dell’aria, ma sul punto di decollo, che avviene in un quarto mondo hasselliano, in un terreno di evidente melma dub. Insomma: Jon Hassell? Dub? Psych? Eno-Byrne-ismi? Quando un disco è importante non ha un’etichettatura facile, specie se chi lo ha confezionato conosce quanto te i riferimenti facili che si possono fare. Intrigante ancor di più se chi ti sta suonando in faccia tanti colori e spezie conosce pure quelli più difficili. E se Ital è un dub quasi sci-fi, la successiva Ubongo - un poliritmo che collega la giungla al cielo, l’Africa alla Kosmische Musik del ronzare di synth analogici - ci fa già capire lo spessore e l’entità dell’album. Tirare in ballo My Life In A Bush Of Ghosts è un esercizio da ragazzini mentre orecchiare l’Anas Symphonie dei Kraftwerk un po’ meno. Figuriamoci se sotto a quella fai girare un intarsio di didgeridoo e batteria che puoi dire afro-funk come rock. È Frog Scene; roba da stenderti a terra. Una tirata di crack. Ne vuoi ancora e subito e mica di certa robaccia in stile Laswell; i Gala Drop sono spaccini seri che scavano in ricette serie. C’è tanto Steve Roach, quello buono che parte da Dreamtime Returns per finire fino agli Halcyon Days in compagna di Stephen Kent e Kenneth Newby. Di più; se qualcuno già dubitasse – a ragione - della necessità d’aggiungere qualcosa a quelle splendide ricerche, al senso del magico e alla serietà da etno-musicologici, gli abili Gala Drop oppongono un bello stempero alla On-U di Adrian Sherwood. Altra scuola furba da cui attingere, un buon modo per buttarla sul trip senza banalità, per liberarsi da pesanti confronti ma anche per aprire certe porte percettive (Dabum). Come se non bastasse, a tracklist già carica e soddisfacente, una Holy Heads introduce elementi gospel come se a suonarli fossero Eno & Byrne dello scorso anno ma con la voglia di osare come ai tempi di My Life…. E ancora: a qualcuno è venuto in mente un confronto con gli Animali più trendy dell’underground? In chiusura la psych liquida in odor di down tempo di Crystals ricorda persino la batteria spezzata e tamburelli del miglior McCombs (Tortoise dove siete?). Ma soprattutto c’è Parson. Una sfida. Sherwood + progressioni kraute + gospel afro. Di più: c’è tutto il mondo di Mark Stewart, Pop Group compreso, che si trasmuta ancora in un dub astrale, con tanto di muggiti dei synth da manuale, e poi in una cavalcata tropicale. Forse il brano più riuscito dell’album. Forse quello che risente meno degli automatismi da sballo dub, l’unico elemento di pesantezza (o stagnazione) di questo Self Titled. Ma, l’avrete capito, è il pelo nell’uovo. Cercatevi il disco, piuttosto che il pelo. (7.5/10) Gaspare Caliri, Edoardo Bridda (7/10) Marco Braggion Hanne Hukkelberg - Blood From A Stone (Nettwerk Music Group, Apr 2009) G enere : pop Hanne Hukkelberg, colei che ci estasiò in Little Things (2004) e addolcì nel successivo Rykestrasse 68 (2006) torna.Torna con un disco che è la naturale somma delle precedenti sortite. Novella trentenne (compiuti il mese scorso), la norvegese si è fatta artista meno estrosa a vantaggio di un songwriting quadrato, o per meglio dire, maturo. Bent Sæther (Motorpsycho) e Ivar Grydeland (Huntsville) sono tra i tanti che aiutano Hanne per questo Blo- recensioni / 63 od From A Stone. Dieci tracce che all’esuberanza di un tempo preferiscono la forma asciutta e ordinaria del modello Bjork (Midnight Sun Dream e la graziosa Blood From A Stone). Dimentichiamoci quindi le astruse trovate che ce l’hanno fatta amare e che rendevano il suo debutto spigoloso e amorevole insieme. Dopo un attento ascolto, salvo la wave al femminile di No One But Yourself e la wyattiana Salt Of The Earth da ricordare rimane ciò che la Hukkelberg era e ciò potrebbe diventare. Momento di transizione. La classe rimane intatta. determinati strumenti (per la cronaca: un sintetizzatore modulare Buchla, combinato ad un computer analogico Comdyna) e dei complessi processi elettroacustici che stanno alla base della composizione dei brani, è proprio l’essenza materica dei suoni, che acquistano volume quasi fossero oggetti solidi, a colpire l’ascoltatore attento. Qualcuno (forse molti) potrebbe gettare la spugna dopo i primi tre minuti. L’invito è quello di riprovarci almeno una volta, tenendo conto di queste piccole avvertenze. (7/10) Daniele Follero (6/10) Gianni Avella Hecker - Acid In The Style Of David Tudor (Emego, Mag 2009) G enere : A vanguardia E lettronica / 3D S ound Avevamo già avuto modo di ascoltare (ed apprezzare) il radicalismo dell’elettronica di Florian Hecker, in occasione di una raccolta di registrazioni pubblicate per la Rephlex di Aphex Twin (Recordings For Rephlex, 2006). A distanza di quattro anni, dopo una miriade di collaborazioni e una vasta produzione di musiche concepite per installazioni, il compositore tedesco, dà vita al primo full-lenght ufficiale della sua discografia e, come al solito, lo fa senza scendere a compromessi con le tradizionali modalità di ascolto. L’interesse per la costruzione di un suono “tridimensionale” che caratterizza le sue composizioni, presuppone la messa in discussione di tutti i parametri musicali, sia strutturali, sia estetici. Nessuno mai si era avvicinato così tanto, nelle intenzioni, alle avanguardie del Novecento, esplicitamente omaggiate qui, nel titolo, dal nome di David Tudor, lo storico pianista che, abbracciando le idee di John Cage, ne divenne presto un simbolo, oltre che il suo più grande interprete di sempre. Il decostruttivismo di Hecker potrebbe apparire incomprensibile e superfluo, attraverso un ascolto convenzionale, a chi non tenga conto del suo particolare approccio all’elettronica, tutto proiettato verso la creazione di veri e propri oggetti sonori, apprezzabili soltanto mediante un ottimo impianto stereo, capace di riprodurre i suoni in tutta la loro materialità. Al di là delle raffinatezze “per pochi”, come l’uso di 64 / recensioni Hermas Zopoula - Espoir (Asthmatic Kitty Records, Mag 2009) G enere : world La prima cosa che stupisce in Espoir è il marchio Asthmatic Kitty, benché sarebbe arduo considerare Hermas Zoupula l’ennesimo latore del pop genialmente deviato che è specialità della casa. Basterà, a far cambiare idea, uno sguardo alla copertina dell’esordio di costui, ultimo di 36 figli (!) venuti al mondo nel Burkina Faso. Sta tutto lì lo spirito di questo bravo ragazzo lontano parente di griot, proprietario di un internet cafè e salmista attivo nel volontariato, la cui presenza nel catalogo del Micio Asmatico è frutto della segnalazione del regista canadese Jonathan Dueck, divenuto amico di Hermas durante un soggiorno a Ouagadougou. Edita in madrepatria nel novembre del 2008, questa mezz’ora abbondante rivela dunque un solare “afro pop” dal vago sapore caraibico, intessuto di cristalline chitarre sguscianti, passi saltellanti e canto partecipato che poco insegue le mode occidentali (quando lo fa, mal gliene incoglie: pessimi il vocoder nella ballata soul Attention! e la voce da cartoni animati della title-track), prossimo per brio e rotondità a certe intuizioni svelateci da quel Graceland cui oggi si guarda nuovamente con rispetto. Leggermente appesantito da sonorità sintetiche, il resto della scaletta piace ma non si imprime nella memoria, ad eccezione di Jesu Hiesu Luri, Wend Nana Douina e San Bi Willila. Colpa della monotonia di schemi e di una penna poco incisiva, limiti che riaffiorano nell’altro dischetto qui accluso recante otto tracce acustiche registrate sotto il portico di casa, gradevoli epperò passeggere. Non un peso massimo, Zoupula, ma alla luce della simpatia e benevolenza che ispira, d’essere troppo severi con lui proprio non ce la sentiamo. (6.6/10) Giancarlo Turra Hildur Gudnadottir - Without Sinking (Touch Music UK, Mar 2009) G enere : elettroacustica Dalle collaborazioni con Pan Sonic, Johann Jóhannsson, Múm o BJ Nilsen ai lavori da solista in Mount A (Touch 2006) - esordio discografico della giovane compositrice pubblicato sotto il nome di Lost In Hildurness -, l’arte della violoncellista Hildur Gudnadottir si è costantemente distinta nella sua critallina purezza. Merito di quello schietto e comuncativo carattere espressivo che la caratterizza, esemplare in ogni circostanza, adagiato su forme più o meno mutevoli ed attento alla natura e ai movimenti del suono, regole che diventano sembianze anche delle dieci tracce del suo più recente Without Sinking. Le intuizioni timbriche e le partiture tra dinamiche, risonanze e sincopi procedono per accostamento, accorpandosi o allontanandosi, fungendo da controcampo o da sommaria traiettoria d’origine (Elevation), seguiti da monologhi d’illuminata partecipazione (Overcast), tensioni e contemplazioni dal disinvolto carattere teatrale (Erupting Light). Memorie per archi, sobrie, terse o d’oscillante modularità (Circular), dall’indubbio gusto melodico (Ascent) ma che si portano dietro l’eco della matrice sperimentale che le ha generate (Whiten). Per poi attraversare l’incanto dell’armonia, quella che caratterizza le stratificazioni della partitura, gli umori variabili (Opaque) dell’arpa o degli strumenti a fiato (Aether), i drones di effimeri e minmali landscape (Unveiled). Disco di totale devozione, libera, dotta, spontanea ed intuitiva: un vero e proprio atto d’amore per il suono. (7.3/10) Sara Bracco Iron & Wine - Around The Well (Sub Pop, Mag 2009) G enere : A lt country Around The Well non è il nuovo album di Iron And Wine: le ventitré canzoni qua assemblate non sono altro che una raccolta di b-sides, cover e inediti che come un film ripercorrono i cinque anni di carriera discografica di Sam Bean, dal suo esordio del 2002 The Creek Drank The Cradle fino al suo ultimo lavoro del 2007 The Shepherd’s Dog. Il paragone con un film non è certo un caso: il titolo dell’album, infatti, non è che un verso della bellissima The Trapeze Swinger, traccia scritta dal Nostro appositamente per la colonna sonora di In Good Company (regia di Paul Weitz, 2004), e qui riproposta a chiusa dell’album a evidenziare tutto il suo peso specifico nella produzione ferrovinosa. E proprio come una pellicola autobiografica, Around The Well passa in rassegna i momenti più propriamente lo-fi e scarni del passato, quelli più profondi e malinconici del periodo Our Endless Numbered Days fino a quelli più maturi e strumentalmente più stratificati dei giorni nostri. Il tutto impreziosito da tre interessanti riletture: Waitin’ For A Superman dei Flaming Lips, Love Vigilantes dei New Order e la più nota Such Great Heights dei Postal Service. Molti di questi episodi erano già reperibili sulla Rete, ma la Sub Pop ha deciso ora di donargli una veste ufficiale in doppio cd, così da accontentare sia chi se li fosse persi sia i nostalgici “feticisti” del supporto fisico. Le luci in sala si stanno spegnendo: inizia Around The Well. (6.8/10) Andrea Provinciali Isis - Wavering Radiant (Conspiracy Records, Apr 2009) G enere : A mbient M etal Si fa fatica a credere, già dopo il primo ascolto di Wavering Radiant, che ci si trova di fronte ad un nuovo lavoro degli Isis. Che la band fosse involuta in uno stile piatto e scontato, lo avevamo notato da tempo, ma che avesse abbandonato ogni ambizione, come chi abbandona armi e bagagli per farsi trasportare dalla corrente, nessuno lo sperava. In sostanza: gli Isis non hanno proprio più nulla da esprimere, se non ripetersi in una variazione infinita del già detto. Limate le spigolosità, ciò che resta è uno stile sobrio, ipnotico, lento, che naviga negli stessi mari dei Motorpsycho e in alcuni casi scivola verso l’ambient (la Title-Track), abbandonandosi ad improvvise scariche metalliche o ad arpeggi post-rock triti e ritriti (Stone To Wake A Serpent). Il tutto, come al solito, dilatato all’estremo della pazienza umana. Se non ci si annoia ascoltando questo disco, vuol dire proprio che si è “fedeli alla linea”. (5/10) Daniele Follero recensioni / 65 highlight Golden Silvers - True Romance (XL Recordings, Apr 2009) G enere : pop rock L’esordio dei londinesi Golden Silvers è una parata di farneticazioni algide e carezzevoli, di romantiche veggenze in reverse, di enciclopedismo accennato con arguta impudenza, quella che consente ai tre ragazzi di far andare a braccetto Ultravox! e Joe Jackson (tra i rimbombi apprensivi e solenni di The Seed), di esorcizzare Blur gli Style Council (nella felpata acieria doo-wop di Please Venus), oppure di stringere a sandwich il Bowie di Let’s Dance tra Clash sandinisti e capricci Prince (True N°9 Blue). Uno di quei dischi che ti fanno stare scomodo sulla sedia per la natura elusiva dell’insieme, continuamente strattonato tra le dimensioni alternative e mainstream, sperimentali e popoular, dissacrando il carezzevole e stemperando frammenti di presente nel passato, obbedendo al miraggio frenetico di una musica onnicomprensiva come diversamente la net-generation non può concepire. Basso, batteria e tastiere tramano con arguzia insolente e stranamente patinata, sfornando tracce non eclatanti dal punto di vista delle intuizioni melodiche ma dotate di una specie di candida morbosità, l’innocente lascivia di chi mette il dito nella marmellata senza preoccuparsi di nascondere la mano, perché così fan tutti nell’epoca della disponibilità & simultaneità dello scibile culturale. Non stupiscono quindi certi mostriciattoli Smiths ibridati doo-wop (Magic Touch, Here Comes The King) e synth-funk Kajagoogoo (Arrows Of Eros), così come l’Hendrix bizzarro e incandescente altezza Axis come lo avrebbero trasfigurato i Devo (Shakes), ma anche un Badly Drawn Boy strattonato beat (Queen Of The 21st Century) e perfino postumi glam proiettati tra new frontiers Donald Fagen e onirico lirismo Beach Boys in Another Universe, che invero tenta il passo più lungo della gamba inciampando tra sogni avariati prog. Chiude come una cicatrice Fade To Black, devota al passo crepuscolare del Dylan più solenne strizzando l’occhio a Randy newman, e questo sprazzo di fiera commozione è forse il seme di ciò che sarà, o almeno piace crederlo. Alla prossima, quindi, con una certa fiducia. (7.3/10) Stefano Solventi Japanther - Tut Tut Now Shake Ya Butt (Southern Records, Mag 2009) G enere : art - punk Vive di una dicotomia piuttosto netta questo Tut Tut…, ennesimo album a nome Japanther. Da una parte il solito incedere del duo di Brooklyn – Matt Reilly alle chitarre e Ian Vanek dietro pelli e macchine – tra electro spastica e appiccicoso bubblegum-pop ipercolorato, cantilene e ritornelli da dementia precox e lo-tech anthems da memorizzazione immediata. 9 pezzi da nemmeno due minuti l’uno capaci di evocare tanto dei Suicide brufolosi (Radical Business, con l’ospitata di Spank Rock) quanto degli Offspring malati e insani (Um Like 66 / recensioni Your Smile), con tutto ciò che è possibile immaginare ci sia nel mezzo. Dall’altra parte però, ecco che i due tirano fuori due pezzi che da soli ammontano a più della metà dell’intero album e che si staccano completamente dalle atmosfere – invero un po’ pallosette e ritrite – dei suddetti pezzi. Complice la presenza della voce di un monumento della musica “contro” che risponde al nome di Penny Rimbaud di crassiana memoria, Africa Seems So Far Away e I The Indigene sono due strepitose prove di art-rock dilatato e evocativo a metà strada tra haunted spoken word sul modello del Tibet più visionario ed electro in bassissima (ed antropologica, verrebbe da dire ad ascoltare i testi) battuta/pulsazione. Roba che puzza al tempo stesso di delirio sub-urbano e atavico pulsare di terre e tempi lontani. Ovvio che sono proprio queste due spoken-poetries a segnare l’aspetto più interessante e coinvolgente di Tut Tut Now Shake Ya Butt nonché a risollevarne le sorti da un inevitabile oblio simile all’indifferenza. (6.8/10) Stefano Pifferi Jason Lytle - Yours Truly, The Commuter (ANTI-, Mag 2009) G enere : pop rock Alla fine Jason ce l’ha fatta. Si è liberato della propria creatura senza morirne, è uscito dal bozzolo con tutto il proprio immaginario di modernariato raccogliticcio, derelitto, avariato, per ritrovarsi in una mezza età di carne, il cuore confuso ma sintonizzato su un presente che non rinnega nulla anzi rivendica con morbida fierezza. A sentire questa dozzina di pezzi appare chiaro come i Grandaddy fossero lui, ma anche e soprattutto che il robot (Jed l’umanoide?) si è pinocchiescamente incarnato nell’uomo che oggi scende a patti con la possibilità di canzoni un po’ più “normali”, un po’ meno trasfigurate dalla toccante fantasmagoria po-mo che tanto ci fece amare la band (vi basti il fantasma George Harrison in Ghost of My Old Dog). Il Jason che dichiara di tornare a casa porta con sé tutto il dolce e l’amarognolo che ben sappiamo, che fin troppo bene sappiamo: quel retaggio prog stemperato tra evanescenze spacey (Flying Thru Canyons), le perturbazioni Moroder-Kraftwerk (Birds Encouraged Him), l’angoscia pungente e cinematica à la Air (Furget It), le marachelle fuzz-pop (It’s the Weekend) e le soffici allucinazioni di zio Neil Young (Here for Good). In più c’è una certa voglia di svolta orchestrale, una febbricola che attraversa tutto il programma (la title-track, This Song Is the Mute Button) scomodando retrogusti neanche troppo vagamente Brian Wilson. Ma come al solito il genio sta nelle intuizioni povere e ostinate, quel giustapporsi di tastiere (mellotron, moog) che s’impastano con la voce proseguendone lo struggimento, quegli assolo di poche note o addirittura una soltanto (in Rollin’ Home Alone) a raccontare la stasi dell’anima nel fortunale emotivo, la ripetitività (elettro)meccanica a rievocare l’ultimo domicilio conosciuto della trepidazione (l’emblematica Brand New Sun). Un disco che insegue la sostanza per dribblare lo smarrimento di un artista improvvisamente solo, che zoppica per eccesso di prevedibilità, ma riesce a stare in piedi, ed è già più di qualcosa. (6.3/10) Stefano Solventi Jean Philippe Goude - Pour l’instant (Ici d’ailleurs, Apr 2009) G enere : C l as sica contemporanea L’anno trascorso dal precedente Aux Solitudes ha potuto contribuire, merito anche delle consapevolezze affinate con il tempo, al significato profondamente innovativo dell’operato del compositore francese Jean-Philippe Goude. Soluzioni plasticamente comunicative che l’artista ha esercitato non solo al servizio dell’avanguardia, ma dedicandosi anche alla scrittura di composizioni per la TV Francese. Materiale raccolto in questa nuova uscita dal titolo Pour L’Istant, che seleziona le più ispirate vicende sonore, quelle che introducono le primissime stesure del 1992 di De Anima, passando per La Divine Nature Des Choses (1996), il Rock de Chambre (2001) o il già citato Aux Solitudes. Trasparente l’orchestrazione di Caractères-Pavane, per fiati ed archi, o il cantato così autentico e nitido tracciato tra materiche riprese e tensioni armoniche in Embarqués dans les pentes. Ci sono poi gli ossessionati ed impulsivi dialoghi di corde in Market Diktat, brano dotato di una visionaria lucidità; le cornici narrative di teatrale gestualità (Allemande); i bozzetti impressionisti ed i connubi in naturalismo a ricordare le ambientazioni di uno schietto Renoir (Pastorale); o le liriche che emergono dalle polverizzazioni in pianoforte di A nos reves vanouis. Consigliato piccolo capolavoro di musica colta, Pour L’Istant attinge dalle più significative sintesi di classico e moderno (Debussy, Satie) per arrivare al Nyman più minimale. (7/10) Sara Bracco John Vanderslice - Romanian Names (Dead Oceans, Mag 2009) G enere : indie pop Di certo non un “innovatore indie rock” come si legge da qualche parte, John Vanderslice: in questo suo settimo disco che l’etichetta ci spaccia come il suo più riuscito, il ragazzo si impegna a fondo e nondimeno mostra chiaramente i propri numi tutelari. recensioni / 67 Niente di disdicevole in questo, perché - con frequenza via via calante - è di calibri come Magnetic Fields, Eels e della scuola scozzese facente capo a Paddy McAloon e Stuart Murdoch che si parla. Di tutto un pop, arguto, ingegnoso e comunicativo, sulla carta un affare perfetto per accogliere sorridendo l’ennesimo americano colto in adorazione di Albione. In barba ai presupposti, però, Romanian Names non decolla mai totalmente e dal punto di vista qualitativo ha l’aspetto di un saliscendi; regala alcune perline di buona caratura e un capolavoro, peraltro avulso dal clima generale (Hard Times, sensazionale meditazione di violoncello e tastieristiche lame degna di Arthur Russell), incappando altrove in arrangiamenti che appesantiscono composizioni affatto disprezzabili e qualche melodia prive di adeguato sviluppo. Magagne spiacevoli in un artista sulle scene da parecchio tempo, e altrettanto effetto fa la dipendenza a tratti eccessiva dai succitati modelli: perché intrigano il pianoforte tra jazz e classicismo nascosto nella leggiadra Fetal Horses, le vivaci Tremble And Tear e Sunken Union Boat e quel sapore di techno pop restituito a dignità tipico del Maestro Stephin Merritt (l’elegante D.I.A.L.O.; un possibile Brian Wilson illuminato dagli ’80 per Too Much Time). Insieme delizia e fonte di grattacapi per il critico la generosa manciata di canzoni quietamente belle qui offerte, che però non possiamo né dobbiamo ignorare. Fortunatamente, tra ragione e sentimento un compromesso si riesce sempre a trovare. (6.8/10) Giancarlo Turra Jon Hopkins - Insides (Domino, Mag 2009) G enere : A mbient , IDM Fatta propria ancora una volta l’estetica IDM via Kid A, e strette alcune mani (Coldplay, King Cresorte e il coreografo Wayne McGregor), il non troppo noto Jon Hopkins torna a far parlare di sé con Insides, una collezione d’ambient music che se da una parte odora di rediviva folktronica dall’altra intinge abilmente il biscotto nelle recenti scoperte tech di gente come Nine Inch Nails e, non ultimi, i Depeche Mode. È tutta materia di grande effetto: atmosfere appena tinte di noir (piano, synth, archi filtrati) e ritmi ora soffusi ora d’attacco, pulizia massima tra le note mentre sotto s’agitano le lezioni white hip hop di 68 / recensioni quindici anni d’elettronica albionica. Di più, emozioni cinematiche à la The Fragile (NIN). Un Brian Eno recente e tutto un corollario ambient psych da salotto buono con qualche sprazzo rave-tronico da grandi occasioni (Orbital e gli stessi NIN). Non manca nulla tranne una nota che gli abituali acquirenti d’elettronica non sappiano già. E non un difetto che sia uno che renda questo lavoro un minimo figlio di qualcuno. (5/10) Edoardo Bridda Jonathan Kane - Jet Ear Party (Table Of Elements, Mag 2009) G enere : blues rock Il nuovo disco di Jonathan Kane ha addosso lo stesso abito di blues infetto e kraut psicotico che si era visto alcuni anni or sono sul debutto February, denominazione poi passata a chiamare l’intera live band di accompagnamento. Nei fatti Kane è il deus ex machina del suo stesso mondo, il motore ultimo di ogni singola nota, mettendo mano a chitarra, batteria e basso per tutto il disco, salvo qualche marginale intervento altrui qui e li, come le voci di Lisa B. Burns e Peg Simone che ancorano ad un lato umano la ballata di Up In Flames. Kane rilegge il blues attraverso la lente della ripetitività arrivando all’anello principale che lega le sue ipnotiche frasi di chitarra western ai pattern ritmici di un’avanguardia comunque più colta di lui. Quindi da un lato si ha l’impressione che a lui piacca recitare la parte del cowboy solitario che entra nel saloon al suono dei più classici riff country blues come nell’introduzione di Smear It. D’altro canto, messa così sarebbe solo l’ultimo sfrontato chitarrista da pub che suona gli stessi giri di sempre, ma l’ex Swans usa la ripetizione per ipnotizzare e prendere lentamente l’ascoltatore in quelli che poi diventano veri e propri mantra ipnotici del tutto assimilabili a Terry Riley o La Monte Young. Certo il disco è davvero tutto così. Ascoltato un brano, ascoltati tutti e il gioco di Kane arrivati al secondo disco mostra un po’ troppo le corde o per lo meno adesso è davvero troppo scoperto. (5.8/10) Antonello Comunale Junior Boys - Begone Dull Care (Domino, Mag 2009) G enere : electro pop Imboccata la strada giusta, una volta intuita, è bene perseguirla. I Junior Boys, tenendo fede alla loro onestà intellettuale, vanno avanti per sfumature senza snaturare l’originaria cifra stilistica. Detto questo, il confine che separa So This Is Goodbye dal nuovo parto è sottile, quasi nullo. Due anni l’uno dall’altro, ecco l’unica differenza. Un lavoro ad ogni modo impeccabile e alla maniera dei Junior Boys, questo Begone Dull Care. Jeremy Greenspan e Matt Didemus - ormai colleghi a distanza poiché uno a Berlino e l’altro nella natia Hamilton, in Canada - si dichiarano, oggi, ispirati dall’ideologia Mor dei ‘70 (Middle Of The Road, format radiofonico ai tempi rappresentato, ad esempio, da gente come Steely Dan e Carol King il cui fine era l’heavy rotation. In pratica l’Aor su scala più ampia), la proto disco di Tom Moulton e Patrick Adams e sperimentatori quali Delia Debyshire e Steve Reich tra i tanti. Nulla che non si sappia sul conto del duo, specie per quanto riguarda l’appeal friendly delle loro sortite, e niente che vada a lenire l’inerzia di un disco il cui titolo omaggia un cortometraggio d’animazione del cineasta Norman McLaren. Il pop al silicio dei Junior Boys, dunque, è al solito funky e vertiginoso (Bits & Pieces e Hazel, con quest’ultima a giocare il ruolo che fu di In The Morning), Hi-NRG (Work), erotico (Parallel Lines), furbo negli ammiccamenti ’80 (Sneak A Picture riprende certe cose dei Style Council quando armeggiavano di elettronica) e chilly (The Animator, il pezzo che i Royksopp non scriveranno più). La voce di Greenspan, sensuale come Daryl Hall e sintetica alla Neil Tennant, si conferma valore aggiunto. I soliti. (7/10) Gianni Avella King Creosote - Flicking The Vs (Domino, Apr 2009) G enere : songwriting Comincia spiazzandoci Flicking The Vs: No One Had It Better si apre con un intro al vocoder, prosegue con echi krautrock, bassi pulsanti e ritmiche dance. Poi man mano ritroviamo il Kenny Anderson alias KC che conosciamo, già fondatore a metà dei ’90 della scozzese Fence Records e animatore della locale scena musicale. C’è nell’album tutto il suo songwriting discreto: il folk e il pop venato di echi country, bluegrass e soul, agitato qua e là da pulsioni elettroniche, il carattere fortemente scozzese ma non localistico, insomma una personalità ben declinata la sua. La consueta ispirazione Mc Cartney-iana già eviscerata qui si consolida, facendosi sodale del macca più artigiano e one man band; sfiora gli Ottanta del soul bianco di Dexys Midnight Runners e co. (Coast On By) aggiornandolo all’oggi degli Hot Chip; lambisce territori strumentali vicini ai Talk Talk e in generale al songwriting inglese Ottanta (in area Ben Watt e simili), per avvicinarsi con Rims a quanto di recente fatto da autori quali Jens Lekman in odore di lustrini broadwayani. Insomma un campionario variegato delle sue ispirazioni, rielaborate con il consueto gusto pop folk. Un gran bel ritorno per lo scozzese. (7.2/10) Teresa Greco Kong - What It Seems Is What You Get (KonGenial, Mag 2009) G enere : industrial Ne parlavamo il mese scorso citandoli come pietra di paragone per il disco di K-Branding e ora li ritroviamo, a sorpresa, con un disco nuovo. Parliamo dei Kong, quartetto olandese che ebbe ben più del proverbiale quarto d’ora di celebrità agli albori dei ’90, con una serie di dischi d’area grosso modo industrial usciti per Peaceville e Roadrunner. Oggi, qualche membro in meno (dei fondatori resta solo il basso di Mark Drillich e la produzione di Dirk de Vries) e qualche anno in più, ritroviamo quel quadraphonic sound di cui andavano già all’epoca fieri e che dal vivo, con i quattro membri disposti ai quattro angoli delle venues, dava il meglio di sé investendo il pubblico con la sua circolarità. What It Seems… inanella 12 pezzi prevalentemente strumentali in cui a farla da padrone è l’interplay heavy tra le due chitarre e il basso, capace di creare un wall of sound notevole e ben sorretto da grooves di batteria, campionamenti e sound effects che screziano un suono in partenza tutto sommato omogeneo e squadrato. Non monolitico, sia chiaro, ma pur sempre di ascendenza “industrial con chitarre”, in cui i momenti di alternanza vuoto/pieno dimostrano esperienza e polso. Non siamo ai livelli di Phlegm (Peaceville, 1992) ma What It Seems… è pur sempre un disco che riuscirà nella difficile impresa di mettere d’accordo recensioni / 69 fan di heavy metal, progressive rock, elettronica e avant-garde. (6.8/10) Stefano Pifferi Leonard Cohen - Live in London (Columbia Records, Mar 2009) G enere : F olk rock Registrato due settimane prima dei concerti italiani, nella fase del tour in cui le canzoni di Ten New Songs erano state ridotte a un paio per recuperare qualche altro classico (ma prima, ahimè, di quella che ha visto il recupero di Famous Blue Raincoat), il quarto live della carriera del canadese testimonia la tournée del grande rientro costituendo, con qualche dolorosa assenza come quella nominata, un ottimo compendio della sua carriera. Rispetto al precedente Cohen Live (la cui scaletta era in parte complementare a questa) il suono è più caldo, amalgamato ma senza rinunciare alla nitidezza dei dettagli. Pur essendo cambiato quasi del tutto il gruppo che lo accompagna (rimane il solo Bob Metzger alla chitarra), la resa delle canzoni risulta qua e là simile all’altro live, ma in realtà è un po’ più morbida e meno “sdraiata”, e lo stato di grazia aiuta i musicisti ad uscire felicemente dalla stretta tra l’inevitabile uniformità sonora di un live e il rispetto degli originali. Il fatto di essere davanti ad un pubblico inglese, poi, permette a Cohen di esprimere il suo spirito nelle introduzioni alle canzoni o nella gag sul finale di Tower of Song. In conclusione, i (tanti) pregi e i (pochissimi) difetti del concerto ci sono tutti, il che è il massimo che un live senza canzoni nuove può raggiungere; e per quelli che mancano c’è anche il dvd dal vivo. Vivamente consigliato. (7.2/10) Giulio Pasquali Les Italiens - Verdeluna Dancing Hall (Silence, Apr 2009) G enere : swing folk Italiani, popolo di santi, navigatori e... Ballerini. Eh sì, liberi di sentirvi disgustati dal recente surplus mediatico attorno alle avventure e sventure danzerecce dell’italico popolo, fatto sta che tra le specialità nazionali c’è proprio il ballare, un vero e proprio movimento che non ha mai smesso di germinare godendo di un costante ricambio generazionale. Ovviamente poi c’è sempre stato bisogno di musica che incendiasse la fregola dei piedi, possibilmente 70 / recensioni di buona musica. Un tempo - correva il secondo dopoguerra - era addirittura buonissima, allestita da orchestre di tutto rispetto, swinganti ed esotiche, dirette dai Pippo Barzizza e dai Cinico Angelini, pasturate dalle penne dei Gorni Kramer e dalle ugole dei Natalino Otto, degli Alberto Rabagliati e del Quartetto Cetra. A quell’universo sonoro che fondeva sapientemente le istanze latin-jazz alla melodiosità italica, in ragione di ciò apprezzato all over the world, guarda il progetto Les Italiens, big band capitanata da Alessandro Di Puccio, vibrafonista fiorentino già al lavoro tra gli altri con Enrico Pierannunzi e Rita Marcotulli. All’omonimo esordio del 2003 segue questo Verdeluna Dancing Hall, dieci tracce originali dedicate ad altrettanti tipi di ballo, dalla beguine al jump passando per il foxtrot, la polka, il merengue ed il boogie, col canto allusivo della bassista Francesca Taranto, la ficcante chitarra manouche di Jacopo Martini e le orchestrazioni puntuali, puntigliose e mai eccessive (sentitevi Potevi dirlo subito, la trascinante Dora, una Rock And Go che rivanga il Conte di qualche anno fa e una Tarantissima che sembra Roy Paci in delirio surf). Un carosello in diretta dall’altroquando, una gustosa parata di garbo e arguzie, di fervore e compostezza, di languide indecenze sapientemente sublimate. Da ballare, certo. Anche solo con l’immaginazione. (7.2/10) Stefano Solventi Lindstrøm/Prins Thomas - II (Eskimo Recordings, Mag 2009) G enere : space disco La riscoperta - e la ricomparsa - di Daniele Bandelli, le compilation a tema: la cosmic disco, a questo punto, è più di un semplice vezzo. Causa di questo ritorno alla musica da club come l’avrebbero intesa i Grateful Dead di Dark Star, Lindstrøm and Prins Thomas. In due. Insieme. Di nuovo. Hanno fatto talmente bene lontani l’uno dall’altro (You Go I Go Too e Goettsching) che quasi ci si dimenticava della loro sinergia. II, laconico titolo come essenziale fu l’omonimia del debutto. Opera più concentrata (otto tracce di contro alle tredici scorse) e fluida della precedente. Psichedelica e lasciva. Visionaria e austera. Rothaus parafrasa Harmonia e Faust e li proietta nel 2009. Kraut, ovvio, ma declinato oggigiorno. Non il biglietto da visita, poiché quello spetta a Ci- highlight Horrors (The) - Primary Colours (XL Recordings, Mag 2009) G enere : wave - gaze Altro che ragazzini; o, comunque, non è assolutamente più questo il punto – sempre che lo sia stato in precedenza. Gli Horrors sono lì a pretendere che li si tratti con serietà, con orecchio non distratto. Ma, ecco il punto, ascoltando Primary Colours la cosa viene spontanea, non c’è neanche bisogno di pretenderlo. Partiamo da ciò che era previsto nel menui. Ovviamente non possono mancare il basso e altri tratti distintivi degli Interpol – cioè del post-punk rifatto e tirato a lucido; neanche le tastiere di Who Can Say, che sanno di Cure fino al midollo. Il baritono di Faris Badwan “Rotter” si concede in New Ice Age persino di essere epico come un John Lydon, il cui nomignolo ai tempi dei Pistols quasi li accomuna; Only Think Of You è la loro All Tomorrow’s Parties, perchè sempre là si torna, mescolata con NYC degli soliti Interpol; la finale Sea Within A Sea è addirittura un motorik alla Neu!, a testimoniare quanto poco innocenti sono gli Horrors, quanto sanno cogliere ciò che va e può non passare esteriormente per moda passeggera; un motorik cantato che si trasforma in un synth pop alla Battiato de La Voce Del Padrone. Ma se di mancata innocenza e di serietà si parla, la chiave con cui aprire la scatola di Primary Colours non proviene dall’Inghilterra dei primi Ottanta. Il riferimento principale di come suona quest’album va allo shoegaze maturo, alla sua capacità iper-evoluta di giocare sui livelli di produzione. Un lavoro di avvicinamento che già aveva fatto il primo disco degli Interpol, appunto; chiaramente ci riferiamo a Loveless; ce ne accorgiamo quasi subito, e ne abbiamo la conferma quando Do You Remember sembra citare espressamente una traccia dei My Bloody Valentine. E finalmente, pensiamo, ecco qualcuno che li ri-prende sul serio, che si dedica con concentrazione a sfruttare gli effetti di certe tecniche compositive e produttive, per di più in un ambiente – quello del revival wave – che dovrebbe aver poco a che fare con lo shoegaze. Loveless era costruito su un principio che si avvaleva di piccole dissonanze di accordatura e post-produzione, divergenze emotive, digitali, distorsioni che creavano, nel marasma dei layer di suono, qualcosa di straniante, di deformante rispetto alla coerenza percettiva delle note. Gli Horrors ci hanno fatto ripensare alla genialità e all’efficacia di quel monumento. Il loro album non è un capolavoro, e probabilmente sarà considerato fuori tempo massimo; ma oltre alla scaltrezza di nascondere sotto la cotonatura dei capelli delle ottime idee importate ad hoc, al di sotto della corteccia celebrale la band riesce pure a scrivere buone canzoni. È quello che offrono, asciugando il tutto, che ci fa promuovere gli Horrors. Quello che ci costruiscono attorno ci appoggia sopra una lente che ingrandisce. Lasciamoci tranquillamente ingannare dall’effetto ottico. (7.2/10) Gaspare Caliri sco: basso killer (e psycho, visto che a tratti rimanda ai Talking Heads) cinto di percussioni e tastiere. È un funk dopato. Si leva il crescendo. Si schiudono le porte. Rett Pa le spalanca: tipo dei Boredoms a 78 giri nati in laboratorio. Come costume del duo norvegese, alle jam progkraut di cui sopra (per chia- rirci: ora più selvagge, scure e misteriche) accorpano quella componente edonistica propria del clima balearico: For Ett Slikk Og Ingenting, Skal Vi Prove Naa? (con echi dei primissimi Boards Of Canada, uno dei tanti amori di Prins Thomas), Gudene Vet + Snutt e Note I Love You + 100 (passo felpato e aplomb mol- recensioni / 71 to The Blue Nile) sono episodi in surplass viziosi sottopelle, fattore assente nel debutto.Flue Paa Veggen chiude ancora nel segno dei krautrock: ci potete sentire un che dei Faust ma anche i Can in stato di grazia. Tredici minuti di rapimento. Sono il vertice alto della cosmic disco. l’hanno confermato. (7.5/10) Gianni Avella Long Blondes (The) - Singles (Angular Recordings, Apr 2009) G enere : I ndie pop Una raccolta celebrativa dopo due soli album poteva sembrare strana, se non fosse per la notizia dell’infarto che ha colpito il chitarrista Dorian Cox, con conseguente stop all’attività del gruppo (che dichiara che difficilmente andrà avanti). A quel punto andrebbe da sé chiudere la pratica con un’antologia in attesa che le voci sulla carriera solista di Kate Jackson si concretizzino, ma una scorsa ai titoli ci dice che non è di questo che si tratta. E nemmeno di un nuovo album intitolato così per giocare col titolo del precedente “Couples”: è vero che nel gruppo c’erano due coppie ora separatesi, ma questo era successo durante le sessioni dell’album precedente, da qui le virgolette nel titolo.No, i Singles del titolo sono proprio singoli discograficamente intesi: ma sono quelli che agli esordi i Long Blondes avevano pubblicato per svariate etichette indipendenti, ora raccolti su cd per la prima volta insieme all’inedito Peterborough: in pratica quelle canzoni che li avevano messi in luce creando il primo clamore intorno al loro nome.Alcune come si sa erano già finite sull’esordio Someone to Drive You Home in versioni nuove, che ne smussavano gli -ahem- angoli e le ripulivano di qualche asperità. Ma il materiale, nonostante la scarsa qualità delle registrazioni e certe ruvidezze più indie che pop, era valido già allora, non solo quello rielaborato per l’esordio; talento verve e classe c’erano già, e il disco è qualcosa di più che un utile complemento agli altri due. Un ritorno a quando il futuro era luminoso che, visti i guai recenti, si spera funzioni anche come scaramanzia. (7/10) / recensioni (7/10) Teresa Greco Meanderthals - Desire Lines (Smalltown Supersound, Mag 2009) G enere : cosmic disco Gli Idjut Boys, al secolo Dan Tyler e Conrad McConnell, e il pioniere dell’elettronica norvegese Rune Lindbæk (in giro da metà ’80 e collaboratore, tra i tanti, di Röyksopp e Hans-Peter Lindstrøm) uniti sotto la sigla Meanderthals. Il territorio battuto dal trio è quello cosmic (o space) declinato balearic, con chitarre west-coast e arie world (Kunst or Ars), funk laccati alla maniera di A Mountain Of One (Desire Lines), quartomondismo laboratoriale (Andromeda - Prelude To The Future) e movenze etno (1-800-288-SLAM). Ad eccezione di Lasaron Highway - cassa dritta e basso iperfunk - la battuta quasi mai varca la soglia del downtempo; anzi, in Collective Fetish (forse l’episodio migliore) e Bugges Room il registro vira in una quiete prossima al David Sylvian di Dead Bees On A Cake. Escono nel mese del ritorno di Lindstrøm & Prins Thomas, e questo non gioca a loro favore. Anche in caso contrario, comunque, la visibilità sarebbe stata poca e circoscritta ai fan dei musicisti coinvolti. Nulla aggiungono e nulla tolgono. Una versione meno ispirata di Tom Middleton. (6/10) Giulio Pasquali 72 Luminal - Canzoni di tattica e disciplina (Fridge, Mar 2009) G enere : new wave , songwriting All’esordio i romani Luminal spiccano per chiarezza d’idee e sintesi programmatica. Una new wave la loro memore degli Ottanta, ibridata con nostra canzone italiana degli ultimi 20 anni e più. Con la produzione accorta di Cristiano Santini ex Disciplinatha, la formazione riesce nell’intento di mescolare lo spirito dei CCCP e dei CSI, quello dei Massimo Volume e dei Marlene Kuntz, in una spigolosità naturalmente cantata in italiano, in cui recitativi, urgenze, nevrosi ma anche distensioni e riflessioni si mescolano, tra punk rock, noise e songwriting. Un orecchio ai Sonic Youth e l’altro alla nostra gioventù sonica, temi affrontati con ironia e consapevolezza, cosa che permette loro di liberarsi da uno steccato forzato e ristretto, all’insegna di un songwriting d’autore che in alcuni degli episodi più intensi (L’uomo bicentenario, la title track, La Distruzione, Il fiume) viene fuori con una bella urgenza. Gianni Avella Men Without Pants - Naturally (Vicious Circle, Mag 2009) G enere : electro - rock Analizzando le dinamiche creative di una band capita a volte di sbagliarsi ed è teorema applicabile anche ai Men Without Pants (un nome migliore però non c’era, eh?), progetto allestito da Russel Simins batterista della Jon Spencer Blues Explosion - con Dan “The Automator” Nakamura, noto soprattutto per Gorillaz e Deltron 3030 e già presente in quell’Acme che è di fatto l’ultimo disco dell’Esplosione da mettersi in casa a cuor leggero. Naturally testimonia un sontuoso dispiego di ospiti, da Sean Lennon e Yuka Honda delle Cibo Matto allo Yeah Yeah Yeahs Nick Zinner fino a un paio di elementi dei Mooney Suzuki: se, di norma, tali premesse creano attese eccessive e finiscono per zavorrare il risultato finale, qui si resta a metà del guado, perplessi e poco impressionati. Lo scenario è un turbo-rock metropolitano iniettato d’elettronica che rincorre i bei tempi spenceriani, cercandone una vaga modernizzazione (And The Girls Go, Superfine) o ricalcandone l’impeto (Never Gonna Do That Again, Rock Show); discreto e niente più, così come garantiscono la sufficienza un paio di cavalcate Neu! (cremosa e pop My Balloon, più articolata e deragliante All You Need Is Luck) e la filmica Let’s Meet In Real Life. Fuori dai territori di competenza, tuttavia, succede che i Nostri s’impantanino in tracce piuttosto ingessate e ridondanti e invochino gli Lcd Soundsytem con troppa sfacciataggine per farla franca. Sulla conclusiva ballata acustica (!) Goodbye facciamo di conto: siamo poco sopra la mediocrità e lontani dall’unico lavoro dei Butter 08, altro dopolavoro di Simins in cui compariva la Honda e referente non ignorabile. Talvolta ci si sbaglia su chi è il genio nel gruppo, talaltra no.Vatti a fidare. (6.5/10) Giancarlo Turra Merger - Exiles In A Babylon (Makasound, Apr 2009) G enere : roots reggae Al pari di altri generi, la musica giamaicana è faccenda composita e multiforme dove è ancora possibile asportare terra imbattendosi in tesori perduti. Pur facendosi rispettare, della categoria non fanno parte questi Merger, formati nell’impazzare del tempestoso Settantasette londinese da Barry Ford - già batterista per B.B. King e a capo dei carneadi funk Clancy - col bassista e tastierista Michael Dan e Adetokumbo Illorin a voce e chitarra. Se la ragione sociale che in inglese significa “fusione” e l’epoca in cui i brani furono messi su nastro potrebbero indurre a pronosticare contaminazioni con (post)punk e rock, ogni aspettativa va all’aria appena si fa largo la classica sensualità roots adeguatamente screziata di latinità e Continente Nero di Understanding, Life Song e African Lady. Se ne deduce allora che il trio fondeva, sì, nondimeno filandosi poco e anzi nulla gli amici bianchi. Bene in ogni caso, perché il materiale di Exiles Ina Babylon - registrato tra Londra e Kingston nello spazio di un triennio e rimasto sinora inedito - si racconta di apprezzabile caratura: in linea con gli standard dell’epoca una Rebel parecchio marleyana e la militante e corale title-track, l’estesa Massa Gana che invoca la “version” dub e l’ottima 77, tesa e meditativa e lo stesso dicasi per una Freedom Fighters, dal vago e singolare piglio surreale. Convince un po’ meno il rimanente, giocato tra una vocalità non sempre all’altezza e modelli che divengono eccessivamente schiaccianti. Pepita di lucore non luminosissimo ma neppure pirite, Merger restano una discreta nota a margine del grande romanzo del reggae. (6.8/10) Giancarlo Turra Mesmerico - Magnete (Octopus, Mar 2009) G enere : industrial - noise C’è la mano di 2 personaggi chiave dell’underground italiano dietro l’esordio di Mesmerico. In primis quel Pupillo di zuiana memoria che prima ha suonato un pezzo su Magnete e poi se li è portati in tour per la promozione del recente Carboniferous. L’altro – sempre legato al marchio Zu, visto che ne è il fonico/curatore dei suoni per eccellenza – risponde al nome di Giulio Ragno Favero, eccellente musicista (Teatro Degli Orrori, Putiferio) nonché apprezzato esperto di suoni dietro i più massicci gruppi italici. Che due personaggi del genere possano sbagliare valutazione, si diceva, risulta piuttosto difficile. E infatti, ascoltando Magnete, prima prova dell’entità recensioni / 73 highlight Kevin Blechdom - Gentlemania (Sonig, Mar 2009) G enere : anni C inquanta Prima il problema era sul come farle saltare. Pardon. Sul cosa farsene delle regole. Trame e linguaggi, qualunque essi o esse fossero erano barbie e abiti presi in prestito per una messy fiesta di tecnologie portatili d’assalto. Divertirsi e mattare erano le filosofie e i compagni di merende (californiani) erano spettacolari. Parliamo di Matmos, Lesser e appunto Kevin Blechdom, dentro al celeberrimo e geniale duo Blectum From Blechdom; tutta gente oramai lontana dall’ortodossia taglia e cuci di quegli anni, con la sola Blevin, peraltro divina e ispiratissima in Gular Flutter, a rimanergli fedele; per tutti gli altri, Kevin in testa, il cambiamento ha voluto dire musica “suonata” e gioco di sponde, reinterpretazione e riappropriazione delle regole, non più far saltare i confini (ricordate Disc?) ma spostarli sempre più nel tempo e nello spazio. La combriccola dal mouse è passata alle chitarre, ai fiati e a tutto lo spettro dell’analogico, e Kevin, giunta al terzo album solista dopo vicissitudini e incertezze su Cheeks On Speed, ha pensato bene di indagare l’estremo opposto dello scenario iniziale. A dieci anni dalle BFB, tolto laptop e pastoie kitch, l’ex ragazza ci propone un disco – diciamo – di anni Cinquanta.Via il concetto e dentro l’interpretazione come se la più classica delle parabole dell’età adulta dovesse essere consumata qui e ora ma in un altro spazio tempo. Gentlemania è Hollywood, cabaret, vaudeville, tutto il pane dei giovani albionici ma con lo scarto e l’esuberanza di una grande diva démodé ed esattamente come accadeva in The Chaddom Blechbourne Experience (2008) in compagnia di Eugene Chadbourne con i classici per banjo, il gioco è serissimo e neppure quello houmor che si scorge qui e li è fuori dalle regole. L’ironia innocua di una Marilyn? Esatto proprio quella come la Minelli, un po’ di drama da teatro in/off, del balletto, una badilata d’avant spettacolo e vaudeville. Kevin non fa seghine al pop o per il pop e nemmeno è la big band à la Herbert quello a cui aspira. Tutto si basa sul gusto e sull’abilità della californiana di confondere il tempo. Puoi passare in setaccio il disco cercando dove e quando trasgredisce e non troverai nulla se non un presentimento: Kevin potrebbe strappare la tela e svelare il trucco in ogni momento. Non lo farà e il nonsense dell’esistenza è un po’ questo. Chissà, se al pari di Sufjan pure lei punti a qualche mappatura della tradizione americana. (7.6/10) Edoardo Bridda chitarra/batteria a nome Mesmerico, la sensazione è che i due abbiano fatto centro pieno. Un duo, si diceva. Cosa che va di moda ultimamente ma che, hype a parte, ha il merito di asciugare le proposte senza perdere in potenza di fuoco. E di fuoco, Luca Bottigliero (batteria) e Fabrizio Piccolo (chitarra) ne hanno da vendere. Avete presente tutto il campionario della musica pesante degli ultimi (almeno) 30 anni? Beh, Mesmerico li fonde in un tutt’uno agile e screziato che passa con nonchalance da Melvins a Neurosis, da Lightning Bolt a Zu.We Live In A Paradise (Inhabitated By De- 74 / recensioni vils), attacco dell’album, parte da lidi paradisiaci (o infernali?), attraversa le catramose lande Neurosis periodo Through Silver In Blood e si spezza in aperture tanto free quanto convulse. A ruota l’attacco da epilessi Oneida meets post-hardcore di Silos non è un’altra freccia ad un arco nero pece, avvalorato dallo schizzo da espressionismo postGravity di Rasoterra, dalla sfuriata contratta, repressa e poi trasfigurata in collasso di Dentro Al Vesuvio e dalla catacombale title track, percorsa da un marciume da Melvins depressissimi. Quando le atmosfere si dilatano e rarefanno ed emerge pure l’uso evoca- tivo dell’elettronica (la chiesastica Lagher) il duo da prova di sentire, oltre che di conoscere la materia cupa di cui si è cibato. Musica che sembra procedere per frattali, tanto è al tempo stesso dotata di disegno ma completamente frastagliata e tortuosa. Ottimo segno, di questi tempi. (7/10) Stefano Pifferi Moderat/Apparat - Moderat (BPitch Control, Apr 2009) G enere : minimal disco IDM Modeselektor + Apparat = Moderat. E dall’equazione hai già detto tutto. Hai già detto minimalismo e melodie vocali. Hai già detto 00. E recupero 09. La nuova onda che è stata innescata dal sasso Circlesquare (che annovera tra i suoi preferiti proprio Apparat) si ingrossa sempre di più e lo tsunami è lì che ci guarda. E seppure parliamo di minimal non è ancora ‘roba vecchia’. Perché Sascha Ring (aka Apparat) sa ancora cantare. Però c’è un però. La contaminazione con i suoni più street derivati da Gernot Bronsert e Sebastian Szary non sta nelle sue corde. Sì, Berlino è sempre Berlino direte voi. E il ricordo del discone che aveva fatto con la Aillen qualche tempo fa (Orchestra of Bubbles) è ancora vivo. Se là si era fatto il Dark Side of The Moon, qui si punta al canto. Ma non si affonda, proprio come in Walls. Perché la strada non c’entra col glitch. Bpitch è scuola. Ma non quella drogata e spastica di Ellen. Qui il parallelo se proprio vogliamo è col belcanto ultramarino di Wyatt unito alle ultime cose Radiohead (che peraltro hanno annunciato future ispirazioni ai Kraftwerk...) e ai sempreverdi musicisti per le masse Depeche Mode. E allora ci stanno le solite cavalcate melo che fanno Apparat (A New Error), le ballad leggermente sporcate dal glitch (Rusty Nails), i tunnel cupi che incarnano la krautedine con la K maiuscola (Seamonkey) e per finire le bordate pop à la Gahan (Porc#1 e #2). Ma non si capisce proprio lo struscio con il ragga di Slow Match o con il decadence-step di Out Of Sight. A parte qualche caduta di stile, un disco che tiene alto l’onore della capitale del ritmo mitteleuropeo e che ci fa capire come dal cilindro minimal verranno ancora estratti conigli. Un Apparat che non si adagia e che attraversa impavido la bufera. Lui, uno degli ultimi romantici in circolazione. (7/10) Marco Braggion, Edoardo Bridda My Latest Novel - Deaths and Entrances (Bella Union, Mag 2009) G enere : indie folk orchestrale Fattisi conoscere tre anni fa con l’interessante debut album Wolves, in odore di post rock e indie folk, i cinque di Glasgow ora ridisegnano il proprio assetto musicale, mantenendo la base del loro sound e sfrondando giusto un po’ della propria epicità, a favore di un più misurato indie folk orchestrato. Così come l’ultimo album dei Decemberists di cui si parlava tempo fa, anche questo Deaths and Entrances dei redivivi My Latest Novel è un concept album, ispirato in questo caso dalla letteratura. Sin dal titolo infatti, che si rifà a un poema di Dylan Thomas, siamo in atmosfere epiche, tra natura, vita, morte e rinascita, incubi e cicli della vita. Argomenti che del resto si adattano perfettamente alla loro musica. Siamo allora dalle parti di un songwriting talora asciutto (le ballad Lacklustre e Re-Appropiation Of The Name), spesso orchestrale e d’atmosfera (nella maggior parte dei pezzi), dove le armonie vocali maschili/femminili, la malinconia e il pathos di fondo - che possono far pensare a degli Arcade Fire più rilassati o meglio a degli Arab Strap – rimandano in più di un’occasione a un folk revival primigenio (A Dear Green Place), ad atmosfere in odore di Mogwai e ad orchestrazioni ambiziose e stratificate che ci ricordano il migliore Sufjan Stevens (I Declare A Ceasefie). In sostanza quindi qualche aggiustamento qua e là per una buona riconferma. (7.1/10) Teresa Greco Neil Young - Fork In The Road (Reprise, Apr 2009) G enere : blues rock Neil Young non se ne frega. Se ne incarica. Reagisce con spregio volitivo. Lo ha fatto due anni fa con Living With War e lo scorso anno, in parte, con Chrome Dreams II. Torna a farlo con questo Fork In The Road dedicato alla crisi economica ai suoi risvolti drammatici e demenziali - spargendo ulteriore sale sulle crisi parallele, quelle delle fonti energetiche e della global pollution. Ok, dio ci salvi dal pistolotto moral-ambientalista del vecchio fricchettone incanutito. E poi, ok, cos’altro vuole dimostrarci? Perché dovremmo avere voglia di ascoltare altri country rock rocciosi e funky o ballate da tramonto sul deserto delle nostre vite? Come se po- recensioni / 75 tessero aggiungere qualcosa ai Freedom, ai Rust Never Sleeps, ai Deja Vu, persino ai Re-Actor o agli Harvest Moon, tanto per circoscrivere il raggio d’azione di quest’ultimo lavoro, trentottesimo titolo solista se non ho fatto male i conti. No, il punto non è questo. Conta poco che Singing A Song sembri una nipotina sfigata di Like A Hurricane o che il corettino di Johnny Magic (dedicata al meccanico del Milwaukee Jonathan Goodwin che ha progettato un motore ad emissioni zero) rimandi un po’ scioccamente a quello storico di Hey Hey My My (che chiamava in causa un tal Johnny Rotten...). Conta semmai che Young sembra davvero aver ritrovato l’urgenza di sbraitare rock in risposta al turbamento, allo sdegno, al giramento di palle o se volete a una speranza. Nel segno di uno sgarbato e acido keep it real che lo sbatte in prima linea anche se lontano dalle prime pagine, Don Chisciotte forse balzano ma ben dentro il solco del presente. Sentitevi come scapicolla e scollaccia boogie rock nella title track, come azzardi stralunato impasto funk e psych in Cough Up The Bucks, e che bel crepuscolo di voce regala alla trepida Light A Candle. Tutta roba inessenziale, certo. Ma c’è del fascino in questa sua noncurante e scontrosa persistenza. (6.6/10) Stefano Solventi Nothing People - Late Night (S-S Records, Apr 2009) G enere : psichedelia Nomen omen dicevano i latini e, benché il nostro decantato progresso vorrebbe un così antico motto ormai superato, esso è quanto mai valido oggi, qui, con un disco come questo. A meno di un anno di distanza dal loro debutto – Anonymous – sempre su S-S., tornano i californiani Nothing People con un album che ha appunto nel titolo la tanto sintetica quanto inequivocabile descrizione del materiale in esso contenuto. Abbandonate le sonorità proto-punk molto ‘70 dell’esordio, l’ex-terzetto di Orlando – ora quartetto dopo l’aggiunta del precedente tastierista dei Monoshock – rallenta e annerisce decisamente i toni, confezionando una serie di nenie circolari ed ipnotiche che 76 / recensioni sembrano essere concepite ed arrangiate, appunto, a tarda notte; proprio come di notte, più ci si addentra, più il buio si inspessisce ed avvolge tutto. Così echi di Barrett (When I Drink) e di My Bloody Valentine (It’s Not Your Speakers) lasciano progressivamente posto a narcolessie dal gusto molto Paisley Underground (Crunch Time), fino a che la desertificazione notturna non prende il sopravvento, tinteggiando paesaggi lunari ed onirici. Chiude il tutto la title track, nonché cover del sopracitato Syd Barrett, e non è un caso: ora è veramente notte fonda e i battiti (cardiaci quanto ritmici) sono estremamente dilatati, lenti, ed un senso di indolente sonnolenza cala su astanti e musicisti. Infine l’artwork di Christopher Ilth, già autore di copertine per i Daily Void e Functional Blackouts, rende pienamente giustizia al sapore antelucano di un disco non di immediata assimilazione ma di sicuro valore. (7/10) Andrea Napoli Novi_sad - Jailbirds (Sedimental, Nov 2008) G enere : elettronica / ambient - sperimentale Immediata è l’attenzione che Thanasis Kaproulias in arte Novi_sad pone al dettaglio sonoro, strutturato in Jailbirds in formule d’ordine e priorità, merito di quella perfetta padronanza dei contenuti, svincolati da qualsiasi condizione di tratto, a cui l’artista concede piena capacità di agire in materia, stile e dimensione. Due uniche tracce di circa venti minuti l’una danno forma nero su bianco alle suddette premesse, a cui l’artista interviene sperimentando il suono alla differenza di elementi disposte ad azione metriche temporali, direzionali e timbriche. Condizioni germinali per Komdu!Hvert? a cui affidare lo scorrere degli eventi,supportati in field recording di natura ambientale - acquisiti sul Lago Mamori in Amazzonia, Ponte Alphos ad Olimpia, tra Svezia e Danimarca - o fissati nei proclami centrali del Nói Albínói di Dagur Kàri.Eventi sonori, che lentamente emergono da un unificato tappeto in microtoni, filtrato o mandato in loop tra profondità in drones e texture d’astratto segno. Con Torched Estates il campo di registrazione mutà d’aspetto acquistanto quelle che potrebbero essere le lezioni migliori del Ryoji Ikeda in elettronica di segnale e borbotti atonali a cui imporre procedimenti in staticità e dominio. Eventi sonori autosufficenti in singolarità ma, consapevoli della loro coesistenza e della loro intensa azione tra presente ed immaginato. (6.9/10) Sara Bracco O Voids (The) - Self Titled (Troubleman Unlimited, Apr 2009) G enere : post - punk Dopo un EP e un paio di split 7” (rispettivamente con i conterranei Wicked Awesomes sulla loro Lost Space Records, e coi Daily Void questa volta su Don’t Hit Record!) i canadesi O Voids giungono al primo full-length per l’iperattiva e chiaccherata TroubleMan Unlimited di Mike Simonetti. Sia che abbiate familiarità con il sound proposto dal quartetto di Montreal, sia che ne siate all’oscuro, cosa ha in serbo per voi questo debutto è presto detto. Com’era infatti ragionevole aspettarsi, gli O Voids continuano il cammino già intrapreso con le precedenti uscite, confezionando 14 tracce (troppe forse?) di quello stesso tipico sound: post-punk fedele al biennio ‘78-’80, piuttosto secco, sghembo e talvolta claudicante, non immemore però dalla melodia e dall’efficacia di refrain orecchiabili, capaci di ricordare in egual misura Wire e Pere Ubu, Mission Of Burma e Wipers. In casi del genere, non ha molto senso sottolineare un titolo piuttosto che l’altro; le canzoni, tutte sui 2 minuti di durata circa, scivolano via agilmente, il che, se da una parte è senz’altro un pregio, dall’altra può essere anche un limite perché, come si dice, easy come, easy go. L’esito complessivo risulta dunque un sostanziale tributo ad un periodo, ad un sound ed ad un manipolo di band evidentemente importanti per i componenti del gruppo in questione, come anche la copertina stessa sottolinea col suo fin troppo evidente citazionismo. Il tutto è registrato in analogico (altra scelta di fedeltà alla linea) allo studio Treatment Room delle loro città natale da Gilles Castilloux, già produttore dei primi singoli. (6.8/10) Andrea Napoli Official Secrets Act - Understanding Electricity (One Little Indian, Apr 2009) G enere : indie pop , funk Si rifà prepotentemente agli Ottanta (ancora?) questa nuova formazione proveniente da Leeds. Funk white pop tra Talking Heads di ieri e Vampire Weekend di oggi, ma anche echi glam Sparks, guitar pop inglese tutto dell’epoca, Television, Smiths, ritmiche XTC, Associates, Gang Of Four e via elencando. Non c’è solo quel decennio, comunque, tra le loro ascendenze. I più contemporanei Bright Eyes e Neutral Milk Hotel si affacciano qua e là a ricordarci che di oggi si tratta e non delle passate adolescenze che furono. Un buon blend tra armonie vocali e mistura tra le sonorità citate, unite a una discreta padronanza lirica e testuale ne fanno un gruppo che si distingue dal marasma delle ultime sensazioni inglesi. A dimostrazione che c’è del buono in loro. (6.9/10) Teresa Greco Ottodix - Le notti di Oz (Top Music, Mar 2009) G enere : synth pop , wave , songwriting Sintesi dell’omonimo soggetto teatrale di Alessandro Zannier alias Ottodix, Le notti di Oz è concept sospeso tra mondo reale e virtuale, una pungente disamina dell’attualità che stiamo vivendo e della massiva spersonalizzazione a cui siamo andati/stiamo andando incontro. Musicalmente synth pop, wave elettronica e songwriting in italiano confluiscono, un ideale punto d’incontro dell’immaginario Ottanta, che ricollega da un lato Bowie, Garbo, Depeche Mode estendendosi sino alle fascinazioni Bjork e Massive Attack. Nel mezzo, i ’90 e oltre italiani di Subsonica e Bluvertigo per fare qualche nome. Con forti fascinazioni estetico-concettuali, dall’espressionismo a Metropolis, da Tim Burton a Brazil. Coordinate precise per un progetto musicale cantato in italiano ben messo a fuoco, che fa della nostalgia evocativa e delle fascinazioni decadenti la sua cifra stilistica. Alcuni ospiti come Madaski (Africa Unite) e Georgeanne Kalweit (Delta-V) nelle bonus e successive rielaborazioni con il succitato Garbo seguiranno. Lavoro interessante nel suo genere questo di Zannier. (6.8/10) Teresa Greco P.G.R. - Ultime notizie di cronaca (Universal, Apr 2009) G enere : rock autoriale Cerchi che si chiudono con questo terzo lavoro targato PGR. Il primo, quello più pressante, è la fine dei recensioni / 77 highlight mi stupirebbe se decidessero di portare avanti il testimone (di cosa, però?) in duo. Maisie - Balera Metropolitana (Snowdonia, Mag 2009) G enere : pop rock Sembrava che i Maisie si fossero concessi un letargo di quattro anni, invece dalla pubblicazione di Morte a 33 giri (Snowdonia, 2005) non si sono fermati un attimo impegnandosi a realizzare questo Balera Metropolitana, doppio cd, quarantaquattro canzoni col resto di qualcuna (messa da parte per un altro album che pare sia già in cantiere), due ore e mezza abbondanti di idee, ideuzze e colpi di genio all’insegna della svampita impertinenza che ben conosciamo, obbedendo spesso alla promessa danzereccia del titolo. Potremmo vederlo come un collage fatto coi ritagli di riviste scandalistiche, misere cronache del quotidiano ed epica da coatti all’ultimo stadio, innocenti perversioni intercettate dal parrucchiere del quartierino, stralci di dramma socioesistenziale ad altezza d’uomo e rigurgiti di poesia allibita, scazzi meditativi su massimi (L’amore in città, Hanno ammazzato un bambino, La centrale nucleare) e minimi sistemi (W le aliene!, l’esilarante Quando morì Cristicchi) avendo cura di confondere i confini degli uni e degli altri con lieve agghiacciante disinvoltura, roba che neanche al mauriziocostanzoshow. Ne esce un carosello di subcultura indomita che pulsa di vita a passo yeh yeh e pop wave, italo disco e liscio funky, grind e gospel, house e lounge, in un’alternanza spuria che ti ubriaca, ti sbalestra, beffardamente t’inquieta. Partecipano una pletora di ospiti imprevedibili e illustri come la polistrumentista statunitense Amy Denio (anche cantante come nella stupenda Si sveglia), Mario Castelnuovo (per una toccante versione di n. 79 - ISTITUTO MARINO), Flavio Giurato (che scrive e interpreta una trepida Ivana e Gabriella) più membri di El Ghor, Aidoru, Egokid e via discorrendo. Ha tutta l’aria di un’opera definitiva per i Maisie. Il loro Blonde On Blonde. Quel che si dice un capolavoro. (8.1/10) Stefano Solventi PGR stessi, progetto esausto più per sfilacciamento umano che per inaridimento della vena, visto che comunque questo disco, iniziato quasi di malavoglia per onorare l’impegno con la Universal, consegue una compiutezza, un piglio e una ispirata concisione come negli altri due non s’avvertiva. Ma così vanno le cose, così devono andare. Se a Ferretti interessa poco proseguire sul versante del rock, Canali e Maroccolo al contrario oggi vi si impegnano come non mai. Registriamo quindi la chiusura di un cerchio più grande, quello avviatosi ormai troppi anni fa coi CCCP e proseguito CSI, idealmente celebrato con l’uscita del qui presente disco in contemporanea coi titoli di Ginevra Di Marco (assieme a Magnelli) e del Canali solista, a seguire di pochi mesi uno Zamboni che del resto da un pezzo è il meno 78 / recensioni sincronizzato della ex-accolita. Con il che si torna al Ferretti, ai cerchi più complicati: quello musicale di Co.Dex (Mercury, 2000) alla cui calligrafia abbacinante e androide spesso capita di ripensare nelle qui presenti “cronache” (più per frasi come “la carne s’è fatta vendetta/ il corpo è la bomba perfetta” che per il ricorso alle elettroniche e alla drum machine), e quelli etici, civili, spirituali, questioni private con ricadute pubbliche (e viceversa?) puntualizzate anzi ribadite con la fierezza cocciuta, altera e vagamente beffarda del vecchio battagliero (di cui rispetto la coerenza - lo so, non è facile scorgerla, ma c’è - e digerisco male certe frequentazioni). Maroccolo e Canali lavorano per sottrazione ma non sono mai stati tanto in primo piano, artefici (si producono da sé) di un suono assieme spoglio e prezioso, crudo e intenso, brusco ed evocativo. Non (6.7/10) Stefano Solventi Paper Chase (The) - Some Day This Could All Be Yours Vol.1 (Southern Records, Mag 2009) G enere : dramatic indie - rock È sin dalle note iniziali di questo atteso comeback che il progetto Paper Chase dimostra di essere sempre uguale a se stesso, pur nel lieve e impercettibile cambiamento. Non che la cosa sia negativa, anzi. Riascoltare quel senso di melodramma (post)indierock, teatrale e pomposo, inscenato ormai da alcuni anni e numerosi album da John Congleton, principale responsabile della sigla – checché se ne dica, i PC sono la “sua” finestra sul mondo – può portare all’amore istantaneo o all’odio subitaneo nella stessa identica maniera in cui lo facevano i precedenti album. Quel senso di latente ubriachezza degli arrangiamenti, di andatura claudicante e sghemba dei ritmi, quel fare a metà tra il circense e il fanfaresco – mai buffonesco o gratuito, è da dire – ricopre i dieci pezzi di questa prima parte di Some Day…, così come quel cantato sempre sull’orlo della stonatura che è/ sono ormai da tempo la cifra caratteristica più evidente dei Paper Chase. E come al solito, riescono a catturare l’ascolto, a fare propria l’attenzione di un disco che è anche – e soprattutto – il primo set di un concept sulle disgrazie naturali, cui sono dedicati i sottotitoli dei 10 pezzi, e sulla pochezza dell’umanità messa al confronto con la grandezza a volte distruttrice della natura. E in quest’ottica conflittuale assumono ancor più senso le aperture orchestrali sempre in bilico tra dissonanza e bellezza poetica e delicata, tra straniamento e riconciliazione, tra scontro e risoluzione. John Congleton è uno dei pochi geni attualmente in circolazione e noi non possiamo che gustare questa collezione di canzoni classiche con in mente la certezza che tutto questo un giorno sarà anche nostro. (7.5/10) Stefano Pifferi Peaches - I Feel Cream (XL Recordings, Mag 2009) G enere : meshy retrofuturism Ritorna la queen queer radioattiva del rock mu- tante e mutato trash electro. E ritorna se stessa soltanto alla prima passata, perché alla ‘pesca fresca’ quel classico menù rrriot delle amiche di vecchia data Chicks On Speed sta un po’ strettino e dall’esordio sono passati secoli. I Feel Cream è un 12 tracce carico di retrofuturismi Kittin, Crookers e Oizo. In pratica la crema di certo sottobosco special K e Thunderheist. Creme brulée già battute da molti ma Peaches più che fare la porca questa volta spara colpi di lato e di sguincio, sempre nello stesso recinto ma con la grinta di chi vuole essere la numero uno. L’energia c’è, ancora, e lei soprattutto è una performer. Ha voluto esserlo talmente tanto che oggi più di ieri non sembra più un azzardo paragonarla a(lla solita) Madonna. O perlomeno a una che, come Miss Ciccone parte dalle scene off per salire. E Merrill non c’è dubbio salirà. La Kittin è gonfia di soldi e droghe perciò il gioco è anche più facile, specie se come Veronica C., Merrill cavalca agilmente una palette di generi/anni/ stili che vanno dalla sfacciataggine 80 con il basso flashdancey di scuola moroderiana (Lose You) al mesh in stile Furtado con gli inserti fidget (Mommy Complex), dalla cassa dritta electroclash (Serpentine) al pop-hip-punk di facile consumo (Talk To Me, Billionaire). Un calderone che ingloba le esperienze dell’ultimo lustro EdBanger da palco e che si lascia ascoltare come qualsiasi disco pop in odore di hit parade. Natura morta con pesche? Se ti avvicini al quadro vedi che c’è qualche vermetto che spunta fuori dalla composizione, pronto ad innestarsi nei timpani e a farti muovere il culo. (6.5/10) Marco Braggion, Edoardo Bridda Peter Von Poehl - May Day (Tôt ou Tard, Mar 2009) G enere : indie pop Il “viaggiatore svedese”, come si definisce egli stesso - perché scandinavo di nascita ma perso nel mondo tra la terra d’origine, la Francia e la Germania -, ci aveva positivamente colpito ai tempi del debutto Going To Where The Tea-Trees Are del 2006. E continua a farlo, migliorandosi, con il recente May Day, album registrato in uno studio in mezzo ai boschi svedesi, edito da una piccolissima etichetta francese. La voce ricorda in maniera sorprendente Phil Collins ma sono una delicatezza, una malinconia recensioni / 79 strutturali e un approccio strumentale in bassa fedeltà a distinguerlo. Il tutto porta a un pop autentico alla stregua di un David Kitt meno folk, cacciando così il fantasma succitato. Poche le cadute di tono in May Day: brani ben scritti e interpretati che non cavalcano mode del momento. Non resta, allora, che ascoltare questa dolce e sofferta richiesta d’aiuto, facendosi ammaliare. non far felici i tecnici della chitarrismo classico, e al tempo stesso i suoi sono brani sorprendentemente lirici e desueti ancorati come sono ai tempi caldi e nervosi del Flamenco. C’è un minimo comune denominatore che questo disco condivide con il primissimo Rainy Day Raga, il lasciarsi andare quasi come una entusiasmante rivelazione. (7.5/10) Antonello Comunale (7.3/10) Andrea Provinciali Peter Walker - Spanish Guitar (Birdman Records, Apr 2009) G enere : guitar folk Peter Walker è il genio della sei corde che è scomparso per anni dopo aver codificato con due album usciti su Vanguard negli anni ’60 il canone psych folk. Rainy Day Raga e Second Poem to Karmela or Gypsies Are Important si intotalano e sono in testa alle preferenze di uno come Ben Chasny che gli deve moltissimo del suo stile lirico e arcano, parlando infatti di “una influenza superiore a quella di John Fahey e Robbie Basho”. Walker fu amico di Karen Dalton e Sandy Bull, fece parlare poco di se, la sua musica finì sulla bocca di pochi e sulle orecchie di pochissimi. Si eclissò come un mistero inspiegabile, andò in Spagna e studio le tecniche chitarristiche dei Gitani alla base del Flamenco. Poi questione di questi anni, Joshua Rosenthal di Tompkins Square lo ritrova e lo convince a pubblicare quattro nuovi brani nella raccolta del 2006 intitolata Raga For Peter Walker a cui partecipano epigoni contemporanei come Steffen Basho-Junghans, James Blackshaw, Greg Davis, Shawn David McMillen, Thurston Moore, e Jack Rose. Poi l’anno scorso Echo Of My Soul accompagnato da una dichiarazione d’artista che può essere usata anche per questo questo nuovo disco dal vivo: “With its roots in ancient East Indian music, Flamenco has influenced much of the world’s music. These Spanish-inspired pieces reflect my passion for this musical rubric”. Registrato in presa diretta, dal vivo, nel corso di una serie di appuntamenti live, Spanish Guitar è una meraviglia di ricerca e sentimento, tecnica e stile. Walker ha un controllo sulla tastiera della sei corde e sugli arpeggi della mano destra che non può 80 / recensioni Phoenix - Wolfgang Amadeus Phoenix (Cooperative Music, Mag 2009) G enere : fashion pop Molti pensavano che il gruppo francese sarebbe sempre rimasto attaccato a quella If I Ever Feel Better che tanto gli diede visibilità, ma a partire dal sorprendente It’s Never Been Like That i Phoenix si sono scoperti ottimi interpreti dell’indie rock più diretto dando vita alla loro versione 2.0. Questo nuovo disco porta avanti il discorso virandolo verso un brillante power pop infarcito dalle tastiere e dalla produzione dell’amico Philippe Zdar dei Cassius. Si avverte un’ulteriore rafforzamento strutturale dei brani e una maneggevolezza pregevole della freschezza pop che tende a partorire l’effetto “ogni traccia come possibile singolo”. Le chitarre si intrecciano giocose nel singolo Lisztomania e nella ritmica vivace di Lasso per poi lasciare trasparire un lato soul speziato di spirito dance come potrebbero intenderlo alla DFA nella coinvolgente Fences. Zdar mette lo zampino decisivo nei synth circolari di 1901, nella traduzione del post rock nelle due parti di Love Like A Sunset (dove synth spacey e riverberi la fanno da padrona) e nell’effettistica della ballata Rome. Countdown e la conclusiva Armistice sono altri due numeri di solare power pop lontano dalla mera semplicità ma miscelante incastri melodici di rilievo e un certo gusto per il fascino d’impatto. Il notevole lavoro di produzione e quel tocco di synth hanno aggiunto quell’ingrediente in più che prende una formula già testata e la porta avanti senza blocchi compositivi e con un’immediatezza che colpisce sulla breve distanza e convince lungo gli ascolti. Da quel french touch in chiave dancefloor che fu ad un pop che gioca con la pista facendosi beffa della faciloneria del 4/4. E dopo la sorpresa, c’è la conferma. (7.3/10) Alessandro Grassi Piers Faccini - Two Grains of Sand (Ponderosa, Apr 2009) G enere : folk rock Prova a studiare da grande, Piers Faccini. Si produce da sé il fatidico terzo album cercando la polpa del proprio quid espressivo. Scandendo le forme con garbo essenziale, reinventandosi radici piantate nel cuore di un’Africa più mentale che altro, sbocciata attorno alle andature blues, ai fremiti gospel e alle apparizioni jazz. L’influsso Ben Harper è ancora evidente nella rurale intensità di A Storm Is Going To Come, nell’arcaico intimismo di My Burden Is Light e tra le venature orientali di Your Name No More, formalmente diligenti ma melodicamente accademiche per non dire aride, per giunta interpretate con disarmante arrendevolezza. Se la calligrafia ci guadagna in coesione, evapora ahimé quel senso di imprendibile vaghezza che regalava fascino alle atmosfere di Leave No Trace e Tearing Sky. Magia di cui scorgiamo qualche eco nelle meditazioni buckleyane di Time Of Nought e Save A Place For Me o nel John Martyn trasognato di Who Loves The Shade e The Dust In Our Eyes. Pezzi che testimoniano una visione sonora di tutto rispetto, che promuovono Faccini al grado di musicista vero e proprio, non più quel pittore prestato al mondo delle sette note che sembrava. Tale “investitura” significa anche una normalizzazione, ovvero la capacità - il mestiere - di confezionare ciò che prima sembrava scaturire per chissà quale prodigio. In ragione di ciò puoi apprezzare la solenne compostezza della title track, i guizzi fragranti à la Paul Simon altezza Graceland di Home Away From Home, il romanticismo laconico tra M. Ward e Rufus Wainwright - archi, cori, glockenspiel - di The Wind That Blows. Vada infine un plauso alla generosa gravità dei testi. Ma quel mistero, quella magia - ahinoi - non ci sono più. (6.1/10) Stefano Solventi Remano Eszildn - R-Tracks (Mu Ziq, Mar 2009) G enere : bbreaks 09 Immagina di avere appena scartato quel disco con il robot che ascolta in poltrona il suono Warp. Sì, quella compilation che si chiamava Artificial Intelligence. Era il 92. Ti ricordi? Autechre, Squarepusher, Aphex e compagnia bella. L’abbiamo già detto troppe volte quest’anno. I draghi son tornati. E con il manifesto Harmonic 313 siamo ancora là, seduti in poltrona ad ascoltare, rilassati dopo il rave. Remano Eszildn è una delle voci che viene fuori da quella covata con i suoni post-bbreaks nel DNA. Ovviamente targato Paradinas: Mu Ziq, l’angolo acido della faccenda. R-Tracks è un plagio, una copiatura eccellente, il barocco che prelude alla decadenza e che ci mostra come stare sulla cresta della storia sia un affare di classe, una cosa per pochi eletti che guarda caso quegli anni li hanno vissuti sulla pelle e sull’anima. Oggi entrare a far parte di quel gotha è arduo e per avere le chiavi che aprono le porte giuste bisogna vendere il culo alla Roland 303, in una sola parola: rischio. Qui si sente invece come l’azzardo sia ancora distante, quasi si ha paura di andare fuori dai binari sicuri dell’IDM. E se ogni tanto ci sono degli squarci al mondo ignoto del sogno post-E (The Brink, Alterant Arch) sono ancora troppe le citazioni inutili e ritrite (il drill di Countdown To Meltdown, le vocine dai B-movie di Audio80, i suoni a 8 bit di Telistrex e gli altri cliché ormai ‘di moda’) che annoiano.Troppa tecnica, poco sangue. (5.9/10) Marco Braggion Revolution (The) - The Revolution present Revolution (Rapster, Giu 2009) G enere : electronica - l atin Progetto Rapster, sorta di Buena Vista Social Club ribaltato, che fa pensare anche al BrasilInTime (2006) della Mochilla. Lì percussionisti brasiliani, batteristi jazz e produttori e dj black. Qui giovani musicisti cubani (nomi che (ancora?) non ci dicono nulla come Damien Nueva Cortes, Armando Cosama, Alfred Di Maio, Yaroldy Abreo Rodles, Roberto Arrechea Vilches) e produttori anglosassoni responsabili di tanto di quel pop tra legno e plastica che negli ultimi anni ha più flirtato con l’electronica: Norman Cook (sì, Fatboy Slim), Guy Sigsworth (Bjork, Madonna), Marius Devries (Bjork, Massive Attack, Moloko), la coppia Cameron McVey e Jan “Stan” Kybert (Massive Attack, Portishead), Rich File (Unkle), Poet Name Life (Black Eyed Peas). Due pezzi a testa. Pasta omogenea nonostante l’immediata riconoscibilità, materiali per lo più ballabili, cantato bilin- recensioni / 81 gue, inglese e spagnolo, coi titoli che traducono da una lingua all’altra, voci femminili sensuali e maschili spesso anche rappate, tante percussioni. Leggero e piacevole Fatboy, in apertura col fido Lateef Truthspeaker, in Siente Mi Ritmo (self-explanatory), il più cubano di tutto il lotto. Sigsworth tra i picchi di ballabilità, tra pulsazioni quasi techno e miscele nu-latin-r’n’b. Devries a suo agio con Roisin Murphy, zuccheroso, e tamarrissimo (non divertente, proprio brutto) con Guantanamero (fin dal titolo). McVey-Kybert rullante cento per cento Massive Attack, narcotici, riprendono poi gli accordi di Riders on the Storm per Black Dollar, per la voce bellissima di Jenna G. File è l’aporia, i suoi sono siparietti eterei che spezzano prima e chiudono poi il disco, belli, ma di cubano non hanno niente, inglesissimi, algidi e crepuscolari come sono. Poet, un meticciato tamarro (divertente) con fiati spumeggianti, e una Dark House (anche qui, self-explanatory) con intro d’archi e house in levare. Quindi: disco estivo in tutti i sensi (esce a giugno), un paio di potenziali hit, tra cui l’iniziale di Fatboy, nomi importanti, suoni golosi, non ci si annoia. Però ecco, mica rivoluzionario. (7.2/10) Gabriele Marino Richard Swift - The Atlantic Ocean (Secretly Canadian, Mar 2009) G enere : soul pop rock Ok, a questo punto Richard Swift è a tutti gli effetti un caso. Anche col qui presente The Atlantic Ocean mette in mostra un talento non comune, prestandosi stavolta alla fregola soul-errebì venata vaudeville come potrebbe un figlioccio segreto di Randy Newman. Sembra quasi che dopo la sventagliata polimorfa di Dressed Up For The Letdown (2007) il Nostro voglia mettersi alla prova in territori più specifici, siano le alambiccate escrescenze electro ambient di Music from the Films of Richard Swift (Secretly Canadian, 2008) col moniker Instruments Of Science And Technology, siano i ruggiti garage-blues di stampo sixties sciorinati in As Onasis (2008). Se quelli ti lasciavano col dubbio che il tipo più che altro ci menasse per il naso, scordandosi quel quid che rende l’espressione trascinante (a meno che non intendes- 82 / recensioni se mettere se stesso - il divenire dell’uomo dell’artista - al centro della questione, e allora sticazzi), qui a dire il vero viene fuori un qualcosa d’accorato, il gioco s’increspa di sbrigliatezze e struggimenti che fanno presa, cui ti vien voglia di credere malgrado si presentino spesso incorniciati tra ghirigori sintetici e folate robotiche che li contagiano di una inconfondibile aura post-moderna. Appunto: il caso è tutt’altro che risolto. Il buon Richard non è uno da palpitazioni del tutto autentiche. Ovvero, in lui la rappresentazione è una materia su cui occorre sempre ponderare, un pedaggio che paghi sapendo che ne avrai in cambio di belle e buone. Però, in qeusto caso, come dicevo, ci sono anche le canzoni. E c’è da goderne: col rag floscio e le fughe oniriche di Ballad Of Old What’s His Name (più o meno la Band colta da estasi Beatles), col soul carburato power pop di Lady Luck (all’insegna di cuore e immediatezza come Kravitz ha smarrito da un secolo), con la marcetta garrula di Hallelujah, Goodnight! (un Badly Drawn Boy strattonato Capossela? Massì...), con l’ipotesi glam civettuola e androide di The First Time (il Jim O’Rourke più gaio in fregola Bolan) e una title track che appunto scomoda piglio errebì-vaudeville virato post-wave da Randy Newman cibernetico. Quindi: stai a vedere che col suo cazzeggiare metastilistico Swift alla fine ha imboccato la strada giusta. Oppure: figurati se al prossimo giro non butta di nuovo tutto all’aria. Ergo: godiamoci questa delicatessen, e più non dimandiamo. (7/10) Stefano Solventi Riverboat Gamblers - Underneath The Owl (Volcom Entertainment, Mar 2009) G enere : P unk Considerato uno dei più incendiari live-act in giro, punk senza prefissi post- né suffissi -funk e nemico dichiarato dell’emo, questo gruppo texano arriva al quarto disco tra qualche perplessità. Gli elementi pop nel loro stile ci sono sempre stati bilanciando sul versante discografico la furia dei live, in un equilibrio che nell’ambiente aveva fatto riscuotere ai RG stima e consensi. Ma se lo studio era il luogo dove concedersi qualche raffinatezza, questa volta il produttore sembra aver ripulito troppo (altro che “produced under extreme duress” come scritto sul disco), come emerge dal confronto col precedente To The Confusion Of Our Enemies (e dai commenti di chi li ha visti live). Nulla di scandaloso, la furia qua e là rimane (l’apertura di DissDissDissKissKissKiss, una Victory Lap che la rimette in pace con la melodia o l’Iggy-punk notturno di Castastrophe) e l’energia non viene mai meno: è che forse non era il caso di togliere il muro sonoro in un disco le cui composizioni brillano poco (e tralasciamo la visita al country di The Tearjerker e i suoi accenti coatti di cassa e chitarre sul chorus), anche perché poi finisce che il loro punk-anthemico, che avendo schivato sia gli Wire che Sandinista! potrebbe essere stato inciso in un anno qualsiasi, una volta spogliato invece riveli l’età quando, per esempio, nella pur efficace A Choppy,Yet Sincere Apology emergono assonanze Green Day. Insomma, flessioncina onesta di gruppo onesto che fa il suo, entrambi adatti agli amanti del genere e non strettamente indispensabili per gli altri. (5.3/10) Giulio Pasquali Scary Mansion - Every Joke Is Half The Truth (Talitres Records, Mag 2008) G enere : folk indie Comincia con una ballad psych piuttosto compressa e chitarra distorta (Captin) l’esordio di Leah Hayes da Brooklyn e del suo gruppo Scary Mansion, uscito in realtà l’anno scorso e distribuito solo ora. Dicevamo dell’incipit del disco, che poi diventa da subito altro, vale a dire un’incarnazione della Cat Power malinconica - dalle parti di What Would The Community Think - (Go To Hell) in ballad umorali e sbilenche cariche della giusta inquietudine (Scum Inside, Sharkish Sea).Altrove è folk rock carico di inflessioni soul, e qui si ricorda l’ultima Chan. O ballad gotiche retaggio post punk (Sorry We Took All Your Money) e folk intimista alla Tara Jane ONeil. C’è la semplicità del folk e la cura nel costruire le canzoni. Un passato in Francia come metà del duo noise-rock Satan’s Fingers insieme a David Ivar degli Herman Dune, Leah sembra voler andare oltre il paragone con la Marshall (anche per una voce molto simile) riuscendo a mostrare potenzialità che promettono. (6.7/10) Teresa Greco Scratch - Loss 4 Wordz (Gold Dust, Mag 2009) G enere : hip - hop Kyle Jones aka Scratch, beatboxer e dj del giro Roots (sue tracce dal vivo e su disco da metà Novanta a primi Duemila), alla seconda prova solista dopo tante collaborazioni (De La Soul, Jay-Z, P!nk, Musiq, Zap Mama) e dopo essere stato uno degli animatori dei Dino 5 e del loro Baby Loves Hip-hop (2008), progetto appunto di “hip-hop zerododici” ideato dal tuttofare Andy Hurwitz, con la voce narrante di Ursula Rucker e altri pezzi grossi black come Prince Paul. L’esordio The Embodiment of Instrumentation (2002, RopeADope) era basato su un uso misurato del beatbox (una banalità: Scratch non è Rahzel), che faceva da scheletro portante per tutte le composizioni, mimetizzandosi però sobriamente con gli altri elementi produttivi. Un disco asciutto insomma, senza eccessi di tecnica o virtuosismo, orientato su un hip-hop oldie, spesso jazzato. Questo Loss 4 Wordz (qualcosa tipo il nostro Ho perso le parole) era annunciato già per agosto 2008 e ha richiesto tre anni di lavorazione. Se Scratch voleva stupire cambiando rotta, c’è riuscito. Il disco è molto più prodotto del precedente, più pieno di suoni, una confettura plasticosa (non lo si dice in senso negativo) influenzata dall’ultra-pop nu-soul e nu-r’n’b anni 2000. E ci sono cose davvero tamarre, come il pezzo assieme a Arthur Baker, praticamente un pezzo house, abbastanza fuori contesto. Scratch si rivolge a un nuovo pubblico, diverso da quello che lo ha seguito coi Roots e in conseguenza dei Roots. Illuminante in tal senso la teoria di vocal guest, come per l’esordio (ma con nomi diversissimi), lunga e prestigiosa. Il pezzo con Benfield è praticamente Justin Timberlake, belli quelli con le vellutate voci di Estelle e di Jeymes Samuels, fratello (vedi un po’...) di Seal, bello il pezzo con un etereo (stile Tender) Damon Albarn, in compresenza con un Talib Kweli che ci viene però negato dalla versione promo, che edita pesantemente. La superstar Kanye West compare, assieme a Consequence, su uno dei pezzi meglio riusciti di tutto il lotto, Ready To Go. Normalizzazione in chiave black-pop d’oggi, ma normalizzazione dignitosissima. (6.6/10) Gabriele Marino recensioni / 83 Sebastien Grainger - Sebastien Grainger & The Mountains (Saddle Creek Europe, Apr 2009) G enere : indie rock L’ex batterista del disciolto duo canadese Death From Above 1979 all’esordio solista sulla lunga distanza. Il dance punk sostenuto della band di origine qui si arricchisce di chitarre, per un sound che vira al rock di chiara matrice dance; un incontro ideale tra l’indie rock, il power pop (sentire il contagioso I’m All Rage qui in versione dal vivo), gli influssi di marca Pixies, tutti passati attraverso un’attitudine prettamente dancefloor, che da New Order arriva a LCD Soundsystem. Passando per alcuni slanci dei conterranei Arcade Fire. C’è del lirismo e dell’intensità in questo Self Titled, forse non perfettamente bilanciati e messi a fuoco, ma si intravvedono margini di sviluppo. (6.6/10) Teresa Greco Sholi - Self Titled (Touch & Go / Quarterstick Records, Mar 2009) G enere : post - ball ads Sholi ha come sostrato gli anni Novanta, come un bacino, come il letto di un fiume; l’acqua di questo fiume arriva alle caviglie, e per questo si può vedere cosa c’è sotto; e però l’acqua che passa sopra è una lenta corrente melodica, che in qualche modo basta a se stessa, che passa sopra agli anni Novanta senza rimanerne poi troppo condizionata in superficie; del resto si sa che i fluidi si adattano al recipiente ma non si modellano sul fondale. Gli anni Novanta in questione sono quelli del postrock, obviously, quello americano, quella sorta di math e quel post “sensibile” che può essere accostato volgendosi al Canada a A Silver Mt. Zion, le cui punte patetiche a tratti vengono sfiorate dagli Sholi. Si sente anche qualcosa dei Polvo (Tourniquet), qualche altra di For Carnation; ma l’essenza è presto definita; l’album è fatto di ballate dove la voce e la sua melodia potrebbero avere qualsiasi mondo attorno; farebbero le stesse cose. Metafore a parte, se c’è qualcosa che fa direttamente pensare al decennio passato quella cosa è la batteria, che rimanda nella sua arrembante ma non fragorosa presenza a Don Caballero maturi, Storm & Stress, e quindi Damon Che e soprattutto Kevin Shea. E comunque questa batteria a volte si stacca dagli anni Novanta, arriva in superficie e si mette a 84 / recensioni scorrere insieme alla melodia vocale, diventandone, ma a livello meno profondo rispetto al fondale, un brusio di sottofondo quasi free-jazz – ecco Shea; un continuum, una continuità spezzettata, quasi un accompagnamento esistenziale. Poi ci sono va detto delle tracce che riescono ad autonomizzarsi, a usare la struttura musicale come fonte di emancipazione dalla decade di cui sopra. Citiamo tra tutte Spy In The House Of Memories.Certo il “novantume” riemerge sempre, ma in modo non riflesso, non riflettuto, non ostentato e forse non auto-riconosciuto; a dirla tutta neanche fastidioso. Date le premesse, va riconosciuto anche solo questo merito, oltre alla bontà generale del disco. (6.6/10) Gaspare Caliri Sleepy Sun - Embrace (ATP Recordings, Mag 2009) G enere : psych rock Gli Sleepy Sun sono una giovane band di Santa Cruz, che si è trasferita da poco a San Francisco, probabilmente alla ricerca di una maggiore visibilità e contemporaneamente di maggiori mezzi. San Francisco va però letta anche come una città simbolo della psichedelia anni ’60 e quindi del loro immaginario, perchè difatti è questo l’affare principale con cui i sei trafficano nel loro debutto su Atp. Psichedelia come i bei vecchi tempi andati, in cui loro nemmeno esistevano, ma che paradossalmente al giorno d’oggi suona particolarmente di moda, forte del contributo di nuovi alfieri come Black Mountain, Brightblack Morning Light, Crystal Antlers e di buona parte degli amici che Gregg Weeks mette sotto contratto per la sua etichetta Language of Stone. Detto questo uno potrebbe anche chiudere la recensione qui, calcando la mano sul fatto che gli Sleepy Sun sono solo gli ultimi di una serie recente che va a parare in qualche modo dalle parti di Jefferson Airplane e compagni e capirai che novità… I pezzi però ci sono e pazienza se l’originalità non abita da queste parti, il punto è che nemmeno venie perseguita o ricercata in alcun modo. Essere originali qui proprio non interessa a nessuno e che il rock sia un genere ormai completamente passatista questo non lo scopriamo oggi. Gli Sleepy Sun però ci mettono una certa urgenza adolescenziale che fa bene alla salute, specie nei frangenti maggiormente sostenuti da un impeto hard che i sei fanno ricondurre direttamente a Blue Cheer e Black Sabbath, e da qui highlight Pink Mountaintops - Outside Love (Jagjaguwar, Mag 2009) G enere : indie emul - rock In Stephen McBean convivono due anime e in ciò non vi è nulla di male, dal momento che colossi come Neil Young sulla schizofrenia artistica hanno eretto un’intera carriera. Il problema, nel caso specifico, si pone allorché il lato più muscoloso e ridondante cade preda di una serietà che non può più appartenere a certi generi, da tempo consegnati alla pattumiera della Storia. Parliamo ovviamente di quello che, di norma, viene considerato il progetto principale del Nostro, quei Black Mountain portati in palma di mano grazie al celebrato In The Future. Che a noi non piacque, lo ricorderete: appesantito da seghe prog e banalità hard ‘70 ci spinse a invocare il pronto ritorno dei riflessivi Pink Mountaintops. Diciotto mesi di preghiere dopo, Outside Love scrive il terzo capitolo di un romanzo interessante per come rimesta la pluridecennale storia del rock e ne cava un’identità artistica. Dei suoi predecessori assaporavi la sintesi di folk stralunato e riverberi noise in bassa fedeltà, la fusione tra Stooges e Velvet al cospetto di Jason Spacemen e Julian Cope. In essi la citazione non scadeva nella copia conforme, prevaleva l’incrocio e la penna mostrava costituzione sana e robusta. Cosa che si ripete anche qui con immutata freschezza, nonostante il dispiego di ingenti forze (una dozzina i musicisti impiegati: spiccano elementi della Montagna Nera, la sirena Jesse Sykes e il suo chitarristico braccio destro Phil Wandscher, Sophie Trudeau di A Silver Mt. Zion), un John Congleton più del solito misurato al mixer e l’aria da disco “importante”. Le medesime premesse della frittata In The Future, sostanzialmente, tuttavia - merito dell’ambito stilistico di lignaggio colto e della sua saggia gestione - ascoltate stavolta canzoni salde e convincenti, collocabili in una landa attigua al gospel sonico degli Spiritualized, all’acid-rock morbido precursore dello shoegaze e a talune rustichezze country. Più America(na) che si rivolge ad Albione che viceversa ed ecco la differenza rispetto al passato: perché se Axis:Thrones Of Love ed Execution sono i Jesus & Mary Chain di Darklands prodotti da Phil Spector, While You Were Dreaming restituisce dei Mazzy Star chiesastici; se Come Down immagina un sereno Micah P. Hinson, Vampire è una Queen Jane Approximately natalizia figlia di After The Gold Rush. Perché se Outside Love si porge oceanica con gusto, Bill Callahan potrebbe far causa per And I Thank You. Per una The Gayest Of Sunbeams che martella sul classico asse Velvet/Suicide/Modern Lovers, il commiato soul Closer To Heaven non varca la soglia del kitsch. Perdonateci lo spreco di nomi eccellenti, nondimeno sappiate che il gioco dei rimandi è qui non solo inevitabile ma addirittura parte della magia. Ancora irrisolta, peraltro, poiché l’album conferma questo lato del talento di un McBean vieppiù trincerato dietro lo scaltro riassunto di tre lustri di (indie) rock. D’altra parte è l’ennesimo erede del riflusso culturale o, almeno, tale è l’idea di sé che vuole restituire, acuta e spruzzata di salutare sarcasmo. Se ci sia o ci faccia, è sentenza che lasciamo ai posteri. (7.5/10) Giancarlo Turra pesanti anthem lisergici come l’iniziale New Age e White Dove. I momenti strappa mutande non mancano con la ballatona da accendino sospeso in aria di Lord. Gli svacchi da acido però riescono meglio a Brightblack Morning Light, questi giovanotti si drogano troppo poco o per nulla per il genere che hanno scelto di fare. Un disco rock vecchissimo eppure attuale, ab- recensioni / 85 bastanza gradevole per l’estate che arriva, ma poco incisivo in generale. (6/10) Antonello Comunale snd - Atavism (Raster Noton DE, Mar 2009) G enere : elettronica Un’ispirato viaggio tra poliritmie di derivazione techno e sonorità minimal-house, questo Atavism, nuova uscita per Raster Norton del duo Mark Fell e Mat Steel (alias snd). A portare a compimento, ed a evidenziare le peculiarità di quello che è l’ormai standardizzato linguaggio stilistico del duo, ci pensano le cerebrali dinamiche di Atavism. Sessantadue minuti pervasi da pioggie in beat, articolati binari ritmici, parametri noti che guadagnano continuità e forma nel cambio, quello che si fa mezzo del battere, e del timbro a cui accordare modularità. Eletronica sensibile al cambiamento votata al materiale più puro e dal tratto minimale a cui concedere orgie ritmiche, progressioni vitalizie, controlli, pause, aritmie o brusche variazioni. L’elaborazione puntuale dei suoni e del ritmo si spoglia del superfluo concentrandosi sugli astrattismi in pattern che portano a compimento sistemi di micro-equilibri che trovano fissità e fierezza nelle variazioni al tema. (6.9/10) Sara Bracco Starsailor - All The Plans (Virgin, Mar 2009) G enere : B rit pop Quasi dieci anni di carriera, gli Starsailor, e resistono: erano fuori moda all’epoca e continuano ad esserlo anche ora, che in teoria sarebbe anche un pregio. In teoria. La voce di Walsh è tanto inconfondibile quanto uguale a se stessa, come il loro pop-rock fatto di canzoni quadrate e professionali, con inizio, centro e fine e i ricami tutti dove te li aspetti e dove manuale vuole, e inevitabilmente enfatiche (che Walsh non potrebbe cambiare impostazione nemmeno se volesse è più di un’impressione). Tell me It’s Not Over, primo singolo che apre anche 86 / recensioni l’opera quarta, ha un giro di accordi sentito n volte un po’ vivacizzato dal piano (altro ingrediente immancabile) e il ritornello che inizia con un “now the lights out” che a quelle poche decine di milioni di persone che conoscono Smells Like Teen Spirits suonerà vagamente familiare; ma alla fine ha una leggerezza che tutto sommato funziona. Più del resto di un disco nel quale i pochi segnali di novità vengono dallo stomp col tremolo di The Thames e dal boogie di Stars And Stripes animato anch’esso dal tremolo e da un hammond salutare: le strofe, perché poi i ritornelli rassicurano i fans rientrando di corsa nei canoni abituali dello stile di casa (né poteva scuotere più di tanto le cose la figurina di Ron Wood nella title-track). Qualche vibrazione acida movimenta anche Listen Up, ma in generale siamo sempre lì: Safe At Home, come dice il brano di chiusura, senza essersi mai allontanati troppo. (5/10) Giulio Pasquali Steve Roden - Ecstasy Showered Its Petals With The Full Peal Of The Bells (Ferns Recordings, Ott 2008) G enere : ( s ) culture sonore Pioniere instancabile Steve Roden, artefice di un approccio al suono e all’oggetto del tutto poetico, dai cui attendersi profonde attività d’ascolto. Faccende di superfici e architetture minimali quelle che avete ritrovato tra gli astrattismi in colore di Colorfiled Variations in uscita per 12k/Line o quelle con cui interagire invece per Ecstasy Shorewed Its Petals With The Full Peal Of The Bells, alla ricerca di nuovi suoni. Ad incuriosire l’artista questa volta sono le sfumature sonore che circondano una piccola campana, memoria di un viaggio estivo a Parigi, che si fa generatrice di suono in un unica traccia strutturata con le tecniche del Roden più conosciuto, quelle del bricoleur che si serve di crescite in dissolvenza e dinamiche in loop avviate alla lentezza. Concentriche modularità si susseguono trascinando dietro di se nuovi segni: quelli di cechi rumorismi stratificati che fluiscono tra vibrandi infinitesimi di dettaglio, tensioni aggiunte in tones and crackles ed articolati tintinnanti spettri così puri che lasciano talvolta intravedere la fonte. Omaggio nel titolo alla più celebre opera ,Brugesla-Morte del poeta e novellista belga Georges Rodenbach, Ecstasy Shorewed Its Petals With The Full Peal Of The Bells è non così lontano dalle atttudini di A slow moving boat (New plastic music, 2008) ma segna un ennesimo passo in avanti per la scrittura di Steve Roden. Una musica che vuole pochi paragoni per vastità e documentazione ma certo non per mancato carattere, contraddistinto per fruibilità colore e narrativa. (7/10) (6.9/10) Sara Bracco Symbiosis Orchestra - Live Journeys (Baskaru, Gen 2009) G enere : elettroacustica / sperimentale Un altro punto a favore per la Baskaru lo segna la nuova uscita firmata Symbiosis Orchestra a breve distanza dal notevole lascito del giovane artista americano Ethan Rose (Oaks-Baskaru 2009). L’obiettivo della label, attenta alla ricerca di nuove proposte nell’ambito dell’elettronica sperimentale e della sound-art, è raggiunto anche con le undici tracce di Live Journeys, la cui geometria in acustica ed elettronica tracciata in mutue e mutevoli relazioni evidenzia indiscussa maestria in armonica simbiosi. Distante da qualsiasi termine in catalogazione di genere ma, oppurtunamente responsabile di quei metodi in improvvisazione tra stesure più o meno concrete ed ambient a cui corrispondere un’ottima scrittura e conoscenza di forme e strutture musicali. Il valore è certamente dato dalle combinazioni d’artisti e dal materiale raccolto, quello in live che nel 2005 l’italiano Andrea Gabriele ha saputo annotare e fissare con estrema precisione. Racconti di viaggio dai panorami differenti responsabili di quella fluidità che va in aiuto dell’insieme, alleggerendo il fardello ma senza mai perdere per strada quelle che sono abilissime orchestrazioni in elettroacustica. Tappe fondamentali quelle in quartetto di Live at Peam (2005, Ecoteca Pescara) tra le percussioni di Stefano Tedesco, gli archi di Diego Conti e le iconiche vocalità di Iris Garrelfs che Andrea Gabriele lascia correre immacolate tra punteggiature, prese dirette e sottili sovrapposizioni in loop che sanno giocare con la sospensione in Cinematic Naples tra le strumentazioni in fiati di Geoff Warren e distese in drones. C’è poi l’elettroacustica chiaroscurale ed eterea di Live at GAM-Gallarate 1, quella demarcata in sintetica tra similitudini in ritmo Live at GAM-Gallarate 2 a cui concedere comtrappunti elettro di esemplare orientamento (Live at FabbricaEuropa-Florence 2) concordate con l’artista Robin Rimbaud-aka Scanner. Sara Bracco Tara Jane ONeil - A Ways Away (K Records, Mag 2009) G enere : folk Tara Jane O’Neil è la madre di tutte le neo-cantautrici, che si tratti della lineare Marissa Nadler o dell’ultima, obliqua Grouper. Al quinto lavoro - primo per la K Records - e assistita, tra i tanti, dai sodali Jean Cook e Daniel Littleton, l’ex Rodan è la solita e flebile chanteuse che ha fatto proprio il registro più sedato dei Velvet Underground (Dig In) e le docili pagine di Judee Sill (In Tall Grass) e Joni Mitchell (Drowning) per travasarlo in quell’universo che fino a qualche tempo fa veniva etichettato post-rock. Solita O’Neil insomma, l’ugola trasognata come se cantasse alle prime luci dell’alba (Biwa), classica e ormai matura alla stregua dei nomi di cui sopra (la splendida Howl), sinistra (Beast, Go Along sembra una versione al femminile di We Will Fall degli Stooges), visionaria come Ry Cooder (Pearl Into Sand) ed elegiaca che manco alla Kranky (The Drowning Electric). Dopo una carriera più che decennale, spendere altre parole sul personaggio crediamo sia inutile. Come il caro amico che non cambia mai e che sai esserci per sempre. Chi la conosce sa cosa fare. Chi non la conosce, anche. (7/10) Gianni Avella Technogod - Pain Trtnment (Tack At, Apr 2009) G enere : industrial funk Darli per dispersi era forse più che lecito, visto lo iato pluriennale che li separa da Undo, ultima – se non andiamo errati – chiamata alle armi per il collettivo italiano, targata 2001. Stando però a quanto offre Pain Trtnment, l’entità Technogod (rinominabile anche Tack At per recensioni / 87 highlight St Vincent - Actor (4AD, Mag 2009) G enere : avant pop orchestrale Il songwriting prettamente pop orchestrale della chitarrista e polistrumentista americana Annie Clark, ex-Polyphonic Spree e Sufjan Stevens band, che ci aveva favorevolmente colpito un paio di anni fa al debutto con Marry Me, si arricchisce ora di nuove spezie. Fermo restando la sua base, questo nuovo Actor spinge ancor di più verso una cinematicità di fondo, che fa sì che ogni canzone sia un piccolo frammento sonoro, fatta anche di unità minimali, e che nel loro insieme compongano un vero e proprio “score”. Frammenti che la Clark definisce come “technicolour animatronic rides”. L’ispirazione è infatti derivata proprio dalle colonne sonore, che siano di Disney o morriconiane o di Broadway (Il Mago di Oz viene citato in Marrow), oppure ispirate a Igor Stravinsky, Carl Orff, Erik Satie. Il respiro orchestrale è infatti ampio e stratificato, combinandosi con altri elementi apparentemente “dissonanti”, quali layer sonori, distorsioni, ripetizioni alla maniera del coacervo sonoro ottanta di marca Peter Gabriel (prettamente periodo Scratch/Melt), si veda l’opener The Strangers; altrove (Actor Out Of Work) si viene rimandati, anche melodicamente, al coevo esperimento Scary Monsters (dalle parti quindi di Bowie/Fripp). Non senza far pensare al lato più pop di una come Laurie Anderson. E ancora un’attitudine di marca Bjork-iana, già rilevata nel precedente lavoro si sposa alla teatralità di una Shannon Wright e alle atmosfere chamber dell’ultima My Brightest Diamond, mentre è puro Broadcast The Bed, con un retrogusto melanconico sua cifra stilistica da sempre. Actor è quindi album che rappresenta un passo in avanti rispetto al pop jazzato del precedente, segno di un’evoluzione anche stilistica della Nostra. Gran bel comeback. (7.3/10) Teresa Greco uscire dal vincolo technoide e cercare nuove forme identificative per reinventarsi) è più viva che mai, così come pulsante e mai arrendevole è il postindustrial sociopolitical paranoid toxic funk spalmato in 15 tracce tra sintetico e materico. Cosa che, sin dai tempi dell’esordio Hemo Glow Ball, è sempre stata la cifra stilistica predominante di Technogod insieme al dissacratorio impegno da agitatori culturali. La tripletta iniziale è letteralmente da sballo: Blank & White, Interessi Di Conflitto/In Search Of The Enemies e Girls Just Wanna Have Funk tirano in ballo funk technoide, flirtano con dance apocalittica e prendono per il culo i p-funksters dell’ultim’ora con una dose da cavallo di ironia e sarcasmo. Il resto dell’album non è poi da meno. The Day The World Stop Shopping rimembra Pankow et similia nel suo calarsi acidi 88 / recensioni mitteleuropei a base di ebm berlinese; Free’n’Lonely è i Talking Heads tutti lustrini e droghe sintetiche nati nella città globale post-www; Get Closer To God (Bypass The Vatican) cortocircuita il funk industriale con la synth-wave d’inizi ’80, altezza Limbo. Insomma, i Technogod sanno bene cosa hanno in mente e soprattutto come ottenerlo. Come da tradizione, intorno al nucleo formato da Loz e Y:dk, con Francesco “Fresh Drummah” Brini alla batteria, si coagula uno stuolo mai banale di ospiti, tra cui spiccano la voce di Tying Tiffany (in No Fun Pour Moi?, autodefinita franclish gabber’n’roll) e quella dello scrittore Girolamo De Michele in L’Italia Mangia I Suoi Giovani). (7/10) Stefano Pifferi Thermals (The) - Now We Can See (Kill Rock Stars, Apr 2006) G enere : P ower P op Il terzetto di The Body, The Blood, The Machine continua l’ascesa. Now We Can See è l’ennesima conferma dei Thermals come misto di contagioso storytellin’ ed energico power pop ora punky ora garagy. Aspetto fondante del nuovo lavoro: scrittura più sciolta e personale, meno espettorazione e maggiore accento sul pop nel senso di USA. In pratica i ragazzi stanno puntanto a entrare nei cuori della gente come dei nuovi Green Day (con i quali iniziano ad avere in comune la facilità del ritornello generazionale), e meglio, dei Replacements 00s (con i quali condividono l’attitudine alla diversificazione degli arrangiamenti e la capacità d’analisi scarna ma efficace). Direi che ci siamo: nel 2009, non riesco a pensare a niente di più fresco e immediato nell’indie americano. (7.1/10) Edoardo Bridda Thunderheist - Thunderheist (Big Dada Recordings, Mar 2009) G enere : bbreak disco - mesh La mutazione della Ninja (via Big Dada) passa attraverso tre nomi: Qemists, Yppah e Thunderheist. Da turntablizm stretto a mesh globale e più che mai 09. L’album omonimo e infarcito di hype che finalmente abbiamo in ascolto conferma l’ampliamento degli orizzonti dell’etichetta londinese, baluardo di una estetica oggi d’antan ma che spopolava nei ‘90. Del resto nella contemporaneità meshy la parola d’ordine è futurismo. I guru di tanto tempo fa l’hanno capito e ci presentano una cosa che è post-p-funk con sfacciati sculettamenti da dancefloor, ammiccamenti glitter con qualche acidità synthetica. Basso che pompa, basi cosmico-prog a firma Grahm Zilla, batteria DFA e uptempo di newyorchese memoria. La ricetta è questa, signori. In più su tutto questo miscuglio c’è la voce di Isis, generazione Missil/Santogold via Salt-N-Pepa, quel break mezzo hop mezzo sexy che piace tanto ai remixatori della Furtado (Jerk It, Slow Roll) e che guarda al trash-fidget truzzo (i due minuti da pelle d’oca di Anthem). In aggiunta la componente 8-bit tanto cara ai Crystal Castles (LBG, Space Cowboy), l’inevitabile recupero del break con gli effetti nerd (Bubblegum appunto) e l’immancabile citazione all’Hacker di Grenoble (Freddie è il singolo manca- to di Miss Kittin). Se l’electropop robotico rifondato dai Daft Punk si è reincarnato in infiniti golem, questa deviazione Ninja ci preannuncia la break-dance del futuro prossimo. Saremo tutti ancora immersi in neon lights, magari con qualche collanona d’oro al collo e con qualche pastiglia in tasca. Acid trapassato dal break. Thunderheist nuovi profeti. (7.1/10) Marco Braggion Tiga - Ciao! (Wall Of Sound, Apr 2009) G enere : retrofuturdisco Se Oizo aveva rifatto i novanta con le scariche fidget della scuola Crookers, riasumendo tutto in un discone del calibro di Lambs Anger, oggi ritorna Tiga, il ragazzo da un milione di dollari dell’electro pop internazionale. E anche qui come da molti anni a questa parte (almeno da quando la Kitsuné ha fatto della Disco una seria questione da passerella) c’è lo sguardo retrofuturista che guarda agli 80. Ciao! è un disco che ripercorre l’immaginario sfocato di quegli anni da bere, tutti dietro ai Ray Ban (oggi e sempre più indossati da Miss Kittin), robotizzati dalle prove da discotechina dei Depeche Mode e rimpolpati da una tonnellata di gruppi melo, che della lacrimuccia hanno fatto un marchio di fabbrica. Dunque è tutto in linea con il fortunatissimo Sexor del 2005 con una differenza che vedi direttamente in faccia al ragazzo sul My Space: il fondotinta e gli abiti sono neri e il sound gli fa il paio come dire che se c’è Peaces nell’aria è meglio batterla nel suo stesso recinto. Ma, meglio, che se stai troppo dentro certi ambienti il nichilismo ti viene naturale ed è proprio lui alla fine a fregarti l’asso. Dunque attenzione Tiga: dalla versione geek del video Far From Home a quella sexy black del nuovo Shoes, ci perdi in melodia anche se a salvarti è ancora l’Ambizione.Voglia di trono che ti porterà probabilmente, come un Williams variante Bond, al podio dell’electro ma con uno stile e una missione ben più pericolosi che in passato. Pericolosi gli smalti morbosi e sexy sui vecchi modi ‘80 ma poi c’è tanto in Ciao! Varietà e generosità in primis e sta li la differenza rispetto all’ultimo Fischerspooner. La cattedrale barocca risplende di richiami breakbeat (Mind Dimension è uno studio di scuola Jack virato french), di singoli leccaculo (Luxury con quei pad à la Gazebo, Turn The Night On con il basso in overdose uberpop Moroder), di cavalca- recensioni / 89 te che ricordano le prove della trimurti Lindstrøm Circlesquare Øye (i dieci minuti da panico Cerrone nella nonsoloballad progressiva Love Don’t Dance Here Anymore) e di una vernice glitter che fa risaltare quanto il ricordo sia più che mai now. Ma ancora:ci vuole poco a sputtanarsi con i rifacimenti e i plagi. La coca e le paillettes fanno male. Del resto, questo è il nuovo corso del dopo Tellier. Rifatevi l’armadio. L’estate è alle porte. Ma attenzione... (6.9/10) Marco Braggion, Edoardo Bridda Tom Brosseau - Posthumous Success (Fat Cat Records, Mag 2009) G enere : folk Dopo aver dato alle stampe nel giro di un anno – era il 2007 – due dischi esemplari come Grand Forks e Cavalier e non essersi spostato di un millimetro da quel “bravo ma per pochi” che ormai sembra rappresentare un po’ il contrappasso a cui è stato condannato, Tom Brosseau deve aver pensato di non avere più nulla da perdere. E allora un titolo come Posthumous Success per il nuovo episodio, quasi a ironizzare – la versione ufficiale della storia, in realtà, chiama in causa Albert Camus - sulla cronica mancanza di attenzione per una proposta musicale, comunque, di valore. All’interno tredici episodi che abbandonano coscientemente l’uniformità di vedute messa in bella mostra nelle uscite precedenti, per unire al folk elegante da sempre marchio di fabbrica dell’americano un approccio meno in linea con la tradizione. Giusto un paio di post-it in apertura per ricordarci il Brosseau più canonico e poi si decolla – o forse sarebbe meglio dire si atterra - sulle batterie in loop di You Don’t Know My Friends, il synth un po’ “sciapo” di New Heights, il Lou Reed di Drumroll, gli aromi sud americani di Axe & Stump. Alla ricerca di un feeling non ben identificato, di un processo di ringiovanimento che sa tanto di chirurgia estetica, di un punto di contatto tra blues rurale e Anno Domini 2009. Un’operazione che nella maggiorparte dei casi, non dà il risultato sperato. In mezzo al labirinto di intenzioni che fa da corollario ai suoni, ci si imbatte in parentesi strumentali da un paio di minuti (Boothill, Youth Decay), richiami rassicuranti alla 90 / recensioni produzione più recente, ma, soprattutto, idee poco chiare. Molte e mal disposte, confuse tra la voglia di rimanere fedeli a se stessi, affrancarsi definitivamente dal passato o magari esplorare mondi musicali altri solo per vedere che aria tira. Il problema, oltre al fatto che alla lunga del contenuto di questi corsi di aggiornamento non ci si ricorda proprio, è che il meglio lo si ascolta ancora nei brani più in linea con l’immaginario del musicista. Quelli che da cinque anni a questa parte il Nostro mostra di saper scrivere su un fingerpicking ormai riconoscibile - Favourite Colour Blue e Been True - o magari affidandosi a un country sobrio e elegante (Wishbone Medallion). Verranno tempi migliori. Nell’attesta, recuperate gli scatti in bianco e nero di qualche anno fa. (6.6/10) Fabrizio Zampighi Tomas Phillips - Six Notes (Koyuki sound, Mar 2009) G enere : minimalismo All’insegnamento e alla scrittura l’artista Tomas Phillips da sempre ha alternato la composizione, per essere precisi quella in musica elettronica, dominata dalle tradizioni, riscontratate alle migliori ed eleganti scritture in contemporanea. A corrispondere a tali istanze ci pensa Six Notes, esordio dell’artista per la Koyuki Sound a due anni dall’uscita per la Non Visual Objects Drink Deep. La sezione è quella conosciuta, un unica traccia a cui assistere al comporre, quello che prende forma nelle malinconiche ed isolate note di un pianoforte al confine con le traduzioni più criptiche del Ryuichi Sakamoto. Prevalenze conosciute al Phillips di Intermission/ Six Feuilles (Line 2006) che tornano care ai ventuno minuti di Six Notes tra termini in decostruzione ed eleganti danze in sfumature. Principale divenire spetta al pianoforte, fluttuante a mezz’aria tra microidentità in particelle, sottofondi in drones, autorigenerati in riverberi o appoggiati al silenzio. Il discorso da qui in poi va oltre la questione di qualità, bellezza o armonia per accordarsi con quell’arte rara nel rappresentare e plasmare le note. (6.8/10) Sara Bracco Toy Fight - Peplum (City Slang, Mag 2009) G enere : indie pop Un esordio discografico niente male per questi nuo- vi Belle And Sebastian francesi. Sì, certo, il pericolo di sconfinare nella copia carbone del combo scozzese è sempre in agguato, ma le sedici canzoni confezionate per l’occasione fanno letteralmente esplodere una primavera di suoni, armonie, sfumature, ritornelli alla quale è impossibile resistere. Una durata media che raramente sfora i tre minuti, un approccio graziosamente lo-fi alla forma canzone, una stratificazione strumentale varia ma mai invasiva: questi gli ingredienti che i sei transalpini amalgano con cura e maestria inseguendo la segreta ricetta del brano pop perfetto. E, dobbiamo ammetterlo, la scintilla dell’alchimista esplode qua e là, forgiando caramelle dolci e zuccherate dal gusto variegato da assaporare freneticamente. Anche perché i Nostri riescono a personalizzare il tutto tramite quella contagiosa erre moscia della loro pronuncia inglese, impossibile da non cogliere e non apprezzare tra ballate delicate e immediate e vivaci cantilene. Peplum, un “appiccicoso” album solare. (7/10) Andrea Provinciali Vanessa Peters - Sweetheart, Keep Your Chin Up (BMI, Apr 2009) G enere : folk rock C’è veramente poco da aggiungere su Vanessa Peters rispetto a quanto già detto all’epoca del precedente Little Films (Little Sandwich Music / BMI, 20 novembre 2006): la calligrafia folk rock di questa ragazza texana ormai di casa in Italia continua a sembrare una via di mezzo credibile e a tratti adorabile tra le trepidazioni pensose di Suzanne Vega e quelle più frugali ma urbane di Beth Orton, senza scordare i ruggiti intimi di zia Lucinda Williams e certi guizzi da cuginastra garbata di Liz Phair. Casomai, va sottolineato come anche questo Sweetheart, Keep Your Chin Up confermi il vizietto del concept, sostanziando ogni canzone su un personaggio leggendario, mitologico o fiabesco (da Icaro a Penelope passando dalla Strega del Mago di Oz) alle prese con le inquietudini e i dilemmi della contemporaneità. Vanessa si disimpegna con la consueta intensità e freschezza sia ai testi che alle melodie, potendo contare sulla puntuale assistenza dei suoi Ice Cream On Mondays (backing band da Castiglion fiorentino senza macchia né alcun timore reverenziale) col contributo di Guglielmo Gagliano al violoncello e Alex Akela a violino e mandolino. Tra i pezzi spiccano Just Down per la fiera tensione tra camera e deserto, una First Lesson dal piglio funky screziato brit, quella specie di mischia tra Counting Crows e Dire Straits di The War e soprattutto Keep Your Chin Up col suo toccante accumulo di afflizione. (6.9/10) Stefano Solventi Venetian Snares - Filth (Planet Mu Records, Apr 2009) G enere : acid drill techno Venetian Snares sforna un disco dietro l’altro. E la sua visione è quella della drill acida che fa capo a Kid606 e ai padrini Warp prima maniera (Aphex e affini). A leggere il comunicato stampa si capisce che il ragazzo è in overdose di acido, con tutti quei riferimenti al suo membro che comanda i potenziometri della 303. Poi vai ad ascoltare le 10 tracce di questo Filth (oscenità, appunto) e ti accorgi che la proposta non è poi così sconvolgente. A rifare quei ritmi targati 90 ormai è capace qualsiasi nerd smanettone. La produzione è buona, ma a chi importa di riascoltare cose stantìe? Buono per chi è stato in letargo 3 lustri. (4.5/10) Marco Braggion Von Bondies (The) - Love, Hate And Then There’s You (Fierce Panda UK, Feb 2009) G enere : shampoo commercial indie Li avevamo lasciati lo scorso anno alle prese con un e.p. di gusto assai britannico ma dagli esiti poco significativi, i Von Bondies. Tali e quali li ritroviamo oggi all’altezza del terzo album, che una volta potevi considerare quello “definitivo” circa il valore di una band. Poiché le cose stanno ancora così, Love, Hate And Then There’s You rappresenta per la formazione un’autentica pietra tombale artistica. A un lustro di distanza dal predecessore Pawn Shoppe Heart che - sotto l’egida della Sire e la produzione di Jerry Harrison - provava a inscenare una sorta di White Stripes in chiave post-adolescenziale, il quartetto gioca la carta del beat-pop e occhieggia i “favolosi” Sessanta. Si è in sostanza gettata via la chiave del garage e cambiato il carro su cui saltare in un disco che ha tutto l’aspetto dell’estremo ten- recensioni / 91 tativo di passare alla cassa. Niente di disdicevole in questo se il risultato non facesse venire in mente degli Shed Seven americani appena più dignitosi, ovvero dei pallidi epigoni con poco da dire in un ambito stilistico sovraffollato. Eccezion fatta per la brillante 21st Birthday le canzoni a presa intelligentemente rapida latitano, il suono è fiacco, poco incisivo. Al loro posto ci sono scopiazzature di riff arcinoti e strutture altrettanto, un cincischiare attorno a brani privi di identità come del resto è chi li scrive ed esegue. Il leader Jason Stollsteimer sostiene che questo disco riflette “una nuova direzione; nulla di premeditato, è soltanto il luogo dove ci stiamo dirigendo.” Che ci vadano pure, là. Tanto noi non li seguiremo. (5.5/10) Giancarlo Turra Wavves - Wavvves (Bella Union, Mag 2009) G enere : N o -F i Noise-pop in modalità lo-fi dalla assolata California atto secondo. Ed è ancora centro pieno per Nathan Williams. Uno che in questi mesi è cresciuto sopra e sotto il successo mediatico della rete e non se n’è fatto prendere. Lui che è il più scanzonato e il più romantico. Il Barrett dello shitgaze massì (Surf Goth). Quello che ti interpreta il noise pop e lo condisce di futurismo straccione come manco un branco di punk giapponesi sotto LSD potrebbero fare. E poi un grande album anche per i riferimenti di prossimità a contorno: sentite la chitarra psych Crystal Stilts in Suns Open My Eyes, il garage in gonnella sixties delle migliori Vivian Girls in Get The Sun e gli smalti shoegaze goth dei Blank Dogs in Jet Plane. In pratica, è la crema di certo sottobosco per il quale ci siamo esaltati recentemente. Di più, corsi e ricorsi, non fa altro che piacere vedere che nel mentre Beck ri-pubblica il manifesto anti-folk, One Foot In The Grave, una nuova generazione di lo-fi singers sta crescendo. Williams prende da quel Beck la libertà di imbracciare chitarre e/o tecnologie povere (vocoder, synth che paiono chitarre e sequencers) fregandosene della coerenza (Goth Girls persino vicina a Nathan Fake). Nel suo arco infine una carica naif diretta come quella sincerità tutta sua d’essere punky. Ora è moda. D’accordo. Domani rimarranno sicuramente alcune di queste gemme: la citata Surf Goth e So Bored che è l’altro bell’affondo à la Vivien Girls: distorsore a palla, ululati scemi e un altro modo banale ma vero per dire 92 / recensioni giovani 00s (e sempre con i vecchi Velvet Underground nel cuore...) Wavvves è ora - maggio - distribuito in italia sotto Bella Union. La copia sotto Fat Possum gira già da febbraio, stessa cover ma con due tracce in più. (7.3/10) Edoardo Bridda Wildbirds & Peacedrums - The Snake (Leaf, Apr 2009) G enere : punk - temporary gospel Heartcore, l’esordio di questa ennesima coppia art punk, aveva fatto gridare al miracolo anche i millennium-scettici più ferventi e così, a un anno di distanza e sempre su Leaf arriva The Snake, non tanto il sophomore del duo quanto la logica e compiuta continuazione dell’opera prima. Benché inciso di filata al precedente e, per i più attenti, già edito nel marzo 2008 su Caprice Records, il lavoro porta a compimento quel percorso pop colto e brillante che Andrea Werliin e Mariam Wallentin avevano coraggiosamente intrapreso. Forse manca ancora un po’ alla quadratura del cerchio, ma siamo ben oltre la semplice evoluzione di sound. The Snake è un lavoro dosato e maturo, dove la febbrile vena compositiva e l’urgenza espressiva si bilanciano perfettamente e nel quale il calore umano e divino avviluppano come solo nelle esecuzioni dei grandi interpreti. Mariam Wallentin ricorda tanto Abbey Lincoln quanto Annette Peacock e, nei momenti di nostalgia roots, Betty Davis in una versione addolcita e malinconica; l’estemporaneità del jazz è qui affastellata in numerose takes, l’anarchia punk ridotta a minimal wave. Maturando, il sound del duo si confronta ad ampio raggio con l’art pop e l’alt-folk di questi ultimi anni: gli Xiu Xiu in versione sub-sahara (Great Line) o gli Indian Jewelry minimali, come nella ballad sghemba Wo ho ho ho, cantata all’unisono e sorta di contropartita di quella Battle In The Water che fece definitivamente innamorare la stampa. I momenti migliori li troviamo però in There is No Light, alter ego incendiario di Doubt/Hope (il tormentone da Heartcore), dal quale si discosta per la più decisa traiettoria arty e l’abbandono progressivo del roots, e in Chain Of Steel, in cui Mariam si avvicina alle colleghe Hanne Hukkelberg e St. Vincent (o alla connazionale Frida Hyvonen), salvo mettere del suo senza tralasciare la sfumatura wave (Siouxsie è un’influenza occulta che ricompare anche altrove). Chiude il carosello la passionale highlight William Basinski - 92982 (2062, Apr 2009) G enere : avanguardia Le questioni d’archivio sono ormai attitudini per Wiliam Basinski, oltre che un procedimento caro alle generazioni seriali cresciute tra laptop ed estetica rduzionista. Sono un modo per avviare critiche e nuove direzioni modellandole tra ricordi e nostalgie, anima e sfumatura. Lungo questa prassi 92982 i contorni conosciuti nelle prime tre tracce risalgono ai primi ‘80, mentre l’ultima a quest’anno. Ci riferiamo al Basinski di Variations: A Movement In Chrome Primitive (pubblicato poi nel 2004) e a quello del successivo The River (risalente all’83 successivamente edito nel 2002). Ed è da qui che occorre partire, acquisita l’esperienza con i manifesti dei Disintegration in Loop, il musicista si muove tra decadenza e malinconia liberata al sonoro fluire in stratificazioni, procedendo per sfuggenti frammenti di melodia in feedback e precari istanti d’intrappolata realtà (sample catturati dal centro di Brooklyn poi trattati). Processi granulari, innervano le quattro tracce compiendo atti celebrativi di brillante e luminoso avvento. Sono incantesimi in sinfonia, metafore del tempo, un rituale in divenire infinito fatto di narcolettici passaggi e contrapposti ricompensi d’innegabile immensità. Basinski nega, o comunque argina, l’intervallo dando massimo risalto alla progressione che sia essa reclusa in un pianoforte o in un drone tout court. Conosciuto per le sue fughe al passato, recluse tra alchimie in ambient ed apprezzato per i suoi capolavori, William Basinski ci accompagna con 92982 verso quella che è una sentita certezza stilistica e un sublime talento. Quell’arte contemplativa ed incantata che difficilmente i trascorsi, i confronti, i lavori compiuti ed il tempo porteranno via. (7.5/10) Sara Bracco My Heart, gioiello pop colto e disarmante, summa delle varie anime dei Wildbirds & Peacedrums, con tanto di cori gospel in coda. Un disco che suona “pieno”, nonostante la parsimonia degli arrangiamenti, lacerante e luminoso come la verità. (7.6/10) Francesca Marongiu Willie Isz - Georgiavania (Lex Records, Mag 2009) G enere : H ip H op Nato dall’incontro tra il produttore hip hop di Philadelphia Jneiro Jarel (noto anche come autore con il nome Dr. Who Dat) e il rapper georgiano di Atlanta Khujo Goodie, il duo Willie Isz, dopo qualche apparizione anticipatoria l’anno scorso, esordisce per la Lex con questo Georgiavania, un album che non sembra smuoversi più di tanto dalla matrice hip hop che contraddistingue il profilo di entrambi i musicisti. Beats e rapping si riferiscono inconfondibilmente a questa radice comune, anche se Khujo e Jneiro dimostrano che, quando vogliono, si muovono bene anche in contesti più “contaminati”, mescolando electro (Autopilot), shoegaze e funk-soul (In The Red). Ma la perla dell’album, isolata rispetto al basso profilo del resto dei brani, è senz’altro The Grussle: un brano strutturato su moduli melodico-ritmici di matrice popolare, che richiamano la pizzica e la tarantella, sovrastati da un rapping imponentemente ricolmo di echi, raddoppi e filtri. Un occhio di riguardo all’artwork, realizzato dall’ “artista di corte” del fantomatico regno di Georgiavania, James Jarvis. (6.4/10) Daniele Follero recensioni / 93 Wooden Shjips - Dos (Holy Mountain, Apr 2009) G enere : hard - psych È all’altezza del secondo album – terzo se consideriamo la raccolta di rarità Vol. 1 – che i Wooden Shjips decidono di compiere il salto decisivo, abbandonando la California smostrata, deforme, psych e fattona che aveva da sempre fatto da scenografia subliminale (manco tanto in realtà) alle loro proposte sul medio e lungo metraggio. Un salto che non supera solo l’oceano, recapitando l’immaginario evocato dal quartetto americano sul grigio urbano del Regno Unito, ma anche un paio di decenni buoni giungendo orientativamente in pieno marasma post-Tatcheriano. Niente più Doors, insomma, né tanto meno 13th Floor Elevators o rimandi alla psychosummer of love. (Quasi) niente più fuzz o tradizione west coast lisergica. È il pulsare ossessivo del basso a guidare ormai le danze, verso un panorama fatto di grigia cementificazione “industriale”. A suonare robotico e subumano, incessante come una fordista catena di montaggio. È dunque Spacemen 3 il nome di riferimento del suono Wooden Shjips, così come tutte le pepite che in quello stralcio di secolo da lì presero il via, dimostrando di aver appreso la lezione dei padrini krauti e di saperla evolvere al passar del tempo: Loop in primis, per la meccanicità reiterata delle strutture; e a ruota Hair & Skin Trading Co. per il pulsare vivo del basso e Main per l’alone di alterità che circonda le composizioni. Un piede fermo nell’universo imploso di Can e Neu, l’altro nella psichedelia hard inglese degli anni 80, insomma. Per chi scrive un ottimo e deciso passo in avanti, rispetto agli esordi. (7/10) Stefano Pifferi X-Mary - Tutto Bano (Wallace Records, Apr 2009) G enere : freak rock Esperienza psycho-geografica, quella del quarto disco dei folletti freak-rock X-Mary. Stavolta Mattia, Scisci, Jeanluc D e Jeanluc F – sostituti di Cristiano Cristiana, Lo Sposo, Bocca Mai Stanca e Il Piccolo Lord – assumono le sembianze di surreali indagatori 94 / recensioni del circondario di San Colombano al Lambro, ridente località riprodotta in una stampa d’annata nel retrovinile, nonché sede della cascina Bovera quartier generale di questi 4 brutti ceffi. Il crossover spastico si ripropone come al solito in tutta la sua degenerazione: dall’inno a Gatto Pancieri, sex-symbol del mondo carnascialescamente rovesciato di X-Mary (Voglio Gatto Pancieri) alla sensualità smostrata alla Fata Faiella di Gin Tonic; dalle sfuriate da hcantiagonistico al funk in melodia post-Alan Sorrenti di Stasera (La Luna); dalle avvisaglie caciaron-avanguardistiche da pubblicità regresso (Stai Scherzando Con La Droga) al tributo ubriaco e fake-piacione alla musica soul e all’immaginario ficaccione tutto (Black Power); dalle acustiche fughe indietro verso un idealizzato passato in b/n (Scappo Negli Anni Cinquanta) alla feroce lucidità post-precariato della bonus track in cui l’istituzione principe della società neo-conservatrice – la famiglia – viene tranquillamente mandata affanculo. Insomma, di X-Mary – si sarà capito – è il messaggio che conta. Quel prendere e prendersi poco sul serio un mondo che invece di seriosità e boriosità ha fatto una ragione d’essere. Come al solito, un disco di denuncia verso un panorama sempre più da denuncia. (7/10) Stefano Pifferi Yeah Yeah Yeahs - It’s Blitz (Interscope Records, Apr 2009) G enere : pop , wave A ben vedere, allo scoccare del decennio il vecchio teorema dell’emul rock (lettori di vecchia data, battete un colpo…) rischia di trasformarsi in un maldestro autogol critico, laddove ormai l’assimilazione degli stilemi passati è norma codificata, accettata e ampiamente digerita, e le band un tempo “incriminate” veleggiano salde con la loro bella discografia alle spalle, infischiandosene allegramente di paturnie da scribacchino ed annessi arricciamenti di naso. Com’è giusto che sia. E allora la prospettiva odierna, per certi versi liberatoria, ci rivela ancora meglio l’essenza di un’entità come i Yeah Yeah Yeahs, che a questo punto sarebbe meglio intenderli per quello che realmente sono stati finora, e promettono ancora di essere, ovvero un discreto gruppo pop (più o meno alternativo, fate vobis). Più che gli album in catalogo sono i singoli a parlare chiaro, e la nuova Zero, con una Karen O che si (ri)scopre Madonna punk per le strade della grande Mela, funziona a dovere sui dancefloor indie e meno indie. D’altronde, la potente virata ’80 alla MGMT di questo It’s Blitz è l’azzeccata mossa di una band che sa tastare il proprio peso e caratura, e fa del proprio apprezzamento – la critica internazionale è andata in visibilio, confrontate un po’ Metacritic – un’arma affilata quanto i vocalizzi sexy della frontwoman, i synth taglienti e ruffiani q.b. di Nick Zinner e la produzione smagliante del veterano Nick Launay e del “solito” Dave Sitek. Restando sui singoli episodi, Soft Shock è una ballata dai toni wave che pur senza il romanticismo di una Maps è di quelle che rinvigoriscono il repertorio, così come la truculenta Heads Will Roll o la drammatica Runaway, mentre Dull Life spinge su geometrie di marca Blonde Redhead / Siouxsie vecchio stampo; sul versante di Skeleton, Hysterical (prossimo singolone, ne siamo certi) e la conclusiva Little Shadow ci si gioca invece la carta di un dreampop / shoegaze foderato di electro, che nelle tessiture sa riprendere la lezione dei TV On The Radio e di certe intuizioni para-orchestrali dei Flaming Lips. Tutto molto giusto, e sicuramente al passo coi tempi. In altre parole, tutto molto pop. Squisitamente. (6.9/10) Antonio Puglia Yppah - Gumball Machine Weekend EP (Ninja Tune, Apr 2009) G enere : breakelectrodelia La tattica di DJ Shadow prima di diventare il guru del turntablizm anni 90 è stata quella di pubblicare alcuni EP che lo hanno fatto apprezzare per le sue qualità di selector (e solo in parte di smanettone). L’esca che prelude all’album è usuale e obbligatoria nel music system contemporaneo, e spesso non ci rendiamo conto che il botto sulla lunga distanza ha già dei prodromi eccellenti. Oggi ci capita di avere sottomano un EP che potrebbe segnare molte strade nel mondo del ritmo. Il brivido di avere qualcosa che pulsa e che a breve scoppierà è da pelle d’oca. Il nome su cui la Ninja Tune ha puntato gli occhi è Joe Corrales Jr., in arte Yppah, una cosa che se la cercate nei blog specializzati è un passaparola continuo. Le solite voci di next big thing (anche se il ragazzo non è all’esordio), annunci di LP, concerti, etc. Ma a noi sta a cuore quello che si sente dalle casse. E allora che dire di queste quattro tracce + remix? La citazione di Shadow non sta solo a mo’ di intro: Yppah rifà oggi ...Endtroducing senza street-hop: si respira quindi aria di mesh che insiste sul looping sconfinando in nessun mondo e in tutti, dal rock semiacustico wave (Gumball Machine Weekend) alle atmosfere minimalist-IDM dei Fields (Shutter Speed), dalla visionarietà blues à la Belbury Poly (They Know What Ghost Know) all’acidità chitarristica che insinua lo shoegaze dei Jesus and Mary Chain (The Drag). Un mondo fatto di echi e melanconie che riporta tutto alla base rock (in particolare all’icona Doors) sporcando con il giusto tocco di glitch. Adatto insomma per qualsiasi orecchio post-00. L’anima oldschool della Ninja rigenera in questi 20 minuti il gusto 70 per l’atmosfera che seleziona strumenti inconsueti (flauto e organetti) e che ci fa sognare, dazed and confused. Se fosse un po’ più lungo sarebbe disco dell’anno. Per ora è ‘solo’ un colpo al cuore. (7.1/10) Marco Braggion Zerouno.2 - Self Titled (Discipline Venus, Gen 2009) G enere : rock , electro pop , songwriting “I pensieri affollano la mente quando non hai niente da dire”. Dopo quattro anni fa ritorno il collettivo Zerouno.2, voluto da Simone Cattaneo, nelle cui fila troviamo LeLe Battista, voce e chitarra acustica, Luca Urbani (Soerba) voce e synth, Cattaneo al synth, e poi Pedro Fiamingo, chitarra elettrica, Matteo Agosti, chitarra elettrica, Marco Ferrara, basso, Stefano Floriello, batteria. Quindi pezzi assortiti di band quali Bluvertigo, Soerba e La Sintesi. Un progetto fluido Battista/Urbani che partendo in origine dai synth, ora approda in atmosfere decisamente wave e pop rock, con richiami psichedelici (di marca floydiana) e prettamente cinematico-lirici. Una canzone d’autore raffinata la loro, frutto degli stili ed energie di ognuno, per uno marchio riconoscibile che fa dei testi di buona scrittura e mai banali, della musicalità decisa, degli arrangiamenti curati e di una produzione attenta i suoi punti di forza. Non manca comunque la matrice elettronica ben dosata e in equilibrio con il resto. Né una levità e dell’ironia in sottotesto. Un album intelligente e niente affatto prescindibile quindi. (7.1/10) Teresa Greco recensioni / 95 il dvd il libro AA. VV. - Colorfield Variation (12k/Line, Feb 2009) Quello che accade In Colorfield Variation è il nascere di un intenso ed intimo rapporto tra artista e opera quella narrata in audio e video,da una schiera di diciotto sound-artist chiamati da Richard Chartier e Taylor Deupree (Line/12k) a dibattere in elettroacustica minimale sull’omonimo movimento pittorico Color Field nato tra 1940-1950 a New York (Mark Rothko, Kenneth Noland, Bernett Newman per citarne alcuni), ispirato all’espressionismo astratto e al suprematismo. Non vi è nulla di casuale in questi tredici episodi liberati dai puri fini estetici ma fortemente affini alla plasticità, tra superfici piatte e astrattismo in colore che Steve Roden (Dark Over Light Earth) sperimenta in violino e harmonium intorno a punteggiature elettroacustiche, lavorate in sequenze con poche ma intese cromie a cui appoggiare tra sfumature dalle tonalità più calde,indagini di bordo. Elettroacusitca che Alan Callander (CF01) ispirandosi alle campiture di Rothko compone su tela, legate da naturale scorrere in sequenza, mentre Frank Bretschneider (Looping i-vi) lavora trai toni più freddi con elettronica di segnale immolata tra loop e bozzetti in ritmo e monitoraggi in scanner. I passaggi, quelli cromatici per Stephan Mathieu (Orange Was the Color of her dress) in fluidità sintetiche, in timbrica per Tez tra analisi in spettro da imprimere sul silenzio, o in bianco e nero e in continuo segnale per Bas Van Koolwijk dal visibile passaggio di scala concordato in spessore di tratto. Liberano dalle superfici Chris Carter e Cosey Fanni Tutti in pieno astrattismo, lungometraggi in ambient devoti all’arte esposta, mentre con il capitolo Ryoichi Kurokawa e Sawako si lavora sulla scrittura, su immacolato fondale tra pennellate istintive e gestuali più prossime all’action painting. In chiusura Mark Fell ed Ernest Edmonds quello più vcino alla precedente uscita Attack on Silence tra schemi fissi bande verticali e dripping in glitch.Riuscite simbiosi e comunicativi stati dell’arte a far dialogare con il linguaggio migliore, suoni ed imaggine. (7.3/10) Chris Ott - Unknown Pleasures (No reply) Era ora che qualcuno decidesse di fornire in traduzione le bellissime edizioni targate 33 1/3, appannaggio soltanto dei pochi che volessero avventurarsi nella lettura in lingua originale. Alla No Reply, piccola ma decisa e agguerrita casa editrice, hanno fatto anche di più: non solo hanno proposto una selezione – finora formidabile, c’è da dire – dei titoli in circolazione nel mercato anglosassone, ma vi hanno anche aggiunto dei volumi esclusivi allargando la collana Tracks anche a dischi italiani. Sì, perché la collana originaria, e conseguentemente questa della No Reply, è completamente dedicata alla trattazione di un singolo album di gruppi più o meno famosi e più o meno underground, trattati di volta in volta da un critico, un giornalista, un artista e/o un musicista. Che si approcciano, ovviamente, alla materia col piglio distaccato del critico, ma anche con la passione fervida del fan. Nel caso dei Joy Division la scelta è ovviamente caduta sull’unico vero album registrato dal gruppo di Manchester, Unknown Pleasures e la lettura che ne da Chris Ott, già caporedattore di Pitchfork, è decisamente ottima. Indagando la figura di Ian Curtis – giocoforza centrale soprattutto in virtù del tragico evento che lo consegnò al mito del rock – Ott si avvicina alla fase della composizione e della registrazione di Unknown Pleasures seguendo passo passo la vertiginosa crescita stilistica del gruppo, dai primi incerti passi post-punk all’elaborazione di una scrittura talmente personale da rappresentare una pietra miliare del rock underground. In un racconto appassionato ma al contempo piuttosto lucido nel contestualizzare, sia al tempo delle gesta della band, sia negli sviluppi postumi del lascito dei mancuniani, l’epopea JD, Ott fornisce una eccellente prova della sua conoscenza della materia: alternando cioè la trattazione critica dei pezzi a stralci dalla vita quotidiana del quartetto, il gossip antelitteram – il ruolo giocato dalla famosa fiamma belga di Curtis negli ultimi momenti dell’esistenza del gruppo – alle testimonianze dirette dei protagonisti (le varie dichiarazioni dei tre JD sopravvissuti, Debora Curtis, Tony Wilson). Al centro del libro però c’è quel monolite nero che è Unknown Pleasures e le sue sessions di registrazione con Martin Hannett, i cui mix leggendari, la ricerca sui suoni, la perizia maniacale ed avanguardistica nella cura dello studio sono pari solo alla sua follia e alla sua dipendenza dalle droghe. È perciò un vero piacere leggere questo libro, poiché sembra realmente di entrare nello studio in compagnia di quattro giovani disadattati britannici e un pazzo produttore drogato che hanno semplicemente fatto la storia del rock. Sara Bracco Stefano Pifferi 96 / recensioni recensioni / 97 live report Squarepusher/Bochum Welt 17 aprile //C lub : E stragon , B ologna Era da tanto tempo che non si vedevano tante facce da Link tutte assieme in un locale. E non parliamo dell’ultima sede dell’ex centro sociale ma di quella storica di Via Fioravanti, mancata la quale il popolo rave-tronico non ha più avuto un locale e un punto focale.Tom, spacciatore di poliritmi con basso a tracolla stile playstation, è dunque questa grande scusa per tornare a respirare i bei vecchi tempi andati dove i Novanta puntavano dritti ai FUTURE (e a velocità max). Non sarà un Aphex Twin, per il quale tanti anni fa nel capoluogo sono confluite quasi 8000 anime, ma un messia di ripiego e pur sempre un messia e, giusto per farvi i conti della serva, al botteghino si traduce in un incasso che il 90% delle band con le chitarre si possono scordare. È la coda lunga dei Novanta a farsi sentire e per chi se lo fosse scordato; Rave significa tirar dentro in nome di un sogno tanti ragazzi di tribù diverse. Rasta, raver, skunks ad ampio spettro, gente che si materializza solo in queste occasioni, il fumato che non esce mai, l’amico dell’amico che ti passava le cassette di Ibiza, l’ingegnere informatico, l’Universitario che gli manca la mensa occupata del 25, sono tutti qui per la macchina che ti regala (a 18 euro) un mix istantaneo di tutte le piste che animavano il vecchio scatolone fumogeno dietro la stazione (sul quale ora c’è il bel palazzone del Comune). Nessun adolescente. Facce note per la maggioranza più che venticinquenni. Quest’anno poi, magia delle magie, è il tempo di un bel revival ‘ardkore targato 92. Come dire. Le origini. Number Lucent EP,nel banchetto con le magliette XL colorate e ultima uscita del nostro è infatti proprio questo: la Jenkins way di tornare a pensare E con i classici espedienti slappati e IDM della casa. Prima, in apertura, non dimentichiamo Bochum 98 / recensioni Welt aka Gianluigi DiCostanzo, famoso, per chi lo conosce bene, per lo scavo di sonorità ’80 barra Novanta tra tastiere d’antan e drum machine in forte odor di hip hop convertito white brit. In pratica è come dire prequel. La saga completa dall’episodio -1 e 0. Non a caso chiusura del set con esecuzione per nulla irriconoscibile di Warm Leatherette dei The Normal. Il post è in mano a Tom ed è un affare di contaminazioni sulla base tech. All’uomo, non so se lo sapete, ma piace l’applauso e un bel metal da stadio è quello ci vuole per ottenerlo. Funziona sempre. E con un batterista umano che umanamente ti rifà un po’ di rullanti drum’n’bass è delirio. Delirio e noia diciamocelo, anche perché un truzzo karaoke di riff e luci sparate da tre schermi spacca pupille stancano dopo dieci minuti figuriamoci dopo un’ora. È quel troppo voluto che fa Novanta, che fa vecchio Link, WARP e Cunningham, tutta la famiglia Inglese, soprattutto quando, oltre agli appena rinati Prodigy, le sonorità più i video citati sono esclusiva Squarepusher. Il live continua con altri 45 minuti, questa volta di vero brand della Casa: un’arena poliritmica fatta di codici morse, ritmi robo bastardi e gran casino generale. Una wrek-tronica comandata a pedale e smanettata con il maledetto basso che, fortuna nostra, contiene l’attitudine fusion per un funk angolare ultra pompato, slappa memore di quei grandi dello strumento citati sempre che in sala nessuno conosce (forse Jaco Pastorius e Les Claypool). Le luci, dicevamo, sono inumane, una sala giochi e il piccolo Guitar Hero che c’è in ogni Tom ci fa sorridere con un inevitabile retrogusto di nostalgia che oramai aleggia in questo incorruttibile desiderio Tech. Edoardo Bridda squarepusher David Byrne 20 aprile //C lub : T eatro F il armonico , V erona Il Teatro Filarmonico di Verona è una bomboniera solenne e preziosa: stucchi, cristalli, ori, velluti, balconcini e loggione, roba che dopo un quarto d’ora ti aspetti che piombino sul palco non meno che un Otello o una Mimì. Invece, ecco sciamare in perfetto orario la gioiosa combriccola allestita da Mr. David Byrne per celebrare i frutti del pluriennale sodalizio con Brian Eno. Sono in dieci, tutti biancovestiti, batteria, percussioni, tastiera, basso, tre coristi e tre ballerini, più il leader ovviamente con la criniera candida e l’aria allampanata da Steve Martin del pop-rock. È un party, non ci sono storie. Condotto con dinamismo e maestria, sfruttando con leggerezza e implacabile competenza le tensioni sonore, le distensioni coreografiche e l’impasto fra queste. Se volete, è l’onda lunga dello stop making sense spinta ad alleviare gli spiriti affannati della contemporaneità. Gli astanti assistono con entusiasmo sì ma anche con la compostezza che conviene alla location, almeno fino a Crosseyed & Painless, quando qualcosa s’innesca incendiando l’estatico idillio. Allora i culi si separano dai velluti delle poltroncine e scattano le danze nei corridoi e sotto il palco. A quel punto di svolta sale in cattedra il vero protagonista della serata: si tratta di un solerte funzionario di sala che, con spirito encomiabile, approfitta della relativa quiete della successiva Born Under Punches per far rientrare gli scalmanati nei ranghi. Roba da non credere: con puntiglio sacerdotale e cipiglio militaresco riesce a far tornare ogni culo sul velluto di competenza. Tanto fideistico zelo mi smuove una insospettata tenerezza, che raggiunge la commozione quando le successive Once In A Lifetime, Life During Wartime e una clamorosa Poor Boy scatenano la bolgia definitiva, che vivrà apoteosi col secondo bis, una Burning Down The House eseguita dagli undici allegri officianti rientrati sul palco con un buffo ma dignitosissimo tutù. Scorgo il funzionario ormai arreso alla soverchiante forza del nemico, lo seguo mentre si dilegua avvolto in un’incazzatura palpabile e scorbutica come uno sciame di vespe. È una figura esilarante e patetica, meritevole d’essere eletta a campione di chi non recensioni / 99 david byrne mi ami concepisce - non per colpa sua, s’intende, ma per incommensurabili zavorre e retaggi - la possibilità di un’espressione artisticamente divertente e divertita. Il pezzo di commiato Everything That Happens (Will Happen Today) si rivolge idealmente anche a quelli come lui. Ma, meschino, non lo saprà mai. Stefano Solventi Mi Ami 18 aprile //C lub : I nit , R oma Sfidando il traffico infernale di un sabato sera primaverile di Roma – e soccombendovi senza possibilità di scampo – arriviamo all’Init giusto in tempo per assistere al concerto dei Mi Ami, headliner di una serata a grosso voltaggio rock con i garagers olandesi The Madd e i nostrani The Rippers e Steelfingers a scaldare cuori ed amplificatori. Salgono sul palco i tre Mi Ami e solo al guardarli capisci quanto sono nerd e impossibili da catalogare. Proprio come la loro musica. Damon Palermo alla batteria è intento a collocare un campanaccio sopra il rullante con una tale cura che sembra che le sorti del live si decideranno da quei pochi rintocchi; Jacob Long sembra appena uscito da un convento con quella sua barba da monaco e ha una espressione talmente assente che sembra capitato sul palco 100 / recensioni per sbaglio. Daniel Martin-McCormick, scheletrico e stralunato, è uno sbarbatine ventenne che si presenta scalzo e timidissimo, quasi impacciato di fronte all’audience. Appena però attacca la macchina Mi Ami – senza bisogno di soundcheck o di riscaldamento alcuno – si capisce che non ce n’è per nessuno. Quella del trio americano è una vera e propria macchina da guerra. Che non fa prigionieri, ovviamente. Si è lì, tutti, completamente rapiti dal furore punk e dal tribalismo funk del trio, tanto che un Martin-McCormick affatto timido (le prime impressioni, si sa, non sono mai esatte) chiama a sé il pubblico, lo vuole nel sottopalco, vicino al cuore della propria musica. Musica che, come dimostrava l’ottimo Watersports, è nera come la pece, di un nero africano, primordiale, tribale e percussivo, tanto quanto è bianca, sub-middle class, white trash che accatasta su di sé i rimasugli del punk 77 e della no-wave più arty. È urgente la musica dei Mi Ami. Urgente e bruciante. Di una urgenza urlata e stridula che non ha pietà per le orecchie di chi ascolta e che fa di McCormick una silfide incastrata in un corpo da uomo, di Long un metronomo inflessibile e di Palermo un cuore pulsante senza soste. Non c’è pausa. Non c’è possibilità di tirare il fiato. Se su Watersports c’erano vuoti pneumatici di matrice dub, live la sensazione è quella di un continuo pugno in faccia. Sono giovani, i Mi Ami, ma hanno il suono, oltre che l’età, dalla loro parte. Un grazie sentito ai ragazzi dell’Init per la passione con la quale continuano a mettere su un cartellone di estrema qualità. Stefano Pifferi Ktl 28 marzo //C lub : B ronson , R avenna I commenti in sala sono sempre il massimo dalla vita. Belli netti, grezzi e senza incertezze. Frasi buttate li come gli eroi di Carpenter. Sputate senza pietà e con la sicumera da vecchio West nostrano che è anche la nostra Romagna. Alle volte sono delle vere genialate come quella che un noto affezionato degli happening Indie mi ha rifilato tra capo e collo.“Questo è il nuovo kraut” dice Mr No e, tra il fumo tossico di Reberg e i delay di O’Malley, è la sentenza definitiva di un processo cortissimo e deludente. Per il noto chitarrista e il londinese Peter Rehberg, quella del Bronson è stata la classica data “filling” e non li biasimo. Inevitabile che il cartellino lo si timbri con un siffatto impianto. Meglio ancora: utopico pensare un coinvolgimento e un trasporto mesmerico ai massimi livelli ad ogni sacrosanta esibizione, come se chiedessimo loro d’evocare gli inferi ogni volta. Dura, del resto, accontentarsi del professionismo di base pur con la garanzia di non scendere sotto la soglia di un metal ambientale ultra patinato per ragazzini brufolosi. Il pubblico ha dimenticato i vent’anni da un bel pezzo e le motivazioni d’interesse, sotto gli sguardi attoniti e un po’ annoiati, s’aggirano proprio attorno a quella parola di cui tanto si parla in questi ultimi mesi, il Kraut, evidentissimo nell’elettronica rumorosa e spaziale di Rehberg, e nei pulviscoli di suono dello svedese. Dal grand guignol metal si è caduti poco lontano dal rigor mortis secondo i teutonici. Pur senza la paura che quei suoni provocavano e evocavano. Eppure, ancora in parallelo, allora come ora, la penetrazione psicologica o quel senso di mistero si fanno al di fuori di un sound chiuso e autoreferenziale. Senza appigli melodici. Senza presenza umana. Era il cosmo a fare paura e non la musica. Così, figuriamoci oggi, niente panico per i due KTL. Niente studio di frequenze alla Throbbing Gristle. Nessuno thrilling. La loro è una catarsi Post (Rock), l’altra faccia della medaglia. Non è forse vero che il suono Slint più dilatato andava a cadere tra Berlino e Colonia? Il cerchio si chiude. Come pure i nostri ragionamenti finiscono assieme a un deludente concerto di sessanta minuti. KTL sono un progetto tra i tanti di OMalley. Per farlo funzionare non basta l’affiatamento bensì l’esperienza e le costrizioni del lavorare assieme continuativamente. Edoardo Bridda recensioni / 101 WE ARE DEMO #36 I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di S&A.Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi. Bancale - Bancale EP Trio orobico allestito nel 2006 da Luca Barachetti (voce) e Alessandro Rossi (chitarre) cui si è aggiunto Fabrizio Colombi (già Infarto Scheisse!) ai tamburi. Questo ep d’esordio contiene cinque pezzi ovvero il coagulo di un biennio speso a mettere a punto un linguaggio radicato nel blues, scarno e intenso, spampanato di cupe proiezioni post, tra percussioni che si aggirano misteriche e il ghigno noise delle chitarre mentre la voce mormora uno spleen melmoso attorno a temi riconducibili al Ferretti periodo CSI e ai più affini Bachi Da Pietra. Non mollano neanche per un attimo, ci stanno dentro con tutti e due i piedi, con la testa, stomaco e cuore. Non cercano esorcismi né liberazioni, ma una disanima che ti scuota e t’inchiodi. Devo dire che ci riescono piuttosto bene.(7/10)SS Fasti (I) - Lei si è alzata dal sordo mormorio C’erano una volta i Seminole da Torino, noiseband con una lunga storia alle spalle e un presente evidentemente poco sostenibile. La loro dissoluzione ha dato vita a I Fasti, due bassi, chitarra, voce ed elettroniche, esteticamente in scia Offlaga Disco Pax però come allucinati in una poetica più febbrile, visionaria, rabbiosa, sia per quanto riguarda i testi (declamati con un piglio mediano tra il Ferretti dei bei tempi e un Freak Antoni catatonico) che le musiche, sperse e ossessive come una wave maldigerita Warp. Hanno il torto di essere arrivati dopo, irimediabilmente dopo alla band di Collini, già abbastanza definitiva di suo. Non escludo però che possano ritagliarsi un loro ambito peculiare, non mancandogli competenze, vena, attitudine. (6.8/10)SS 102 / recensioni Granits - Where Trees Are Shaped Like Smiling Guillottines Suonano bene, in qualche caso ci si scuote pure per l’energia che riesce a trasmettere la loro musica, tuttavia sembrano avere le idee un tantino confuse. Nel senso che ci si ritrova a interagire con brani che richiamano parabole emo-dark (Wine Skinned Overdose), intermezzi wave piuttosto canonici nello stile (Onion And Dedalus) e incursioni interlocutorie in territori post-rock (New Style Of A Bad Insomnia). Insomma, moltissima carne al fuoco in pochissimo spazio, come se il disco in oggetto fosse un post-it e non una pagina bianca. Su cui scrivere in fretta e senza curare la grafia, sacrificando così sull’altare dell’immediatezza un linguaggio potenzialmente elegante.(6.1/10)FZ Inbloom - Cloud Trails Inbloom ovvero Stefano Panza ma anche - in arte Opal, bergamasco con la fregola electro dark parecchio pronunciata. Casomai vi stuzzicasse una ricettina a base di ugge Joy Division, tremori sintetici Depeche Mode e sguardo torvo Trent Reznor, non esitate ad avventarvi su questo Cloud Trails, esordio covato per almeno tre anni - dacché il progetto è in piedi - e quindi bello turgido e cupo con le sue tredici tracce scaricabili gratuitamente dall’official site (sotto licenza Creative Commons). Detto che non è la mia cup of tea, non nascondo di aver apprezzato la cura dei dettagli, così come l’intensità oserei dire fideistica o se preferite la convinzione che pervade gli “ambienti” sonori. Che sanno concedersi strane deviazioni come quella sorta di Rockets avariati Moroder di Conceit o gli effluvi ambient-world come sostrato di Underskin: Awake. (6.7/10)SS Törst - Po(p)tential I Törst sono un duo sulla breccia da una dozzina d’anni, da quando cioè i salentini Paolo Marcellini e Adriano Elia decisero di allestire questo percorso parallelo agli Exu’, band undeground in cui militavano dal ‘93. Con la nuova ragione sociale sfornano un bel po’ di titoli sperimentando sonorità disparate in un turbillon stilistico che chiama in causa - riporto quasi testualmente - kraut, psych e minimalismo passando per l’immancabile post, il kraut e l’ambient. Con Po(p)tential, album numero nove, tentano un approccio più accessibile, una sorta di folktronica terrigna, discreta, sì carezzevole però abbastanza schiva per non dire austera, frutto poco appariscente che sotto la scorza nasconde polpa succosa, maturata nei tempi e nei modi che dicevamo, capace di risolvere complessità che avvertiamo in filigrana. Un gradevole piccolo mistero difficilmente inquadrabile, miraggio desertico tra caligini mediterranee, ugge metropolitane e fragranze bucoliche, sostenute dalla calma dei forti o dei disillusi non saprei ben dire. In ogni caso, molto bravi. (7.2/10)SS Lowave - Warpage Quattro pratesi meno che trentenni alle prese con una wave scossa da tremori electro e percorsa da brume autoriali, ciò che li pone più o meno al centro di una quadratura Notwist, Placebo, gli U2 nel guado tra War e Pop e un pizzico di quel Paolo Benvegnù che non a caso li ha aiutati a confezionare questo Warpage. Sette tracce dal tiro spigliato ed essenziale, forse fin troppo pulito, fidando più sulle soluzioni soniche (i sampler, i loop, l’action painting digitale) che non sulla passionalità per condire le melodie. Il che va bene, scelta stilistica indiscutibile, però temo che per scuotere il pachiderma occorra pungolarlo più in profondità. Dateci dentro!(6.7/10)SS Retrolover - E.P. Creature ambigue e affascinanti questi Retrolover. Li incontri sulle note di Ade e ti viene da paragonarli a dei Nirvana punk-rock, solo un pizzico più melodici; ci fai due chiacchiere con Lo stesso e ti vengono in mente dei Verdena con una spiccata vena pop; li ascolti in Siberia e vedi in loro degli Afterhours traviati dal rumorismo dei Marlene Kuntz. Le costanti rimangono le chitarre elettriche – grasse e rumorose – e testi essenziali ma efficaci, per un suono pulito e a buon punto di maturazione. Anche se l’impressione è che ancora non si viaggi a pieno regime, soprattutto nei brani meno “d’assalto”. (6.5/10)FZ Stephane TV - Self Titled EP Quintetto pavese in azione da inizio 2008, gli Stephane TV ci sottopongono il frutto del loro elucubrare con un EP d’esordio omonimo all’insegna del pop-rock cosiddetto “indie”, cantato in inglese, le chitarre che s’intrecciano con tensione accorta e indolenzita, le melodie pervase di inafferrabili retaggi dEUS, Tears For Fears, Pastels, David Sylvian, Prefab Sprout e poi avanti verso le apprensioni di Editors e certi struggimenti Manic Street Preachers. Impressiona la matura compostezza dell’insieme, da cui non ci possiamo attendere che sviluppi interessanti. (6.9/10)SS Two Left Shoes - Two Left Shoes EP Leggiamo sulla biografia del gruppo che tutto è iniziato “coverizzando” Strokes, Dirty Pretty Things, Pixies e Artic Monkeys. Ora dalle cover si è passati ai brani originali ma le cose non sono cambiate poi di molto, se è vero che con i quattro episodi in scaletta si frequentano, grossomodo, sempre le stesse compagnie. Con fare fin troppo rispettoso, verrebbe da dire, visto il ritmo perennemente in levare, le chitarre ripetitive e un cantato che rimanda ad articoli pregiati soprattutto del campionario della band di Julian Casablancas. Un minimo di originalità in più non avrebbe guastato, questo è certo, considerata anche una scrittura che nonostante i rimandi evidenti, pare comunque possedere una propria ragion d’essere.(6.5/10)FZ recensioni / 103 the monks il tempo dei monaci - Gaspare Caliri 104 / Rearview Mirror Ormai non sono più così sconosciuti; il loro straordinario disco è già stato sdoganato, recuperato, riascoltato da molti. Ripercorriamo tutta quella vicenda aperta e chiusa in un paio d’anni, che c’è chi dice sia stata profondamente influente. Il tempo dei monaci. U na storia da raccontare “Read on! It’s monk time - it’s hop time. Don’t read this.We said: don’t read this.” (dalle note di copertina di Black Monk Time) La storia è di quelle che si sentono una volta e poi si corre dagli amici a diffonderla. Gustosa, ma attenti; può classificarvi come dei fissati, non proprio dei nerd, ma dei cultori dello stesso aneddoto. In effetti gli elementi ci sono tutti per farvi pervenire a questo stato dal punto di vista dei vostri ascoltatori. E però oggi il caso vuole che una concomitanza di ristampe ci faccia finalmente riprendere quella storia e ri-diffonderla. Non che sia una fragile tradizione orale da mettere per iscritto, anzi; ha fatto la sua comparsa in un libro arcinoto, il libro più famoso sul krautrock. Ovviamente si tratta di Krautrocksampler di Julian Cope, quella breccia, uscita a metà dei Novanta, che con entusiasmo intaccabile ha rimesso in circolazione un giro di nomi che arrivando dalla Germania già si sentivano nominare in Inghilterra tra fine Sessanta e inizio Settanta. Un libro da infervorato appunto ma soprattutto una guida personale, come l’autore tiene a sottolineare a più riprese; ciononostante non scevra di alcuni spunti interessanti da un punto di vista più ampio rispetto a quello musicale; diremmo culturale; ed è qui che – nel discorso introduttivo alla nascita del krautrock – trova posto la vicenda di The Monks. Parliamo dunque di un primo importante tassello, che riguarda l’importanza, quando si parla di krautrock, di sviscerare la relazione tra rock tedesco e rock anglosassone. Uno di quegli elementi sociali che Cope mette a fuoco è appunto quanto la Germania dell’Ovest di metà Sessanta fosse vittima dell’impero, e quanto ne fosse lontana provincia disposta a subire l’imprinting. Il rock era arrivato ai tedeschi d’Occidente e ne aveva irrimediabilmente colpito i giovani. Eppure quella cosa da far strapazzare i corpi era già virata in un ambiente che oggi chiameremmo senza misure mainstream. Era musica commerciale che seguiva l’andamento delle vendite, punto. In quel contesto cercarono forse inizialmente di inserirsi cinque ragazzi americani di stanza a Francoforte, cioè in trasferta forzata in Germania in quanto GI – cioè militari di fanteria, soldati semplici - a copertura di uno dei baluardi dell’Occidente verso la DDR e il mondo sovietico. I loro nomi sono Gary Burger, Larry Clark, Dave Day, Roger Johnston e Eddie Shaw. Iniziano a suonare insieme – tutti tranne Roger, che si aggregherà un paio di anni dopo, già nel 1962. Nel 1964 la formazione è fatta; il nome che si scelgono è The Five Torquays, poi semplificato in The Torquays. Gary, oltre a suonare la chitarra, è la voce principale, ma ai cori partecipano tutti; Larry si dedica all’organo; Dave, Roger ed Eddie si occupano invece, come si confà a un gruppo tradizionalmente rock and roll, della sezione ritmica, rispettivamente chitarra ritmica, batteria e basso. I cinque iniziano a suonare nei club di mezza Germania (non è un modo di dire, come potete immaginare), da Heidelberg a Berlino, e si prestano alla tendenza di cui sopra; cercano di riprodurre gli standard che in quegli Rearview Mirror / 105 anni gli ambienti anglosassoni propongono; fanno cover di Chuck Berry, scimmiottano la surf del paese d’origine e seguono naturalmente gli esiti di quella che oggi (dopo la Seconda, forse anche la Terza, la Quarta, chissà) chiamiamo la First British Invasion. Insomma partecipano a quella funzione ideologica, stando al post-strutturalismo delle scienze sociali, che la musica giovanile stava acquisendo nella Germania legata alla NATO. Eppure basta un anno e poco più perché si crei quello scarto che oggi ci invita a parlarne. I cinque giovani americani si stufano presto di seguire le mode del rock a loro coevo di altre parti nel mondo; cosa che li fa arrivare all’attenzione di quegli altri giovani musicisti in erba che in quelle lande stanno studiando composizione con Stockhausen; coloro che in quegli anni ancora considerano i generi sbarbini della musica popolare anglosassone come un gioco da classifica o poco più; i futuri krautrocker, insomma. T empi monastici Di fatto i Monks alla fine del ‘65 scoprono di voler sperimentare un poco, con la propria musica, con lo spasso di suonare, con la propria immagine, con gli automatismi del rock, e con la provocazione di testi e argomenti anti-militareschi. Anziché scegliere uno stile o un altro tra quelli che si davano il cambio in America o Inghilterra, iniziano a miscelarli tutti; anziché selezionare un registro o un altro – quello “militante” o quello comico, quello pop o quello grottesco - danno vita a un calderone; atteggiamento per Cope non così lontano dal krautrock prossimo venturo. Alla fine dell’esperienza Torquays iniziano a registrare quel fantastico e incomprensibile (senza argomentazioni contestuali) capitolo che è stato Black Monk Time. Cambiano il loro nome in “Monaci” e per sottolineare l’estetica pro- 106 / Rearview Mirror vocatoria – ma anzitutto caciarona – si fanno rasare la sommità del capo; si fanno la chierica, come il loro nuovo statuto immaginifico impone. Ma soprattutto immolano tutta la propria musica al sacro fuoco della percussività. Se devono salvare una cosa del rock’n’roll, quella si chiama beat, non di certo melodia. “Bam, bam, bam. Over-beat”, come sottolinea con un guizzo di espressività quasi-verbale Eddie, il bassista, le cui quattro corde diventano settimana dopo settimana sempre più una massa critica amplificata al limite. La chitarra ritmica di Dave diventa un banjo suonato esclusivamente dandoci di pennate, come un tamburo armonico. Roger elimina quasi del tutto i piatti dal proprio strumento e si dedica esclusivamente all’ipnosi folle dei tamburi. Non solo: è forse la “prima” chitarra di Gary a subire lo stravolgimento più interessante, se valutato con la profondità del tempo. Accade infatti che, dopo un anno di tentativi per trovare il timbro giusto, un giorno il nostro abbandona le prove per fare pipì e si dimentica amplificatore e volumi al massimo. Il frastuono che ne risulta sorprende gli altri Monaci, che lo trovano strabiliante e iniziano a suonarci sopra. Una piccola invenzione del feedback come migliaia di altre volte sarà capitata. Un aneddoto che permette a Gary di usare il rumore della sua chitarra come parte del tribalismo rock’n’roll che permeerà Black Monk Time, - che esce nel 1966 per la Polydor - dall’iniziale Monk Time alla finale That’s My Girl, passando per la citatissima Complication, con quel suo testo anti-militarista, urlato nelle balere tedesche a gente che non capiva una parola di quello che gli veniva blaterato addosso. Ciò a cui spesso poi non si fa riferimento rispetto ai Monks è proprio quel lavoro di ricerca, condotto soprattutto in studio; un’attenzione recuperata solo negli ultimi anni, specialmente grazie a due raccol- te/ristampe: Demo Tapes 1965, uscita a inizio 2007 per la Munster Records, e Early Years, appena pubblicata dalla solita Light In The Attic - responsabile anche di una agognata (vedremo perché) riedizione di Black Monk Time, in doppio vinile a 180 grammi. Raccolte dove si sente maggiormente il filtro della produzione soprattutto rispetto all’unico album dei Monks, dove l’impatto vitale del combo si accompagna a una resa quasi mono, per virulenza e fedeltà dell’effetto live; cosa che sarebbe stata impossibile, sottolinea ancore Cope, se questo disco fosse finito nelle mani di un’azienda musicale britannica. Immaginatevi dunque cinque ragazzi maturi vestiti da monaci e con la chierica in testa fare a gara di ritmo tra di loro. Ma non fatevi ingannare dalle parole scritte sopra. Lo sperimentalismo dichiarato ed esplicitato in maniera intellettualistica è assente. Ciò che funziona di Black Monk Time è il fatto che questa musica è comunque r’n’r. I cori sono orecchiabili e “mongoloidi”, il piglio è sempre ballabile. Le canzoni sono canzoni, il cantante scimmiotta ancora gli shouter. E però il tutto è un marasma tribale eppure evoluto, un ritmo corale; e tutto viene fatto con un senso del paradosso di suonare musica aliena per un popolo alieno. Il disco non vende e inaugura commercialmente una vicenda che non ha mai permesso a questi cinque pazzi di fare dei soldi. Ne seguono appena due singoli, in totale quattro ulteriori canzoni che già segnano un allontanamento dall’aspetto sanguigno dell’album. E poi lo scioglimento del gruppo, per trent’anni. Il resto della storia ci parla di una reunion, a fine Novanta, dove come spesso accade i figlioli prodighi tornano a casa; una tournèe negli Stati Uniti, dunque, compreso un documentato concerto a New York a cui Gary arriva con la bronchite, con evidenti problemi vocali conseguenti. Ci parla anche dell’ennesima sfortuna commerciale legata alla prima riedizione di Black Monk Time in CD, avvenuta nel 1994 per iniziativa della Repertoire Records; operazione dichiarata illegale dalla Polydor – detentrice dei diritti di produzione – e mai riconosciuta dai cinque ex-giovani e ormai attempati rocker americo-germanici. Pare addirittura che la cosa sia stata possibile grazie al furto provvisorio di un master da parte un funzionario della Polydor, che poi ha rimesso tutto a posto, senza farsi accorgere. Oggi le cose paiono cambiate, se è vero che i Monks segnalano come una liberazione la ristampa della Light In The Attic di cui sopra. Concluderemmo la vicenda condendo ancor più l’influenza che la band può aver avuto sopra i rocker di mezzo mondo, e soprattutto segnalando una linea di lettura che imparenti in qualche modo il loro sound con quei Nuggets a metà Sessanta ancora misconosciuti, e che fecero il botto quando il krautrock era esploso e già abbondantemente masticato. Ma la mossa migliore è chiudere con l’immagine dei cinque Monks che urlano in un falsetto surreale in una bettola di Francoforte. Cosa urlano? “It’s monk time!” Rearview Mirror / 107 Ristampe Ensemble Pittoresque - For This Is Past (Clogsontronics, Lug 2008) G enere : post - punk / minimal - electro / synthpop Il mondo di Ensemble Pitoresque era quello del post-punk più oscuro, delle macchine e del diy elettronico. I nomi sono quelli aurorali della scena. Uno su tutti i Cabaret Voltaire, quelli tra 78 e 82. Ma anche quelle atmosfere mitteleuropee che spopolarono a un certo punto in ambiente britannico. Il fatto è che però gli Ensemble Pitoresque erano olandesi, e quindi non dovevano troppo vagare per ritrovare i sapori dell’Europa Centrale e portarli nel post-punk. Better Life’s, la prima traccia di For This Is Past - esordio del combo datato 1983 -, è infatti un incrocio pressoché da manuale tra The Normal di Warm Leatherette e gli Ultravoxdi Vienna– a loro volta ibridati con i Kraftwerk, ovviamente. L’album è stato da poco ristampato dalla rinata Clogontronics, etichetta olandese gestita dagli stessi Ensemble che li produsse venticinque anni fa e oggi ne ripromuove le vene, a dir loro, minimal-electro, forse meglio definibile come proto-synth-pop, anche a fronte di Artificials, un electro-pop ante-litteram, con tanto di incastri tra drum-machine ed elettronica giocattolo e para-sci-fi. I toni sono cupi, dunque, ma con una scrittura non banalizzata. E se generalmente il viaggio del postpunk verso le terre germaniche passava generalmente dall’Inghilterra, qui una cosa interessante è la ripresa più alla lettera dei Kraftwerk, messi a distanza solo dalle drum-machine (indice chiaro dei tempi), ma neanche troppo. Ralf & Florian sono regnanti sovrani in O.B.W.T., in Maitre Satori, e in molti altri brani. Non male neanche la narrativa industriale di Building Brains, quasi IDM, per certi attimi, e forte dell’intuizione di una frase-refrain-tema ripetuto (e “concreto”) che accumula tensione nella sua ripeti108 / Rearview Mirror tività. Gioco ripetuto nella successiva Lovesong, brano per cui ce la sentiamo di citare Klaus Nomi, perché denota un fenomeno evidente, che va sempre messo in rilievo: l’ironia. Del resto si deve andare quasi all’analisi testuale, per giudicare queste uscite; il resto è un retroterra abbastanza scontato, storicizzato, su cui giudicare è automatico, e soprattutto rischia di essere vincolati ai gusti di ognuno. Detto questo, gli Ensemble Pitoresque li consiglieremmo senza meno da ambedue i punti di vista. (7.1/10) Gaspare Caliri Fred Fisher Atalobhor - African Carnival (Vampisoul, Mag 2009) G enere : afrofunk Gli anni Settanta furono un periodo musicalmente assai eccitante per la Nigeria, tra gli stati africani il più vicino agli Stati Uniti da poterne approfittare, sviluppando una personalissima reinterpretazione di soul e funk. Torna sull’argomento la Vampisoul dedicando un doppio cd a Fred Fisher Atalobhor, trombonista, cantante e compositore nato nel ‘51 e attualmente attivo come sessionman. La sua reputazione, che procacciò addirittura un contratto con la EMI, è soprattutto dovuta all’asolo rock, miscuglio di funk e afrobeat benissimo esemplificato sul primo dischetto dai cinque brani di Say The Truth, 33 giri edito nel 1979 dalla Afrodisia. Meraviglioso nel suo snodarsi fluviale e dilatato tra l’omonimo, luminoso “quasi rocksteady” e una Iye-Ye-Mu/Elediamemisise d’ineffabili storture; fenomenale nell’intricata selva di chitarre, ritmico rimbombare e fiati possenti AsaSa (madre di Talking Heads e Peter Gabriel) e l’urban-funk clintonianamente sardonico Open The Door. Lo chiudeva la disco stranita di Let Love Free e sarà la pista da ballo, due anni dopo, a catturare il Nostro e relativa Ogiza Dance Band per No Way, album in toto danzabile senza tuttavia stupire. Che, va da sé, finisce per influenzare il giudizio complessivo su African Carnival, così come la scarsa resa sonora di un pugno di tracce tratte da Wahala Dey For Town, opera più solare che nell’88 segnava un certo riscatto (edita - con l’altrettanto discreto Ogiza del ’90 qui incluso - dai tipi EMI): crepitii di fondo esclusi, esse sono fastidiosamente “fuori giri” e non si può non tenerne conto. Spiace molto perché indice di poca cura, elemento che nell’ambito delle ristampe rappresenta parte consistente del piacere. Auguriamoci che si tratti di svista momentanea, poiché alla salute della label ispanica ci teniamo, eccome. (7/10) Giancarlo Turra Fridge - Early Output 1996-1998 (Domino, Apr 2009) G enere : post - rock Per una volta non si può dire, alla notizia di una nuova uscita di Kieran Hebden, “ma quante ne fa?”, perché Early Output è una raccolta di brani registrati da Hebden nel triennio ’96-’98 insieme ai Fridge, sua vecchia formazione post-rock; chiaro che dei Fridge qui ci siano gli aspetti più acerbi, ma anche i dilemmi delle cose che sono venute appena dopo. Eppure diciamo subito che, primo, almeno nella prima metà del disco, l’ascolto procede con buona tenuta; e che, secondo, la misura e il peso con cui prendere questa raccolta è forse di eserciziario, quale in fondo era, questo progetto dell’uomo “nella sua stanza con laptop”. Ci sono brani di Ceefax e Semaphore e quindi c’è l’aura degli zii d’oltreoceano, di quei Tortoise che basterebbe citare per abbracciare gran parte di queste numerose tracce. Come certamente si riconoscono perfettamente anche altri tributi dei primi output dei Fridge, partendo per esempio dai Mogwai in Helicopter, giusto per citare il pilota automatico forse più fastidioso; l’inciso che va di seguito è che nella mente dei Fridge non transitava l’associazione necessaria Mogwai-forte/piano; e quindi i Mogwai da loro rivisitati sono quelli più tenui, meno adolescenziali, quelli delle tracce meno rimaste note dei primi dischi, Young Team su tutti, ovviamente (Concert In Your House). L’ascolto si fa innegabilmente più interessante con la ripresa senza imitazione pedissequa di alcune tecniche dei June Of 44 di Four Great Points (Lojen e Anglepoised), allora ancora a venire, peraltro; come degli Ulan Bator della prima maturità. Ciò detto, il resto è appannaggio dei Tortoise delle tracce conclusive di Millions Now Living… - anche qui con una menzione in merito, cioè il modo in cuiAstrozero va in un crescendo finale abbastanza inedito, rispetto ai chicagoiani. Come in Distanceci convince, pur nella struttura classicamente tortoisiana, il break che ci racconta di quegli anni a Canterbury… Esercizi, prove, appunti; fuori il dente che non fa male e così dopo ci sarà posto per For Tet. Non è andata poi male. (6.9/10) Gaspare Caliri Lenny Kravitz - Let Love Rule (Virgin, Apr 2009) G enere : rock L’ultima, gustosissima, imprescindibile notizia riguardo al buon Lenny narra della lettera speditagli da Sarkò e Carlà, nella quale - dopo essersi dichiarati suoi devoti fans - richiedono i di lui servigi quale producer per il futuro album della cantautrice presidenziale. Roba da Kravitz. Un’apoteosi glamour edificata a suon di pose ultrapatinate, dio tronista cui le più conturbanti muse e ninfette dello shobiz si concedono obbedendo ad un rituale di sacrificio e appartenenza, rutilante pruderie che relega il cimento artistico (un tempo) principale del buon Lenny - tra le altre cose rock star - a mero sottofondo da servizio televisivo marchettaro. Pensare che, un ventennio esatto è trascorso, il suo album d’esordio fece sobbalzare più di un recensore sulla poltroncina dei sudati ascolti, aggrappandosi al treno in corsa (senza macchinista) del rock-soul asperso di psichedelia. Correva il settembre dell’89: le tredici tracce di Let Love Rule furono una scossa elettrica e ormonale, acida e romantica. Un ricettacolo di singoli effettivi e potenziali (ne furono estratti cinque ma avrebbero potuto essere il doppio): dal torrido struggimento di My Precious Love alla morbida fricchettoneria errebì di Does Anybody Out There Even Care, dal vago lennonismo di Be al funk rutilante di Mr. Cab Driver fino ad una title track che interseca e impasta psichedelia sognante e black impetuosa. Di quella specie di prodigio che sembrò Rearview Mirror / 109 prefigurare nuove eccitanti possibilità di sintesi tra passato e presente, tra bianco e nero, tra rock e popular, la santa alleanza Virgin/Emi ci propone oggi una deluxe edition sontuosa, corroborata da diciotto tracce di cui quindici totalmente inedite. Detto che il secondo dischetto contiene pezzi live dell’epoca (tra cui spiccano una fluviale Fear e una incendiaria cover di If 6 Was 9 del buon Jimi Hendrix), gli affezionati al verbo kravitziano potranno altresì bearsi dei bonus in calce al programma originale, ovvero i consueti lati b dei singoli più i demo caserecci di Mr. Cab Driver, Fear e Let Love Rule, quest’ultima presente anche in un missaggio più ruspante. Quanto ai comuni mortali, casomai avessero da colmare la lacuna un pensierino lo facciano senz’altro. Per quanto mi riguarda, considero oggi questo disco meno cruciale di quanto ebbe a sembrarmi (troppi) anni fa, pur restando lavoro godibilissimo, turgido e lancinante come può sfornare soltanto chi spreme meningi, cuore e coglioni per fare la cosa al meglio anzi al massimo. Peccato che poi Lenny - il bel Lenny - abbia smarrito l’estro e l’immediatezza tra i molti festini, gli innumerevoli book fotografici e le mai troppe schermaglie amorose, posterizzandosi in un’epifania di se stesso di cui la musica è un alone accessorio, sempreché s’intoni con la più recente mise. Ovvero: Lenny, geneticamente predisposto per fare la rock star, si pose fin da subito quale obiettivo la massimizzazione del successo. In ciò non v’è nulla di male. Anzi: finché utilizzò il rock come ariete per sbaragliare la piazza, ci regalò bei momenti, guadagnandosi ogni stilla di rispetto e ammirazione. Col tempo però le cose sono cambiate. Al punto che oggi sembra fare dischi per giustificare a se stesso e al mondo quel che si dice che egli sia: una rock star, appunto. Tra le altre - ben più goderecce - cose. (7/10) Stefano Solventi Mike Sammes Singers (The) - Hymns A\’ Swinging (Trunk Records, Mag 2009) G enere : exotica Meglio elencare i fatti prima che pensiate a una burla: Hymns A’ Swinging si compone di dodici inni sacri cantati dai Mike Sammes Singers col supporto strumentale del Ted Taylor Organsound e negli ultimi vent’anni pare essere diventato un solido - ahem - “culto” oltremanica. Stanco di bootleg e di veder gli originali su Davjon passare di 110 / Rearview Mirror mano a decine di sterline, Jonny Trunk alias Jonathan Benton-Hughes s’è deciso a ristampare il disco in cd dopo averlo reso disponibile in download. Capire cosa passi per la testa del Nostro non è impresa semplice e men che meno in questa circostanza: il problema è che sin qui si aveva proceduto al recupero di “musiche strane” senza cadere in un’autoreferenzialità priva di progetto. È la prima volta che rimani perplesso invece di sorridere, che noti l’assenza di un valore aggiunto - uno qualsiasi - capace di investire la mera stranezza di significati extramusicali. Perché l’idea di fondo (rileggere in chiave easy beat brani ascoltati in qualsiasi funzione domenicale britannica) non regge lungo quaranta minuti; reiterata, perde mordente e viene a noia. Lo confermano i brani più convincenti e che si sforzano di infondere vita tra le copie dell’iniziale Harvest Home: For All The Saints vira in lieve jazz un gioioso gospel bianco; Glorious Things Of Thee Are Spoken trasfigura Haydn con un groove orientaleggiante; He Who Would Valient Be e Immortal Invisible God Only Wise svoltano verso un’impronta errebì e qualche spigolo (soprattutto la seconda) grazie all’inserimento del sax di Tubby Hayes. Se al posto del sottoscritto ci fosse il simpsoniano Ned Flanders, Hymns A’ Swinging sarebbe la ristampa del mese. Così non è, ma suppongo che per farla franca col mio (poco più di) sei politico, tre “Ave Maria” basteranno. (6.3/10) highlight Funkadelic - Toys (Westbound, Dic 2008) G enere : funkadelia Deve essere ben radicato il culto nei confronti di George Clinton se, dopo le riedizioni del suo foltissimo catalogo, tuttora si cerca una qualche rivelazione. Sarà perché la fame di musica che stimoli cervello e fianchi è viva più che mai e oggi non sai quasi dove rivolgerti? Tocca per lo più scavare nel passato e questo fa difatti Toys ripescando session del periodo ‘71-’72, quando cioè Funkadelic erano stilisticamente ben distinti dai Parliament. Nel corso del decennio le due anime si sarebbero pian piano fuse, nondimeno qui il suono si racconta peculiare fratello di Sly e Jimi, decolla da fondali urbani verso lo spazio profondo, sposa impeto e raffinatezza. Nel magma sonoro risalta in particolare il ruolo di Bernie Worrell, evidente nell’organo grasso di The Goose That Laid The Golden Egg e nella fluviale Slide On In, ma soprattutto in Magnififunk, incrocio stordente tra suggestioni classiche, ribollire alla Booker T. e sottigliezze degne di Herbie Hancock. Sul puntuale e secco rintoccare della ritmica, l’altro asso Eddie Hazel è poco più che ventenne ma scaglia la sei corde oltre il sistema solare con fare da veterano. Non manca insomma nulla di quanto fece immensa la funkadelia: senso per le radici e la loro contemporanea trasfigurazione (Talk About Jesus un finto gospel in sardonico zoppicare jazz…); strutture intricate che si sviluppano con naturalezza da lasciare allibiti (Vampy Funky Bernie: i Meters catapultati dentro Tago Mago; Heart Trouble: un anticipo di Remain In Light); abilità nel flettere i muscoli senza forzature, lasciando la musica libera di sgorgare e impossessarsi dell’esecutore come per il Miles Davis in versione elettrica e i Can (un’ineffabile, atemporale Stink Finger; la “karaoke version” di Wars Of Armageddon). Ciliegina sulla torta - dal gusto misto di cioccolato e acido lisergico - un video girato nei primi ’70, che ritrae i Nostri un po’ Magic Band a martedì grasso e un po’ psicotici in libera uscita. I fan gradiranno assai lo scavo negli archivi che, a questo punto, supponiamo definitivamente prosciugati; tutti gli altri si procurino prima una copia di Cosmic Slop.Vedranno, costoro, che culo e mente gli si libereranno in un battibaleno. (7.3/10) Giancarlo Turra Giancarlo Turra Victor Olaiya - All Stars Soul International (Vampisoul, Mag 2009) G enere : highlife “Pensavano che avessi tolto la Highlife dall’ordinarietà: credevano che il mio modo di suonare fosse un po’ fuori dagli schemi, ecco perché mi chiamarono il Genio Cattivo della Highlife.” Così parlò Victor Olaiya, oggi settantasettenne e ancora nome poco noto a noi europei causa la scarsa circolazione di reperti discografici, nondimeno considerato nel paese natio un Dio o quasi lungo gli anni ’50 e i primi ’60. Ne fa fede un curriculum chilometrico che, riassumendo, lo vede a sedici anni agli angoli delle strade di Legos con la cornetta a capo di un nutrito ensemble per passare poco dopo nelle migliori formazioni highlife; infine fondarne una propria, i colà gloriosi Cool Cats, nella quale passarono fior di musicisti e tra costoro Tony Allen, Sunny Ade, Fela Kuti. Gli All Stars furono il passo immediatamente successivo allorché - tra 1967 e 1970 - lo juju sostituiva la musica da ballo sullo sfondo della guerra del Biafra. Tragedia cui il Nostro rispondeva con gli All Stars Soul International e - sull’onda di una sessantottesca visita in Nigeria di James Brown - se ne usciva alla fine del conflitto di cui sopra con questo ellepi. Evidente modello omaggiato in una brevissima Mother Popcorn e in una Cold Sweat personale quanto basta, “Mr. Dynamite” è altrove parafrasato seguendo il gusto locale, ovvero schiacciando il pe- dale di fissità ritmica e ottoni selvatici (Let Yourself Go, I Feel Alright); swingando tra chitarre serpentine e vivacità percussiva (Okere Gwonko, Soro Jeje Fun Arogbo); proponendo un sensuoso crocevia tra soul e calypso virato jazz in New Nigeria, una Everybody Needs Love dal liquido solismo chitarristico e il funk sardonico Magic Feet. Pur non sempre a fuoco, questa mezz’ora resta gustosissimo e intrigante assaggio che ci ha messo una voglia matta d’approfondire il passato remoto di Mr. Olayia. (7.2/10) Giancarlo Turra Rearview Mirror / 111 (GI)Ant Steps #27 classic album rev Thelonious Monk Fairport Convention Alone in San Francisco (Riverside, Ott 1959) Liege And Lief (Island, Nov 1969) Cosa fa di Thelonious Monk Thelonious Monk? Le partiture ambigue a metà strada tra melodia e stridore; uno stile rigido e compartimentato; una creatività che non teme la sindrome del pentagramma e confeziona strumentali sublimi con una naturalezza disarmante; il fascino sottile di una musica che prima di diventare esposizione corale è sussulto in solitaria, riflessività, introspezione. C’è una discografia solista nutrita quanto necessaria a dimostrazione, quasi a sottolineare che è nella forma più scarna possibile che risiede davvero la poesia di Monk. Composizione e scrittura prima che gesto tecnico, personalità che oltrepassa l’imborghesimento istituzionale del jazz per trasformarsi in una fissità stilistica quasi immutabile e peculiare. Da Thelonious Himself – pubblicato due anni prima di Alone In San Francisco – in avanti il suono del pianista americano trova un baricentro fatto di distonie, ritmiche pacate, temi immediatamente riconoscibili. Frutto di un lavoro di cesello sulle atmosfere che è profondamente legato all’intuizione e al fraseggio più che al virtuosismo, a un pianismo che di lì fino alla morte del musicista – avvenuta nel 1982 – non cambierà quasi più. La fine degli anni cinquanta e l’inizio dei Sessanta rappresentano per Monk il periodo più prolifico e fortunato della carriera, finalmente vissuto al centro dell’attenzione del pubblico e lontano dalle invettive aspre dei critici più restii a istituzionalizzare un sentire jazzistico così particolare. Universalmente riconosciuto come una delle personalità artistiche più eclatanti, grazie una proposta musicale slegata dai canoni estetici del tempo – il be bop, l’impegno politico, il free che verrà – e a un carattere solitario e stravagante. Una nota biografica, quest’ultima, sintetizzata perfettamente dalla musica di Alone In Oltre ad essere l’ultimo album registrato dalla formazione (quasi) al completo dei Fairport (il batterista Martin Lamble era morto, qualche mese prima, in un tragico incidente stradale, sostituito da Dave Mattacks), Liege And Lief rappresenta, per qualcuno, la chiusura di un cerchio, per qualcun altro l’inizio della decadenza della band più celebre del folk rock inglese che la storia abbia generato, negli anni in cui (verso la fine dei ’60) la musica giovanile, ormai matura, provava a riconciliarsi con le tradizioni popolari. Come ogni cosa che, improvvisamente, cambia radicalmente o quasi, una prospettiva, così l’album in questione, nel bene e nel male, ha rappresentato uno spartiacque, un punto su cui dividersi, tra chi, ancora, dopo il capolavoro di Unhalfbricking (pubblicato solo pochi mesi prima) considerava i Fairport come una sorta di versione britannica dei Jefferson Airplane e chi, invece, puntava tutto sull’aspetto folk della band di Sandy Danny e compagni. Rispetto al suo diretto predecessore, infatti, ricco di riferimenti dylaniani, Liege And Lief focalizza l’attenzione sulla tradizione britannica come mai prima. Attenzione palesata dalla scelta di inserire nell’album ben cinque brani (su otto, ma c’è da dire che le composizioni originali seguono, più o meno, la stessa impostazione) arrangiati sulla base di traditional del repertorio folclorico inglese. La ballata diviene la forma narrativa e letteraria predominante e la straordinaria voce della Danny (dotata di naturali cambi di registro tipici del canto di tradizione orale) insieme al violino di Dave Swarbrick, l’elemento portante di tutta l’architettura sonora. Siamo ben lontani, comunque, dalle 112 / Rearview Mirror San Francisco, un sentire misurato, di poche parole ma al tempo stesso riconoscibile. Che lo si affronti partendo dallo “scherzo” di Blue Monk o dalla raffinatezza di Ruby My Dear poco importa: l’intimismo rarefatto e meravigliosamente “altro” messo in mostra trasforma i due brani – e lo stile che li contraddistingue - in classici, oltre che in termine di paragone per tutta la produzione a venire del Nostro. Come il resto del programma, che a vederlo accadere in quel modo così goffo tra picchettate “grossolane” e svisate – cercate un qualsiasi filmato su You Tube e capirete –, non ti spieghi come possa uscirne tutta quella poesia. Eppure è così. Ce lo conferma Round Lights con il suo blues “svirgolettato”, lo ribadisce Pannonica a suon di scale e cambi di tono, lo sottolinea la conclusiva Reflections tra timbri variabili e malinconie che si rincorrono. Mentre BlueHawk, con il tema composto soltanto da quattro note, ci illustra brevemente pregi e difetti – pochi – della formula di Monk: immediatezza e banalizzazione delle formalità, per indagare, invece, le gradazioni di colore. Nei quarantacinque minuti del disco ci si imbatte anche in quattro riletture che non fanno che ribadire la statura artistica del pianista. Everything Happens To Me è una cover di Matt Dennis che rimpolpata con i fasti dell’improvvisazione, diventerà un evergreen dei concerti del pianista; You Took The Words Right Out Of My Heart è uno standard ripreso anche da Benny Goodman; Remember di Irving Berlin è un classico di Ella Fitzgerrald qui swingato e “espanso”; There’s Danger in your Eyes, Cherie è un brano anni ‘20-’30 che Monk trasfigura e modernizza rendendolo quasi riconoscibile. Fabrizio Zampighi scelte radicali che la band compirà dopo la morte di Sandy Danny e l’abbandono di Thompson, sbilanciandosi completamente dalla parte del folk. Anzi, vista l’estrema vicinanza temporale con Unhalfbricking, si potrebbe addirittura ipotizzare una complementarietà tra i due album, un equilibrio a due facce capace di metterli sullo stesso piano in quanto prospettive diverse di una stessa filosofia musicale, che univa la modernità degli arrangiamenti con la tradizione popolare. In questo senso, la chitarra elettrica di Thompson diviene un trait d’union fondamentale tra i due mondi, sia in un brano come A Sailor’s Life, pietra miliare del lato più rock dei Fairport, sia in episodi più espressamente folk come Matty Groves e Come All Ye. Così come l’andamento cullante di The Deserter, la dolce semplicità del commiato di Farewell Farewell (dove la voce della Denny tocca uno dei suoi apici) e il prog-folk di Tim Lin, non sfigurerebbero nell’album precedente al fianco di perle come Percy’s Song e Genesis Hall. Certo, il Medleyl, si sbilancia eccessivamente verso la una forma modulare che è tutta popolare, ma si tratta di un episodio isolato, che non può da solo caratterizzare lo stile di un album ancora attualissimo, come testimoniano le numerose riedizioni, infarcite di materiale inedito (tra cui vanno ricordate almeno quelle del 2002 e del 2007, contenenti materiale inedito). Un album che, in fin dei conti, rappresenta la fine di un percorso, l’atto conclusivo di una band che, dopo l’abbandono di Thompson e la scomparsa di Sandy Danny, continuerà ad arrancare fino a dissolversi da sola. Farewell, farewell.. Daniele Follero Rearview Mirror / 113 Questione di cuore F rancesca A rchibugi (I talia , 2009) Una Roma d’altri tempi, quella dei ‘60 di Pierpaolo Pasolini, rivive nello scorcio del quartiere (il Pigneto dove era ambientato Accattone) scelto come sfondo popolare alla storia narrata in Questione di cuore, e insieme la Roma odierna della post modernità, con tutte le contraddizioni del caso. Tra amicizia, scontro di caratteri e famiglia, nel classico cinema di sentimenti di Francesca Archibugi. La vicenda del film parte dalle corsie di un pronto soccorso romano, dove i due protagonisti si ritrovano entrambi nell’emergenza di un infarto e poi nella degenza che ne segue in terapia intensiva in ospedale. Si assiste quindi alla nascita di un’amicizia tra due persone che più diverse non si potrebbe immaginare, e non solo per estrazione sociale: Angelo (Kim Rossi Stuart), il carrozziere popolano circondato dalla famiglia, e Alberto (Antonio Albanese), lo sceneggiatore intellettuale del nord reduce da più di una crisi (sentimentale, esistenziale, lavorativa). Un legame il loro che supera le diversità e nella comunanza del dolore via via si costruisce e si cementa, mentre intorno si vivono difficoltà familiari, sociali, economiche. L’Italia odierna resta sullo sfondo del film, ma c’è tutta, e sempre presente nei richiami, nelle difficoltà di lavoro, nella società anche interrazziale, mentre a latere sono presenti gli altri personaggi, quindi l’infanzia e l’adolescenza (i due figli di Angelo), il mondo femminile popolare e non (le due mogli: l’attrice Carla, interpretata da una misurata Francesca Inaudi, e la madre di famiglia Rossana - quest’ultima, Micaela Ramazzotti, prepotentemente al centro della vicenda), il mondo borghese dei cosiddetti “amici” dello sceneggiatore che è in realtà più solo che mai (un breve cameo a inizio film del cinema che si autocita, con la presenza di Virzì, Luchetti, Sorrentino, Verdone e Stefania Sandrelli). In un altro cameo, è presente anche Paolo Villaggio. E su tutto, la costruzione di una commedia a cui importa il carattere umano calato nella società del suo tempo, mai banale quindi o stereotipata. Una commedia che ci ricorda Comencini piuttosto che altri nomi e che la regista ha sempre praticato nel suo cinema, sia pur con alti e bassi. La Archibugi qui resta allora equilibrata, costruendo e sceneggiando una storia (liberamente tratta dal romanzo quasi omonimo Una questione di cuore di Umberto Contarello, edito da Fetrinelli) basata essenzialmente sulle interpretazioni dei personaggi, qui resi al 114 / La Sera della Prima meglio delle rispettive sfumature e complessità. Commedia dove non manca lo humour, che è quasi per intero nelle mani di Antonio Albanese, con parecchi momenti godibili che suscitano più di una risata. Alberto lo sceneggiatore è anche un pregevole indagatore del complesso rapporto tra realtà e scrittura, un altro dei temi del film. Film che alla fine infatti vedrà Alberto riprendere a scrivere, uscendo dal suo stato di crisi, proprio la vicenda della famiglia dell’amico che l’ha conquistato, mostrando ai suoi occhi scorci di realtà più vera delle sue storie e di quelle che ricostruisce di frequente attraverso l’osservazione minuziosa della gente. Un punto di vista, quest’ultimo, molto vicino alla regista, che non a caso gli dà come amici alcuni dei personaggi che hanno popolato il proprio cinema, si veda il cameo di cui si parlava poc’anzi. In sostanza allora, questo Questione di cuore ci permette di ritrovare l’Archibugi dei suoi tempi migliori, dal debutto Mignon è partita (1988) fino a Il grande cocomero (1993). Teresa Greco The Reader S tephen D aldry (USA - G ermania , 2009) L’iniziazione sessuale e la relazione tra un ragazzo quindicenne, Michael (David Kross) e una donna trentacinquenne, Hanna (Kate Winslet), nella provincia tedesca degli anni ’50 è all’origine della storia raccontata in The Reader. Il regista Stephen Daldry ritorna da un lato al mondo degli adolescenti e alla loro crescita, temi già trattati in Billy Elliott (2000), dall’altro al concatenamento di piani e scenari narrativi come nel precedente The Hours (2002). Nella prima parte assistiamo al rapporto tra i due, mediato dal potere della narrazione e della parola: la donna infatti ama farsi leggere dal ragazzo classici della letteratura. Nella seconda, lo sguardo viene dirottato sul tema dell’Olocausto e sul senso di colpa che attraversa tutta una nazione, per spostarsi poi sui singoli: sono passati più o meno una decina d’anni e, da studente di legge, Michael scopre che la donna, poi sparita senza lasciare tracce dalla sua vita dopo qualche mese, è in realtà una delle imputate, in qualità di kapò, di un processo ad impiegati di livello medio-basso dei lager di Auschwitz-Birkenau. La narrazione procede su più piani temporali non concatenati, comprendendo anche l’oggi della vita del protagonista, avvocato adulto (Ralph Fiennes). The Reader ha suscitato più di una polemica, come spesso quando viene trattato al cinema un tema quale l’Olocausto; sia per le scene di nudo, sia perché è stato accusato di essere troppo condiscendente verso le responsabilità dei tedeschi sulla Shoah; infatti la scelta di un personaggio femminile quale Hanna suscita alla fine la nostra pietà come essere umano, anche per le sue dichiarazioni nel corso del processo: l’ex carceriera afferma che per lei quello di sorvegliante era un lavoro come un altro: l’ignoranza e l’incoscienza di quegli anni sull’intero meccanismo quindi, come origine degli errori. La mancanza di informazione, la non consapevolezza di quanto avveniva. D’altra parte c’è da dire che la pellicola non mostra la minima indulgenza nei confronti della protagonista. Film frutto di coproduzioni, Stati Uniti e Germania in questo caso, ideato anche dallo scomparso Sydney Pollack, tra gli altri, The Reader è essenzialmente, nonostante l’ambientazione e la coppia di attori europei protagonisti, un prodotto “americanocentrico”. Si capisce subito sin dall’inizio, quando i libri del giovane, siano classici greci e latini o moderni e contemporanei, sono scritti in inglese; così come nella seconda parte della pellicola, quando da spettatrice passiva del sapere, Hanna decide di agire ed imparare finalmente a leggere (era infatti analfabeta), è dall’inglese e dai libri in questa lingua che imparerà. Controsensi che in epoca di globalizzazione “anglo americana” poco si tendono a notare ma che fanno sicuramente la differenza. Narrazione, oralità e memoria, personale collettiva dunque i temi del film, tratto dal romanzo omonimo di Bernhard Schlink (edito da Garzanti), adottato anche come libro di testo nelle scuole tedesche e sceneggiato dal drammaturgo inglese David Hare. Nonostante qualche incertezza e lungaggine, e tenendo conto dei controsensi linguistici su evidenziati, resta da segnalare anche un finale abbastanza confuso e velleitario, nel quale si scontrano colpe e responsabilità tra ieri ed oggi. The Reader si risolleva però soprattutto per la vibrante e solo apparentemente“fredda”, ma ragionata ed intelligente interpretazione della Winslet, che le ha fruttato giustamente un Oscar. Teresa Greco La Sera della Prima / 115 a night at the opera Schiff faccia a faccia con Mozart Il Bologna Festival prosegue la sua rassegna sui grandi interpreti, con una vecchia conoscenza. Il pianista ungherese Andràs Schiff torna sotto le Due Torri con un concerto per solo piano tutto dedicato a Mozart. S olo Mozart. Si ripresenta così, Andràs Schiff al pubblico del Bologna Festival, con il quale, il pianista ungherese ha già una certa dimestichezza. Solo Mozart. Una sfida, un faccia a faccia con il compositore salisburghese, un ritratto dei momenti più intimi del Wolfgang Amadeus pianista. In ogni caso, una scelta ben precisa. Quella di proporre il repertorio più significativo della storia dell’artista austriaco: il periodo dell’abbandono definitivo della città natale e della formidabile scoperta del pianoforte. Gli anni a cavallo tra i ’70 e ’80 del Settecento, sono, infatti, anni cruciali per la storia della musica, che segnano l’inizio di un processo irreversibile: la trasformazione del compositore da semplice cortigiano a professionista autonomo, con tutte le conseguenze che ciò determinò in seguito, con la nascita del Romanticismo e di un’arte per la prima volta svincolata dalle catene del mecenatismo. Il famoso calcio nel sedere di Mozart all’arcivescovo di Salisburgo, suo protettore, è un gesto emblematico della voglia di indipendenza artistica diffuso all’epoca e presto divenuto il simbolo stesso di una generazione di musicisti che, per la prima volta nella storia, rompono con un sistema produttivo statico (anche se sicuro), provando ad autofinanziarsi attraverso l’organizzazione di concerti, lezioni private e la diffusione delle partiture. Il fallimento economico di Mozart è testimone, invece, della fragilità di quello stesso sistema, ancora immaturo per garantire al compositore una vita degna del suo operato. Ma si sa, il pionierismo quasi sempre giova ai posteri. Mozart scoprì i pianoforti di Johann Andreas Stein ad Augusta nel 1777, durante uno dei suoi viaggi. E fu amore a prima vista. Dotati di una meccanica agevolissima, predisposta per produrre una varietà timbrica e di tocco sconosciuta al clavicembalo e al fortepiano, i pianoforti di Stein ben si adattavano allo spirito innovatore di un Mozart ormai maturo che, non a caso, avrebbe fatto dello strumento il centro della sua produzione più matura. Produzione a cui si riferice la scelta di Schiff, proponendo il lato più sperimentale del compositore austriaco, rappresentato da generi come la variazione, ma incarnato anche in pezzi isolati, di breve respiro, incompiuti o semplicemente marginali. La sobrietà con la quale Schiff si confronta con le due Sonate KV332 e KV570 è la diretta conseguenza di uno stile pianistico equilibrato, che riesce a mettere in luce sia gli aspetti leggeri, sia quelli drammatici. Il musicista di Budapest accarezza i tasti del piano senza mai abbandonarsi, se non nei finali, a gesti strumentali eccessivamente intensi. Il suo è un gioco di piccole sfumature, evidente negli abbellimenti, nelle pause riflessive, nei delicati rallentamenti, nelle fioriture improvvisate dal piano come se fosse la voce di un soprano in un’Aria d’Opera. Ma è nei due cicli di Variazioni, KV500 e KV455, che vengono fuori più evidenti sia lo spirito sperimentatore di Mozart sia il virtuosismo di Schiff, che è non solo precisione, ma anche (direi soprattutto) attenzione alla varietà di effetti timbrici che risulta dalle pagine del salisburghese, ancora intento a scoprire le magie del nuovo strumento. Quello scelto e interpretato da Schiff, però, non è solo un Mozart che si mette in discussione guardando avanti, verso nuovi linguaggi espressivi, ma anche (ri)scoprendo il passato, in particolare il contrappunto ba- chiano, come si evince dalla Piccola Giga KV574, che viene qui eseguita insieme al Minuetto KV 355/576b e alla Fantasia KV397, misterioso il primo, ardita la seconda, con i suoi cromatismi e una spiazzante libertà formale. Non è un boato quello del pubblico, ma un lungo applauso che, comunque, riesce a richiamare Schiff sul palco per tre bis. L’atmosfera diventa quasi confidenziale e il pianista magiaro, dopo lo stupendo Adagio Per Glass Harmonica, una delle ultime pagine scritte dalla penna del salisburghese, si abbandona al celeberrimo Allegro della Sonata n. 16 (uno di quei pezzi che quasi tutti conoscono, ma nessuno sa come si chiamano) concludendo con la Marcia Alla Turca, un brano talmente noto che stimola nel pubblico, quasi fosse un riflesso incondizionato, la soffocata risatina di compiacimento di chi vorrebbe dire “questo lo so pure io”!. Se ne va così Schiff, con il Mozart più popular, dopo aver sezionato il suo spirito più recondito e avanguardista. Un ritratto completo, in fondo, di un compositore che ha sempre avuto due anime, e nel quale hanno convissuto, sempre in un grande equilibrio, l’aristocratico e il popolare, il dramma e l’ironia, la semplicità e la complessità. Daniele Follero a night at the opera / 117 i cosiddetti contemporanei Cornelius Cardew Da John Cage a Mao Tse Tung Senza di lui l’Avanguardia inglese non sarebbe stata la stessa. O forse non sarebbe neanche nata. Divulgatore in patria degli esperimenti aleatori di Cage, teorico del grafismo e dell’improvvisazione radicale, risucchiato totalmente, poi, dall’ideologia maoista e finito a comporre canzoni politiche, Cornelius Cardew appare ancora oggi, a trent’anni di distanza dalla morte, uno dei personaggi più affascinanti e controversi della musica europea del secondo Novecento. “L’importante non sono gli errori che si commettono, ma la capacità di ognuno di imparare da essi e cambiare direzione” (Cornelius Cardew) S ebbene nella storia europea e occidentale l’Inghilterra risulti spesso una nazione pioniera nell’innovazione, nel bene e nel male (la rivoluzione industriale e lo sfruttamento del lavoro operaio, la democrazia e il colonialismo, la monarchia costituzionale, in entrambi i sensi), nel corso degli eventi che riguarda l’ambito più ristretto della musica, non si può affermare lo stesso. Se non proprio marginale, il ruolo innovativo e pionieristico dell’Inghilterra dei secoli passati, non ha certo avuto un peso comparabile a paesi come l’Italia (dove nascono il canto gregoriano, l’Opera) o la Germania e l’Austria (patrie indiscusse del cosiddetto stile “classico”, ma anche delle avanguardie “storiche”, a partire da Schoenberg). La storia della musica anglosassone sembra aver sofferto un leggero ma consistente ritardo rispetto al veloce fluire artistico dell’Europa continentale. Il Novecento, è vero, rappresenta un’inversione di tendenza, ma soltanto in alcuni ambiti (la popular music) gli inglesi sono riusciti a sfondare gli argini del conformismo. Un conformismo che li ha sempre contraddistinti, anche al di là del semplice immaginario popolare (non a caso il punk è nato lì e non altrove: ad un’azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria). Forse non sarà questo il solo motivo per cui un movimento d’avanguardia di una certa rilevanza, la Gran Bretagna non lo ha mai avuto, ma resta il fatto che, se non fosse stato per Cornelius Cardew, un giovane musicista di Winchcombe, nel Gloucestershire, affascinato dagli ambienti di Colonia e New York, il silenzioso rumo- re degli esperimenti di John Cage, così come i linguaggi radicali della Nuova Musica elaborata ai Ferienkursen di Darmstadt, avrebbero ancora tardato a propagarsi nel terreno ormai fertile della musica inglese degli anni ’60. Aveva appena 22 anni, Cardew, quando, uscito dalla prestigiosa Royal Academy Of Music di Londra con una buona reputazione di pianista (soprattutto come interprete di Bach), riuscì, grazie ad una borsa di studio, a trascorrere un periodo di studi a Colonia, dove conobbe Karlheinz Stockhausen, all’epoca molto indirizzato verso gli esperimenti di musica elettronica. Il rapporto tra i due non risultò per nulla idilliaco, nonostante il compositore tedesco abbia detto di lui: “come musicista era straordinario perché, oltre ad essere un buon pianista era anche un ottimo improvvisatore, così gli chiesi di farmi da assistente”. Tre anni durante i quali, almeno secondo quanto dice Stockhausen, Cardew ebbe la possibilità di lavorare sulla sua stessa partitura, un privilegio mai concesso prima a nessun allievo. Quanta libertà d’azione abbia avuto il musicista inglese, lo si può, invece, dedurre dagli strascichi polemici che presto portarono alla rottura tra i due.Troppo diversi i loro approcci alla musica, con il razionalismo strutturalista del tedesco a cozzare con le idee improvvisative e già rivolte verso l’alea, dell’inglese. Il risultato fu che Carrè (opera per quattro orchestre, cori, piano, cembalo, arpa e vibrafono) uscì con la sola firma di Stockhausen, mentre Cardew abbandonò l’Europa per passare un po’ di tempo negli U.S.A., dove le idee sulla musica aleatoria di John Cage e l’improvvisazione collettiva totalmente libera che caratterizzava i primi passi del free jazz, meglio si sarebbero sposati con la sua prospettiva di “liberare” l’esecutore dalle catene del compositore-padrone. D agli esperimenti grafici di T reatise all ’ improvvisazione libera della AMM Ritornato in patria nel 1961, ricco di esperienze ma disoccupato, Cardew cominciò a porsi il problema dell’insegnamento, che per un musicista, sebbene rappresenti in ogni caso un problema etico, è pur sempre un’utile e auspicabile forma di guadagno. Ma, lungi da dargli il pane, almeno in una prima fase della sua attività professionale, l’insegnamento diventerà un vero e proprio cruccio artistico per Cornelius, mentre i soldi gli arriveranno dal lavoro di “graphic designer”. Un lavoro apparentemente innocuo, ma che avrà la sua importanza nel processo di allontanamento definitivo del Nostro dalle tecniche seriali e dodecafoniche che pure avevano contraddistinto le prime composizioni (si vedano, ad esempio, i primi spartiti per pianoforte della seconda metà degli anni ’50). Il problema dell’indeterminatezza, Cardew lo risolse, in un primo momento, ricorrendo al grafismo, una tecnica compositiva che, abbandonando i segni convenzionali della scrittura musicale, lega l’esecuzione all’interpretazione di segni grafici che nulla hanno a che fare con la semplice indicazione di altezze determinate, lasciando liberi sia l’autore che l’interprete (che si trasforma in autore a sua volta) di stabilire nuove convenzioni attraverso indicazioni e suggerimenti sulla partitura. Nasce così, Treatise, una “graphic score” ispirata dall’opera del filosofo Ludwig Wittgenstein e composta di linee, simboli, disegni geometrici e astratti. Risultato di anni di riflessioni e di un periodo assai proficuo trascorso a Roma al fianco di gente come Goffredo Petrassi (uno dei pochi compositori che si salverà dalla condanna dell’”arte per l’arte” da parte di un Cardew trasformatosi in attivista politico) il Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza e Musica Elettronica Viva, la partitura, oltre a centrarsi sulla capacità inventiva dell’esecutore, al quale è lasciata molta libertà nelle scelte interpretative, esclude qualsiasi virtuosismo aprioristico, scardinando un altro muro che, secondo lui, costringeva la musica ad un’eterna divisione tra professionisti e dilettanti. Un concetto, questo, che sarà alla base di tutte le esperienze didattiche di Cornelius e che conduce direttamente alla Scratch Orchestra. Ma il passaggio non è immediato, anzi. ”A dispetto dell’illusione di libertà delle partiture grafiche come Treatise, le performance supervisionate da Cardew lungo tutto l’arco del 1966 furono ancora fortemente stilizzate, ben lungi da quella pura interpre- i cosiddetti contemporanei / 119 tazione di segni cui il loro autore avrebbe voluto pervenire.” (Massimo Padalino). Il cammino verso la liberazione totale del suono è ancora lungo e passa per l’improvvisazione. L’incontro con Keith Rowe, già militante da qualche anno (insieme a Lou Gare, Eddie Prevost e Laurence Sheaff) negli AMM, fu, da questo punto di vista, folgorante. Il contatto con un combo di musicisti dediti ad una produzione musicale fortemente caratterizzata dal gesto e dal suo risultato sonoro e legata al concetto più letterale possibile di libertà esecutiva, ebbe un impatto fortissimo sulle idee di Cardew, personaggio, come si vedrà, molto (fin troppo) disposto a mettersi in discussione. L’esperienza di Cardew negli AMM durò un paio d’anni, ma fu tanto radicale quanto determinante: “L’improvvisazione mi aveva sempre terrorizzato; pensavo fosse qualcosa simile al comporre, ma un milione di volte più veloce, un’impresa di cui sapevo di non essere capace”. Nonostante le paure, però, l’improvvisazione non solo divenne un punto fermo nella produzione successiva agli AMM (di cui è d’uopo segnalare per lo meno AMMMusic 1966 -Elektra, un disco cardine per la free improvisation di matrice anglosassone), ma anche il motore della sua attività didattica, che nella seconda metà degli anni ’60 si fece intensa e sempre più ideologicamente orientata. A rte e politica : dalla S cratch O rchestra alla militanza Quando accettò la cattedra al Morley College ed entrò a far parte del corpo insegnanti dell’Anti University (sorta di bizzarra istituzione che si proponeva di rovesciare tutti i rapporti del sapere, in perfetta sintonia con gli stimoli sessantottini), Cardew era già un convinto marxista-leninista. I corsi furono un banco di prova importantissimo per la traduzione musicale di certe idee socialiste, almeno fino a quando il Nostro rimase legato ad un concetto di musica non propagandistico. Le lezioni, oltre a prevedere momenti strettamente analitico-teorici sull’improvvisazione radicale, comprendevano anche esercitazioni di esecuzione collettiva, basati su una partitura del professore, The Great Digest, idea embrionale di quello che sarebbe diventato il suo ultimo capolavoro, The Great Learning. La possibilità di prevedere organici mutevoli e che potessero comprendere musicisti dilettanti (cui erano affidati strumenti ad altezza indeterminata come i fischietti e le pietre strofinate) era alla base di questo collettivo. Idea, quella di un’organizzazione orizzontale, autodeterminata e anti-professionistica, che divenne il chiodo fisso di Cardew. La decisione di proseguire l’esperienza al di là delle aule, fu il motivo principale della nascita della Scratch Orchestra, un gruppo di musicisti con il quale il compositore britannico sperimentò il “network principle”, un principio di organizzazione della performance basato sulla divisione in piccoli gruppi strumentali, che alternano le singole esecuzioni generandole da quelle precedenti. Una vera e propria rete che si viene a creare dall’incastro tra le soluzioni musicali proposte dai singoli gruppi. Potremmo fermarci qui o decidere di andare avanti, giacché qui si conclude il percorso artistico del Cardew sperimentatore e comincia quello, completamente opposto, dell’attivista politico,“spogliatosi” di tutti i residui borghesi, per dedicare le sue competenze alla causa maoista. Ora, la dottrina politica derivata dalla rivoluzione culturale di Mao, prevedeva il momento, fondamentale, dell’autocritica, alla quale nessuno poteva sottrarsi (ne sa qualcosa Michele Santoro, espulso dal gruppo di Servire Il Popolo, perché troppo poco “critico” con se stesso –vedi Ferrante, La Cina non era vicina, Sperling & Kopfer, 2008). E infatti, con la convinzione che contraddistingue i militanti, già a partire dal suo soggiorno a Berlino Est nel 1973, Cornelius cominciò a mettere in discussione alla radice il concetto stesso di arte “inutile”, e con esso il suo passato di artista, facendo, con la stessa foga di una guardia rossa, un rogo (solo metaforico, per fortuna) di tutta la sua produzione precedente, senza salvare neanche grandi maestri come Cage e David Tudor. Stockhausen Serves Imperialism, testo che raccoglie alcuni scritti-condanna rivolti alla musica “borghese”, è emblematico già dal titolo, di quanto fossero mutate le posizioni ideologiche di Cardew. Che, di conseguenza, cominciò a comporre “per il popolo”, attraverso un repentino quanto netto ritorno alla tonalità e alla semplicità della forma canzone. Una scelta, a dir la verità, neanche così inusuale, dal dopoguerra in poi, come testimonia la carriera di un altro grande musicista comunista, Hanns Eisler, che addirittura arrivò a comporre l’inno nazionale della DDR. La produzione di questo periodo del musicista inglese, è contrassegnata da canzoni concepite per divenire inni, perfettamente rispondenti, nella loro semplicità, ai dettami del realismo socialista. Canzoni che raccontano di lotte (Bethanian Song, Four Principles On Ireland) o che riprendono direttamente canti di propaganda (Long Live Chairman Mao, Red Flag Prelude). Sono gli stessi anni, per la cronaca, in cui Frederic Rzewski (già in Musica Elettronica Viva) scrive le sue Variazioni sul tema di “El Pueblo Unido Jamas Serà Vencido” degli Inti-Illimani. Un segnale in più di quanto fosse diffuso l’ideale rivoluzionario anche negli ambienti della musica d’avanguardia. Non è riuscito a ricredersi di nuovo, Cornelius. Stroncato da un incidente stradale, il 23 Dicembre del 1981, non ha fatto in tempo a rimettersi in discussione, come suo solito, né a bandire esperienze come quella della People’s Liberation Orchestra, tutte concentrate nel recupero della tradizione folklorica, così come aveva fatto per la più lodevole Scratch Orchestra. Chissà quale nuova dimora avrebbe trovato oggi per il suo spirito libero e senza compromessi, quello sì, mai mutato nel tempo. Uno spirito che, oltre ad infondere nuova linfa alle avanguardie europee, ha accompagnato la maturità del rock inglese, a partire dalle raffinatezze jazz rock di Canterbury e dalla militanza radicale di movimenti come Rock In Opposition. L’esecuzione di Treatise da parte dei Sonic Youth (Goodbye 20th Century, quarto capitolo della serie Syr) datata 1999, è solo una delle tante soddisfazioni che oggi, Cardew potrebbe prendersi, se fosse ancora tra noi, nei confronti della posizione alquanto marginale che finora gli ha destinato la storia. Daniele Follero The Essential Cornelius Cardew • The Great Learning • Thälmann Variations • We Sing for the Future! • Four Principles On Ireland And Other Pieces • Treatise • Chamber Music 1955-1964 • Piano music 1959-70 • AMMMUSIC 1966 - (ReR Megacorp) • AMM The Crypt - 12 June 1968 (Matchless Recordings 1981) • AMM / MEV (Musica Elettronica Viva)- Live Electronic Music Improvised (1969) i cosiddetti contemporanei / 121