Introduzione al primo incontro Di per sé non era necessaria la grande riflessione della fenomenologia di Edmund Husserl per comprendere che un conto è parlare di Körper, di corpo fisico, come organismo fatto di tessuti e organi, e un conto è parlare di Leib, di corpo vissuto, come realtà percepita e integrante l’esperienza di una persona. Perché è esperienza comune – tanto più di chi lavora e opera in ambiente sanitario – che se la malattia è la stessa, il malato non è mai lo stesso; uguale può essere il pezzo di corpo toccato dalla malattia… ma molto diverso il modo con cui la persona malata vive e interpreta tale esperienza, che non è mai solo “un pezzo del mio organismo non funziona bene”, bensì io sono malato. Per questo si è scelto di dare vita al ciclo di questi quattro incontri che stasera iniziano: qui non si parlerà delle malattie o della malattia, ma del modo con cui le persone cercano di vivere e interpretare l’esperienza dell’essere malati. Esperienza che a che fare intrinsecamente con i riferimenti culturali e/o religiosi che aiutano a strutturare una visione di vita, e quindi anche una visione del morire e del soffrire. E il nostro primo incontro è dedicato al modo con cui la cultura occidentale contemporanea che non si ha un riferimento al divino o al religioso, prova a fare i conti con l’esperienza del dolore. Potremmo letterariamente trovare un buon punto di coagulo della descrizione di tale modalità in un celebre passaggio del libro di Albert Camus La peste. La vicenda è nota: nella cittadina algerina di Orano scoppia una peste che miete innumerevoli vittime. E a un certo punto della vicenda si trovano a fare i conti con un ragazzo morente il dottor Rieux, prototipo del medico che onestamente e laboriososamente si dà da fare per cercare ogni rimedio clinico all’epidemia, e il padre gesuita Paneloux, prototipo di una lettura religiosa che vede nella peste una punizione del male degli uomini da parte di Dio stesso. È proprio dinnanzi a tale interpretazione che il dottor Rieux violentemente si ribella: “se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, perché di questo si tratta: alla fine la forza del dolore, il pungiglione velenoso del dolore, è la morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”1. Il dottor Rieux esprime all’altezza giusta la posta in palio dell’esperienza del dolore: la velenosità, l’insopportabilità del dolore è data dal fatto che questa vita è destinata alla morte; il dolore non è semplicemente un accidente del vivere, ma ne è una regola mortale intrinseca. Proprio per questo, è meglio forse (questo l’azzardo, mitigato da un’ipotesi) che non ci sia alcun Dio, perché non solo – comunque – Egli rimane muto dinnanzi al levarsi degli occhi e delle mani degli uomini che invocano un aiuto; ma – ancor di più – è Egli stesso all’origine di questo mondo che trova nel morire la sua destinazione ultima. Per questo, non ci resta che lottare, con tutte le forze, contro il morire, per alleviare e mitigare il dolore, nella consapevolezza – tragica – che comunque la morte regola e avvelena lo stesso vivere. Ma è proprio così? Qualora non ci sia o non ci possa essere un riferimento al religioso… questo è non dico l’unico modo, ma il modo migliore per affrontare l’essere malato? Come è possibile fare i conti con il dolore in un mondo che non sa/non può più levare gli occhi verso un Cielo vuoto? Per svolgere tali questioni, abbiamo chiesto di aiutarci a Salvatore Natoli, noto filosofo, professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. La sua relazione si intitola L’esperienza del dolore e del malato nella società secolare, intendendo per “secolare” quella società che pur non facendo riferimento all’esperienza trascendente di un qualche divino, non disdegna, anzi ricerca, un’umanizzazione dell’esperienza del dolore, all’altezza dell’essere uomo. E abbiamo chiesto proprio al prof. Natoli per almeno due motivi. Il primo motivo è il fatto che nella sua ricerca, si è occupato più volte del tema, giungendo anche a un suo punto di coagulo con il testo L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986. Ma ancor di più – e questo è il secondo motivo – Natoli non si è limitato a recensire la fenomenologia dei modi di vivere il dolore nella nostra società secolare, ma ha provato a disegnare un’etica del finito, cioè un modo di accogliere e vivere la finitezza dell’esistenza umana, e quindi anche l’esperienza del dolore: alla luce della consapevolezza dell’universale fragilità umana, è possibile una compassione e un prendersi cura reciproco. 1 A. CAMUS, La peste, Bompiani, Milano 1985, 98-99